Avalon ruota in undici ore, ventidue minuti, dodici secondi, su un asse inclinato di 21° dalla normale rispetto al piano dell’orbita. Perciò Gray, circa 43° a nord, conosce sempre notti piuttosto brevi; in estate l’oscurità è poco più che un batter di palpebre. Daniel Holm si domandò se quello potesse essere uno dei motivi della sua stanchezza.
Probabilmente no. Lui era nato lì, ed i suoi antenati ci vivevano da secoli; erano arrivati con Falkayn. Se gli individui potevano cambiare i loro ritmi circadiani — come lui stesso aveva dovuto fare abbastanza spesso ai tempi in cui viaggiava nello spazio — certamente poteva farlo anche una razza. I medici dicevano che il vivere in un pianeta con gravità pari all’80% di quella terrestre richiedeva ben altro all’organismo; dovevano riadattarsi l’intero equilibrio dei fluidi e quello cinestetico. Inoltre, ciò che dovevano sopportare gli umani era trascurabile in confronto a quello dei loro colleghi coloni. Gli Ythrani avevano dovuto adattare tutto un ciclo procreativo ad un giorno, anno, peso, clima, dieta, mondo del tutto diversi. Non c’era da stupirsi che molte delle prime generazioni avessero avuto un basso indice di natalità. Nondimeno, erano sopravvissuti, ed alla fine avevano prosperato.
Perciò era sciocco supporre che un uomo potesse stancarsi per qualcosa che non fosse il lavoro eccessivo… e, sì, anche per l’età, malgrado l’anti-invecchiamento. Oppure no? Davvero? Man mano che si invecchiava, e che ci si avvicinava ai propri morti ed a tutti quelli che erano venuti prima di loro, come poteva l’essere non desiderare il ritorno ai primordi, ad una patria mai vista eppure in qualche modo ricordata?
Vecchio scemo! Falla finita! Chi ha mai detto che ad ottantaquattro anni si è vecchi? Holm afferrò un sigaro dalla tasca e ne tagliò un’estremità. Lo accese aspirandone il fumo a lungo, senza motivo.
Era di media statura, e tarchiato nella tunica color oliva e nei pantaloni rigonfi che indossava ogni membro umano dei servizi armati Ythrani. La parte mongoloide della sua origine si rivelava nella testa rotonda, il volto largo, le ossa pronunciate delle guance, le labbra troppo piene e il naso schiacciato; la parte caucasoide si esprimeva invece negli occhi grigi, nella carnagione che sarebbe stata pallida se egli non avesse trascorso il suo tempo libero all’aria aperta, a cacciare o a coltivare il giardino, e nella peluria, nera e ricciuta sul petto, ma grigia sul capo. Come molti degli uomini del pianeta, aveva eliminato la barba.
Stava trafficando con l’ultima valanga di comunicati che gli erano stati trasmessi dai suoi assistenti, quando l’intercom ronzò e disse: «Il Primo Governatore Ferune chiede un colloquio».
«Certo!». Il superiore di Holm era appena tornato da Ythri. L’uomo fece per premere il comando di collegamento bidirezionale, poi ritirò la mano e disse: «Meglio parlare faccia a faccia. Sarò lì subito».
Uscì precipitosamente dall’ufficio. Il corridoio era pieno di rumore e di animazione — personale di marina, impiegati civili dell’ammiragliato laurano — e sovraccarico degli odori di entrambe le specie, che il sistema di aerazione del palazzo non riusciva ad eliminare: vagamente acre quello umano, leggermente fumoso quello Ythrano. Gli Ythrani erano più numerosi, lì dentro, contrariamente al rapporto di popolazione su Avalon. Ma molti di loro erano arrivati da ogni parte del Dominio, e specialmente dalla madre patria, per dare man forte alla frontiera nel momento di crisi.
Holm si costrinse a rivolgere saluti a destra e a manca, mentre passava. La sua affabilità era diventata un marchio di fabbrica, del quale lui riconosceva l’utilità. All’inizio era genuina, pensò.
La guardia d’onore lo salutò e lo ammise alla presenza di Ferune. (Holm non sopportava tutta quella cerimoniosità inutile, nel suo dipartimento, ma riconosceva l’importanza che aveva per gli Ythrani). La stanza interna era tipica: spaziosa e scarsamente ammobiliata, poche austere decorazioni, un banco, un tavolo e del macchinario da ufficio adattato alle esigenze ornitoidi. Invece di una diapositiva, sulla parete c’era una vera finestra, enorme, aperta e da cui entrava una brezza profumata di giardino, con un panorama di Gray e delle acque scintillanti della baia.
Ferune vi aveva aggiunto diversi souvenir di altri pianeti ed una libreria piena di copie dei classici terrestri, che leggeva per diletto in tre lingue originali. Piuttosto piccolo, con le piume rossicce, aveva in sé un pizzico di iconoclastia. Il suo gruppo, Mistwood, era sempre stato uno dei più avanzati di Avalon, meccanizzato come una comunità umana e, di conseguenza, grande e prospero. Era piuttosto insofferente nei confronti della tradizione, la religione, e qualsiasi forma di conservatorismo. Tollerava un minimo di formalità perché non poteva farne a meno, ma non aveva mai affermato di apprezzarla.
Saltando dal suo trespolo, si diresse a piccoli balzi verso Holm, stringendogli le mani secondo il costume terrestre. «Kh-r-r, lieto di vederti, vecchio furfante!». Parlava in Planha; le gole Ythrane sono meno versatili di quelle umane (benché naturalmente nessun umano potrà mai pronunciare esattamente i loro suoni) e lui voleva evitare sia la seccatura di chiedere un vocalizzatore, sia la stravaganza di un accento scorretto.
«Com’è andata?», gli chiese Holm.
Ferune fece una smorfia. Ma non è la parola esatta. Le sue penne non erano semplicemente più intricate di quelle degli uccelli terrestri, ma collegate molto più strettamente ai muscoli ed alle terminazioni nervose, ed i loro movimenti costituivano un intero universo espressivo su cui l’uomo non avrebbe mai potuto contare. Irritazione, inquietudine, rabbia sotterranea e sgomento fecero fremere tutto il suo corpo.
«Huh». Holm trovò una poltrona progettata per gli umani, vi si sprofondò e si portò il tabacco piccante alla lingua. «Dimmi».
Gli artigli ticchettarono sul legno piacevolmente venato, mentre Ferune passeggiava su e giù. «Detterò un rapporto completo», disse. «In breve, è peggio di quanto temessi. Sì, stanno cercando affannosamente di organizzare un comando unificato e di cacciare in testa ad ogni capitano l’idea dell’azione come dottrina. Ma non hanno la più piccola nozione in proposito».
«Dio onnipotente», esclamò Holm, «sono cinque anni che glielo andiamo ripetendo! Io pensavo… oh, al diavolo, le comunicazioni sono così approssimative, in questa cosiddetta marina da guerra, che non ho altro su cui basarmi se non delle impressioni, e credo che siano quelle sbagliate… Insomma tu lo sai che io pensavo, che noi pensavamo di essere già a buon punto sulla strada di una certa riorganizzazione».
«Lo eravamo, ma la cosa non è durata. Eccessivo orgoglio, litigi, dispute sui dettagli. Noi Ythrani — almeno la nostra civiltà dominante — non ci troviamo a nostro agio in una struttura strettamente centralizzata». Ferune fece una pausa. «In realtà», proseguì poi, «l’argomento più convincente contro un’eventuale rinuncia alla nostra organizzazione planetaria separata e scarsamente coordinata in favore di una struttura gerarchica sul modello terrestre è stato che la Terra potrà contare su forze di gran lunga più notevoli, ma queste devono controllare un volume di spazio assai più vasto di quanto non debba fare il Dominio; e se ci dichiara guerra, esse verranno a trovarsi in fondo ad una linea di comunicazioni così lunga che un’azione unificata si rivelerà controproducente».
«Huh! E a quei cervelli di gallina di Ythri non è venuto in mente che l’Impero non è stupido? Se la Terra attacca, non sarà dalla Terra che la guerra comincerà, ma da un settore vicino ai nostri confini».
«Abbiamo notato ben pochi segni di attività militare nei sistemi confinanti».
«Certamente!». Holm batté il pugno sul bracciolo della poltrona. «Perché mai dovrebbero rivelare i loro preparativi? Voi lo fareste? Si riuniranno nello spazio, a parsec di distanza da qualsiasi stella, riducendo al minimo il traffico fra il punto di raccolta della flotta e qualsiasi pianeta nel quale i nostri esploratori possano mettere il naso. In uno spazio di pochi anni luce cubici possono nascondere una potenza capace di spazzarci via dall’universo».
«Me l’hai già detto altre volte», replicò amaramente Ferune. «Ed io l’ho riferito. Con scarso successo». Smise di passeggiare, e per un po’ nella stanza regnò il silenzio.
La luce gialla di Laura disegnava ombre di foglie sul pavimento. Rabbrividirono entrambi.
«Dopo tutto», disse Ferune, «i nostri sistemi ci hanno salvato, durante i Tumulti».
«Non puoi paragonare avventurieri, pirati, conquistatori da strapazzo, barbari che non avrebbero mai fatto un passo al di fuori della loro atmosfera se non avessero avuto la ventura di acquistare delle navi praticamente autofunzionanti… non puoi paragonare tutta quella marmaglia con le mani sporche di sangue alla Terra Imperiale».
«Lo so», replicò Ferune. «Ma il punto è questo: i sistemi Ythrani hanno funzionato perché sono in accordo con la natura Ythrana. Nel corso di quest’ultimo viaggio ho incominciato a domandarmi se un tentativo di diventare povere copie dei nostri rivali non possa essere fatale. Il tentativo è stato fatto, capisci — avrai particolari in abbondanza — ma può darsi che non ne ricaveremo altro che confusione. Ho deciso che mentre Avalon deve fare ogni sforzo per collaborare, nello stesso tempo si deve aspettare ben poco aiuto dall’esterno».
Cadde di nuovo il silenzio. Holm guardò il suo superiore, collega, amico da anni; e non per la prima volta si rese conto di quanto fossero estranei tra loro.
Si trovò a fissarlo come se non avesse mai visto in faccia un Ythrano.
In piedi, il Governatore era alto circa centoventi centimetri, dai piedi alla punta della cresta; un individuo alto avrebbe raggiunto più o meno i centoquaranta, diciamo fino a metà petto di Holm. Dal momento che il corpo era inclinato in avanti, l’altezza effettiva dal muso alla coda era leggermente superiore. Pesava sui venti chili, e la specie non superava mai i trenta.
La testa sembrava scolpita, e dalla fronte bassa sporgeva all’indietro per contenere il cervello. Una cresta ossuta si inarcava giù per la fronte terminando in un paio di narici, appena nascoste dalle penne, e le narici sovrastavano una bocca flessibile, con una lingua color porpora e molti denti bianchi e aguzzi. La mascella, piegata verso il basso e piuttosto delicata, si fondeva con un collo robusto. Il volto era dominato dagli occhi, grandi e color ambra, e dalla cresta piumata fitta e smerlettata che si ergeva sulla fronte, sollevandosi al di sopra della testa e poi correndo giù fino a metà del collo: in parte a scopi aerodinamici, in parte come elmo per proteggere le ossa sottili del cranio.
Il torso sporgeva in avanti con un vistoso osso carenato, che nella sua estremità inferiore era fiancheggiato dalle braccia. Come forma e dimensioni, queste non erano molto dissimili da quelle di un umano un po’ magro; non avevano penne e la pelle era di un color giallo scuro, nella razza di Ferune, mentre in altre sottospecie Ythrane era marrone o nera. Le mani assomigliavano meno a quelle di un uomo. Ciascuna era dotata di tre dita racchiuse tra due pollici; ciascun dito possedeva un’articolazione in più rispetto al corrispondente umano, ed un’unghia che si poteva meglio definire un artiglio. Dalla parte interna del polso spuntava uno sperone. Le mani erano grandi in proporzione alle braccia, e percorse da muscoli guizzanti; si erano evolute come strumenti per lacerare, in appoggio ai denti. Il corpo terminava in una coda piumata a forma di ventaglio, abbastanza rigida da poterlo sostenere, quando era necessario.
Sul momento, comunque, le terribili ali erano avvolte su se stesse e funzionavano da gambe. Nel mezzo di ciascun bordo d’attacco, l’articolazione del «ginocchio» si piegava in senso contrario; nel volo quelle ossa si serravano fra loro. Dalla «caviglia», tre dita rivolte in avanti ed una rivolta all’indietro si allungavano a formare un piede; durante il volo, esse si ripiegavano sull’ala per irrobustirla ed aggiungere sensibilità. Le rimanenti tre dita dell’antico ornitoide si erano fuse per formare l’osso dell’alettone, che sporgeva posteriormente per oltre un metro. La pelle della metà anteriore era nuda e callosa, adatta per riposarvi sopra.
Poiché Ferune era un maschio, la sua cresta era più alta di quella di una femmina, e come la coda era bianca con dei disegni neri; nelle femmine erano invece di un bel nero uniforme e scintillante. Il resto del suo corpo aveva colori più tenui della media della sua specie, con toni che variavano dal grigio scuro al nero.
«Kr-r-r». Il suono gutturale ridestò Holm dalle sue fantasticherie.
«Sei imbambolato».
«Oh. Scusami». Per un vero carnivoro, era più grave che non per gli umani onnivori. «Stavo vagando, con la mente».
«E dove?», gli domandò Ferune, di nuovo gentile.
«M-m-m… beh… beh, d’accordo. Stavo pensando a quanta poca importanza abbia la mia razza nel Dominio. Penso che forse faremmo meglio a convincerci che tutto deve essere fatto secondo lo stile Ythrano, ed a farlo nel miglior modo possibile».
Ferune emise una gorgheggiante nota evocativa e fece svolazzare qualche penna. Non esisteva un esatto equivalente in Anglico, ma l’intenzione si poteva tradurre con: «La tua specie non è la sola non-Ythrana sotto la nostra egemonia. Voi non siete gli unici tecnologicamente aggiornati». In realtà il Planha non era così laconico come le sue convenzioni verbali potevano far pensare.
«N-no», borbottò Holm. «Ma noi… nell’Impero, siamo la guida. Certo, la Grande Terra comprende un bel po’ di pianeti natali e colonie di non umani; e una gran quantità di individui provenienti da ogni dove ha preso la cittadinanza terrestre; certo. Ma ci sono più umani nei posti chiave che membri di ogni altra razza… e forse di tutte le altre razze messe insieme». Sospirò, fissando la punta incandescente del sigaro. «Ma qui nel Dominio, che cosa sono gli uomini? Una manciata su quest’unico globo. Oh, ci diamo da fare, facciamo del nostro meglio, ma rimane il fatto che siamo solo un’insignificante minoranza in mezzo ad altre minoranze».
«Ti dispiace?», gli domandò Ferune con molta dolcezza.
«Eh? No, no. Volevo solo dire, beh, probabilmente il Dominio conta troppo pochi umani per giustificare ed amministrare un’organizzazione militare di tipo umano. Perciò è meglio che siamo noi ad adattarci a voi, piuttosto che voi a noi. Comunque è inevitabile. È inevitabile perfino su Avalon, dove noi siamo di più».
«Sento amarezza nel tuo tono e la vedo nei tuoi occhi», disse Ferune, più gentilmente del solito. «Stai pensando di nuovo a tuo figlio che è diventato uccello, vero? Temi che i suoi fratelli e sorelle più giovani se ne andranno come lui».
Holm dovette farsi forza per rispondere. «Sai che io rispetto i vostri costumi. L’ho fatto e lo farò sempre. Né mi sono dimenticato di come Ythri accolse la mia gente quando la Terra cominciò a scottare sotto i nostri piedi. È solo… solo che… anche noi ci siamo guadagnati il rispetto. Non è vero?».
Ferune fece un passo avanti e posò una mano sulla coscia di Holm. Comprendeva il bisogno che gli umani avevano di parlare e di sfogare il loro dolore.
«Quando lui — Chris — quando cominciò ad andar via, a volare insieme agli Ythrani, ebbene, ne fui contento», proseguì a fatica Holm, rivolgendo lo sguardo fuori dalla finestra. Di tanto in tanto scuoteva il sigaro, ma il gesto era meccanico, involontario. «Era sempre stato troppo attaccato ai libri, troppo solo. E allora i suoi amici di Stormgate, le sue visite laggiù — quando lui e Eyath e tutta la banda si misero a scorrazzare nei più remoti angoli del pianeta — beh, mi sembrava che stesse facendo ciò che io avevo fatto alla sua età, solo che lui aveva qualcuno che gli guardava le spalle se la situazione diventava pericolosa. Pensavo che forse avrebbe rinunciato ad arruolarsi in marina…». Holm scrollò il capo. «Non me ne accorsi finché non fu troppo tardi, perché il suo non era un semplice capriccio da adolescente come succede a volte. E quando aprii gli occhi, e ne discutemmo aspramente, e lui se ne andò di casa e si nascose per un anno, con l’aiuto di Eyath, nelle Isole Shielding… ma non ha senso che io vada avanti, no?».
Ferune fece cenno di no. Dopo che Daniel Holm si era recato, fuori di sé, a casa di Lythran, vomitandogli addossò ogni sorta di accuse, il Primo Governatore era intervenuto ed aveva fatto quanto era in suo potere, calmando le due parti ed evitando un duello.
«No, oggi non avevo intenzione di parlarne», continuò Holm. «È solo che… stanotte Rowena si è messa a piangere. Perché lui se ne era andato senza salutarla. Lei si preoccupa soprattutto di ciò che gli sta accadendo, dentro, da quando si è unito al gruppo. Potrà mai avere un matrimonio normale, per esempio? Le ragazze comuni non sono più il suo tipo; e le ragazze uccello… E poi, pensa ai nostri figli più piccoli. Tommy è completamente partito, pensa solo agli argomenti Ythrani. Il consigliere scolastico è dovuto venire di persona da noi a chiederci come mai avesse trascurato di classificare il materiale o di sottoporre il lavoro svolto, o di consultarsi con gli esperti ai quali avrebbe dovuto rivolgersi. E Jeanne si è trovata un paio di compagni di gioco Ythrani…».
«Per quanto ne so», disse Ferune, «gli umani che si sono uniti ad un gruppo, di regola hanno avuto una vita soddisfacente. Ci sono stati dei problemi, certo, ma esiste vita senza problemi? Per di più, le difficoltà dovrebbero diminuire coll’aumentare del numero di tali persone».
«Senti», farfugliò Holm. «Io non sono contro la tua gente. Mi prendesse un colpo se lo sono mai stato! Mai una volta ho detto o pensato che ci fosse qualcosa di disonorevole in ciò che Chris stava facendo, così come non l’avrei detto o pensato se, oh, se lui avesse abbracciato qualche ordine religioso dedito alla castità. Ma non mi sarebbe piaciuto ugualmente. Non è nella natura dell’uomo. Ed ho studiato tutti i libri che sono riuscito a trovare sul popolo degli uccelli. Certo, molti di loro hanno affermato di essere felici, e probabilmente nella maggior parte credevano di esserlo. Ma non posso fare a meno di pensare che essi non sapevano cosa avevano perduto».
«Terricoli», disse Ferune. In Planha, era sufficiente. In Anglico avrebbe dovuto dire qualcosa come: «Anche noi abbiamo perso qualcosa: coloro che hanno lasciato i gruppi per diventare semplici individui secondo il modello umano, all’interno di una comunità fondamentalmente umana».
«Influenza», aggiunse poi, il che riassumeva: «Su Avalon, nel corso dei secoli, non pochi della nostra razza sono cresciuti nell’amarezza di ciò che i vostri principi ed il vostro esempio stavano facendo ai gruppi stessi. Molti provano ancora quella sensazione. Penso che sia uno dei motivi principali per cui tali gruppi sono divenuti più reazionari di altri nella madre patria».
Holm replicò: «L’idea base di questa colonia non era che entrambe le razze dovessero garantirsi il reciproco diritto a rimanere ciò che erano?».
«Ciò è scritto nel Patto, e lì rimane», disse Ferune in due sillabe e tre espressioni. «Nessuno è stato forzato. Ma, vivendo insieme, come possiamo fare a meno di cambiare?».
«Uh-huh. Poiché Ythri in generale e Mistwood in particolare sono riusciti con successo ad adottare e adattare la tecnologia terrestre, tu pensi che il tutto si esaurisca in un banale scambio di idee. Invece non è così semplice».
«Non ho detto che lo sia», replicò Ferune, «solo che il tempo non si può affferrare con nessuna rete».
«Già. Mi dispiace se… beh, non avevo intenzione di fare discorsi oziosi, specialmente quando mi hai già sentito farne fin troppi. Solo che stiamo passando dei giorni difficili, in casa». L’uomo si alzò dalla poltrona, oltrepassò l’Ythrano e si fermò davanti alla finestra, dalla quale guardò fuori attraverso un velo di fumo.
«Torniamo al lavoro vero», disse. «Vorrei fare delle domande specifiche sulle effettive condizioni di efficienza del Dominio. E sarà meglio che tu stia a sentire quello che è successo qui mentre eri assente… quello che è successo in tutto il sistema Laurano, anzi, che è dannatamente vicino alla catastrofe. Neanche qui c’è niente di buono».