«Non puoi andartene adesso», disse al figlio Daniel Holm. «Da un giorno all’altro potremmo trovarci in guerra. Forse già lo siamo».
«È proprio per questo che devo andare», rispose il giovane. «Stanno convocando i Khruath in ogni parte del pianeta. E dove altro potrei recarmi, se non dal mio gruppo?».
Mentre parlava, non erano solo le sue parole a mutarsi in quelle di un uccello. Lo stesso accento cambiava. Non si serviva più dell’Anglico di Avalon con l’influenza Planha — vocali limpide, le erre vibrate, le emme e le enne pronunciate a mezza bocca, il modo di parlare più profondo, più lento e fortemente cadenzato; piuttosto, era come se cercasse di tradurre il pensiero di un cervello Ythrano per un ascoltatore umano.
L’uomo la cui immagine occupava lo schermo del videofono non obiettò: «Potresti restartene con la tua famiglia», come avrebbe fatto una volta. Invece, Daniel Holm annuì e disse con calma: «Vedo. Adesso non sei Chris, sei Arinnian», e all’improvviso sembrò più vecchio.
Quelle parole colpirono il giovane quasi con violenza. Si sporse in avanti, ma le sue dita incontrarono lo schermo. «Sono sempre Chris, papà», disse concitatamente. «È solo che sono anche Arinnian. E, beh, se ci sarà la guerra, bisognerà che i gruppi siano pronti ad affrontarla, no? Io devo dare il mio aiuto… non dovrebbe essere una cosa lunga, davvero».
«Certo. Buon viaggio».
«Salutami mamma e tutti gli altri».
«Perché non la chiami tu stesso?».
«Beh, ehm, io devo sbrigarmi… e poi non c’è nulla di insolito nel mio viaggio verso le montagne, e… oh…».
«Capisco», disse Daniel Holm. «Glielo dirò io. E tu salutami i tuoi compagni». Il Secondo Governatore del sistema Laurano chiuse la comunicazione.
Arinnian distolse lo sguardo dall’apparecchio. Per un attimo trasalì e si morse le labbra. Odiava fare del male a chi si preoccupava per lui. Ma perché non capivano? La loro razza definiva «diventare uccello» l’essere accolto in un gruppo, come se in qualche modo quelli che lo facevano ripudiassero la razza che li aveva generati. Aveva perso il conto delle ore sprecate cercando di far capire ai suoi genitori — e a tanti altri ortoumani — che in questo modo egli ampliava e purificava la sua umanità.
Gli tornò in mente un frammento di dialogo: «Papà, stammi a sentire; due specie non possono abitare per generazioni sullo stesso pianeta senza influenzarsi reciprocamente e in modo profondo. Perché tu vai a caccia nel cielo? Perché Ferune serve del vino alla sua tavola? E questi sono solo i sintomi più superficiali».
«Lo so bene. Fammi credito di una certa apertura mentale, eh? Il fatto è che tu stai facendo un salto smisurato».
«Perché sto per diventare un membro dello Stormgate? Senti, sono cento anni che i gruppi accettano umani».
«Ma non in quantità così massicce come negli ultimi tempi. E poi non c’era mio figlio, fra loro. Mi sarebbe… piaciuto vederti perpetuare le nostre tradizioni».
«Chi dice che non lo farò?».
«Tanto per cominciare, non sarai più sotto la legge umana, ma sotto la legge e le usanze del gruppo… Aspetta. È bello, se sei un Ythrano. Chris, non hai i cromosomi. Coloro che pretendevano di averli, non sono mai riusciti ad adattarsi a un’altra razza, mai».
«Dannazione, io non pretendo…».
Arinnian scacciò l’immagine di sé come se fosse una cosa materiale. Fu contento delle prosaiche necessità dei preparativi. Per raggiungere il nido di Lythran prima del buio doveva partire subito. Naturalmente un’aeromobile avrebbe coperto la distanza in meno di un’ora, ma chi voleva viaggiare ingabbiato fra metallo e plastica?
Era nudo. Sempre più coloro che vivevano come lui tendevano a liberarsi del tutto dai vestiti e a usare come abito una tinta color pelle. A volte, però, bisognava ricoprirsi. Un Ythrano stesso era raramente sprovvisto di cintura e borsa. Questo sarebbe stato un viaggio piuttosto freddo, e lui non aveva le penne. Attraversò il piccolo appartamento per andare a prendere una tuta e degli stivali.
Nel passare gettò un’occhiata sullo scrittoio su cui giacevano gli appunti del suo lavoro, e, in un mucchio, i testi e le opere di consultazione di cui si serviva al momento, tutti editi dalla Biblioteca Centrale. Dannazione!, pensò. Mi dispiace abbandonarli proprio adesso che sono quasi riuscito a dimostrare il teorema.
Con la matematica riusciva a volare. Spesso aveva immaginato di poter provare con la mente la stessa pura estasi che un Ythrano, tutto solo lassù in alto, prova nella carne. E così aveva accettato il compromesso di riconciliazione col padre. Avrebbe continuato i suoi studi, e con essi il suo obiettivo, quello di diventare un matematico di professione. A tal fine aveva accettato un certo aiuto economico, benché non ci si potesse più aspettare che rimanesse in casa. Quel poco che gli serviva ancora per vivere se l’era guadagnato da solo, facendo il mandriano e il cacciatore quando se ne andava dagli Ythrani.
Daniel Holm aveva borbottato, dietro un accenno di sorriso: «Tu hai una mente brillante, figliolo. Non avrei voluto vederla sprecata così. E nello stesso tempo, è troppo brillante. Se non fosse che stai diventando uccello saresti tutto preso dai tuoi libri, o dal disegno o la poesia, e non ti muoveresti neppure: alla fine ti verrebbe il sedere quadrato e nemmeno te ne accorgeresti. Immagino che dovrei provare un po’ di gratitudine verso i tuoi amici, per aver fatto di te un atleta».
«I miei compagni di gruppo», lo aveva corretto Arinnian. Aveva appena ricevuto il nuovo nome, ed era pieno di orgoglio e di franchezza. Questo era stato quattro anni prima; oggi poteva sorridere a se stesso. Il governatore non si era sbagliato del tutto.
A trent’anni — secondo il computo di Avalon — Christopher Holm era alto, magro e aveva spalle ampie. Tanto nei lineamenti che nella corporatura ricordava sua madre: testa allungata, volto stretto, naso e labbra sottili, occhi azzurri, capelli color mogano (tagliati corti secondo la moda di coloro che praticano assiduamente il volo con cintura gravitazionale), barba abbastanza rada da meritarsi solo regolari applicazioni di enzimi anticrescita. La sua carnagione, naturalmente chiara, aveva acquistato un colorito scuro per l’esposizione al sole. Laura, una stella di tipo G5, ha solo il 72 per cento della luminosità del Sole e, proporzionalmente, minor quantità di raggi ultravioletti; ma Avalon, che orbita ad una distanza media di 0,81 unità astronomiche in un periodo che è 0,724 di quello terrestre, riceve il dieci per cento in più di irradiazione totale di quella a cui è abituato l’uomo.
Come d’abitudine ispezionò accuratamente la sua unità prima di infilare le braccia nelle cinghie e di allacciare la fibbia alla cintura. Si augurò che i due cilindri a punta di cono sulla sua schiena contenessero accumulatori ben carichi e circuiti perfettamente funzionanti. In caso contrario, era un uomo morto. Un Ythrano non avrebbe mai potuto salvare un umano che precipitasse dal cielo. Un paio di volte parecchi di loro, tutti insieme, avevano effettuato dei salvataggi, ma si trattava di pastori muniti di lazo che potevano lanciare verso il loro compagno, e tirare senza intralciarsi l’un l’altro. Non c’era da fare conto su una fortuna simile. Oh Dio, se avesse avuto delle vere ali!
Si infilò un elmetto di pelle ed abbassò gli occhiali che costituivano il misero sostituto di una membrana nittitante. Infilò il coltello nel fodero e si sistemò il lanciaproiettili sul fianco. Non che ci fosse qualche pericolo — nessun rischio di essere sfidato a duello, perché un Khruath era sacro e simbolo di pace, e del resto le contese per motivi di orgoglio non erano mai state troppo frequenti — ma i membri dello Stormgate erano in massima parte cacciatori e non abbandonavano mai la loro attrezzatura. Non c’era bisogno invece di portarsi delle provviste. A quello avrebbero pensato le riserve di famiglia, alle quali contribuiva con quote regolari, e che venivano trasportate ai luoghi di raduno mediante slitte antigravitazionali.
Uscendo dalla porta, si trovò a livello del terreno. Gli umani avevano spazio in abbondanza su Avalon — erano circa dieci milioni, contro quattro milioni di Ythrani — ed anche lì a Gray, ciò che sul pianeta si avvicinava di più ad una vera città, avevano costruito edifici bassi e molto estesi. Un paio di grattacieli erano sufficienti per gli ornitoidi residenti o in visita.
Arinnian sfiorò i comandi. La negaforza lo sollevò dolcemente e rapidamente verso l’alto. Mentre decollava, per un buon minuto assaporò il panorama.
La città si stendeva tra colline verdeggianti di alberi e cespugli, macchiate qua e là da giardini, tutto intorno alla Baia di Falkayn. Sull’acqua scivolavano delle barche; essendo natanti da diporto, si trattava prevalentemente di aliscafi a vela. Nei docks c’erano pochi mercantili, lunghe e funzionali sagome di gradevole aspetto, che i robot provvedevano a caricare e scaricare. Ce n’era uno in arrivo, dalle Isole Brendan a giudicare dalla rotta, mentre un altro spiccava contro il Mare Esperide che splendeva argenteo dove batteva il sole e altrove appariva di un blu zaffiro, fino a sfumare nel porpora dell’orizzonte settentrionale e meridionale.
Laura brillava bassa contro il vuoto dell’occidente, con un’aura più intensa che a mezzogiorno. Il cielo era di un blu che andava scurendosi lentamente; strisce di alte nuvole cirriformi, che ad Arinnian sembrarono penne pettorali, promettevano che il bel tempo sarebbe continuato. Una brezza salata soffiava dolcemente, rinfrescandogli le guance.
Il traffico aereo era scarso. Gli passarono accanto parecchi Ythrani, con le ali risplendenti di bronzo ed ambra. Un paio di umani volavano come Arinnian, servendosi di cinture gravitazionali; da lontano, a stento si poteva distinguerli da uno stormo di smilzi e coriacei pipistrelli che la sera avesse strappato a qualche caverna. In maggior numero erano gli umani che viaggiavano a bordo di un’aeromobile, gocce di pioggia orizzontali che respingevano la luce con inanimata fierezza. Due o tre vagoni merci si muovevano pesantemente ed un velivolo di linea intercontinentale stava puntando il muso verso l’aeroporto. Ma Gray non era mai freneticamente tumultuosa.
Più in alto, tuttavia, incrociavano delle sagome che non si erano più viste dalla fine dei Tumulti: aviazione militare in servizio di pattuglia.
La guerra contro l’Impero Terrestre… Rabbrividendo, Arinnian diresse ad est, verso l’interno.
Già poteva vedere la sua destinazione, al di là della catena costiera e della valle centrale, come un banco di nuvole sul ciglio del mondo, quei picchi che erano i più alti di Corona, e di tutto Avalon, non contando Oronesia. Gli uomini li chiamavano i picchi di Andromeda, ma nel suo Anglico Arinnian si era abituato a chiamarli anche col nome Planha, Madre delle Intemperie.
Sotto di lui si stendeva, ondulata, la zona delle fattorie. Lì intorno a Gray gli stanziamenti Ythrani, prevalentemente settentrionali, si mescolavano con quelli umani, prevalentemente meridionali; entrambe le ecologie si fondavano con quella di Avalon, e la zona sembrava una scacchiera della dama. I campi di grano dell’uomo, che maturavano col declinare dell’estate, si stendevano fulvi in mezzo agli enormi campi verdi in cui gli Ythrani facevano pascolare i loro maukh ed i mayaw. Foreste di alberi da legname, querce o pini, compatti o spaziati, si addentravano in spianate pressoché prive di alberi dove crescevano quelle piante locali color berillo chiamate susin e dove era ancora possibile scorgere qualche occasionale barisauroide. Il ritmo del volo scacciò il malumore. Che l’Impero attaccasse pure il Dominio… se ne aveva il coraggio! Nel frattempo lui, Arinnian, era legato ad Eyath… a tutto il suo gruppo, naturalmente, ed era tutt’uno con loro: ma soprattutto voleva rivedere Eyath.
Nella dignità della sala da pranzo, uno sguardo passò fra di loro. Potremo vagare all’esterno ed essere noi stessi? Ella chiese al padre Lythran ed alla madre Blawsa il permesso di andarsene; benché vivesse a loro carico quello era un semplice rituale, e tuttavia i rituali avevano una grande importanza. Nello stesso modo Arinnian disse ai giovani presso il cui desco era stato accolto che desiderava non essere accompagnato. Lui ed Eyath uscirono fianco a fianco. Il che non causò alcuna frattura nella lenta conversazione punteggiata di silenzi alla quale tutti prendevano parte. La loro intimità risaliva ai tempi dell’infanzia, ed era stata pienamente accettata.
Lo stazionamento si trovava su un altipiano di Monte Farview. Nel mezzo sorgeva la vecchia torre di pietra che ospitava i membri più anziani della famiglia ed i loro figli. Le costruzioni di legno più basse, sui cui tetti di zolle germogliavano i draghi d’ambra e le campanule stellate, erano destinate a coloro che non erano sposati, ai dipendenti ed ai loro parenti. Più giù, lungo un pendio, c’erano capannoni, granai e gabbie. Da terra non si poteva vedere subito tutto l’insieme, perché in mezzo alle costruzioni crescevano gli alberi Ythrani: il veliero intrecciato, l’albero del rame, lo scarno parafulmine, le foglie-gioiello che scintillavano alla luna e di giorno assumevano una coloratura iridescente. Le aiuole ospitavano piante indigene, molto più evolute di qualunque cosa proveniente dall’esterno del pianeta… i piccoli e dolci janie, i pungenti fonteviva, i graziosi trifogli e i calici di Budda, rampicanti ad arpa che la brezza faceva sempre cantare delicatamente. Per il resto, la notte era tranquilla e, a quell’altezza, fredda. L’alito si trasformava in nuvolette bianche.
Eyath dispiegò le ali. Erano più sottili della media, malgrado raggiungessero quasi sei metri di apertura. Questo la costringeva naturalmente a tenersi sulle mani e sulla coda. «Brrr!», esclamò ridendo. «C’è brina. Saliamo». Un battito d’ali ed un turbine di vento, ed era già in aria.
«Hai dimenticato», le gridò lui, «che mi sono tolto la cintura».
Lei si appollaiò sopra una piattaforma costruita vicino alla sommità di un albero del rame. Gli Ythrani facevano pochi rumori superflui, evidentemente egli poteva arrampicarsi. Pensò che lei sopravvalutasse le sue capacità, soltanto perché era più bravo ad arrampicarsi. Un passo falso tra quella vegetazione oscura poteva significare una brutta caduta. Ma non poteva ignorare la sfida sottintesa senza perdere il rispetto di lei. Afferrò un ramo, si tirò su e si fece strada a tastoni frusciando in mezzo al verde.
Dopo un po’ la sentì mormorare qualcosa all’uhoth che l’aveva raggiunta in volo alle spalle. Abbatteva la selvaggina con ammirevole efficienza, ma lui ebbe l’impressione che Eyath gli dimostrasse eccessiva attenzione. D’accordo, non si poteva negare che fosse ormai in età da marito, ma a lui non piaceva riconoscerlo con se stesso. (Perché?, si domandò fugacemente).
Quando raggiunse la piattaforma, la vide in stato di riposo sui piedi e sulle ali, con l’uhoth sul polso destro e la mano sinistra che lo accarezzava. Morgana, quasi piena, si stagliava di un bianco abbagliante contro la sierra orientale, facendo risplendere le piume di Eyath. La sua cresta si profilava contro la Via Lattea. Malgrado la luna, le costellazioni brillavano nell’aria montana, la Ruota, le Spade, Zirraukh, la Nave che si allargava immensa…
Le si sedette a fianco, stringendosi le ginocchia fra le braccia. Lei emise il piccolo ululato che esprimeva la sua contentezza per la presenza del giovane, il quale le rispose meglio che poté. Sopra la curva armoniosa del musetto di lei, scintillavano i grandi occhi.
Tutto d’un tratto ella s’interruppe. Lui seguì il suo sguardo e vide una nuova stella che roteava nel cielo. «Un satellite di controllo?», domandò lei, in un tono che all’ultimo si fece esitante.
«E che altro?», rispose Arinnian. «Penso che sia l’ultimo messo in orbita».
«Quanti ce ne sono, adesso?».
«Non lo dicono», le ricordò lui. Gli Ythrani si trovavano sempre in difficoltà nel comprendere il concetto di segreto di stato. E lo stesso concetto di stato in senso umano, a dire il vero. I Governatori Ferune e Holm avevano speso più energie nel cercare di far collaborare i gruppi che nell’organizzare una reale difesa. «Mio padre non pensa che possiamo averne molti».
«Tutti quei soldi sprecati…».
«Beh, se vengono i Terrestri…».
«Ti aspetti che lo facciano?».
L’angoscia che sentì nella sua domanda lo spinse ad accarezzarla dolcemente sul collo con la mano e poi a far scorrere le dita lungo la sua cresta. Le sue penne erano calde, morbide, eppure dalla trama incredibilmente fitta. «Non lo so», rispose. «Forse possono risolvere pacificamente la questione dei confini. Speriamo». L’ultima parola fu necessariamente in Anglico invece che in Planha. Gli Ythrani non contavano mai sul futuro. Anche lei era bilingue, come ogni colono istruito.
Lo sguardo di lui tornò a dirigersi verso il cielo. Il Sole si trovava… laggiù nel Maukh, più o meno dove quattro stelle formavano i corni… quanto lontano? Ah, sì, duecentocinque anni luce. Si ricordò di aver letto che, da lì, Quetlan e Laura si trovavano in una costellazione chiamata il Lupo. Nessuno dei tre soli era visibile ad occhio nudo attraverso un tale abisso. Erano delle semplici nane di tipo G; ed era successo per caso che intorno a esse girassero dei granelli di polvere che si erano evoluti fino a dar vita alle varie combinazioni chiamate Terra, Ythri, Avalon, i mondi amati.
«Lupo», disse lui in tono riflessivo. «È un’ironia».
Eyath fischiettò: «?».
Arinnian spiegò: «II lupo è, o era, un animale da preda, sulla Terra. E rispetto a noi, il Sole si trova nel segno di un grosso animale domestico da pascolo. Ma chi è che attacca, e chi è che è attaccato?».
«Non ho seguito molto gli ultimi sviluppi della situazione», disse lei, a voce bassa e non troppo ferma. «Sembrava tutto così confuso, per me e per i miei. Che bisogno avevamo di preoccuparci se gli altri si scontravano? Pòi, tutto d’un tratto… possiamo essere stati noi ad aver causato parte dei problemi, Arinnian? Può darsi che alcuni di noi siano stati troppo imprudenti, troppo rigidi?».
Quello stato d’animo era così poco caratteristico non solo del temperamento Ythrano in generale ma proprio del modo di fare di lei, abitualmente allegro, che lui scosse la testa per lo stupore. «Che cosa ti ha reso cosi ansiosa?», le domandò.
Le sue labbra sfiorarono l’uhoth, quasi in cerca di un conforto che lui pensava di poterle dare meglio. Il becco dell’uhoth le allisciò le penne. Arinnian udì appena la sua risposta: «Vodan».
«Cosa? Oh! sei fidanzata con Vodan?».
La sua voce si era incrinata. Perché sei turbato?, si domandò. Lui è un tipo in gamba, ed è anche del suo stesso gruppo; nessun problema di leggi e costumi diversi, divergenze culturali, nostalgia di casa… Lo sguardo di Arinnian abbracciò la terra di Stormgate. Al di sopra di valli dai fianchi scoscesi, oscure e fragranti di boschi, si ergevano i picchi innevati. Più vicino, il fianco di una montagna sul quale una cascata si stagliava nella luce lunare come una colonna. Un trombettiere che volava nella notte suonò la sua insistente nota, trafiggendo il silenzio. Sulle Pianure degli Ampi Spazi, nelle paludi artiche, a mezza strada intorno al pianeta su una bruciante savana del New Gaiila, tra le innumerevoli isole che formavano gran parte delle brulle terre di Avalon… come poteva lei rinunciare alla terra della sua gente?
No, un momento, sto pensando come un umano. Gli Ythrani si spostano di più. La stessa madre di Eyath viene dal bacino del Sagittario, e spesso vi torna in visita… Perché non dovrei pensare come un umano? Lo sono. Ho trovato la saggezza, la rettitudine, una sorta di felicità secondo certi modi Ythrani; ma non ha senso pretendere di essere un Ythrano, di sposare una creatura alata e abitare in un nostro nido.
Lei stava dicendo: «Beh, no, non esattamente. Compagno di vento, tu credi che non ti avrei detto del mio fidanzamento o che non ti avrei invitato al mio banchetto nuziale? Ma lui è una… persona alla quale mi sono molto affezionata. Sai che ho deciso di rimanere sola finché non avrò terminato gli studi». Lei ambiva al difficile, onorato titolo di musicista. «Recentemente… beh, ci ho pensato parecchio durante il mio ultimo periodo d’amore. Sono stata calda come non mai, ed ho continuato a pensare a Vodan».
Arinnian si sentì arrossire. Fissò il lontano bagliore di un ghiacciaio. Non avrebbe dovuto dirgli cose del genere, non era decoroso. Una femmina Ythrana non sposata, o una il cui marito fosse assente, doveva restarsene isolata dai maschi quando giungeva il suo periodo di calore; e si pensava anche che dovesse spendere l’energia prodotta in lavoro, o studio, o meditazione, o…
Eyath avvertì il suo imbarazzo. La sua risata gorgogliò, mentre gli posava una mano sulla sua. Le dita affusolate, le unghie aguzze lo strinsero dolcemente. «E allora, direi proprio che sei sconvolto! Perché?».
«Non parleresti così a… tuo padre, o a un fratello…». E non dovresti sentirti così. Calore o no. Triste, forse; languida, sì; ma non come una qualsiasi prostituta accaldata, nel letto di una stanza d’albergo di infimo ordine. Non tu, Eyath.
«È vero, sarebbe sconveniente parlarne a Stormgate. Mi sono chiesta se non avrei dovuto imparentarmi con un gruppo meno rigido. Però, Vodan… In ogni modo, Arinnian, caro, io posso dirti tutto, no?».
«Sì». Dopo tutto, io non sono un vero Ythrano.
«Ne abbiamo discusso dopo, lui ed io», continuò Eyath. «Del matrimonio, intendo. C’è poco da negarlo, in questo momento dei figli sarebbero un grosso problema. Ma voliamo bene insieme, e i nostri genitori incoraggiano la cosa da parecchio, perché sarebbe un’ottima alleanza fra le due case. Ci siamo domandati se, magari, restando separati per i primissimi anni…».
«E questa non è una buona soluzione, vero?», disse lui mentre la voce di Eyath moriva, ed il sangue gli pulsava nelle orecchie. «Voglio dire, i rapporti sessuali continuati possono non essere il modo migliore, per gli Ythrani, di rinforzare i legami della coppia, ma questo non vuol dire che il sesso non abbia importanza. Se ad ogni periodo d’amore vi separate, tu qui, tu lì, beh, vi rifiutate l’un l’altra, no? E perché non… la contraccezione?».
«No».
Lui sapeva perché quella razza, nella maggioranza dei casi, respingeva tale pratica. Erano i figli — il forte istinto paterno e materno dei coniugi — a tenerli insieme. Se delle piccole ali vi si richiudevano intorno e una testolina vi si strisciava addosso per tutto il corpo, le inevitabili tensioni e frustrazioni del matrimonio venivano dimenticate, come succederebbe ad un umano che si fosse appena felicemente accoppiato.
«Potremmo rimandare tutto a quando avrò finito i miei studi ed i suoi impegni avranno preso il volo», disse Eyath. Arinnian si ricordò che Vodan, insieme a diversi giovani dei gruppi di Stormgate, Grandi Terme e dei Laghi, aveva formato una società di ingegneria selvicolturale. «Ma se ci sarà la guerra… lui è nella riserva navale…». Il braccio libero di lei gli si posò sulla spalla, in un gesto istintivo. Lui spostò il suo peso su un gomito in modo da poter infilare le braccia sotto le ali e stringere il suo corpo rigido. E le disse all’orecchio, all’orecchio di colei che era sua sorella fin dai tempi della fanciullezza, tutte le parole di conforto di cui era capace.
Al mattino si sentirono più allegri. Non era nella natura Ythrana far posto alle cose tristi — nemmeno come sciocco gioco di parole, dal momento che generavano esseri pieni di vita — e gli uccelli-umani avevano cercato di perdere questa cattiva abitudine. Oggi, a parte pochi dipendenti incaricati delle faccende domestiche, la famiglia di Lythran sarebbe volata verso la montagna dove si teneva il Khruath regionale. Lungo la strada si sarebbero aggregate le altre famìglie di Stormgate; all’arrivo, avrebbero trovato gli altri gruppi al completo. Per quanto fosse triste l’occasione di quel particolare raduno, un po’ del colore, dell’eccitazione, delle beghe private e del divertimento che pervadeva le regolari assemblee non sarebbe mancato.
E l’alba era chiara, e soffiava un buon vento di coda.
Una tromba chiamò all’appello. Lythran scattò dalla cima della sua torre. Tutti i presenti sollevarono le ali mentre le feritoie ramificate subalari si spalancavano, imporporate dal sangue dei tessuti che si imbevevano di ossigeno. Le ali si riabbassarono, poi si sollevarono di nuovo; gli Ythrani si alzarono rombando dal suolo, colsero una corrente ascensionale, e si misero in formazione. Quindi volarono verso oriente al di sopra delle rupi.
Arinnian pilotò per portarsi a fianco di Eyath, la quale gli scoccò un sorriso e prese a cantare. Aveva una bellissima voce — poteva quasi definirsi un soprano — che riusciva a trasformare i toni acuti e gutturali del Planha in una melodia ben ritmata. Quello che affidava al vento era un canto tradizionale, ma era dedicato ad Arinnian perché era stato lui a tradurlo in Anglico; e lui si era sempre reso conto che i suoi equilibrismi linguistici non erano riusciti a rendere né il fascino né l’immagine della canzone.
«La luce che sgorga da un sole ancor nascosto
saluta il cacciatore nel suo volo,
lava le sue ali nel liquido mattino,
e le stelle ricaccia dietro il polo.
Nel cielo vuoto echeggia il tocco azzurro
del vento già spuntato repentino.
Ampi riposano i prati e le foreste
giù in basso, verdi come cristallo.
Ma… guarda, oh, guarda,
è spuntato un raggio rosso
tra la nebbia a brandelli.
Un cervo dalle grandi corna
baciato a tradimento.
Si piegano gli artigli.
«Rapito dal tumulto del vento sussurrante,
che geme, e piange, e turbina, ed impazza;
lungo un obliquo flusso di corrente.
Ah, ma ecco già che è l’ora della caccia!
Leggero sulle penne, la preda tremolante
dal cielo assalti, sull’ala dell’ebbrezza…
Un colpo d’ala con vento compiacente,
e il coltello rigido s’abbassa.
Il cervo s’è fermato,
è lì che prende fiato,
prima di correr via
dalla morte urlante.
Colpisce il maglio.
Si chiudono gli artigli.
«Ampio e lucente s’appressa il mezzogiorno,
che invita al sognante sonnecchiare;
ad occhi chiusi, all’ombra siedi,
sazio, ma è già ora di tornare.
Gelido come il bacio di uno spettro,
poi burrascoso il vento odi levare,
mentre la pioggia scroscia, ed il suo canto
tra le foglie sciaborda come il mare.
In mezzo agli alberi
i rami urlano
e piangono, e tra loro
sembrano lacerarsi.
È l’ora del ritorno.
Si allentano gli artigli.
«Impauriti gli arbusti fan baccano.
Sordo risuona il rombo d’ogni tuono.
Grandine e lampo s’inseguon da lontano,
cresce della tempesta forte il suono.
Cieco nel buio d’un cielo meridiano
cerchi la strada, ma l’impresa è dura,
poi trovi il sole dopo l’uragano
e il cielo sacro ti sorride ancora.
Il bagliore dorato
ti accarezza
attraverso il blu
dell’immensità
di quel cielo.
Si riposano gli artigli».