Il dottor Mark Spielman era un uomo robusto che somigliava più a un giocatore di football a riposo che a un medico del pronto soccorso. Era lui di turno quando l’ambulanza aveva trasportato la Cosa al Jackson Memorial Hospital, e non ne era affatto felice.
«Se mai mi capitasse di rivedere qualcosa del genere», ci disse, «andrei in pensione e mi metterei ad allevare bassotti.» Scosse il capo. «Voi sapete com’è il pronto soccorso qui al Jackson. È uno dei più affollati. Qui approdano i casi più folli di questa città, che già è una delle più folli del mondo. Ma questo…» Spielman diede due colpi sul tavolo della saletta verde pallido riservata al personale «… è un’altra faccenda», aggiunse.
«Qual è la prognosi?» domandò Deborah e lui la guardò severo.
«Mi prende in giro? Non c’è nessuna prognosi e non ci sarà mai. Dal punto di vista fisico, non si può fare altro se non mantenerlo in vita, se così possiamo chiamarla. Sul piano mentale…» Aprì le mani e le lasciò ricadere sul tavolo. «Non sono uno strizzacervelli, ma mi pare che a quell’essere non sia rimasto più nulla: non avrà più un barlume di lucidità, mai più. La sua unica speranza è restare sotto l’effetto dei farmaci tanto da non sapere più chi è finché non muore. Cosa che ci auguriamo gli accada al più presto.» Guardò l’orologio, un bel Rolex. «Ne avete ancora per molto? Sono in servizio, sapete.»
«C’erano tracce di droga nel sangue?» chiese Deborah.
Spielman sbuffò. «Diamine. Il suo sangue era un cocktail di psicofarmaci. Mai visto un miscuglio del genere. Tutti studiati per tenerlo sveglio, ma nello stesso tempo togliergli la sensibilità al dolore, in modo che il trauma delle amputazioni multiple non lo uccidesse.»
«I tagli presentavano segni particolari?» domandai.
«Quel tipo ha una certa pratica», disse Spielman. «Sono stati effettuati tutti con un’ottima padronanza della tecnica. Ma avrebbe potuto insegnargliela qualsiasi scuola al mondo.» Sospirò e un sorriso mortificato gli attraversò la faccia. «Alcuni erano già cicatrizzati.»
«E questo quanto tempo ci dà?» chiese Deborah.
Spielman alzò le spalle. «Dalle quattro alle sei settimane», fece. «Per smembrare chirurgicamente un uomo ci vorrà massimo un mese, un pezzo dopo l’altro. Non riesco a immaginare niente di più terribile.»
«Lo fa davanti a uno specchio», precisai, comprensivo come sempre. «Così la vittima è obbligata a guardare.»
Spielman sembrava sconvolto. «Mio Dio», sussurrò. Rimase seduto ancora un minuto, poi ripeté: «Oh, mio Dio». Infine scosse il capo e guardò di nuovo il Rolex. «Sentite, mi piacerebbe aiutarvi, ma questo è…» Allargò le braccia e le lasciò ricadere sul tavolo. «Non credo di potervi essere di grande aiuto. Almeno non vi faccio perdere altro tempo qui. Quel signor, uh… Chesney?»
«Chutsky», lo corresse Deborah.
«Sì, proprio lui. Mi ha chiamato per chiedermi di fare un’identificazione mediante scansione della retina presso… uhm… un certo database in Virginia.» Alzò un sopracciglio e contrasse le labbra. «Comunque, ho ricevuto ieri un fax con l’identificazione della vittima. Ve lo prendo.» Si alzò e scomparve in corridoio. Tornò un attimo dopo con un foglio di carta. «Ecco qua. Nome: Manuel Borges. Originario del Salvador. Lavora nel ramo delle importazioni.» Mise il foglio davanti a Deborah. «So che è ben poca cosa, ma credetemi, è tutto. L’aspetto che ha…» Si strinse nelle spalle. «Non credo che ve ne facciate molto.»
Dal soffitto un piccolo altoparlante borbottò qualcosa che poteva anche provenire da un programma tivù. Spielman alzò la testa, aggrottò le sopracciglia e disse: «Devo andare. Spero che lo prendiate». Si precipitò in corridoio così rapidamente che il fax sul tavolo svolazzò.
Guardai Deborah. Il fatto che avessimo scoperto il nome della vittima non era bastato a incoraggiarla. «Be’», esordii, «so che non è molto.»
Lei scosse la testa. «Non è molto sarebbe già un grande progresso. Questo è niente» Guardò il fax, lo lesse una volta. «Salvador. Legato a una specie di organizzazione chiamata FLANGE.»
«Che stava dalla nostra parte», spiegai.
Lei mi guardò.
«Era la fazione appoggiata dagli Stati Uniti. L’ho letto su Internet.»
«Splendido. Così abbiamo scoperto qualcosa che sapevamo già.» Deborah si alzò e si diresse alla porta. Non era veloce quanto il dottor Spielman, ma quel che bastava a farsi correre dietro fino al parcheggio.
Deborah guidava rapida e silenziosa, con la mascella serrata, alla volta della piccola abitazione sulla North West 4th Street, dove tutto aveva avuto inizio. Ovviamente il nastro giallo non c’era più; Deb parcheggiò a casaccio, come fanno i poliziotti, e scese dalla macchina. La seguii lungo il breve vialetto che portava dalla casa accanto a quella in cui avevamo trovato il fermaporta vivente. Deborah suonò il campanello, sempre in silenzio, e un attimo dopo la porta si aprì. Un uomo sulla cinquantina, con gli occhiali dalla montatura dorata e una guayabera marroncina, ci guardò interrogativo.
«Dobbiamo parlare con Ariel Medina», disse Deborah, mostrando il distintivo.
«Mia madre sta dormendo», rispose.
«È urgente», insisté lei.
L’uomo guardò prima Debs, poi me. «Solo un momento», fece. Chiuse la porta. Deborah rimase a fissarla. I muscoli della sua mascella restarono tesi per un paio di minuti, finché l’uomo non tornò e disse: «Avanti».
Lo seguimmo in una stanzetta buia piena di dozzine di altarini con oggetti religiosi e foto incorniciate. Ariel, la signora anziana che aveva scoperto la cosa della porta accanto e pianto sulla spalla di Deb, sedeva su un grande divano imbottito con centrini sullo schienale e sui braccioli. Quando vide Deborah esclamò: «Aaahhh», e si alzò ad abbracciarla. Mia sorella, che a dire il vero un abrazo dalla vecchia signora cubana se lo poteva aspettare, dapprima si irrigidì, poi lo ricambiò goffamente, dandole qualche pacca sulla schiena. Si staccò non appena ci riuscì, con discrezione. Ariel tornò a sedersi sul divano e toccò il cuscino che aveva accanto. Deb si sedette.
La vecchia signora si lanciò in un discorso torrenziale tutto in spagnolo. Io un po’ lo parlo e spesso riesco anche a capire il cubano, ma del soliloquio di Ariel afferravo una parola su dieci. Deborah mi guardò disperata. Per chissà quale ragione velleitaria, a scuola aveva scelto di studiare il francese e per quanto la riguardava la donna avrebbe potuto benissimo parlare l’etrusco arcaico.
«Por favor, señora», mi intromisi. «Mi hermana no habla español.»
«Ah?» Ariel guardò Deborah con molto meno entusiasmo e scosse la testa. «Lázaro!» Arrivò il figlio che, mentre lei riassumeva il suo monologo quasi ininterrotto, cominciò a tradurlo per Deb. «Sono arrivata qui nel 1962 da Santiago di Cuba», spiegò Lázaro al posto di sua madre. «Sotto Batista ho visto cose terribili. Gente che spariva. Poi è venuto Castro e per un po’ ho sperato.» Scosse il capo e allargò le braccia. «Credeteci o no, ma è quello che pensavamo allora. Che le cose potevano cambiare. Invece era lo stesso. Anzi, peggio. Così sono venuta qui. Negli Stati Uniti. Perché qui la gente non scompare. Non viene fucilata per strada o torturata. O almeno così pensavo. Invece ecco.» Indicò la casa accanto.
«Ho bisogno di farle alcune domande», la interruppe Deborah e Lázaro tradusse.
Ariel si limitò ad annuire e proseguì col suo interessante sproloquio. «Anche con Castro, non hanno mai fatto una cosa del genere. Certo, loro uccidono la gente. O ti sbattono all’isola di Pines. Ma non fanno cose del genere. Non a Cuba. Solo in America», disse.
«Ha mai visto l’uomo della casa accanto?» volle sapere Deborah. «L’uomo che ha fatto quelle cose?»
Ariel studiò Deborah per un po’.
«Devo saperlo», insisté Deb. «Potrebbe toccare a un altro, se non lo prendiamo.»
«Perché sei tu a chiedermelo?» disse Ariel tramite suo figlio. «Questo non è lavoro per te. Una donna bella come te dovrebbe avere un marito. Una famiglia.»
«El victimo proximo es el novio de mi hermana», intervenni. La prossima vittima sarà il fidanzato di mia sorella.
Deborah mi lanciò un’occhiata, ma Ariel esclamò: «Aaahhh», schioccò la lingua e annuì. «Non so che cosa posso dirti. L’uomo l’ho visto, forse due volte.» Alzò le spalle e Deborah si protese impaziente. «Sempre di notte e mai da vicino. Che so, era basso, molto basso. E magro. Con grossi occhiali. Altro, non so. Non usciva mai, era molto tranquillo. Ogni tanto sentivamo della musica.» Sorrise appena un po’ e disse: «Tito Puente». Anche se non ce n’era bisogno, Lázaro ripeté: «Tito Puente».
«Ah», feci, e tutti mi guardarono. «Per coprire il rumore», osservai, un po’ intimidito dato che ero al centro dell’attenzione.
«Aveva una macchina?» chiese Deborah e Ariel aggrottò le sopracciglia.
«Un furgone», rispose. «Guidava un vecchio furgone bianco senza finestrini. Era molto pulito, ma pieno di macchie di ruggine e di ammaccature. Non l’ho visto molte volte… di solito lo teneva in garage.»
«Immagino che non avrà visto la targa», le chiesi e la signora mi guardò.
«Invece sì», rispose tramite il figlio, alzando la mano. «Non ho preso il numero, quello succede solo nei vecchi film. Ma so che era una targa della Florida. Era quella gialla con l’immagine del bambino», poi si interruppe e mi guardò perché stavo ridacchiando. Certo non era bello né mi capitava sovente, ma stavo ridacchiando e non riuscivo a farne a meno.
Anche Deborah mi fissò. «Che cosa c’è di così dannatamente divertente?» mi chiese.
«La targa», risposi. «Scusami, Debs… Cristo, lo sai com’è fatta la targa gialla della Florida? Il pensiero che quel tipo ne abbia una e faccia quello che sappiamo…» Deglutii tentando di smetterla e mi ci volle tutto il mio self-control.
«D’accordo, dannazione, che cos’ha quella targa di così divertente?»
«È una di quelle speciali, Deb», spiegai. «Di quelle con la scritta SCEGLI LA VITA.»
E poi mi immaginai il dottor Danco trascinarci sopra le sue vittime recalcitranti, riempirle di medicinali e tagliarle alla perfezione in modo da lasciarle ancora vive. Purtroppo mi venne di nuovo da ridere. «Scegli la vita», ripetei.
Quel tipo dovevo conoscerlo, assolutamente.
Tornammo alla macchina in silenzio. Deborah entrò e chiamò il capitano Matthews per trasmettergli la descrizione del furgone. Lui disse che forse avrebbe fatto scattare l’allarme. Mentre Debs parlava, io mi guardavo intorno. Cortili ben curati, molti pieni di sassi colorati. Qualche bici da bambino legata al porticato e l’Orange Bowl sullo sfondo. Il quartiere ideale per vivere, lavorare, metter su famiglia… o fare qualcuno a pezzettini.
«Sali», mi ordinò Deborah, interrompendo la mia fantasticheria agreste. Ubbidii e ce ne andammo. A un tratto, mentre eravamo fermi a un semaforo, Deb mi lanciò un’occhiata e disse: «Hai scelto proprio un bel momento per metterti a ridere».
«Davvero, Deb. Questo è il primo indizio che abbiamo sulla personalità del nostro uomo. Sappiamo che è dotato di senso dello humour. Per me è un gran passo avanti.»
«Sicuro. Magari lo peschiamo in un locale di cabaret.»
«Lo troveremo, Deb», dichiarai, anche se nessuno dei due ci credeva veramente.
Lei si limitò a grugnire. Quando venne il verde premette forte sull’acceleratore, quasi volesse schiacciare un serpente velenoso.
Ci facemmo largo nel traffico, diretti a casa sua. L’ora di punta mattutina stava terminando. Nell’angolo tra la Flagler e la 34th, un’auto era salita sul marciapiede ed era finita contro un palo della luce, davanti a una chiesa. Un poliziotto si era messo in mezzo a due autisti che gridavano l’uno contro l’altro. Una ragazzina sedeva in lacrime sul marciapiede. Ah, gli incantevoli ritmi di un’altra magica e paradisiaca giornata!
Poco dopo svoltammo in Medina e Deborah parcheggiò la macchina nel vialetto accanto alla mia. Spense il motore e per un istante, mentre si raffreddava, restammo entrambi in silenzio. «Merda», mormorò.
«Concordo.»
«E adesso cosa facciamo?» chiese.
«Dormiamo», risposi. «Sono troppo stanco per riuscire a pensare.»
Deborah batté i pugni sul volante. «Come faccio a dormire, Dexter? Quando so che Kyle è…» Li batté un’altra volta. «Merda», ripeté.
«Il furgone salterà fuori, Deb. Lo sai. Il database individuerà tutti i furgoni bianchi targati SCEGLI LA VITA e con un allarme generale di mezzo è soltanto una questione di tempo.»
«Kyle non ha tempo.»
«Gli esseri umani hanno bisogno di dormire, Debs», ribadii. «E anch’io.»
Il furgone di un corriere girò l’angolo e si arrestò con un rumore sordo davanti a casa sua. Il guidatore scese con un pacchettino in mano e si avvicinò alla porta. Deb disse un’altra volta «merda» e scese dalla macchina per andare a prendere il pacco.
Chiusi gli occhi e rimasi così per un po’, come faccio quando sono troppo stanco per pensare. Sembrava davvero fatica sprecata: non mi veniva in mente nulla, oltre a chiedermi dove avevo lasciato le mie scarpe da ginnastica. Il che, visto che il mio senso dell’umorismo era ancora in folle, mi sembrò buffo. Con somma sorpresa udii una debole eco provenire dal Passeggero Oscuro. Perché ti diverte? gli chiesi. Perché ho dimenticato le scarpe a casa di Rita? Naturalmente non rispose. Forse era ancora lì che mi teneva il muso, povero. Però aveva riso. C’è qualcos’altro che ti sembra così ridicolo? domandai. Di nuovo non ci fu risposta, soltanto un lieve senso di attesa e di desiderio.
Il furgone del corriere si allontanò rumorosamente. Proprio mentre stavo per sbadigliare e stiracchiarmi, decretando sospesa l’attività dei miei strabilianti poteri mentali, sentii una specie di lamento nauseato. Spalancai gli occhi e vidi Deborah fare un passo avanti barcollando e poi accasciarsi sul vialetto. Uscii dalla macchina e le corsi incontro.
«Deb?» dissi. «Che c’è?»
Lei lasciò cadere il pacchetto e si nascose la faccia tra le mani, emettendo rumori ancora più sgradevoli. Mi accovacciai accanto a lei e presi il pacchetto. Era una scatola piccola, delle dimensioni di un orologio. Guardai dal lato aperto. Dentro c’era un astuccio con la cerniera. E dentro l’astuccio un dito.
Con un grosso e luminoso diamante da mignolo.