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Lentamente i volumi di spazio in cui veniva combattuta la guerra si contrassero e si avvicinarono fra loro. I vascelli non vennero più schierati in formazione. Oltre ad essere difficili da mantenere, le formazioni strette e rigide avrebbero provocato uno sbarramento nucleare. Al massimo, una squadra di imbarcazioni minori poteva muoversi per breve tempo in scaglione libero. Se due unità maggiori di una flottiglia venivano a trovarsi a meno di cento chilometri, si consideravano vicine. Comunque, il tempo di ritardo nelle comunicazioni tendeva verso lo zero, l’attendibilità delle rilevazioni cresceva a vista d’occhio, e gli scontri mortali divenivano sempre più frequenti.

Divenne possibile individuare abbastanza bene cosa avesse in programma l’avversario e dove intendesse realizzarlo. Divenne possibile progettare e condurre una campagna.

In un nastro inviato a Saracoglu, Cajal riferiva: «Se ogni sistema Ythrano fosse resistente come Laura, ci vorrebbe l’intera Marina Imperiale per sconfiggerli. Qui essi possiedono, o possedevano, più o meno la metà degli scafi che possiedo io… il che significa un sesto del numero che noi ritenevamo adeguato per affrontare l’intero Dominio. Naturalmente, ciò non vuol dire che la loro forza effettiva sia in proporzione. Secondo il nostro punto di vista, sono deboli nella flotta pesante. Ma i loro distruttori, ancor più le loro corvette e i loro lanciasiluri, ammontano ad un totale sorprendente. Sono davvero contento che nessun altro sole nemico, a parte lo stesso Quetlan, sia lontanamente paragonabile con Laura! Nondimeno stiamo facendo dei progressi soddisfacenti. In parole povere — un rapporto tecnico ti sarà consegnato a parte — possiamo dire che circa la metà di quanto rimane delle loro forze sta ripiegando su Avalon. Abbiamo intenzione di seguirli fin là, sbarazzarci di loro, ed avere così il pianeta alla nostra mercé.

«Il resto della loro flotta si sta disimpegnando, pezzo per pezzo, e si sta ritirando verso lo spazio aperto. Senza dubbio hanno intenzione di sparpagliarsi per tutti i pianeti, le lune e gli asteroidi inabitabili del sistema, dove devono avere delle basi, e di là condurre una specie di guerriglia. Ciò potrebbe dare più fastidi che preoccupazioni, ma una volta che noi avremo occupato il pianeta, il loro governo li richiamerà. Probabilmente i vascelli più grandi, forniti di iperdrive, cercheranno di andare a portare rinforzi in qualche altro settore, e anche questo non ci preoccupa eccessivamente.

«Non sto sottovalutando questo popolo. Combattono con abilità e con tenacia. Con ogni probabilità si serviranno delle difese del pianeta in accordo con le navi che sono dirette verso la madrepatria. Spero che Dio, per il loro bene più che per il nostro, per il bene delle femmine e dei piccoli innocenti di entrambe le razze, faccia ragionare i loro governanti e li faccia arrendere prima che li colpiamo troppo duramente».


Il mezzo disco di Avalon risplendeva di un color zaffiro orlato d’argento, piccolo e amabile in mezzo alle stelle. Dal lato oscuro stava sorgendo Morgana. Ferune ricordò i voli notturni con Wharr sotto quella luna, e mormorò: «O luna del mio diletto che non conosci declino…».

«Eh?», disse la faccia di Daniel Holm nello schermo.

«Niente. Stavo vagando con la mente». Ferune respirò profondamente. «Abbiamo poco tempo. Stanno arrivando a tutta velocità. Voglio essere certo che tu non abbia trovato nessuna seria obiezione al piano di battaglia che è stato preparato».

Il raggio laser impiegava qualche secondo per guizzare dalla nave ammiraglia al quartier generale. Ferune tornò ai suoi ricordi.

«Dannazione, sì!», brontolò Holm. «Te l’ho già detto. Hai portato la Hell Rock troppo sotto. Così è un ottimo bersaglio».

«Ed io ti ho detto», replicò Ferune, «che non abbiamo più bisogno della sua capacità di comando». Vorrei che l’avessimo, ma le nostre perdite sono state troppo dure. «Abbiamo bisogno della potenza del suo fuoco e, sì, anche del fatto che può costituire un’attrazione per il nemico. Ecco perché non ho mai pensato di portarla verso Quetlan. Lì sarebbe soltanto un’unità in più, qui è il punto chiave della nostra formazione. Se le cose vanno bene, sopravviverà. So che il piano non è perfetto, ma era il migliore che i miei collaboratori, i computer ed io stesso siamo riusciti a progettare in un lasso di tempo che già in anticipo si sapeva essere tanto breve. Metterlo in discussione o modificarlo a questo punto significa causare un disastro».

Silenzio. Morgana continuava a salire da Avalon, man mano che la nave si muoveva.

«Beh…». Holm si accasciò. Era calato di peso a tal punto che i suoi zigomi sporgevano come le dune di un deserto montano. «Suppongo che sia così».

«Zio, un rapporto di contatti iniziali», disse l’aiutante di Ferune.

«Di già?». Il Primo Governatore di Avalon si voltò verso lo schermo. «Hai sentito, Daniel Holm? Che i venti ti siano sempre favorevoli». Interruppe la comunicazione prima che l’uomo potesse rispondere. «Ora», disse all’aiutante, «voglio un nuovo calcolo dell’orbita ottimale per questa nave. Progettami i migliori movimenti dei terrestri… dal loro punto di vista, alla luce delle informazioni che abbiamo… e modifica i nostri di conseguenza».


Lo spazio avvampava di fuochi d’artificio. Non tutte le esplosioni, e nemmeno la gran parte di esse, significavano un centro; ma si stavano intensificando.

La Three Stars schizzò via dal suo incrociatore. Subito i rilevatori segnalarono un oggetto. In pochi secondi seguì l’analisi… una meteora terrestre, suscettibile di intercettamento, e niente compagni nelle vicinanze. «Selvaggina!», gridò Vodan. «Cinque minuti alla portata di tiro».

Un urlo attraversò lo scafo. Due settimane e più di esercitazioni, ingabbiati nel metallo tranne che durante le rare, brevi ore in cui la flottiglia si lanciava in combattimento, erano state un fardello ben duro da sopportare.

Il suo nuovo vettore puntava direttamente su Avalon. Il pianeta cresceva; e lui stava volando verso Eyath. Non aveva alcun dubbio sulla vittoria: la Three Stars era ben addestrata alla caccia. Aveva dimensioni maggiori della sua controparte terrestre — a causa delle esigenze Ythrane di spazio — e quindi godeva di un’accelerazione un poco inferiore. Ma proprio per ciò la sua potenza di fuoco poteva essere aumentata, come infatti era stata.

Vodan sporse i piedi dal trespolo e rimase così in equilibrio precario nella sua bardatura. Allargò le ali e le batté lentamente, pompando ossigeno nel sangue, con il corpo traboccante energia e pronto all’azione. Quel corpo fremeva e cantava. Udì provenire da poppa un rumore frusciante: i quattro membri dell’equipaggio stavano facendo la stessa cosa. Le stelle brillavano sopra e intorno a lui.


Tre raffigurazioni occupavano l’ufficio e, ora, anche la mente di Daniel Holm. Una mappa di Avalon indicava le installazioni al suolo. In gran parte erano mimetizzate, e sperava (se fosse stato credente avrebbe pregato) ignote al nemico. Intorno ad un mappamondo olografico puntolini variegati roteavano in molteplici orbite. Molte stazioni erano state collocate pochi giorni prima, dopo essere state trasportate alle postazioni di lancio da fabbriche sotterranee automatizzate anch’esse segrete. Infine un pannello indicatore mostrava gli spostamenti delle navi all’esterno.

Holm aveva voglia di un sigaro, ma la sua bocca si era troppo inaridita, a furia di fumare, negli ultimi tempi. Vecchio mio, come ci starebbe bene un bicchierino! pensò. Ma non era possibile; le sole droghe consentite erano quelle che lo tenevano sveglio senza richiedere un prezzo metabolico troppo alto.

Fissò il pannello. Già. Sono proprio ansiosi di inchiodare la nostra ammiraglia. Stanno dirigendo sul serio contro di lei.

Guardò verso la finestra. Mentre Gray era ancora avvolta dalle ombre, la prima luce dell’alba sfiorava le case e faceva scintillare le acque. In alto, il cielo era una volta purpurea, e le stelle erano oscurate dagli schermi negagrav. Dovevano continuare a cambiare lo schema, per garantire un’adeguata protezione mentre consentivano la circolazione dell’aria. Ciò sollevava un vento freddo ed umido. Ma nel complesso il panorama aveva un aspetto sereno. Le tempeste erano al di là del cielo, e nelle pieghe della carne.

Holm era solo, più di quanto non lo fosse mai stato nella sua vita, benché le forze di un intero mondo aspettassero un suo ordine. Sarebbe toccato per forza a lui: i computer potevano semplicemente dare l’avviso. Si sentiva, immaginò, come un fante pronto a caricare.

«Là!», gridò Rochefort.

Vide sullo schermo visore un punto di luce in movimento portato al massimo dell’ingrandimento. E mentre lo guardava, quello cresceva, un ago, un fuso, un giocattolo, uno snello caccia dal muso aguzzo sulla cui fiancata risplendevano tre stelle dorate.

I vettori erano quasi identici. Le lance si avvicinavano lentamente, pur continuando a precipitare verso il pianeta. Strano, pensò Rochefort, come Ansa sia riuscita ad avvicinarsi senza incontrare alcuna opposizione. Vogliono offrire solo una resistenza simbolica? Sarebbe orribile uccidere qualcuno in queste condizioni. Avalon era di una bellezza assoluta. Lui si stava avvicinando in modo tale che sulla sua sinistra il grande disco rivelava la piena luce del giorno — azzurro, turchese, indaco, un migliaio di blu differenti sotto la ricurva purezza delle nuvole, una massa di terra con bagliori verdi, marroni e fulvi. Sulla sua destra c’era l’oscurità, ma la luce lunare aveva uno scintillio misterioso sugli oceani e sulle nubi.

Wa Chaou fece partire un razzo illuminato. Nessun risultato. La portata di tiro era al minimo, e non sarebbe rimasta tale per molto. Adesso Rochefort non aveva alcun bisogno di ingrandimenti per scorgere lo scafo nemico. Sugli schermi era stato fino ad ora un luccichio. Ma adesso scivolava attraverso lo sfondo stellato, ed era più solido dei globi di fuoco che scoppiettavano tutt’intorno.


Lo spazio avvampava per un migliaio di chilometri attorno allo sferoide gigante che era la Hell Rock. Ma quella non tentava di sfuggire; data la sua massa, sarebbe stato inutile. Orbitava intorno al suo mondo. Le navi nemiche si precipitavano, sparavano, la sfioravano e poi manovravano in modo da tornare indietro. Erano molte, ed essa era una sola, fatta eccezione per uno sciame di Meteore e Comete d’appoggio. La potenza del suo fuoco, tuttavia, era impressionante; ed ancora maggiori erano le sue capacità strumentali e l’efficienza dei suoi computer. Non era stata danneggiata. Quando una sezione dello schermo doveva essere disattivata per lanciare un carico di missili, le armi ad energia ausiliaria intercettavano qualunque cosa dirigesse verso un punto vulnerabile.

I raggi avevano raggiunto il bersaglio. Ma nessuno di essi poteva essere mantenuto fisso per il tempo necessario a perforare quelle robuste piastre. Bombe il cui frutto erano radiazioni letali esplodevano ai limiti del suo raggio difensivo. Ma i neutroni ed i quanti gamma venivano assorbiti dai successivi strati delle schermature interne. Quelli che riuscivano ad arrivare, facendosi strada fino alle sezioni interne più profonde, dove ferveva l’attività delle creature viventi, erano così pochi che bastava una semplice medicazione per annullarne gli effetti.

Era stata costruita nello spazio e non avrebbe mai toccato il suolo. Planetoide con pieno diritto, spazzava via, una dopo l’altra, tutte le navi che osavano venirle incontro.

La Supernova di Cajal era più forte. Ma non si doveva rischiare la Valenderay. Tutto lo scopo di quell’armamento e quella protezione era proteggere il comando della Flotta. Quando l’ammiraglio ricevette la notizia, studiò il pannello indicatore. «Stiamo perdendo gli scafi più leggeri. Quella se li divora», disse, soprattutto a se stesso. «Non vorrei dover impiegare i vascelli più importanti. Pare che il nemico abbia molta più efficienza difensiva di quanto non ci aspettassimo, e sicuramente aprirà ben presto il fuoco su di noi. Ma, ad una distanza così ridotta, la velocità e la manovrabilità non contano come dovrebbero. Ci serve la pura forza per eliminare quel mostro; e dobbiamo farlo prima di poter costituire una seria minaccia per il pianeta». Si tirò la barba. «Così… tutti insieme, Perseo, Ursa Minor, Regulus, Jupiter e gli ausiliari dovrebbero essere in grado di svolgere il lavoro… Abbastanza rapidamente e a una distanza di sicurezza, in modo da potersi difendersi da eventuali attacchi del pianeta».

I computer tattici ratificarono ed elaborarono la sua decisione. Lui trasmise gli ordini.


Vodan vide un siluro che gli passava vicino. «Ehilà, bene!», esclamò. Se avesse applicato solo poche megadine in meno di forza decelerativa la testata avrebbe fatto centro. Il missile frenò e virò di bordo, ma uno dei suoi cannonnieri lo distrasse.

La lancia terrestre fluttuava più avanti, spostata sulla sinistra, e più bassa. Gli strumenti di Vodan riferirono che essa esercitava una spinta più laterale che anteriore. Il pilota doveva avere l’intenzione di tagliare a prora dell’Ythrano, qualche chilometro più avanti, lanciare una manciata di polvere anti-radar, e sperare che il fuoco concentrato dei suoi cannoni a raggi penetrasse prima che l’altro potesse averlo a tiro. Poiché gli Ythrani, a differenza dei Terrestri, non combattevano indossando tute spaziali (come si faceva a non impazzire dopo solo qualche ora dentro quelle cose orribili e soffocanti?) un grosso foro nel compartimento li avrebbe liquidati.

Quel figlio di puttana era in gamba, riconobbe allegramente Vodan. Per quanto i duelli spaziali fossero goffi e pesanti, stavolta gli sembrava di essere nell’aria e volare. La contesa continuò fin quando Avalon si stagliò enorme nell’arco degli schermi visori. In effetti si erano avvicinati all’atmosfera più di quanto fosse prudente a quella velocità. Era meglio chiuderla lì.

Vodan intuì il modo.

Proseguì rallentando a ritmo uniforme, come se intendesse poi deviare all’esterno. Il terrestre avrebbe seguito questo ragionamento: Lui ha capito che cosa ho in mente. Quando blocco il suo radar, quello fugge in una direzione imprevedibile. Ah, ma non siamo in iperdrive. Non può muoversi alla velocità dei raggi d’energia, mentre io posso coprire l’intera gamma delle sue possibili posizioni istantanee.

Per far quello, comunque, la piattaforma di tiro aveva bisogno di un vettore costante. Altrimenti le equazioni avrebbero presentato troppe incognite e il bersaglio avrebbe avuto ottime possibilità di fuga. Per una frazione di minuto, se Vodan aveva visto giusto, la Meteora avrebbe fatto a meno del vantaggio di una superiore mobilità. E… lui aveva armi superiori.

Il terrestre si aspettava un siluro e immaginava di poterlo eliminare senza difficoltà. Ma probabilmente non si rendeva conto di quale concentrazione di energia avrebbe potuto scaricargli addosso il suo avversario in un breve attimo, quando tutti i proiettori fossero stati attivati in sovraccarico.

Vodan fece i suoi calcoli. I cannonieri fecero i preparativi.

La Meteora passò, in avanti, simile ad uno gnomo contro la lucentezza di Avalon. Un velo improvviso e scintillante spuntò fuori da essa, allargandosi a velocità esplosiva fino a formare una cortina. E nascose le due navi l’una all’altra.

Attraverso la nebbia spuntarono i raggi in cerca di un bersaglio. Vodan sapeva esattamente dove puntare i suoi: infierirono per trenta secondi.

La polvere metallica si disperse, e nuovamente tornò a brillare Avalon, enorme e tranquillo. Vodan cessò il fuoco prima di bruciare i suoi proiettori. Dalla Meteora, nessun segno di vita. Si servì dell’ingrandimento, e vide il foro che si era spalancato a poppa, vicino ai coni di guida. L’aria ne sgorgava fuori, condensandosi in acqua come uno spettro per poi svanire nel vuoto. L’accelerazione era cessata del tutto.

Vodan fu preso da una gioia improvvisa. «L’abbiamo colpito!», gridò.

«Potrebbe lanciare tutti insieme i suoi siluri», si preoccupò l’ingegnere.

«No. Venga a vedere lei stesso, se lo desidera. L’impianto energetico ha subito un duro colpo. Non gli è rimasto nulla se non il banco condensatore. Se pure può servirsene con piena efficienza, del che dubito, non riuscirà ugualmente a fornire ad alcun oggetto una velocità iniziale sufficiente a preoccuparci».

«Kh’hng. Lo finiamo?».

«Vediamo se si arrende. Banda media… Chiamo la Meteora Imperiale. Chiamo la Meteora Imperiale».

Un altro trofeo per te, Eyath!


La Hell Rock rabbrividiva e vibrava. All’interno rimbombavano i rumori. L’aria era piena di fumo acre, risuonava di urla e di ordini dati ad alta voce, di trapestii e di battiti d’ali. Un compartimento dopo l’altro cedeva e si apriva allo spazio. Le paratie calavano giù per separare il metallo contorto ed i corpi dilaniati da quelli che ancora sopravvivevano.

Combatteva. Poteva ancora combattere con ciò che rimaneva dei suoi automatismi anche dopo che l’ultimo membro dell’equipaggio, del quale stava proteggendo la ritirata, se ne fosse andato.

C’era Ferune, il suo personale più stretto, e pochi rappresentanti di Mistwood, ai quali era stato concesso il diritto di restare con il proprio Wyvan. Costoro si facevano strada lungo corridoi echeggianti di urla e di paura. Qua e là c’erano delle sezioni oscure, dove i fluoropannelli e i rivestimenti erano stati divelti dalla robusta struttura.

«Quanto ci vorrà prima che la facciano a pezzi?», domandò uno che si trovava alle spalle di Ferune.

«Un’ora, forse», congetturò lui. «Chi l’ha costruita ha fatto un bel lavoro. Naturalmente Avalon attaccherà prima di quel momento».

«Quando?».

«Lo giudicherà Daniel Holm».

Si ammassarono nella scialuppa di salvataggio. Ferune si mise ai comandi. Il battello si sollevò facendo leva sui campi interni; le valvole spinsero lateralmente con forza, ed esso emerse alla luce delle stelle e diressero verso casa.

Ferune diede un’occhiata indietro. La nave ammiraglia era frastagliata, raggrinzita, piena di fori. In alcuni punti il metallo si era liquefatto per poi coagularsi in forme orrende, in altri punti brillava ancora. Se fossero riusciti a concentrare il bombardamento in quei punti in cui le difese non erano più funzionanti, una testata o due di megatoni sarebbero bastate a ridurre la nave in gas e cenere. Ma la probabilità di un colpo così preciso a media distanza di tiro era troppo esigua per rischiare un supermissile contro le rimanenti capacità di intercettazione. Meglio tenersi a distanza e finirla con raffiche minori.

«Viaggia felice nei venti», bisbigliò Ferune. In quel momento aveva messo da parte la sua nuova condizione, la sua condizione di alieno, ed apparteneva ad Ythri, Mistwood, Wharr, ai suoi antenati e ai suoi figli.

Avalon attaccò. La scialuppa vorticò. Sottoposti ad un intollerabile carico di luce, gli schermi visori si oscurarono. Subito dopo andò via l’illuminazione. I volatori si rannicchiarono, si ammassarono insieme, per proteggersi dal rumore, dal calore e dall’oscurità.

Passò. La scialuppa non aveva subito seri danni. Si inserirono automaticamente i circuiti di riserva, e gli occupanti poterono tornare a vedere, dentro e fuori. Verso poppa la Hell Rock si stagliava contro la lucentezza livida e decrescente di un globo di fuoco che copriva quasi metà del cielo.

Uno degli occupanti ansimò: «Quanti… megatoni?».

«Non lo so», rispose Ferune. «Presumibilmente abbastanza da far fuori quegli Imperiali che ci siamo tirati addosso».

«È un miracolo che ne siamo venuti fuori», disse il suo aiutante. Aveva tutte le penne erette, e tremava.

«I gas si sono diffusi per chilometri», gli ricordò Ferune. «Qui non abbiamo generatori di campo protettivo, è vero, ma quando il fronte ci ha raggiunto, nemmeno una velocità equivalente a parecchi milioni di gradi avrebbe potuto aumentare di molto la nostra temperatura».

Il silenzio cadde come una cappa, mentre detonazioni minori scintillavano e svanivano in distanza, e continuavano a saettare i raggi d’energia. Gli occhi si cercarono. I cervelli dietro di essi erano perfettamente addestrati.

Lo disse Ferune per loro. «Radiazione ionizzante, primaria e secondaria. Non posso precisare l’entità della dose che ci ha colpito; il misuratore è andato fuori scala. Ma almeno possiamo tornare a raccontarlo».

Si dedicò alla guida. Wharr lo stava aspettando.


Rochefort andava a tastoni lungo lo scafo della Hooting Star. I generatori di gravità interna erano partiti; in caduta libera, essi erano adesso senza peso. E senz’aria, al di fuori della tuta protettiva. All’interno il silenzio era opprimente, tanto che lui poteva udire battere il suo cuore all’impazzata. Gocce di sudore gli scivolavano dalla fronte sul naso e sulle guance, danzando tra gli occhi e la visiera, afferrando la luce in bagliori oleosi. Quella luce pioveva bizzarramente attraverso il vuoto, non diffusa, piena di ombre nette.

«Occhio di Lince!», gracchiò alla radio. «Occhio di Lince, ci sei?».

«Ho paura di no», rispose la voce di Helu nella sua cuffia, dalla sala motori.

Rochefort trovò il piccolo corpo che galleggiava dietro un pannello mezzo staccato dagli ormeggi. Lo stesso raggio aveva trafitto la tuta e la carne, ed era riuscito poi dall’altra parte della tuta, cauterizzando la ferita in modo che solo qualche goccia di sangue galleggiava ancora. «Wa Chaou è morto?», domandò Helu.

«Sì». Rochefort si strinse al petto il Cinziano cercando di non piangere.

«È rimasto alcun controllo di tiro?».

«No».

«Beh, credo di poter tirar fuori dal condensatore l’energia per far funzionare le unità guida. Non possiamo sfuggire al pianeta, ma può darsi che riusciamo ad atterrare senza disintegrarci nel tragitto. Ci vorrà una manovra da manuale. È meglio che torni al suo posto, capitano».

Rochefort aprì l’elmetto per chiudere quegli occhi gonfi e sporgenti, ma le palpebre non ne vollero sapere. Assicurò il corpo all’ansa di un filo sciolto e tornò alla sua bardatura nel sedile di guida.

La luce di avviso stava ammiccando. Meccanicamente, consapevole solo del dolore, inserì una presa nell’unità della tuta e premette il pulsante di Ricevuto.

Una voce in Anglico, dal forte accento, contemporaneamente gutturale e squillante: «… Meteora Imperiale. Siete vivi? È una nave di Avalon, che parla. Fatevi riconoscere o spariamo».

«Ric… ric…». Prima che il fastidio alla gola si trasformasse in un singhiozzo, Rochefort disse: «Sì, qui è il capitano».

«Vi prenderemo a bordo, se volete».

Rochefort si afferrò al sedile, con le gambe che penzolavano verso poppa. Aveva le orecchie che ronzavano e crepitavano.

«Ythri si adegua alle convenzioni di guerra», disse la voce non umana. «Lei sarà interrogato ma non maltrattato. Se si rifiuta, dovremo prendere la precauzione di eliminarla».

Kh-h-h-h… m-m-m-m…

«Risponda subito! Siamo già troppo vicini ad Avalon. Il pericolo di trovarsi in mezzo al fuoco incrociato aumenta di minuto in minuto».

«Va bene», si sentì dire Rochefort. «Naturalmente. Ci arrendiamo».

«Bene. Noto che lei non ha rimesso in funzione i motori. Non lo faccia. Stiamo pareggiando la velocità. Legatevi e saltate nello spazio. Noi vi getteremo un raggio trattore e vi tireremo su al più presto possibile. Capito? Ripeta».

Rochefort ripeté.

«Avete combattuto bene», disse l’Ythrano. «Avete rivelato coraggio ed orgoglio. Sarò onorato di darvi il benvenuto a bordo». Poi silenzio.

Rochefort chiamò Helu. Gli uomini legarono le estremità di un cavo intorno alla loro vita, infransero il dispositivo di bloccaggio e si prepararono a lanciarsi in caduta libera. A qualche chilometro di distanza videro il vascello che sfoggiava le tre stelle giungere come un’aquila.

I cieli esplosero di splendore.

Quando il bagliore rosso e frastagliato fu scomparso dai loro occhi, Helu ridacchiò: «Ullah akbar, Ullah akbar… Eliminati. Cos’è stato?».

«Un centro pieno», rispose Rochefort. Lo shock aveva cominciato a dissolvere il suo stordimento. Sentì che le forze gli tornavano con prepotenza. La sua mente si illuminò, rapida come quei lampi di guerra in lontananza, ma fredda ed efficiente. «Sapevano che eravamo indifesi, e non avevamo compagni nei paraggi. Ma nonostante un’osservazione fatta dal capitano, devono aver dimenticato di guardarsi dai loro compagni. Le armi di stanza sul pianeta hanno cominciato a far fuoco. Immagino che i missili siano forniti di un bel po’ di siluri con ricerca automatica. I nostri motori erano spenti. I loro no. Un siluro ha puntato diritto contro le emissioni dei motori».

«Ma come, non c’erano circuiti di ricognizione?».

«Evidentemente no. Per scalpitare in quel modo, gli Avaloniani devono aver sacrificato la qualità per la quantità, fidando solo sul fatto che conoscevano la disposizione delle unità. Non era ragionevole aspettarsi un siluro così vicino; il combattimento è più in là. Direi che quel siluro era destinato a qualche particolare concentrazione di navi dell’Impero, ma per loro sfortuna gli è successo di passare da queste parti».

«Um». Erano sospesi tra l’oscurità e il luccichio, ansimando. «Abbiamo perso il passaggio», disse Helu.

«Allora dovremo cavarcela da soli», replicò Rochefort. «Vieni».

Sotto la sua calma riconquistata, lui era rimasto scosso da quella che sembrava essere la forza della reazione di Avalon.

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