PROLOGO

La lunga chioma della cometa lacerava l’alba, un rosso squarcio sanguinante sugli aspri artigli di granito della Roccia del Drago, come una ferita nel cielo dalle sfumature cremisi e violette.

Maestro Cressen rimase immobile sulla balconata spazzata dal vento su cui davano le sue stanze. Era là che arrivavano i corvi messaggeri, al termine di un lungo volo. I loro escrementi punteggiavano i doccioni alti dodici piedi che torreggiavano ai lati dell’anziano sapiente: rappresentavano un cerbero e un grifone, due dei minacciosi bassorilievi che incombevano a migliaia dalle mura dell’antica fortezza. Al suo arrivo alla Roccia del Drago, molto tempo prima, quell’esercito di mostri di pietra l’aveva messo a disagio ma, con il passare degli anni, si era abituato a loro, fino a considerarli vecchi amici. Il saggio, il cerbero e il grifone continuarono a scrutare insieme il cielo, gravati da uno strano presentimento.

Maestro Cressen non credeva nei presagi. Eppure… mai, in tutta la sua lunga vita, aveva visto una cometa brillare con tanta intensità, né mai ne aveva vista una di quel terribile colore, il colore del sangue, delle fiamme e del tramonto. Si domandò se i doccioni avessero mai visto niente di simile. Loro erano là fuori a frugare i deli da talmente tanto tempo prima di lui, e avrebbero continuato a farlo anche una volta che lui se ne fosse andato. Se solo le loro lingue di pietra avessero potuto parlare…

“Che assurdità” pensò appoggiando le mani al parapetto, le onde dell’oceano che ruggivano sotto di lui, la nera pietra scabra al tocco delle sue dita. “Doccioni che parlano e profezie nel cielo. Un uomo così vecchio che si spaventa come un bambino.” Forse che un’intera esistenza di saggezza conquistata con dura fatica fosse svanita insieme alla sua salute e al suo vigore? Che cosa era mai diventato — lui, un maestro educato e investito nella grande Cittadella di Vecchia Città — se permetteva alla superstizione di riempirgli la mente come a un contadino ignorante?

Eppure… eppure… ora la cometa era visibile anche in pieno giorno. Il chiarore della sua chioma filtrava attraverso i vapori lividi che si levavano dalle roventi bocche eruttive del monte del Drago. E il giorno prima, proprio il giorno prima, un corvo bianco aveva portato il messaggio direttamente dalla Cittadella. Quel messaggio atteso ormai da lungo tempo — ma non per questo meno carico di minacce — che annunciava l’imminente fine dell’estate.

Presagi, certo, tutti quanti. Troppi, però, per essere ignorati. “Qual è il significato di tutto ciò?” Maestro Cressen avrebbe voluto abbandonarsi al pianto.

«Maestro, abbiamo visite.» Pylos parlò in tono sommesso, quasi temendo di disturbare le sue solenni meditazioni. Se avesse immaginato quali tarli riempivano la testa del vecchio, avrebbe sicuramente gridato. «La principessa vorrebbe vedere il corvo bianco.»

Preciso come sempre, Pylos adesso la chiamava “principessa”, poiché il lord suo padre era ormai re. Re di una montagna fumante sperduta in mezzo al grande mare salato. E tuttavia, pur sempre un re.

«C’è il suo giullare con lei» aggiunse Pylos.

L’anziano maestro voltò le spalle all’alba, una mano in appoggio sul grifone per mantenersi eretto. «Aiutami a sedermi e poi falli entrare.»

Pylos lo prese sottobraccio e lo accompagnò nelle sue stanze. In gioventù, Cressen camminava a passo svelto. Ormai, però, si stava avvicinando agli ottant’anni e le sue gambe erano diventate incerte, fragili. Due anni prima, era rimasto vittima di una caduta, fratturandosi un’anca che non si era più del tutto rinsaldata. L’anno precedente, quando si era ammalato, la Cittadella aveva inviato Pylos da Vecchia Città, questo appena pochi giorni prima che lord Stannis Baratheon vietasse l’accesso all’isola… Perché Pylos lo aiutasse nelle sue fatiche, avevano detto, ma Cressen era consapevole della verità: alla sua morte, Pylos avrebbe preso il suo posto. Non che la cosa lo turbasse: qualcuno doveva pur sostituirlo, e forse anche prima di quanto a lui sarebbe piaciuto…

Cressen lasciò che il più giovane maestro lo facesse accomodare tra i suoi libri e i suoi documenti, poi gli comandò: «Falla entrare, Pylos. Non sta bene fare aspettare una lady».

Agitò la mano, un flebile gesto di fretta da parte di un uomo per cui la fretta era ormai un remoto ricordo. La pelle di Cressen era raggrinzita, macchiata e, sotto la superficie incartapecorita, si disegnava distintamente l’intrico azzurrognolo delle vene e s’indovinavano i rilievi delle ossa diventate fragili. E quanto tremavano quelle sue mani un tempo così forti, così sicure…

Quando Pylos rientrò, la ragazzina lo seguiva, timida come sempre. Dietro di lei, trascinando i piedi e saltellando in quel suo incedere bizzarro e un po’ sghembo, veniva il giullare. In capo portava un finto elmo da battaglia, ricavato da un vecchio secchio di latta su cui erano state applicate corna di cervo con appese manciate di campanelle che, a ogni passo, tintinnavano, ognuna con una voce diversa: “cling-a-dang”, “bong-dong”, “ring-a-ling”, “clong clong clong”.

«Chi viene a visitarci così di buon’ora, Pylos?» domandò Cressen.

«Siamo io e Macchia, maestro.»

Due ingenui occhi azzurri ammiccarono nei suoi. Quello della principessa, purtroppo, non era un viso grazioso: la mascella quadrata del padre e le sfortunate orecchie della madre andavano ad aggiungersi a ulteriori malformazioni, retaggio di una brutale malattia contratta quando ancora era nella culla, che per poco non le era costata la vita e l’aveva lasciata sfigurata. Per metà di una delle sue guance e giù, lungo il collo, la pelle della fanciulla era rigida e morta, l’epidermide screpolata, squamata, ricoperta di macchie nere e grigie. Al tocco, pareva di sfiorare la pietra.

«Pylos ci ha detto che possiamo vedere il corvo bianco.»

«Ma certo che potete» rispose Cressen, come se avesse mai avuto la forza di dirle di no. Troppe volte, alla povera creatura, era stato detto di no. Il suo nome era Shireen. Aveva quasi died anni, ed era la bambina più triste che maestro Cressen aveva mai incontrato. “La tua tristezza è la mia vergogna, piccola. È un’altra prova del mio fallimento.”

«Maestro Pylos, fammi il favore di andare a prendere il volatile dall’uccelliera per lady Shireen.»

«Con piacere.» Pylos era un giovane cortese; non aveva più di venticinque anni, eppure era solenne come un uomo che di anni ne contasse sessanta. Se solo avesse avuto più umorismo, più vita dentro di sé… Di questo c’era bisogno in quel posto. I luoghi tetri volevano levità, non solennità, e quanto a tetraggine, la Roccia del Drago non aveva rivali: una solitaria dttadella nel mezzo della desolazione liquida, assediata da tempeste e dal sale, con l’ombra della montagna fumante incombente sullo sfondo. Un maestro deve andare nel luogo dove viene assegnato, così, dodici anni prima, Cressen era venuto qui per servire il suo signore. E tanto aveva fatto. L’aveva servito, e anche molto bene, ma non era mai riuscito ad amare la Roccia del Drago, non si era mai sentito realmente a casa lì. Negli ultimi tempi, quando si svegliava di soprassalto nel cuore delle tenebre, tormentato da incubi e visioni della donna rossa, spesso non riusciva a capire dove si trovasse.

Il giullare ruotò il capo pezzato per osservare Pylos salire i ripidi gradini di ferro che portavano all’uccelliera. Nel movimento, le campanelle tintinnarono. «Sotto il mare, gli uccelli hanno scaglie invece di penne» cantò accompagnato dal “cling-cling” delle campanelle. «Lo so io, lo so io, oh, oh, oh.»

Perfino per un giullare, Macchia era una vista pietosa. Forse un tempo aveva evocato tuoni di risate con i suoi lazzi, ma il mare gli aveva carpito quel dono, portandogli via metà dell’arguzia e tutta la sua memoria. Era diventato molle e obeso, pieno di ammiccamenti e di tremiti, incoerente la maggior parte delle volte. Ormai, la bambina sfigurata era la sola che rideva dei suoi scherzi, la sola cui importava qualcosa se lui fosse vivo o no.

“Una fanciulla brutta, un giullare triste e un vecchio maestro. Che pietoso terzetto… Ecco una storia strappalacrime.” «Siedi qui vicino a me, piccola.» Cressen le fece cenno con la mano di avvicinarsi. «È così presto per le visite, appena spuntata l’alba. Dovresti essere al calduccio nel tuo letto.»

«Ho fatto brutti sogni, maestro» gli confidò Shireen. «C’erano i draghi che venivano a mangiarmi.»

Incubi. Per quanto indietro Cressen riandasse con la memoria, la bambina ne era sempre stata tormentata.

«Ne abbiamo già parlato più volte» la rassicurò lui gentilmente. «I draghi non possono tornare in vita, sono fatti di pietra, piccola mia. In un tempo molto lontano, la nostra isola era l’avamposto più occidentale del grande dominio di Valyria. Furono i valyriani a erigere questa cittadella, e loro conoscevano modi per scolpire la pietra che da noi sono andati perduti. Un castello deve avere torri per la difesa in ogni punto in cui le mura s’incontrano a formare un angolo. I valyriani configurarono le loro torri in forme di draghi per fare apparire la loro fortezza ancora più minacciosa, lo stesso motivo per cui incoronarono le loro mura con migliaia di doccioni invece che con semplici merlature.» Cressen prese la piccola mano rosa di Shireen nella sua, così grigia e fragile, e la strinse con affetto. «Per cui, vedi, non c’è nulla di cui avere paura.»

«E che cosa mi dici di quella cosa nel cielo?» Shireen non era convinta. «Dalla e Matrissa parlavano, vicino al pozzo. Dalla diceva di aver udito la donna rossa dire alla mamma che la luce nel cielo è il respiro dei draghi. E se i draghi respirano, non significa forse che stanno tornando in vita?»

“La donna rossa.” Il solo pensiero suscitò un moto di stizza in Cressen. “Non le basta aver riempito la testa della madre con le sue follie malefiche, deve anche avvelenare i sogni della figlia?” Avrebbe parlato con Dalla, diffidandola con durezza dal diffondere simili storie.

«La cosa nel cielo è una cometa, piccola mia. Una stella con la coda, perduta nel firmamento. Presto se ne sarà andata, e noi non la rivedremo mai più. Aspetta e vedrai.»

Shireen annuì con coraggio. «La mamma dice che il corvo bianco significa che non è più estate.»

«È così, mia lady. I corvi bianchi volano solo dalla Cittadella.»

Le dita di Cressen scivolarono sulla catena che portava al collo, ciascun anello forgiato in un metallo diverso, a simboleggiare la sua conoscenza in un differente campo del sapere. La catena di un maestro: l’emblema del suo ordine culturale. Nell’orgoglio della sua gioventù, non aveva avuto difficoltà a indossarla, ma adesso gli sembrava pesante, il metallo troppo gelido al contatto con la pelle.

«Sono più grossi degli altri corvi, e più intelligenti, allevati per trasportare solo i messaggi più importanti. Questo viene a informarci che il Conclave si è riunito, ha considerato i rapporti e le misurazioni elaborati dai maestri di tutto il reame, e ha dichiarato che la grande estate si è ormai conclusa. Dieci anni, due rivoluzioni e sedici giorni è durata, la più lunga estate a memoria d’uomo.»

«Adesso verrà il freddo?» Shireen era una bambina dell’estate, non aveva mai conosciuto il vero freddo.

«Col tempo» rispose Cressen. «Se gli dei saranno generosi, ci daranno un caldo autunno, con abbondanti messi, in modo che ci si possa preparare per l’inverno a venire.»

Il popolino credeva che una lunga estate portasse dopo di sé un inverno ancora più lungo, ma il maestro non vide alcuna ragione per spaventare la piccola con simili dicerie.

«È sempre estate sotto il mare» intonò Macchia facendo tintinnare le sue campanelle. «Le sirene portano coralli nei capelli e indossano gonne di alghe argentate. Lo so io, lo so io, oh, oh, oh.»

Shireen fece una risatina. «Anch’io voglio una gonna di alghe argentate.»

«Sotto il mare, nevica all’insù» continuò a intonare il giullare. «E la pioggia è secca come vecchie ossa. Lo so io, lo so io, oh, oh oh.»

«Nevicherà?» domandò la bambina. «Nevicherà veramente?»

«Sì, cara» rispose Cressen. “Ma non per anni ancora, questo io prego, e non a lungo.” «Ah, ecco Pylos con l’uccello.»

Shireen emise un gridolino deliziato. Perfino Cressen doveva ammettere che l’uccello, bianco come la neve e più grosso di un falco, era davvero impressionante. Gli scintillanti occhlneri indicavano che non era un semplice albino, ma un vero corvo bianco allevato alla Cittadella.

«Qui» chiamò il maestro.

Il corvo distese le ali, spiccò un salto nell’aria e svolazzò rumorosamente per lo studio del sapiente fino ad atterrare sul tavolo accanto a lui.

«Ora mi occuperò della tua colazione, maestro Cressen» annunciò Pylos.

L’anziano annuì. «Questa è lady Shireen» disse all’uccello.

Il corvo fece ondeggiare il capo su e giù, come se s’inchinasse: «Lady» gracchiò. «Lady.»

La bambina esclamò stupefatta: «Ma… parla!».

«Qualche parola. Devi sapere che questi uccelli sono molto intelligenti.»

«Uccello intelligente, uomo intelligente, giullare molto, molto intelligente» esclamò Macchia, tintinnando. «Oh, giullare molto, molto intelligente.» Si mise a cantare: «Le ombre vengono per danzare, mio signore, danza anche tu, mio signore, danza anche tu». Macchia saltellava da un piede all’altro. «Le ombre vengono per restare, mio signore, resta anche tu, mio signore, resta anche tu.» La sua testa sussultava a ogni parola suscitando un clangore di campanelle. Il corvo bianco gracchiò, sbattendo le ali, e andò ad appollaiarsi sul corrimano di ferro della scala che portava all’uccelliera.

«Non fa che cantare quella cosa.» Shireen sembrava atterrita. «Gli ho detto di smetterla ma lui non ascolta. Quel canto mi fa paura, maestro. Fallo tacere.»

“Farlo tacere? E come?” rimuginò il vecchio. “Un tempo avrei potuto farlo tacere per sempre, ma adesso…”

Macchia era giunto da loro da ragazzo. Lord Steffon Baratheon, lode alla sua memoria, lo aveva trovato a Volantis, una delle città libere sull’altra sponda del mare Stretto. Il re, il vecchio re Aerys II Targaryen, che in quei giorni non era ancora diventato completamente folle, aveva inviato il lord a cercare una moglie per il principe Rhaegar, il quale non aveva sorelle con cui convolare a nozze. “Abbiamo trovato il più fenomenale dei giullari” aveva scritto lord Steffon a Cressen quindici giorni prima di tornare a casa dalla sua missione rimasta incompiuta. “È solo un ragazzo, eppure agile come una scimmia e arguto come una dozzina di cortigiani. Sa fare giochi di equilibrismo, conosce enigmi e trucchi magici. Ed è anche in grado di cantare soavemente in quattro lingue diverse. Abbiamo comprato la sua libertà e speriamo di condurlo a casa con noi. Robert ne sarà entusiasta e, chissà, forse col tempo riuscirà perfino a far ridere Stannis.”

Cressen si rattristò nel rammentarsi di quella lettera. Nessuno era mai riuscito a far ridere Stannis, men che meno il ragazzo Macchia. La tempesta si era scatenata all’improvviso, ululando, dando al golfo dei Naufragi un’ulteriore conferma del suo funesto nome. L’Orgoglio dei venti, il vascello a due alberi di lord Steffon, si era spezzato quando era ormai in vista del castello. Dai parapetti delle mura, i due figli più grandi avevano guardato la nave del padre che andava a schiantarsi contro le rocce, per poi essere inghiottita dalle acque. Cento uomini, tra rematori e marinai, erano calati negli abissi insieme a lord Steffon Baratheon e alla lady sua moglie. Per giorni e giorni dopo il naufragio, ogni marea aveva trascinato sulla spiaggia sotto Capo Tempesta una nuova messe di cadaveri rigonfi e tumefatti.

Il ragazzo era stato restituito dal mare il terzo giorno. Maestro Cressen era sceso insieme agli altri per aiutare a dare un nome ai morti. Quando avevano trovato il giullare, era nudo, la pelle livida e raggrinzita incrostata di sabbia bagnata. Cressen aveva pensato si trattasse di un altro cadavere ma, nel momento in cui Jommy l’aveva preso per le caviglie per portarlo fino al carro delle sepolture, il ragazzo aveva tossito acqua di mare e si era messo a sedere. Fino al giorno della sua morte però, Jommy aveva continuato a spergiurare che la carne di Macchia era gelida come quella di un cadavere.

Nessuno riuscì mai a trovare una spiegazione valida per i due giorni in cui il ragazzo era stato disperso in mare. Secondo i pescatori, una sirena gli aveva insegnato a respirare sott’acqua in cambio del suo seme. Quanto a Macchia, di quei due giorni non aveva mai fatto parola, ma l’arguto, esperto ragazzo di cui lord Steffon aveva scritto non raggiunse mai Capo Tempesta: il ragazzo che trovarono era un’altra persona, provata nel corpo e nella mente, capace a stento di parlare e del tutto incapace di qualsiasi tipo di arguzia. Eppure, il volto del giullare non lasciava dubbi sulla sua identità. Nella città libera di Volantis, era infatti costume tatuare il volto degli schiavi e dei servi: la pelle del ragazzo era tutta istoriata, dal collo alla fronte, a scacchi alternati rossi e verdi.

«Quel disgraziato è un folle sofferente, di nessuna utilità ad alcuno, meno che meno a se stesso» aveva dichiarato il vecchio ser Harbert, in quei giorni castellano di Capo Tempesta. «La cosa più pietosa che potresti fare per lui è dargli una coppa colma di latte di papavero. Un sonno senza dolore e che sia finita. Se fosse in grado di capire, ti benedirebbe per questo gesto.» Ma Cressen aveva rifiutato, e alla fine era stato lui ad averla vinta. Se Macchia si fosse mai rallegrato di quella vittoria, il maestro non poteva dirlo, nemmeno adesso, dopo tutti quegli anni.

«Le ombre vengono per danzare, mio signore, danza anche tu, mio signore, danza anche tu.» Macchia continuò a volteggiare, a far oscillare su e giù la testa, scuotendo quelle campanelle, così martellanti, ossessive. “Bong dong ring-a-ling bong dong.”

«Signore» gracchiò il corvo bianco. «Signore, signore, signore.»

«Un giullare canta quello che vuole» disse il maestro all’ansiosa principessa. «Non devi prendere sul serio le sue parole. Domattina potrebbe ricordare un canzone diversa, e questa non la sentirai mai più.»

“Ed è anche in grado di cantare soavemente in quattro lingue diverse” aveva scritto lord Steffon.

Pylos fece nuovamente ingresso nei quartieri di Cressen. «Chiedo scusa, maestro» disse.

«Ti sei dimenticato del porridge» fece Cressen, divertito. Era talmente insolito che Pylos dimenticasse qualcosa.

«Maestro, ser Davos ha fatto ritorno questa notte. Ne stanno parlando nelle cucine. Ho pensato che volessi esserne informato immediatamente.»

«Davos… Questa notte, hai detto? Ora dov’è?»

«Con il re. Sono insieme dal suo arrivo.»

C’era stato un tempo in cui lord Stannis lo avrebbe svegliato, a dispetto dell’ora, per convocarlo e avere il suo consiglio.

«Avrebbero dovuto dirmelo» si lamentò Cressen. «Avrebbero dovuto svegliarmi.» Sciolse le dita da quelle di Shireen e si scusò con lei: «Chiedo perdono, mia lady, ma devo andare a parlare con il lord tuo padre. Pylos, dammi il braccio. Ci sono troppi gradini in questo castello e ho quasi l’impressione che ogni notte ne vengano aggiunti di nuovi, al solo scopo di tormentarmi».

Shireen e Macchia li seguirono fuori. Ben presto, però, la ragazzina divenne impaziente a causa del lento passo del vecchio e corse avanti, il giullare che la seguiva nella sua incessante, folle cacofonia di campanelle.


I castelli non erano luoghi adatti ai fragili. Cressen ne ebbe un’ulteriore conferma nel discendere la scala a chiocciola della Torre del drago marino. Lord Stannis era quasi certamente nella sala del Tavolo dipinto, in cima al Tamburo di pietra, la fortezza principale della Roccia del Drago. Il nome, Tamburo di pietra, veniva dal modo in cui le sue mura antiche risuonavano e rombavano durante le tempeste. Per arrivarci, dovevano attraversare la galleria, passare oltre le muraglie intermedia e interna, con i loro doccioni guardiani e le grate di ferro nero come l’inchiostro, e infine salire altri gradini, molti di più di quanti Cressen potesse permettersi di scalare. I giovani li salivano due alla volta, ma per un vecchio con le anche a pezzi, ognuno di quei gradini era una tortura. Lord Stannis, però, non si sarebbe certo scomodato ad andare da lui, per cui maestro Cressen si rassegnò a quella tormentosa scalata. Per lo meno, aveva Pylos ad aiutarlo, e ciò bastava a rincuorarlo.

Avanzando lentamente lungo la galleria, passarono davanti a una fila di alte finestre ad arco, dalle quali si aveva un’ampia prospettiva sul ponte levatoio, il muro di cinta esterno e il villaggio di pescatori oltre la rocca. Nel cortile, arcieri si stavano addestrando ai comandi “Incocca-tendi-lancia”. Il sibilo delle frecce pareva il battito d’ali di uno stormo di uccelli. Sentinelle si spostavano sui camminamenti in cima alle mura osservando, tra un doccione e l’altro, l’esercito accampato all’esterno del castello. L’aria del mattino era opaca per il fumo dei bivacchi. C’erano tremila uomini, là fuori, intenti a consumare il primo pasto della giornata sotto i vessilli dei loro signori. Al di là del grande accampamento, il porto era pieno di navi. A nessuno degli scafi che si erano presentati alla Roccia del Drago durante l’ultimo anno era stato più consentito di riprendere il mare. Furia, il galeone da guerra di lord Stannis, tre ponti e trecento rematori, quasi scompariva al confronto delle gigantesche navi da trasporto dalle stive panciute che lo circondavano da tutti i lati.

Le sentinelle di guardia all’esterno del Tamburo di pietra riconobbero il maestro e li lasciarono passare.

«Tu aspetta qui» comandò Cressen a Pylos, una volta che furono entrati. «È meglio che lo veda da solo.»

«È un’altra lunga ascesa, maestro.»

«Credi che non lo sappia?» Cressen sorrise. «Li ho saliti talmente tante volte, questi gradini, da aver dato un nome a ciascuno di loro.»

Ma giunto a metà strada, Cressen si pentì della decisione. Si era fermato a riprendere fiato, sperando che il dolore alle anche si calmasse, quando udì pesanti passi di stivali risuonare contro la pietra. Il maestro alzò lo sguardo e si trovò faccia a faccia con ser Davos Seaworth, che stava scendendo.

Davos era un uomo minuto, il suo basso lignaggio evidente nei suoi lineamenti comuni. Attorno alle spalle, portava una sdrucita cappa di color verde, macchiata da incrostazioni di sale e sbiadita dal sole dell’oceano. Farsetto e brache erano dello stesso marrone dei suoi occhi e dei capelli. Appesa al collo con una cinghia aveva una piccola sacca di vecchio cuoio. C’erano molti fili grigi nel suo pizzetto e un guanto di pelle gli copriva la mano sinistra mutilata.

«Ser Davos, quando sei tornato?»

«Prima dell’alba. L’ora che preferisco.»

Correva voce che nessuno fosse in grado di manovrare un vascello nelle tenebre con la perizia di Davos Manocorta. Prima di essere creato cavaliere da lord Stannis, era stato uno dei più celebri e inafferrabili contrabbandieri dei Sette Regni.

«Con che nuove?»

«È come tu gli avevi detto.» Davos scosse il capo. «Non si solleveranno, maestro. Non per lui. Non lo amano.»

“Né mai lo faranno” rimuginò Cressen. “Lui è forte, capace, giusto… Anche più giusto di quanto la saggezza suggerirebbe. Solo che non è abbastanza, non è mai stato abbastanza.”

«Hai parlato con tutti loro, ser Davos?»

«Tutti? No. Solamente con quelli che hanno accettato di ricevermi. Non amano nemmeno me, quei nobili. Per loro, io sono e sempre resterò il “Cavaliere delle cipolle”.» La mano sinistra di Davos si chiuse, le dita monche serrate a pugno: Stannis gliele aveva mozzate all’ultima falange, tutte tranne il pollice. «Ho condiviso il pane con Gulian Swann e il vecchio Penrose. I Tarth hanno acconsentito a un incontro notturno in una foresta. Quanto agli altri… be’, lord Beric Dondarrion è ancora disperso, c’è chi dice che sia morto. Lord Bryce Caron sta con Renly. Si fa chiamare Bryce l’Arancione, adesso, membro della Guardia dell’arcobaleno.»

«Guardia dell’arcobaleno?»

«Renly ha creato una propria versione della Guardia reale» spiegò il contrabbandiere di un tempo. «La differenza è che questi sette non sono vestiti di bianco. Ciascuno ha un suo colore. Loras Tyrell è il loro lord comandante.»

Era esattamente il genere di stravaganze che piaceva a Renly Baratheon: un nuovo splendido ordine di cavalierato, con paramenti altrettanto splendidi con cui scendere in campo. Sin da ragazzo, Renly aveva amato i colori brillanti e i bei tessuti, così come aveva sempre amato giocare. «Guardatemi!» gridava correndo lungo i corridoi e le sale di Capo Tempesta. «Guardatemi, sono un drago!» o anche: «Guardatemi, sono un mago!» o addirittura: «Guardatemi, guardatemi, sono il dio della pioggia!».

Quell’audace ragazzino dai capelli neri ribelli e dagli occhi ridenti era diventato uomo adesso, nel suo ventunesimo anno, ma non per questo aveva smesso di giocare. “Guardatemi, sono un re” fu il triste pensiero che attraversò la mente di Cressen. “Renly, Renly, caro figlio, ti rendi conto di che cosa stai facendo? E anche se te ne rendessi conto, te ne importerebbe qualcosa? C’è rimasto qualcuno che si preoccupa per te, eccetto me?”

«Che ragioni hanno addotto i lord per il loro rifiuto?» domandò a ser Davos.

«Quanto a quelle, alcuni hanno pronunciato parole delicate, altri parole dure. Altri ancora hanno accampato delle scuse, alcuni promesse, alcuni solo menzogne. Parole…» Davos scrollò le spalle. «Nient’altro che vento.»

«Non gli hai portato alcuna speranza, quindi…»

«Sarebbero solo false speranze» rispose Davos. «E io questo non voglio farlo. Da me, ha avuto la verità.»

Maestro Cressen ricordava bene il giorno in cui Davos era stato creato cavaliere, poco dopo l’assedio di Capo Tempesta. Lord Stannis e una piccola guarnigione avevano resistito nel castello per quasi un anno, combattendo contro gli eserciti congiunti di lord Tyrell e di lord Redwyne. Perfino dal mare erano stati isolati, controllato com’era giorno e notte dalle galee di lord Redwyne che issavano i vessilli color porpora di Arbor. Tra le mura di Capo Tempesta, i cavalli erano stati mangiati da un pezzo, cani e gatti erano scomparsi e la guarnigione ormai era ridotta a cibarsi di radici e di ratti. Poi, in una notte di luna nuova, le stelle nascoste da nubi oscure, Davos il contrabbandiere aveva sfidato, con il favore delle tenebre, il blocco delle ostili navi di Redwyne e le insidiose rocce del golfo dei Naufragi. Il suo piccolo vascello aveva scafo nero, vele nere, remi neri e la stiva strapiena di cipolle e di pesce salato. Poco, certo, eppure sufficiente a mantenere la guarnigione in vita il tempo necessario per permettere a Eddard Stark di raggiungere Capo Tempesta e spezzare l’assedio.

Lord Stannis aveva ricompensato Davos concedendogli buone terre su capo Furore, un piccolo castello e gli onori di cavaliere… ma aveva anche decretato che Davos perdesse una falange di ciascun dito della mano sinistra, come punizione per tutti i suoi anni da contrabbandiere. Davos si era sottomesso, ma solo a condizione che fosse Stannis in persona a impugnare la lama: non avrebbe accettato una simile punizione da mano meno nobile. Il lord aveva usato una mannaia da macellaio, in modo che il taglio fosse preciso e netto. In seguito, per la sua nuova casata Davos aveva scelto il nome Seaworth, Degno del mare. Il suo vessillo era una nave nera su sfondo grigio, con una cipolla sulle vele. Il contrabbandiere di un tempo andava orgoglioso di poter affermare che lord Stannis in fondo gli aveva fatto un piacere: quattro unghie in meno da pulire e da tagliare.

No, capì Cressen, un uomo di siffatto onore non avrebbe avanzato false speranze, né avrebbe cercato di addolcire la verità.

«Ser Davos, la verità può essere un calice amaro dal quale bere, perfino per un uomo come lord Stannis. L’unica cosa a cui pensa è di fare ritorno ad Approdo del Re nel pieno della sua potenza, spazzando via i nemici e reclamando quello che è suo di diritto. Ma adesso…»

«Se porterà questo scarno esercito ad Approdo del Re, sarà solo per essere distrutto. Non ha abbastanza uomini, e io tanto gli ho detto, ma tu conosci il suo orgoglio.» Davos sollevò la mano guantata. «Mi ricresceranno quattro nuove falangi prima che quell’uomo si pieghi alla ragione.»

«Hai fatto tutto ciò che era in tuo potere, Davos» sospirò il vecchio. «Ora, tocca a me aggiungere la mia alla tua voce.»

Maestro Cressen riprese l’estenuante ascesa.


Il rifugio di lord Stannis Baratheon era un’ampia stanza circolare, dalle nude pareti di pietra nera, con quattro alte, strette finestre rivolte ai quattro punti cardinali della bussola. Al centro del salone troneggiava il grande tavolo che gli dava il nome, un blocco massiccio di legno istoriato secondo i dettami di Aegon Targaryen nei giorni che avevano preceduto la Conquista. Il Tavolo Dipinto era lungo oltre cinquanta piedi, largo la metà nel punto più ampio, ma nemmeno quattro piedi in quello più stretto. I carpentieri di Aegon lo avevano conformato a immagine e somiglianza della terra dell’Occidente, intagliando ogni singola baia, affilando ogni singola penisola, fino a eliminare dal contorno del tavolo qualsiasi linearità. Sulla superficie, ormai scurita da oltre trecento anni di verniciature, erano rappresentati i Sette Regni così come erano al tempo di Aegon. Si distinguevano, sul Tavolo Dipinto, fiumi e montagne, castelli e città, laghi e foreste.

C’era un unico scranno nella sala, accuratamente posizionato nel punto preciso che la Roccia del Drago occupava al largo della costa della terra dell’Occidente, in posizione elevata in modo da fornire una visuale completa del piano del tavolo stesso. E, seduto su quello scranno, c’era un uomo che indossava un farsetto di cuoio strettamente allacciato e brache di spessa lana marrone a maglia fitta.

«Sapevo che saresti venuto, vecchio.» L’uomo alzò lo sguardo quando maestro Cressen fece il suo ingresso. «Che io ti avessi fatto chiamare o no.»

Non c’era nessun calore nella sua voce. Raramente c’era.

Stannis Baratheon, lord della Roccia del Drago e, per grazia degli dei, erede di diritto al Trono di Spade dei Sette Regni dell’Occidente, aveva spalle larghe e muscoli scattanti. Il suo volto era perennemente teso, la pelle simile a cuoio battuto dal sole fino a diventare duro come l’acciaio. Duro, era questa la parola che i suoi uomini usavano quando parlavano di Stannis. E, in effetti, così era. Non aveva ancora trentacinque anni, ma dei suoi capelli neri e fini rimaneva soltanto un ferro di cavallo a cingergli le tempie e la nuca come l’ombra di una corona. Suo fratello, il defunto re Robert, nei suoi ultimi anni si era fatto crescere la barba. Maestro Cressen non l’aveva mai vista, ma si diceva che fosse stata una folta, fiera massa di pelo nero. Quasi per reazione, Stannis portava il pelo della sua barba rasato cortissimo, una sorta di ombra nero-azzurra sulla mascella quadrata e sulle guance incavate. I suoi occhi parevano ferite aperte sotto sopracciglia cespugliose, occhi blu scuro come il mare di notte. La bocca avrebbe dato poche soddisfazioni perfino al più divertente e irresistibile dei giullari: una bocca fatta per contrarsi, per corrucciarsi, per impartire ordini perentori, sottili labbra pallide e muscoli sotto tensione. Una bocca che aveva dimenticato il sorriso, e che non aveva mai imparato a ridere. C’erano notti, quando il mondo diventava un luogo immoto e silenzioso, in cui maestro Cressen era pressoché certo di poter udire lord Stannis Baratheon digrignare i denti dalla parte opposta del castello.

«Un tempo mi avresti svegliato» ribatté il vecchio sapiente.

«Un tempo eri giovane. Adesso sei vecchio e malato, e hai bisogno di riposo.» Stannis non aveva mai imparato ad addolcire le parole, né ad attenuarle, né a fare complimenti. Stannis diceva semplicemente ciò che pensava, e chi non gradiva poteva anche essere dannato. «Sapevo che non ci avresti messo molto a scoprire quello che Davos aveva da dire. Ci riesci sempre, non è così?»

«Non ti sarei di alcun aiuto se non ci riuscissi» rispose Cressen. «Ho incontrato Davos sulle scale.»

«E lui ti ha detto tutto, immagino. Avrei dovuto mozzargli la lingua, oltre alle dita.»

«In quel caso, sarebbe stato un emissario di ben scarsa utilità.»

«È stato comunque un emissario di ben scarsa utilità. I lord della Tempesta non si solleveranno al mio fianco. Sembra che io non gli piaccia, e che la legittimità della mia causa non significhi nulla per loro. I vili rimarranno rintanati fra le loro mura in attesa di vedere da che parte soffierà il vento e chi uscirà trionfante. I temerari si sono già schierati con Renly. Con Renly!»

Sputò fuori il nome come se fosse un grumo venefico sulla lingua.

«Ormai da tredici anni tuo fratello è lord di Capo Tempesta. Quei lord sono i suoi alfieri…»

«Suoi!» lo interruppe Stannis. «Quando di diritto dovrebbero essere miei! Non ho chiesto io di avere la Roccia del Drago, né l’ho mai voluta. L’ho presa perché qui erano i nemici di Robert e lui mi ordinò di venire a sconfiggerli. Ho costruito io la sua flotta, fatto io il suo lavoro, ossequioso come un fratello minore deve esserlo nei confronti del maggiore. Così come Renly dovrebbe esserlo nei miei confronti. E invece qual è stato il ringraziamento di Robert? Ha nominato me lord della Roccia del Drago e concesso Capo Tempesta con tutte le sue fortune a Renly. Capo Tempesta appartiene alla Casa Baratheon da trecento anni. Per diritto, quando Robert salì al Trono di Spade, sarebbe dovuto passare a me.»

Era un vecchio contenzioso, sempre profondamente sentito, e mai come in quel momento. Eccolo il cuore del punto debole del suo lord: la Roccia del Drago, per quanto antica e inespugnabile essa fosse, poteva contare solamente sulla lealtà di un pugno di lord minori, le cui isole pietrose erano troppo scarsamente popolate per fornire a Stannis gli uomini che gli servivano. Perfino contando i mercenari che aveva fatto affluire dalle città libere di Myr e di Lys, al di là del mare Stretto, l’esercito accampato sotto le sue mura restava comunque di gran lunga troppo ridotto per abbattere la potenza militare della Casa Lannister.

«Robert ti ha fatto un torto» rispose cautamente maestro Cressen. «Ma aveva le sue buone ragioni. La Roccia del Drago è stata per molto tempo dimora della Casa Targaryen. Gli serviva un uomo forte per dominare qui e, all’epoca, Renly era solo un bambino.»

«Lo è ancora, un bambino.» La rabbia di Stannis echeggiò nel grande salone vuoto. «Un ladruncolo che crede di potermi strappare la corona dal capo. Che cosa ha mai fatto Renly per meritarsi il trono? Siede nel Concilio ristretto di Approdo del Re e scambia battute con Ditocorto. Ai tornei indossa le sue belle armature e si lascia disarcionare da cavalieri più forti di lui. Ecco chi è mio fratello Renly, lui che è convinto di dover essere re. E ora io ti domando, Cressen, perché gli dei mi hanno inflitto simili fratelli?»

«Non sono in grado di dare risposte per gli dei.»

«Mi sembra che tu non sia in grado di dare alcuna risposta, di questi tempi. Chi è il maestro di Renly? Forse è lui che dovrei mandare a chiamare, credo che i suoi suggerimenti mi piacerebbero molto più dei tuoi. Che cosa pensi avrà detto, il suo maestro, quando Renly ha deciso di sottrarmi la corona? Che genere di consiglio avrà dato, questo tuo collega di sapienza, all’uomo che tradisce il sangue del suo sangue?»

«Maestà, sarei molto sorpreso se lord Renly avesse cercato consiglio da parte di chicchessia.»

Il più giovane dei tre figli di lord Steffon era diventato un uomo di molto coraggio ma di scarso giudizio, il quale agiva seguendo più l’impulso che la ragione. In quello, e non solo in quello, Renly Baratheon era molto simile al fratello Robert, e completamente diverso da Stannis.

«Maestà?» gli fece eco Stannis con acrimonia. «Tu mi deridi rivolgendoti a me con un titolo degno di un re, ma di che cosa sarei re, io? La Roccia del Drago e pochi altri scogli sparsi per il mare Stretto. Eccolo, il mio regno.»

Discese i gradini dello scranno e andò a fermarsi di fronte al Tavolo Dipinto, la sua ombra si proiettò sull’estuario del fiume delle Rapide nere e sulla foresta, che era stata abbattuta, su cui ora sorgeva la città di Approdo del Re. Rimase immobile, meditando sul reame che avrebbe dovuto dominare, così vicino e al tempo stesso così irraggiungibile.

«Questa sera dovrei cenare con i miei lord alfieri, perché tali sono» riprese. «Celtigar, Velaryon, Bar Emmon, l’intera brigata. Una magra brigata, per dirla senza mezzi termini, ma è tutto quello che i miei fratelli mi hanno lasciato. Ci sarà anche quel pirata di Lys, Salladhor Saan, a reclamare quanto gli devo. E Morosh di Myr verrà a mettermi in guardia sulle maree e sulle tempeste autunnali, il tutto mentre lord Sunglass concionerà religiosamente sulla volontà dei Sette. Celtigar vorrà sapere quali lord della Tempesta saranno dalla nostra parte, mentre Velaryon minaccerà di riportare a casa i suoi velieri a meno che l’attacco non venga sferrato immediatamente. Che cosa dirò loro adesso? Che cosa farò?»

«Mio lord, i tuoi veri nemici sono i Lannister» rispose maestro Cressen. «Se tu e tuo fratello poteste trovare il modo di allearvi contro di loro…»

«Non ho alcuna intenzione di venire a patti con Renly» il tono di Stannis non ammetteva replica. «Non fino a quando lui continuerà a proclamarsi re.»

«E allora non Renly» concesse Cressen. Il suo signore era ostinato e orgoglioso. Una volta che aveva preso una decisione, non c’era modo di fargli cambiare idea. «Ma ci sono anche altri che potrebbero fare al caso tuo e sostenerti. Il figlio di Eddard Stark è stato proclamato re del Nord, con pieni poteri su Grande Inverno e su Delta delle Acque.»

«Un ragazzo inesperto» ribatté Stannis. «E un altro falso re. Dovrei forse accettare un reame dimezzato?»

«Un reame dimezzato è sempre meglio di nessun reame» non cedette Cressen. «E se aiutassi il ragazzo a vendicare la morte del padre…»

«Vendicare Eddard Stark? E per quale motivo dovrei farlo? Eddard Stark non significava niente per me. Oh, certo, Robert lo amava tanto. Lo amava come un fratello, quante volte l’abbiamo sentita quella storia commovente? Ero io suo fratello, non Ned Stark, ma mai lo si sarebbe detto considerando il modo in cui Robert mi trattava. Sono stato io a tenere Capo Tempesta per lui, guardando uomini valorosi morire di fame mentre Mace Tyrell e Paxter Redwyne banchettavano sotto le mie mura. E mi ha forse ringraziato Robert? No. Lui ha ringraziato Stark per aver spezzato l’assedio quando noi eravamo ridotti a ratti e radici. Ho costruito una flotta per ordine di Robert, ho preso la Roccia del Drago per ordine suo. Ma lui mi ha forse stretto la mano dicendo: “Ben fatto, fratello, che cosa mai sarei senza di te?”. No, mi ha biasimato per aver lasciato che Willem Darry si portasse via Viserys Targaryen e la bambina infante Daenerys. Come se fossi stato in grado d’impedirlo. Per quindici anni ho fatto parte del Concilio, aiutando Jon Arryn a governare sul suo reame mentre Robert si ubriacava e andava a puttane. E alla morte di Jon, mio fratello ha forse nominato me Primo Cavaliere? Niente affatto: se n’è andato al galoppo dal suo caro amico Ned Stark, offrendo a lui l’onore. E quali grandiosi risultati hanno ottenuto entrambi!»

«Sia pure, mio lord» disse Cressen in tono accomodante. «Grandi torti ti sono stati fatti, ma il passato è ormai polvere e il futuro potrebbe ancora essere tuo se tu unissi le tue forze a quelle degli Stark. Ci sono anche altri che combatterebbero al tuo fianco. Lady Lysa Arryn, per esempio. Se la regina ha davvero assassinato suo marito, di certo lady Arryn vorrà che giustizia venga fatta. Ha un figlio in tenera età, l’erede di Jon Arryn. Se Shireen diventasse la sua promessa sposa…»

«Il ragazzo è debole e malaticcio» obiettò lord Stannis. «Perfino suo padre se ne era reso conto. Per questo mi chiese di prenderlo con me alla Roccia del Drago. Farlo servire come paggio avrebbe forse potuto raddrizzarlo, ma la maledetta donna Lannister ha fatto avvelenare lord Arryn prima che la cosa fosse decisa. E adesso Lysa se lo tiene stretto al Nido dell’Aquila. E mai si separerà da quel ragazzino, te lo posso garantire.»

«E allora bisogna mandare Shireen al Nido dell’Aquila» continuò a insistere Cressen. «La Roccia del Drago è un luogo tetro per una fanciulla. E che con lei vada anche il suo giullare, in modo da lasciarle vicino un viso noto.»

«Noto e orribile» la fronte di Stannis si aggrottò. «Però… forse varrebbe la pena di tentare…»

«Il signore di diritto dei Sette Regni che implora l’aiuto di vedove e di usurpatori?» La voce della donna parve lo schioccare di una frusta.

Maestro Cressen si voltò, chinando il capo, detestando se stesso per non averla udita entrare.

«Mia lady.»

«Io non imploro nessuno» reagì duramente Stannis. «Questo non dimenticarlo mai, donna.»

«Sono lieta di sentirlo, mio lord.»

Lady Selyse era alta quanto il marito, esile nel corpo e nel viso, con grandi orecchie prominenti, naso a becco e appena un visibile accenno di peluria sul labbro superiore. Selyse la estirpava ogni giorno, e ogni giorno la malediceva, ma quella peluria si ostinava a riapparire. Aveva occhi spenti, la bocca dura, una voce come uno scudiscio. La fece schioccare di nuovo.

«Lady Arryn ti deve la sua fedeltà. E lo stesso vale per gli Stark, per tuo fratello Renly e per tutti gli altri. Sei tu l’unico vero re. E non sarebbe giusto pregare e negoziare con loro per ottenere ciò che ti spetta di diritto per grazia di dio.»

Disse “dio”, non “dei”. La donna rossa aveva vinto, l’aveva conquistata nel cuore e nello spirito. Le aveva fatto voltare le spalle agli dei dei Sette Regni, vecchi e nuovi, per spingerla ad adorare quello che veniva chiamato il Signore della luce.

«Il tuo dio può tenersela, la sua grazia.» Lord Stannis non condivideva la nuova fede della moglie. «È di spade che ho bisogno, non di benedizioni. A meno che tu non tenga nascosto da qualche parte un esercito di cui ti sei dimenticata di parlarmi.»

Non c’era alcun affetto nel tono del lord della Roccia del Drago. Stannis Baratheon era sempre stato a disagio in presenza delle donne, perfino della sua stessa moglie. Quando era andato ad Approdo del Re a prendere il suo posto nel Concilio ristretto del fratello Robert, aveva lasciato Selyse sull’isola assieme alla loro figlia. Le sue lettere erano state scarse, le visite ancora più rarefatte. Onorava i suoi doveri coniugali una, forse due volte l’anno, senza trarne alcuna gioia. E i figli maschi nei quali un tempo aveva sperato non erano mai arrivati.

«I miei fratelli e zii e cugini hanno eserciti» rispose Selyse. «La Casa Florent marcerà sotto il tuo vessillo.»

«La Casa Florent è in grado di schierare al massimo duemila spade.» Si diceva che Stannis fosse a conoscenza della forza di ogni singola nobile casata dei Sette Regni. «Quanto ai tuoi fratelli e ai tuoi zii, mia lady, tu hai molta più fiducia in loro di quanta ne abbia io. Le terre dei Florent sono troppo vicine ad Alto Giardino perché il lord tuo zio voglia davvero rischiare di incorrere nell’ira di Mace Tyrell.»

«C’è un altro modo.» Lady Selyse si avvicinò a lui. «Guarda dalla finestra, mio signore. Ecco il segno che stavi aspettando, lassù che splende. È rosso, il segno, il rosso della fiamma, il rosso del cuore infuocato dell’unico vero dio. È il suo vessillo… e anche il tuo! Guarda come si distende nei deli come il fiato rovente di un drago, e tu ora sei il signore della Roccia del Drago. Significa che il tuo momento è arrivato, maestà. Nulla è più certo di questo. Il tuo destino è salpare da questa roccia desolata come già Aegon il Conquistatore fece quando venne il suo momento. Il tuo destino è conquistare tutto, come anche lui fece. Basta che tu dica la parola, e che tu abbracci il potere del Signore della luce.»

«E quante spade il Signore della luce metterà sotto il mio comando?» domandò di nuovo Stannis.

«Tutte quelle che ti servono» promise la moglie. «Innanzi tutto, le spade di Capo Tempesta e quelle di Alto Giardino, più quelle di tutti i loro lord alfieri.»

«Davos non direbbe la stessa cosa» replicò Stannis. «Tutte quelle spade hanno già giurato fedeltà a Renly. Amano il mio fascinoso fratello minore, così come amavano Robert… e non hanno mai amato me.»

«Certo.» Selyse rimase impassibile. «Ma se Renly dovesse morire…»

Stannis rimase a fissare la sua signora, gli occhi ridotti a due fessure, fino a quando Cressen non fu più in grado di tenere a freno la lingua.

«Pensieri simili non devono albergare nella tua mente, lord Stannis. Per quante sciocchezze abbia commesso Renly…»

«Sciocchezze? Io le chiamerei tradimenti!» Stannis voltò le spalle alla moglie. «Mio fratello è giovane e in forze. Ha un vasto esercito attorno a lui, e anche questi… Cavalieri dell’arcobaleno.»

«Melisandre ha scrutato nelle fiamme» confidò lady Selyse «e ha visto Renly morto.»

«Fratricidio…» Cressen si sentì come soffocare dall’orrore. «Mio signore, ciò è malvagio, è impensabile… Ti prego, ascoltami…»

«E tu che cosa gli consiglierai, maestro?» Selyse lanciò al vecchio uno sguardo colmo di derisione. «Forse come riuscire ad avere metà del regno andando in ginocchio dagli Stark e vendendo nostra figlia a lady Arryn?»

«Ho udito i tuoi consigli, Cressen» lo congedò Stannis. «Ora udrò i suoi. Puoi andare, vecchio.»

Maestro Cressen piegò un ginocchio irrigidito. Nell’andarsene a passo lento da quella stanza troppo vuota, sentì lo sguardo di lady Selyse piantato nella schiena. Quando raggiunse i gradini di pietra alla base della torre, si reggeva in piedi a stento. Allungò una mano verso Pylos.

«Aiutami…» lo implorò.


Tornato nella quiete delle sue stanze, Cressen allontanò il giovane maestro e uscì zoppicando sulla balconata. Tornò tra i suoi due doccioni, a osservare l’oceano. Una delle navi da guerra di Salladhor Saan stava scivolando davanti al castello, la chiglia dipinta a colori vivaci che fendeva le acque plumbee, gli ordini di remi che si alzavano e si abbassavano ritmicamente. Rimase a guardarla fino a quando non svanì dietro un promontorio. “Come vorrei che anche le mie paure potessero svanire con altrettanta rapidità.” Aveva vissuto tanto a lungo per assistere a questo?

Nel momento in cui un maestro indossava la catena del suo ordine, abbandonava ogni speranza di avere figli. Eppure, Cressen si era spesso sentito un padre. Robert, Stannis, Renly… tre figli che era stato lui ad allevare dopo che il mare ruggente e impietoso si era portato via lord’Steffon. Era stato davvero un padre tanto degenere da essere costretto ora a guardare uno dei figli ucciderne un altro? Non poteva permetterlo, non l’avrebbe permesso.

La donna, era lei la chiave di tutto. Non lady Selyse, l’altra. “La donna rossa” la chiamavano i servi, timorosi anche solo di pronunciare il suo nome.

«Ma io lo pronuncio, il suo nome» disse Cressen al cerbero. «Melisandre. Proprio lei.»

Melisandre di Asshai, maga, evocatrice di ombre, sacerdotessa di R’hlllor, il Signore della luce, Cuore del fuoco, dio della Fiamma e dell’Ombra. Melisandre di Asshai, alla cui follia non poteva essere permesso di dilagare al di fuori della Roccia del Drago.

In contrasto con la luminosità del giorno, le stanze del maestro apparivano ora tetre e oscure. Con mani tremanti, il vecchio accese una candela e la portò con sé nel laboratorio sotto la scala per l’uccelliera, dove i suoi unguenti, le pozioni e i medicamenti si allineavano ordinatamente sugli scaffali. Su quello più in basso, dietro tozzi contenitori di creta pieni di erbe, trovò una fiala di vetro color indaco, non più grossa del suo dito mignolo. Quando la scosse, qualcosa rimbalzò dentro di essa. Cressen soffiò via un velo di polvere e portò il piccolo oggetto di vetro fino al tavolo. Il maestro si lasciò cadere sulla sedia, tolse il tappo e rovesciò il contenuto della fiala. Una dozzina di cristalli, delle dimensioni di piccoli semi, si dispersero sulla pergamena che stava studiando e, alla luce della candela, scintillarono come gioielli. Erano di un viola talmente intenso da dare al maestro l’impressione di non aver mai visto il vero colore viola fino a quel momento.

La catena appesa al collo gli parve di colpo molto pesante. Con la punta del mignolo, toccò leggermente uno dei cristalli. “Una cosa tanto piccola, eppure dotata del potere di vita e di morte.” Proveniva da una pianta che cresceva solamente nelle isole del mare di Giada, all’altro capo del mondo. Le foglie dovevano essere lasciate invecchiare, quindi andavano immerse in un’essenza composta da cedri spremuti, acqua zuccherata e alcune rare spezie delle Isole dell’Estate. Una volta filtrato, l’estratto andava mescolato con la cenere e lasciato cristallizzare. Era un processo lento e complesso, i cui componenti erano costosi e assai difficili da trovare. Gli alchimisti di Lys ne conoscevano la formula, e anche gli Uomini senza faccia, la confraternita di micidiali assassini di Braavos, la conoscevano… e pure i maestri del suo ordine, per quanto non fosse argomento che veniva discusso al di fuori delle mura della Cittadella. Tutto il mondo era a conoscenza del fatto che un maestro poteva forgiare l’anello d’argento della propria catena solo dopo aver appreso le arti di guarigione. Quello che il mondo preferiva dimenticare era che colui che sapeva come guarire, sapeva anche come uccidere.

Cressen non ricordava più il nome che gli Asshai davano alla foglia, né in che modo gli avvelenatori di Lys chiamavano il cristallo. Nella Cittadella, era semplicemente chiamato “lo strangolatore”. Disciolto nel vino, il cristallo viola avrebbe fatto contrarre i muscoli della gola della vittima designata, serrandogli la trachea più saldamente di una mano chiusa a pugno. Si diceva che il volto della vittima diventava dello stesso colore viola del piccolo seme di cristallo che gli dava la morte, ma la stessa cosa accadeva anche a chi soffocava a causa di un pezzo di cibo.

E quella stessa sera, lord Stannis avrebbe banchettato con i suoi lord alfieri, con sua moglie… e con la donna rossa, Melisandre di Asshai.

“Devo riposare” disse fra sé maestro Cressen. “Al calar della notte, devo essere in possesso di tutte le mie forze. Le mani non mi devono tremare, né il coraggio abbandonarmi. È una cosa spaventosa quella che sto per fare, eppure deve essere fatta. Se gli dei esistono, sono certo che mi perdoneranno.” Aveva dormito così male, negli ultimi tempi. Un breve sonno lo avrebbe messo in condizione di affrontare la prova che lo aspettava. Lentamente, raggiunse il suo letto. Pur con gli occhi chiusi, continuava a vedere la luce della cometa, rossa, lucente, pulsante come un faro nell’oscurità dei suoi sogni. “Forse è la mia cometa” fu il suo ultimo, annebbiato pensiero prima di scivolare nell’oblio. “Un presagio di sangue, sì… l’annuncio di un assassinio…”

Si risvegliò nel cuore delle tenebre. La stanza attorno a lui era completamente buia e ogni articolazione del corpo gli doleva. Cressen si alzò, la testa che martellava. Brancolò alla ricerca del bastone, mettendosi in piedi in equilibrio incerto. “È così tardi. Non mi hanno chiamato.” Veniva sempre convocato per i banchetti e prendeva posto vicino al sale, alla destra di lord Stannis. Il volto del suo signore fluttuò davanti a lui, non l’uomo che era diventato ma il ragazzo che era stato, in disparte tra le fredde ombre mentre il fratello maggiore brillava nella calda luce del sole. “Qualsiasi impresa Stannis compiva, Robert l’aveva già compiuta prima di lui, e meglio di lui. Povero ragazzo…” Ma ora Cressen doveva affrettarsi. Proprio in nome di quel povero figlio.

Trovò i cristalli viola là dove li aveva lasciati e li raccolse dalla pergamena. Maestro Cressen, non possedeva anelli cavi, del tipo che si diceva usassero gli assassini di Lys. Possedeva però l’abito del suo ordine culturale, dotato di ampie maniche, all’interno delle quali era cucita una miriade di tasche grandi e piccole. Fu in una di esse che celò i semi dello strangolatore. Poi spalancò la porta e chiamò ad alta voce.

«Pylos, dove sei?» Nessuna risposta. Cressen chiamò a voce più alta. «Pylos! Ho bisogno del tuo aiuto.»

E, di nuovo, ci fu solo silenzio. Strano. La cella del giovane maestro si trovava soltanto mezzo giro di scale più in basso, a portata di voce.

Alla fine, Cressen fu costretto a richiamare l’attenzione dei servi. «Fate presto» intimò loro. «Ho dormito troppo. Staranno già facendo festa… e bevendo… Avreste dovuto venire a svegliarmi…»

Ma che cos’era accaduto a maestro Pylos? Proprio non riusciva a capirlo. Fu costretto ad attraversare di nuovo la lunga galleria. Il vento notturno, saturo dell’odore del mare, sussurrava filtrando dalle alte finestre ad arco. Torce balenavano sulle mura della Roccia del Drago e nell’accampamento militare lungo la costa c’erano centinaia di bivacchi accesi, quasi che il cielo stellato fosse caduto sulla terra. Più in alto, rossa e maligna, pulsava la cometa.

“Sono troppo vecchio e troppo saggio per aver paura di un simile prodigio” si disse maestro Cressen.


Le porte della sala grande erano collocate nelle fauci di un drago di pietra.

Aveva detto ai servi di lasciarlo là. Meglio che entrasse da solo, non doveva apparire debole. Appoggiandosi pesantemente al bastone, Cressen salì gli ultimi scalini e superò l’architrave irto di zanne ricurve. Due guardie armate aprirono per lui gli spessi battenti di legno rosso, dando libero sfogo a un’improvvisa esplosione di suoni e di luci. Cressen avanzò dentro le fauci del drago.

Al di sopra del clangore dei piatti e dei coltelli, oltre il brusio delle conversazioni, udì il canto di Macchia e il tintinnare dei suoi campanelli: «… Danza, mio signore, danza, mio signore…». Era la stessa, maledetta nenia di quella mattina. «Le ombre vengono per restare, mio signore, resta anche tu, mio signore, resta anche tu.»

I tavoli al livello più basso erano affollati di cavalieri, arcieri e capitani mercenari che si avventavano su grandi forme di pane da immergere nel loro stufato di pesce. Ma non c’erano, nella sala, gli scoppi di risate né le urla sbracate che turbavano la dignità delle feste di altri nobili. Lord Stannis non permetteva eccessi del genere.

Cressen si diresse verso la piattaforma sulla quale erano accomodati i lord e il loro re, costretto a compiere un ampio giro per cercare di evitare Macchia. Continuando a danzare, le campanelle che tintinnavano senza sosta, il giullare lo non vide né l’udì avvicinarsi. Così, saltellando da un piede all’altro, Macchia finì dritto addosso a Cressen, facendogli perdere il bastone di mano. Caddero ammucchiati uno sull’altro, in mezzo a tutti i festanti, in un groviglio di gambe e braccia. Un’incontenibile ondata di risate si sollevò tutto attorno a loro. Ed erano senza dubbio uno spettacolo comico.

Macchia gli era crollato addosso, coprendolo con la faccia tatuata troppo vicina alla sua. L’elmo di latta, con tanto di corna di cervo e di campanelli, era finito chissà dove.

«Sotto il mare, cadi all’insù» esclamò il giullare. «Lo so io, lo so io, oh, oh, oh.»

Ridacchiando, Macchia rotolò via, si rialzò e fece una specie di balletto. Cercando di incassare con dignità, il maestro fece un debole sorriso e provò a rimettersi in piedi, ma la sua anca gli doleva a tal punto da fargli credere che si fosse fratturata di nuovo. Sentì due mani forti insinuarsi sotto le ascelle e sollevarlo per aiutarlo a tornare in posizione eretta.

«Ti ringrazio, signore…» L’anziano sapiente si voltò per guardare in viso il cavaliere che era venuto in suo aiuto…

«Maestro Cressen.» Nella voce profonda di lady Melisandre, la donna rossa, c’era l’accento musicale del mare di Giada. «Dovresti stare più attento.»

Come sempre, Melisandre era tutta in rosso: indossava un lungo abito di seta frusciante, rosso come il fuoco, con ampie maniche appuntite e un corpetto con profondi tagli che mostravano il tessuto più scuro al di sotto, color rosso sangue. Portava un girocollo d’oro rosso, molto più stretto della catena dei maestri della Cittadella, ornato di un unico, enorme rubino. I suoi capelli non erano del rosso proprio degli uomini o delle donne comuni: avevano sfumature di rame antico che scintillavano alla luce delle torce. Perfino i suoi occhi erano rossi, ma la sua pelle era liscia e bianca, priva di qualsiasi imperfezione, pallida come alabastro. Era snella e aggraziata, Melisandre di Asshai, più alta della maggior parte dei cavalieri, dai seni pieni e la vita stretta, il viso a forma di cuore. E quando gli occhi degli uomini si posavano su di lei, si distoglievano a fatica, perfino gli occhi di un maestro. Molti la consideravano bella, ma Melisandre non era bella. Era rossa. Terribile, e rossa.

«Io… ti ringrazio, mia signora.»

«Un uomo della tua età dovrebbe fare attenzione a dove posa ì piedi» lo apostrofò cortesemente Melisandre. «La notte è oscura e piena di terrori.»

Cressen conosceva quelle parole: appartenevano a una delle preghiere del suo credo. “Non ha importanza. Io ho la mia, di fede.”

«Solo i bambini hanno paura del buio» ribatté lui ma, mentre pronunciava queste parole, udì Macchia che ricominciava a cantare.

«Le ombre vengono per danzare, mio signore, danza anche tu, mio signore, danza anche tu…»

«Ecco un enigma interessante» commentò Melisandre. «Un furbo giullare e uno sciocco sapiente.» Si chinò a raccogliere l’elmo di Macchia e lo sistemò in testa a Cressen. Le campanelle tintinnarono piano quando l’assurdo copricapo di latta andò a sistemarsi sulle orecchie del vecchio. «Una corona per accompagnare la tua catena, lord maestro.»

Tutto attorno a loro, ci fu un’altra risata generale. Cressen serrò le labbra, cercando di controllare il proprio furore. Quella donna pensava che lui fosse debole e indifeso, ma prima che la notte avesse avuto fine avrebbe imparato la sua lezione. Era un vecchio, certo, ma era ancora un maestro della Cittadella.

«L’unica corona della quale ho bisogno è la verità» rispose Cressen, togliendosi dal capo l’elmo del giullare.

«A questo mondo, esistono verità che non vengono insegnate a Vecchia Città.» Detto questo, Melisandre gli voltò le spalle in un vortice di sete rosse e tornò verso il tavolo al livello più alto, dov’erano seduti lord Stannis e la sua regina. Cressen restituì l’elmo con le corna a Macchia e fece per seguirla.

Seduto al suo posto c’era maestro Pylos. L’anziano sapiente s’irrigidì e rimase a fissarlo senza parole. «Maestro Pylos» disse alla fine. «Tu… tu non sei venuto a svegliarmi.»

«Sua maestà mi ha ordinato di lasciarti riposare.» Quanto meno, Pylos ebbe la buonagrazia di arrossire. «Mi ha detto che la tua presenza qui non era necessaria.»

Cressen passò lo sguardo sui cavalieri, sui capitani, sui lord, che sedevano ammutoliti: lord Celtigar, invecchiato e inacidito, indossava un mantello ornato con disegni di granchi rossi racchiusi a grappoli nelle reti; l’avvenente lord Velaryon aveva scelto sete color verde mare, il fermaglio di oro bianco a forma di cavalluccio marino in tinta con i suoi capelli; lord Bar Emmon, un ragazzo grassoccio di quattordici anni, era ammantato di velluto viola con bordature di pelle di foca bianca; ser Axell Florent si sentiva a proprio agio con indosso una pelliccia di volpe color ruggine; il pio lord Sunglass portava tormaline di luna al collo, ai polsi e alle dita; Salladhor Saan, il capitano pirata di Lys, era un’esplosione di satin scarlatto, oro e gioielli. L’unico a essere vestito con semplicità era ser Davos Seaworth, in farsetto marrone e mantello di lana verde, e ser Davos fu anche l’unico che volle incontrare il suo sguardo, gli occhi pieni di compassione.

«Sei troppo malandato e troppo confuso per essermi di una qualsiasi utilità, vecchio.» Sembrava proprio la voce di lord Stannis, ma non poteva essere, non poteva… «D’ora in avanti, sarà Pylos a consigliarmi. Si occupa già lui dei corvi, visto che tu non riesci più a salire all’uccelliera. Non vorrei che tu finissi nella tomba per servirmi.»

Maestro Cressen ammiccò. “Stannis, mio signore, mio piccolo ragazzo triste, figlio che non ho mai avuto, non fare questo. Non sai quanto ti ho voluto bene, che ho vissuto per te, quanto ti ho amato a dispetto di tutto. Sì, ragazzo, ti ho amato, persino più di Robert e più di Renly, proprio perché eri tu quello che nessuno amava, colui che più di ogni altro aveva bisogno di me.” Eppure, la sola frase che disse fu: «Come tu comandi, mio signore, ma… ma ho fame. Posso avere comunque un posto alla tua tavola?». “Al tuo fianco, è quello il mio posto…”

Ser Davos si alzò dalla panca. «Sarei onorato se il maestro potesse sedere qui accanto a me, maestà» disse.

«Come vuoi.» Stannis si voltò per dire qualcosa a Melisandre, seduta proprio alla sua destra, il posto del massimo onore. Lady Selyse era alla sua sinistra, esibendo un sorriso smagliante e splendente come i suoi gioielli.

“Troppo lontano” non poté fare a meno di pensare Cressen, contrariato, vedendo qual era il posto di Davos. C’era almeno la metà degli alti lord tra il contrabbandiere e gli scranni centrali. “Devo essere più vicino alla donna rossa se voglio farle cadere lo strangolatore nella coppa, ma come riuscirci?”

Macchia tornò ad avvicinarsi saltellando mentre Cressen arrancava fra i tavoli verso il posto di Davos Seaworth. «Ecco che noi mangiamo pesce» declamò il giullare, tutto contento, sventolando un merluzzo come se fosse uno scettro. «Ma sotto il mare, è il pesce a mangiare noi. Lo so io, lo so io, oh, oh, oh.»

Ser Davos si fece da parte per lasciare posto sulla panca. «Dovremmo avere tutti quanti il volto tatuato da giullare, questa sera» commentò cupamente mentre Cressen si sedeva. «Questa storia è una vera buffonata. La donna rossa ha visto la vittoria nelle sue fiamme, così Stannis intende confermare le sue pretese, a dispetto dell’entità dell’esercito. Prima che lei porti a compimento il suo piano, temo proprio che vedremo anche noi quello che ha visto Macchia: il fondo dell’oceano.»

Cressen infilò le mani nelle maniche, come per riscaldarsele. Al di sotto della lana spessa, le sue dita trovarono i duri risalti dei cristalli venefici. «Lord Stannis.»

Stannis distolse l’attenzione dalla donna rossa, ma fu lady Selyse a rispondere per lui: «“Re” Stannis. Sembra che tu stia dimenticando il protocollo, maestro».

«È vecchio, le sua mente vacilla» ribatté rudemente il re. «Che cosa c’è, Cressen? Parla.»

«Visto che intendi salpare, è vitale che tu stringa alleanza con lord Stark e lady Arryn…»

«Non stringerò alleanze con nessuno» affermò deciso Stannis Baratheon.

«Non più di quanto la luce possa stringere alleanza con le tenebre.» Lady Selyse gli prese la mano.

«Gli Stark vogliono impadronirsi del mio regno» concordò Stannis «nello stesso modo in cui i Lannister mi hanno rubato il trono e il mio amato fratello si è appropriato delle spade, delle difese e delle piazzeforti che mi spettano di diritto. Sono tutti usurpatori. E tutti nemici.»

“L’ho perduto.” Cressen, disperato, ormai non aveva più dubbi. Se solo fosse riuscito a trovare il modo di avvicinarsi a Melisandre senza essere notato. Un istante, nient’altro, gli bastava avere accesso un istante alla sua coppa.

«Tu sei l’erede di diritto di tuo fratello Robert, il vero signore dei Sette Regni, re degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini» disse disperatamente il maestro. «Ma anche così, non puoi pensare di riuscire a trionfare senza alleati.»

«Lui ha un alleato» intervenne lady Selyse. «R’hllor, Signore della luce, Cuore del fuoco, dio della Fiamma e dell’Ombra.»

«Gli dei sono alleati quanto meno incerti» insistette Cressen. «E quel dio, qui, non ha alcun potere.»

«Ne sei davvero convinto, maestro?» Quando Melisandre si voltò verso di lui, il rubino che aveva al collo incontrò la luce delle torce e, per un fugace momento, scintillò più vivido della cometa rossa. «Se sono queste le sciocchezze che vai dicendo, maestro, forse dovresti indossare di nuovo la corona di prima.»

«Giusto» l’appoggiò lady Selyse. «L’elmo del giullare ti starà davvero bene, vecchio. Rimettilo in capo, te lo comando.»

«Sotto il mare, nessuno porta il cappello» intonò Macchia. «Lo so io, lo so io, oh, oh, oh.»

Gli occhi di lord Stannis erano tenuti in ombra dalle folte sopracciglia, la sua bocca era serrata, la mandibola che si contraeva ritmicamente. Quando era arrabbiato, digrignava sempre i denti.

«Giullare» ringhiò alla fine. «La lady mia moglie ha dato un ordine. Da’ a Cressen il tuo elmo.»

“No” scongiurò fra sé il vecchio maestro. “Questo non sei tu, non è la tua anima. Tu sei sempre stato giusto; duro, senza dubbio, ma mai crudele, mai. Perché non ha mai saputo che cos’è la derisione, così come non hai mai capito che cos’è la risata.”

Macchia si accostò danzando, le campanelle che tintinnavano, “clang-a-lang”, “ding-ding”, “clink-clank-clink-clank”. Il maestro rimase in silenzio mentre il giullare gli poneva in capo l’elmo con le corna. Cressen fu costretto a chinare la testa a causa del peso, le campanelle tintinnarono.

«Credo che d’ora in avanti il saggio maestro dovrà cantarci i suoi consigli» ridacchiò lady Selyse.

«Basta così, donna» la rimproverò lord Stannis. «È un vecchio, e mi ha servito bene.»

“E continuerò a servirti fino alla fine, mio dolce signore, mio povero, solitario figlio.” Perché Cressen, tutto d’un tratto, aveva trovato la soluzione. La coppa di ser Davos era davanti a lui, ancora piena a metà di vino rosso forte. Nella tasca della sua manica, le sue dita trovarono uno dei cristalli viola. Lo tenne serrato tra pollice e indice nell’accostarlo alla coppa. “Movimenti calmi, controllati, non posso essere maldestro proprio adesso.” Cressen pregò in silenzio, e gli dei furono gentili con lui. In un battito di ciglia, non ci fu più niente nelle sue dita. Era da anni che le sue mani non erano così ferme, né così rapide. Davos aveva visto. Lui, ma nessun altro, Cressen ne era certo.

«Forse sono davvero stato uno sciocco.» Con la coppa in mano, si alzò dalla panca. «Lady Melisandre, fammi l’onore di dividere con me questa coppa di vino in onore del tuo dio, il Signore della luce. Un brindisi al suo potere.»

La donna rossa lo scrutò: «Se proprio insisti».

Cressen sentì gli sguardi di tutti fissi su di sé. Davos cercò di afferrarlo mentre si allontanava dalla panca, le dita che Stannis gli aveva mozzato serrate attorno alla sua manica.

«Ma che cosa credi di fare?» domandò in un sussurro il contrabbandiere.

«Qualcosa che deve essere fatto» fu la risposta di maestro Cressen. «Per il bene del reame, e per l’anima del mio signore.»

Si sciolse dalla stretta di Davos, versando nel movimento qualche goccia di vino. Melisandre gli andò incontro al cospetto dell’alto tavolo, gli sguardi di tutti che non li abbandonavano. Ma era solamente lei che Cressen vedeva: seta rossa, occhi rossi, rubino rosso alla gola, labbra rosse increspate in un sorriso evanescente mentre appoggiava la mano sopra quella di lui attorno allo stelo della coppa. La pelle della sacerdotessa era torrida, come incendiata dalla febbre.

«Non è troppo tardi per rovesciare il vino, maestro.»

«Lo è» sussurrò aspramente Cressen. «È troppo tardi.»

«Allora sia come tu desideri.» Melisandre di Asshai prese la coppa e bevve una lunga, profonda sorsata. Quando tornò a offrirgliela, solo un sorso di vino era rimasto. «Tocca a te, ora.»

Le mani di Cressen tremavano, ma lui s’impose di essere forte: un maestro della Cittadella non doveva avere paura. Al contatto con la sua lingua, il vino aveva un sapore aspro. Lasciò andare la coppa dopo aver bevuto, mandandola a infrangersi a terra.

«Il mio dio ha potere qui, mio lord» esclamò la donna. «E il fuoco purifica.» Il rubino che aveva al collo mandava lampi purpurei.

Cressen cercò di replicare ma le parole gli s’impigliarono in gola. Cominciò a tossire, una tosse che si tramutò in un terribile rantolo sibilante nel disperato tentativo di respirare, mentre dita di ferro parevano serrargli il collo. Maestro Cressen crollò in ginocchio, scuotendo il capo per negare il potere della donna rossa, negare la sua magia, il suo dio. Le campanelle sulle corna della sua corona continuarono a tintinnare, cantandogli: “Sciocco, sciocco, sciocco”, mentre la donna rossa rimase a guardarlo quasi con compassione, le fiamme delle candele che danzavano nei suoi occhi rossi.

Загрузка...