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Il volto ossuto e barbuto sullo schermo disse, con tono assai prossimo alla disperazione: «Signori, voi vi state… vi state comportando come se foste impazziti».

«Siamo in buona compagnia», replicò Daniel Holm.

«Quindi avete intenzione di staccarvi dal Dominio?», esclamò l’Ammiraglio Cajal.

«No. L’idea è quella di restare con loro. Noi siamo felici qui. Non c’è bisogno di burocrati dell’Impero».

«Ma l’accordo dell’armistizio…».

«Certo, rispettiamolo, questo cessate il fuoco. Avalon non intende far male a nessuno».

La bocca di Cajal si irrigidì. «Ma voi non potete fare come vi pare, con le clausole. Il vostro governo ha dichiarato che l’Impero può occupare questo sistema fino all’accordo finale di pace».

Liaw dei Laghi protese la sua faccia imperturbabile verso il dispositivo che inviava la sua immagine all’ufficio di Holm ed alla nave da guerra orbitante di Cajal. «Le regole Ythrane non sono quelle umane», disse. «I mondi del Dominio sono legati l’uno all’altro principalmente da voti di reciproca fedeltà. Il fatto che i nostri compagni non siano più in grado di aiutarci non dà loro il diritto di ordinarci di rinunciare a difenderci. Se non altro, motivi d’orgoglio esigono che noi continuamo a lottare per offrire loro un sia pur piccolo aiuto».

Cajal sollevò un pugno bene in vista. «Signori», latrò, «sembrate convinti che si sia tornati all’èra dei Tumulti, e che i vostri avversari siano dei barbari senza scopi né organizzazione, pronti a tagliare la corda solo perché siete riusciti a bloccarli per un po’. La verità è che avete davanti a voi la Terra Imperiale, che ragiona in termini di secoli e di reami con migliaia di Pianeti. Non che sia il caso di sprecare per voi tanto tempo e tanta forza. In pratica l’intera forza che ha spazzato il Dominio può ora essere impiegata per schiacciare il vostro solo pianeta. E sarà così, signori. Se forzate gli eventi, sarà così».

Il suo sguardo si posò su di loro, studiandoli. «Avete una forte difesa», disse, «ma dovete rendervi conto che può essere sopraffatta. La resistenza non vi farà guadagnare nulla se non la devastazione delle vostre case, e la morte di migliaia o milioni di individui. Sono stati consultati, loro!».

«Sì», replicò Liaw. «Tra la notizia della capitolazione di Ythri ed il vostro arrivo, il Khruath ed il Parlamento hanno votato di nuovo. Ed una maggioranza è a favore della resistenza armata».

«E quant’è grande questa maggioranza, stavolta?», domandò accortamente Cajal. Poi vide le penne che si muovevano ed i muscoli facciali che si tendevano, ed annuì. «Non mi piace l’idea di combattere contro dei sudditi potenzialmente leali di Sua Maestà», disse, «e specialmente contro donne e bambini».

Holm deglutì. «Oh, Ammiraglio. Che ne direbbe… di evacuare chiunque non debba o non voglia rimanere… prima di riprendere il combattimento?».

Cajal restò seduto senza muovere un muscolo. I suoi lineamenti si irrigidirono. Quando parlò, era come se la gola gli dolesse. «No. Non posso aiutare un nemico a liberarsi dalle sue responsabilità».

«Così, lei è costretto a proseguire la guerra», fece Liaw. «Il cessate il fuoco non può continuare finché non sia stato firmato un trattato di pace, vero?».

«Se quel trattato consegnasse Avalon all’Impero, voi obbedireste?», replicò a sua volta Cajal.

«Chissà».

«Inaccettabile. È meglio porre fine subito a tutta questa storia». Cajal esitò. «Naturalmente, ci vorrà del tempo per sistemare le cose in tutti gli altri settori e spedire qui l’armata. Il cessate il fuoco de jure termina quando la mia nave sarà ritornata alla distanza prestabilita. Ma ovviamente la guerra rimarrà in statu quo, compreso il cessate il fuoco de facto per quanto riguarda Avalon e Morgana, per un breve periodo. Conferirò con il Governatore Saracoglu. E vi esorto, voi e tutti gli avaloniani, a conferire nello stesso modo tra voi, e a servirvi di questa dilazione per prendere la decisione giusta. Se avrete qualche comunicazione da farci, non dovrete far altro che trasmettere una richiesta di colloquio. Più presto ci sentiamo, più generoso — e più onorevole — sarà il trattamento che potreste aspettarvi da noi».

«Ricevuto», disse Liaw. Seguirono le formalità di rito, e lo schermo su cui era apparsa l’immagine di Cajal rimase vuoto.

Holm e Liaw si scambiarono un’occhiata tra i chilometri che li seperavano. Nel retro dell’ufficio dell’uomo, Arinnian si mosse a disagio.

«Lo farà sul serio», disse Holm.

«È esatta la sua stima delle rispettive capacità?», domandò il Wyvan.

«Decisamente sì. Non potremmo opporci ad un attacco in forze. Con tutte le navi che può richiamare per bombardarci, troverebbe tutto lo spazio che vuole per sfuggire al nostro sistema di intercettazione. La nostra sorte dipende dalla riluttanza dell’Impero a distruggere una quantità di beni immobili di prima qualità… e, sì, e dall’avversione di quell’uomo per l’ecatombe nucleare».

«In precedenza mi avevi detto di avere un’idea».

«Ci sto lavorando con mio figlio. Se si rivela promettente, tu e tutti coloro che ne hanno il diritto ne sarete informati. Nel frattempo immagino che tu sia occupato come me. Venti favorevoli, Liaw».

«Vola alto, Daniel Holm». E lo schermo si oscurò.

Il Governatore accese un sigaro e rimase seduto con lo sguardo torvo, poi si alzò e si diresse verso la finestra. Al di fuori era un limpido giorno d’inverno. Su Gray non nevicava come sulle montagne o sui territori settentrionali, e sulle colline i susin rimanevano verdi per tutto l’anno. Ma il vento sibilava, gelido ed esultante, sulla baia bronzea danzavano i cavalloni, i mantelli fluttuavano e sbattevano in mezzo agli umani in cammino, e gli Ythrani piroettavano nel cielo lungo mutevoli ruscelli d’aria.

Arinnian gli si avvicinò, ma dovette umettarsi le labbra, prima di poter parlare. «Papà, abbiamo qualche possibilità?».

«Beh, non abbiamo scelta», rispose Holm.

«L’abbiamo, invece. Possiamo ingoiarci il nostro dannato orgoglio e dire al popolo che la guerra è persa».

«Ci sostituirebbero, Chris. Lo sai. Ythri ha potuto arrendersi perché nessuno si sognerebbe di cederlo a una potenza straniera. Le altre colonie accettano l’occupazione perché è lampante che non potrebbero sconfiggere nemmeno un gatto malato. La nostra situazione è diversa sotto entrambi gli aspetti». Holm sogguardò di sbieco suo figlio attraverso i maleodoranti sbuffi di fumo azzurrino. «Tu non hai paura, no?».

«Non per me, spero. Per Avalon… Tutta quella retorica che c’è in giro sul fatto di essere liberi. Possono mai essere liberi dei cadaveri in un deserto di cenere?».

«Non dobbiamo rassegnarci alla distruzione», disse Holm. «Dobbiamo prepararci a rischiare la distruzione, il che è diverso. Dobbiamo far capire loro che saremmo una conquista troppo costosa».

«Se Avalon passasse all’Impero, ed a noi non andassero bene le condizioni, potremmo sempre emigrare nel Dominio».

Il dito del Governatore tracciò un arco davanti alla finestra. «Dove mai troveremmo un mondo simile? E come finirebbe la società che noi ed i nostri antenati abbiamo costruito?».

Per un minuto continuò a sbuffare fumo, prima di dire con voce meditabonda: «Una volta lessi un libro, sulla storia della colonizzazione. L’autore sosteneva una teoria interessante. Diceva che bisogna lasciare buona parte della superficie sotto la protezione delle piante, della vegetazione che vi cresce, del fitoplancton e di tutto quello che vi può essere. Serve per mantenere l’atmosfera. E queste piante fanno parte di un’ecologia, quindi bisogna conservare anche molti animali, e i batteri del suolo e così via. Beh, finché c’è una biosfera, è più economico — più facile, più produttivo — ricavare da essa la maggior parte del legno e prodotti del genere, che sintetizzarli. Ecco perché i coloni dei mondi di tipo terrestre sono quasi sempre contadini, mandriani, boscaioli eccetera, oltre che minatori e manifatturieri».

«E allora?», gli domandò suo figlio.

«E allora tu cresci nel tuo mondo, generazione dopo generazione. Non è questione di mura e macchinari, si tratta di una natura viva, di quell’albero su cui ti arrampicavi da piccolo e di quel campo che tuo nonno disboscò e della collinetta su cui baciasti la tua prima ragazza. I tuoi poeti l’hanno cantato, i tuoi pittori l’hanno ritratto, la tua storia vi si è svolta, i tuoi antenati hanno restituito alla terra le loro ossa, e così farai anche tu, anche tu. Esso è te, e tu sei lui. Non puoi rinuciarvi, più di quanto tu possa strapparti il cuore dal petto».

Holm tornò a guardare suo figlio. «Pensavo che avresti provato questa sensazione ancor più intensamente di me, Arinnian», gli disse. «Che ti succede?».

«Quell’uomo», mormorò l’altro. «Non ha minacciato cose tremende, ci ha messo in guardia, ci ha implorato. E questo mi ha riportato a casa. Ho visto… mamma, i ragazzi, tu, i miei compagni di gruppo…».

Eyath. Hrill che è Tabitha. In queste settimane abbiamo lavorato insieme, lei ed Eyath ed io… Tre giorni fa, ho fatto un volo di ispezione con loro fino a quella base di missili sottomarini. Le ali di bronzo risplendente, i bei capelli sciolti al vento; occhi d’oro, occhi verdi; l’austera sporgenza della carena, la robusta curva dei seni… Lei è pura. So che lo è. Ho trovato fin troppe scuse per vederla, per stare con lei. Ma quel dannato terrestre chiacchierone che si tiene in casa con il suo fascino da cosmopolita, lui può udire la gaiezza della sua voce più spesso di me.

«Concedigli almeno il loro orgoglio», disse Holm.

Eyath morirà piuttosto che arrendersi. Arinnian raddrizzò le spalle. «Sì. Certo, papà».

Holm sorrise appena. «Dopo tutto», gli fece notare, «sei stato tu ad avere il primo germe di questa affascinante idea che dobbiamo discutere».

«In verità, non… non è del tutto farina del mio sacco. Stavo parlando con Tabitha Falkayn, la conosci? Fu lei a tirar fuori quell’osservazione, quasi per scherzo. Ripensandoci in seguito mi sono chieso se… beh, comunque…».

«Hummm. Una ragazza in gamba, pare. Soprattutto se ha voglia di scherzare in giorni come questi». Holm sembrò accorgersi dell’intensità del suo sguardo, perché voltò rapidamente la testa e disse: «Torniamo al lavoro. Per prima cosa faremo una mappa, eh?».

I suoi pensieri si potevano quasi leggere. Li tradivano il tono leggermente più sostenuto, e le rughe intorno agli occhi. Bene, bene. Chris si è finalmente trovato una donna che non sia solo una macchina sessuale o una femmina Ythrana. Dovrei dirlo a Ro?… Le dirò che nostro figlio ed io siamo di nuovo insieme.


Intorno a St. Li l’inverno significava piogge. E le piogge imperversarono, rumoreggiarono, lavarono ed accarezzarono, ed era bello essere all’aperto senza vestiti, e quando per un po’ cessavano di cadere, si lasciavano arcobaleni alle spalle.

Eppure, si passava anche un sacco di tempo in casa, a parlare o ad ascoltare musica. Era un peccato sprecare una limpida serata.

Tabitha e Rochefort passeggiavano lungo la spiaggia, stringendosi per le dita. Poiché l’aria era dolce, lui indossava soltanto il kilt ed il pugnale che gli aveva dato lei, e lei lo stesso.

Morgana si alzò, piena, dalle acque ad oriente. Il suo scudo quasi senza macchie abbagliava la vista con un biancore tale che le stelle che si riuscivano a scorgere scintillavano piccole e delicate. Quella luce pioveva su una radura tremolante dall’orizzonte fino ai frangenti più lontani, le cui punte trasformava in pallide fiammelle; le dune rilucevano sotto di essa, e le cime degli alberi che formavano un muro d’ombra sulla sinistra incanutivano. Non c’era vento, e la risacca rimbombava sordamente, con un suono attutito come il battito di un cuore. Odori di foglie e di terra coprivano l’alito del mare. La sabbia restituiva il calore del giorno e scricchiolava appena, adattandosi sensualmente ai loro piedi nudi.

Rochefort disse, con voce angosciata: «Tutto questo dovrà morire? Dovrà essere avvelenato, bruciato, ridotto in frantumi? E tu!».

«Noi crediamo che non andrà così», replicò Tabitha.

«Te lo dico io, io so ciò che accadrà».

«È sicuro che il nemico bombarderà?».

«Non di sua volontà. Ma se voi avaloniani, nella vostra folle arroganza, non lasciate altra alternativa…». Rochefort si interruppe. «Perdonami. Non avrei dovuto dire una cosa del genere. È solo che il tempo incalza».

La mano di lei si strinse nella sua. «Capisco, Phil. Tu non sei il nemico».

«Che c’è di male nel far parte dell’Impero?». Fece un gesto verso il cielo. «Guarda. Un sole dopo l’altro. Potrebbero essere vostri».

Lei sospirò. «Vorrei…».

Tabitha aveva ascoltato con il massimo interesse i suoi racconti su quelle miriadi di mondi.

D’un tratto lei sorrise, un baleno nel chiarore lunare che la rivestiva. «No, non vorrei», disse. «Ti costringerò a mantenere la tua promessa di farmi vedere la Terra, Ansa, Hopewell, Cynthia, Woden, Diomede, Voxen, e tutte quelle meraviglie di cui mi hai parlato, una volta che avremmo avuto la pace».

«Se potremo ancora farlo».

«Lo potremo. Questa notte è troppo bella per credere a qualcosa di diverso».

«Ho paura di non poter condividere la tua mentalità Ythrana», disse lui lentamente. «E mi fa anche male».

«Non puoi? Voglio dire, sei coraggioso, io so che lo sei, e so che sei capace di godere la vita così come viene». La sua voce e le sue ciglia si abbassarono. «E come, se puoi».

Lui si fermò, si voltò e le prese l’altra mano. Rimasero a guardarsi senza parlare.

«Ci proverò», le disse, «per te. Mi aiuterai?».

«Ti aiuterò in tutto, Phil», rispose Tabitha.

Si erano già baciati, dapprima allegramente quando avevano cominciato a sentire che stavano bene insieme, poi con più passione. Quella notte lei non fermò le mani dell’uomo, né le sue.

«Phil e Hrill», gli bisbigliò alla fine, stretta al suo corpo. «Phil e Hrill. Tesoro, conosco un promontorio, un paio di chilometri più avanti. È coperto dagli alberi, ma attraverso di essi si può vedere la luna e il mare, e l’erba è folta e soffice, l’erba terrestre…».

Lui la seguì, appena capace di comprendere la sua fortuna.

Lei rise, con il seno che sussultava. «Sì, ho programmato tutto io», disse con voce gorgheggiante. «Erano giorni che aspettavo la mia occasione. Non ti dispiace essere sedotto? Magari abbiamo poco tempo, ancora».

«Con te sarebbe poco una vita intera», replicò lui con voce esitante.

«Adesso dovrai aiutarmi, amore mio, amore mio», gli disse Tabitha. «Tu sei il primo, per me. Ti ho sempre aspettato».

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