Da casa mia nel Grove ci voleva un quarto d’ora di macchina per arrivare da Deborah. Per una volta non vedevo il sergente Doakes che mi seguiva, ma forse stava usando lo schermo di invisibilità klingoniano. In ogni caso il traffico era scarso e riuscii ad arrivare alla US1. Deborah viveva in una casetta sulla Medina Street a Coral Gables, circondata da alberi da frutto selvatici e da un muro fatiscente di roccia corallina. Parcheggiai l’auto nel vialetto, dietro alla sua, e non avevo ancora fatto due passi che lei spalancò la porta. «Dove sei stato?» chiese.
«A lezione di yoga e poi al centro commerciale a comprarmi un paio di scarpe», risposi. Per la verità, mi ero sbrigato sul serio per arrivare lì in meno di venti minuti dalla sua chiamata, e trovai quel tono vagamente seccante.
«Entra», disse, scrutando nel buio e aggrappandosi alla porta quasi avesse paura di volare via.
«Sì, Mia Regina», mormorai ed entrai.
La casa di Deborah era elegantemente arredata in stile «niente vita sociale». Di solito la zona giorno assomigliava a una modesta camera d’albergo in cui avesse pernottato un gruppo rock. Sembrava che qualcuno avesse fatto piazza pulita di tutto, a eccezione della tivù e del videoregistratore. C’erano solo una sedia e un tavolino accanto alla portafinestra che dava sul terrazzo, sommerso in un intrico di cespugli. Ma da qualche parte Deborah aveva trovato un’altra sedia pieghevole e traballante e l’aveva infilata sotto il tavolo. Fui talmente colpito dalla sua ospitalità che rischiai la vita e mi sedetti su quell’affare così instabile.
«Da quanto tempo è scomparso?»
«Merda», sospirò. «Da circa tre ore e mezza. Credo.» Scosse la testa e si accasciò sull’altra sedia. «Dovevamo incontrarci qui, e… non si è visto. Sono andata al suo albergo e non c’era.»
«Non può essersene andato via chissà dove?» chiesi. Mi vergogno a dirlo, ma ammetto che ci sperai.
Deborah fece cenno di no col capo. «Il suo portafogli e le chiavi erano ancora sul comò. Quel tipo se l’è preso, Dex. Noi dobbiamo trovarlo prima che…» Si morse un labbro e guardò altrove.
Non sapevo bene come muovermi per scovare Kyle. Come ho già detto, questo non è il tipo di situazione in cui mi vengono brillanti intuizioni e avevo già dato il meglio di me con la storia dell’agenzia immobiliare. Ma, dal momento che Deborah aveva detto «noi», capii di non avere molta scelta. Legami di famiglia e tutto il resto. Buttai lì: «So che ti sembrerà stupido, Debs… hai fatto denuncia?»
Lei alzò lo sguardo, sbuffando. «Certo! Ho chiamato il capitano Matthews. Sembrava sollevato. Mi ha detto di non fare l’isterica, neanche fossi una di quelle che hanno bisogno dei sali.» Scosse il capo. «Gli ho chiesto di dare l’allarme e lui mi ha detto ’Per cosa?’» Sospirò. «Per cosa… Dannazione, Dexter, avrei voluto strozzarlo, ma…»
«Ma aveva ragione», dissi.
«Già. Kyle è l’unico che sa com’è fatto il mostro», replicò. «Noi non sappiamo che macchina abbia o come si chiami veramente o… Merda, Dexter. L’unica cosa certa è che ha preso Kyle.» Respirava a fatica. «Comunque, Matthews ha avvisato gli uomini di Kyle a Washington. Ha detto che di più non poteva fare.» Scosse la testa, sembrava davvero triste. «Manderanno qualcuno martedì mattina.»
«Bene…» feci speranzoso. «Insomma… sappiamo che il nostro uomo lavora molto lentamente.»
«Martedì mattina», ripeté lei. «Sono quasi due giorni. Da dove pensi che comincerà, Dex? Gli taglierà prima una gamba? O un braccio? O tutti e due insieme?»
«No. Uno per volta.»
Debs mi guardò, dura.
«Ha un senso, ti pare?»
«Non per me», replicò lei. «Niente di tutto questo ha un senso.»
«Deborah, ciò che interessa il nostro uomo non è semplicemente tagliare gambe e braccia. Quello che conta è il modo in cui lo fa.»
«Dannazione, Dexter, parla chiaro.»
«Ciò che vuole è distruggere completamente le sue vittime. Spezzarle dentro e fuori, in modo che non possano guarire. Trasformarle in baccelli urlanti destinati a sperimentare soltanto un orrore folle e senza fine. Tagliare gli arti e le labbra è semplicemente il modo per… Cosa?»
«Oh, Gesù, Dexter», mi interruppe Deborah. Non le avevo più visto quella faccia da quando era morta la mamma. Si voltò, tremante. Mi sentii vagamente a disagio. Voglio dire, io non provo emozioni, mentre Deborah sì, anche piuttosto sovente. Ma non è il tipo che lo dà a vedere, a meno che arrabbiarsi non si consideri un’emozione. E adesso singhiozzava e piangeva. Immagino che forse avrei dovuto darle una pacca sulla spalla dicendole «Su, su» o qualcosa di ugualmente umano e profondo. Eppure per me non era facile. Si trattava di Deb, mia sorella. Lei avrebbe capito che stavo fingendo e…
E cosa? Mi avrebbe forse amputato braccia e gambe? Il peggio che avrebbe potuto fare sarebbe stato intimarmi di smetterla e poi tornare a fare il Sergente Musone. E sarebbe stato un grande miglioramento visto il suo attuale stato d’animo. Comunque sia, questo era uno dei momenti in cui mi si richiedeva una reazione da essere umano e, dato che dopo lunghi studi sapevo in che modo avrebbe reagito un uomo, lo feci. Mi alzai e le andai vicino. Le misi un braccio intorno alla spalla, le diedi un colpetto e mormorai: «Va tutto bene, Deb. Su, su». Mi sembrò ancora più stupido di quanto avessi temuto, ma lei si appoggiò a me e tirò su col naso, quindi immagino che dopotutto fosse la cosa più giusta da fare.
«Riusciresti a innamorarti di qualcuno in una settimana?» mi domandò.
«Credo proprio di no», risposi.
«Non ce la faccio, Dexter», sussurrò. «Se Kyle venisse ucciso o trasformato in un… Oddio, non so che cosa farei.» Crollò di nuovo addosso a me e pianse.
«Su, su», ripetei.
Debs tirò su forte col naso, poi se lo soffiò in un fazzolettino di carta che era sul tavolo. «Non dirlo più», mi ordinò.
«Mi spiace», feci. «Non so che altro dirti.»
«Dimmi che cosa sta combinando quel tipo. E come trovarlo.»
Tornai a sedermi sulla sedia traballante. «Non credo di esserne in grado, Deb. Non riesco proprio a immedesimarmi in lui.»
«Stronzate.»
«Sul serio. Insomma, tecnicamente, non ha ammazzato nessuno.»
«Dexter», ribatté Deb, «finora su di lui hai scoperto più cose tu di Kyle che lo conosce. Dobbiamo trovarlo. A ogni costo.» Si morse il labbro inferiore e temetti che riprendesse a singhiozzare. Stavolta non avrei più saputo che cosa fare, visto che prima mi aveva impedito di dire «Su, su». Ma lei tornò a essere l’impavida sorella sergente che conoscevo e si limitò a soffiarsi il naso.
«Ci proverò, Deb. Tu e Kyle avete già fatto il lavoro di base? Avete sentito i testimoni eccetera?»
Lei scosse il capo. «Non ne avevamo bisogno. Kyle sapeva…» Si interruppe, notando che stava parlando al passato, poi proseguì, agguerrita. «Kyle sa chi l’ha fatto e sa chi sarà il prossimo.»
«Scusami. Lui sa chi sarà il prossimo?»
Deborah si incupì. «Non esattamente. Kyle mi ha detto che ci sono quattro persone di Miami sulla lista. Uno di loro è scomparso. Kyle pensava che fosse già stato catturato, intanto questo ci ha permesso di far sorvegliare gli altri tre.»
«Chi sono questi quattro, Deborah? E Kyle come sa della loro esistenza?»
Lei sospirò. «Non mi ha detto come si chiamavano. Ma facevano tutti parte di una specie di squadra. In Salvador. E con loro c’era quel… dottor Danco.» Allargò le braccia e la vidi fragile, fatto del tutto inedito per mia sorella. Anche se l’aspetto da ragazzina indifesa le donava, l’unico effetto che ebbe su di me fu di farmi sentire sfruttato. Il mondo intero gira allegramente, si va a cacciare nelle situazioni peggiori e poi tocca al Defilato Dexter sistemare le cose. Non mi sembrava bello, ma che cosa potevo farci?
E in particolare… che cosa potevo fare ora? Non avevo idea di come trovare Kyle prima che fosse troppo tardi. E anche se ero sicuro di non averlo detto ad alta voce, Deborah reagì come se l’avessi fatto. Batté una mano sul tavolo e disse: «Dobbiamo trovarlo prima che cominci con Kyle. Prima che cominci, Dexter. Perché… cioè, forse dovrei sperare che prima del nostro arrivo Kyle ci rimetta soltanto un braccio? O una gamba? In ogni caso, Kyle è…» Si voltò senza finire di parlare, fissando il buio fuori dalla portafinestra.
Aveva ragione, ovvio. Avevo l’impressione che non ci fossero molte possibilità di riportare indietro Kyle intero. Perché, anche con tutta la fortuna del mondo, neppure il mio strabiliante intelletto sarebbe riuscito a condurci da lui prima che Danco si mettesse all’opera. E poi… quanto avrebbe potuto resistere Kyle? Forse aveva un certo allenamento con queste cose e sapeva a che cosa andava incontro, quindi…
Un momento.
Chiusi gli occhi e cercai di pensare. Il dottor Danco sapeva che Kyle era un professionista. E, come avevo già spiegato a Deborah, il suo obiettivo era trasformare la vittima in un vegetale urlante. Perciò…
Aprii gli occhi. «Deb», dissi. Lei mi guardò. «Ti sembrerà strano… ma c’è qualche speranza.»
«Sputa», fece.
«È solo un’ipotesi», dichiarai. «Però credo che il dottor Demente risparmierà Kyle per un po’, prima di agire su di lui.»
Deb aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrebbe?»
«Per farlo durare di più e per indebolirlo. Kyle sa che cosa lo aspetta. È preparato. E ora immagino che l’abbia sdraiato nell’oscurità, mani e piedi legati, per lasciar lavorare la sua immaginazione. E quindi», aggiunsi, «credo che ci sarà un’altra vittima prima di lui. Il tipo scomparso. Così Kyle sentirà tutto… le seghe, gli scalpelli, i lamenti e i sussurri. Persino l’odore. E saprà che capiterà anche a lui, ma non saprà quando. Sarà mezzo impazzito prima ancora che gli stacchi un’unghia.»
«Gesù», mormorò Deborah. «E questo è il tuo concetto di speranza?»
«Certo. E ci dà un margine di tempo per trovarlo.»
«Gesù», ripeté lei.
«Potrei sbagliarmi», la misi in guardia.
Deb guardò fuori dalla finestra. «Non ti sbagliare, Dex. Non stavolta.»
Scossi la testa. Non sarebbe stato per nulla divertente. Mi venivano in mente soltanto due possibili piste e per entrambe bisognava aspettare la mattina. Mi guardai intorno alla ricerca di un orologio. Secondo il videoregistratore erano le 12.00. Le 12.00. Le 12.00. «Hai un orologio?» domandai.
«Che cosa te ne fai?» chiese Deborah contrariata.
«Voglio sapere che ore sono», dissi. «Di solito servono a quello.»
«Che cazzo ti cambia?» chiese lei.
«Deborah! Ora abbiamo molto poco su cui lavorare. Dobbiamo tornare indietro di qualche passo e fare tutto il lavoro di routine che Chutsky ha impedito di svolgere al dipartimento. Fortunatamente, puoi usare il tuo distintivo per andare in giro a fare domande. Ma dobbiamo aspettare il mattino.»
«Merda», fece. «Odio aspettare.»
«Su, su», la consolai. Deborah mi guardò acida, ma non disse nulla.
Neanche a me piaceva aspettare, però ultimamente non avevo fatto altro e forse ora mi riusciva più facile. In ogni caso, tirammo l’alba dormicchiando sulle sedie. Poi, dato che negli ultimi tempi il più casalingo dei due ero io, preparai il caffè per entrambi. Una tazza per volta, visto che la caffettiera di Deborah era di quelle singole, fatte per gente che non si aspetta di avere una gran vita sociale. In frigo non c’era nulla che fosse almeno lontanamente commestibile, se non per un cane randagio. Davvero seccante: Dexter è un ragazzo in salute e con un elevato metabolismo; per lui affrontare una giornata impegnativa a stomaco vuoto non è un’ottima prospettiva. D’accordo, la famiglia viene prima, ma non si può aspettare dopo colazione?
Ah, be’. Il Devoto Dexter si sacrifica ancora una volta. E per pura nobiltà di spirito, senza aspettarsi nessun ringraziamento. Si fa quel che si deve.