TYRION

Sognò un soffitto di pietra pieno di crepe, il tanfo del sangue, della merda e della carne bruciata. L’aria era piena di fumo acre. Tutto intorno a lui, uomini gemevano e si lamentavano. A volte, un urlo di sofferenza perforava l’atmosfera opaca. Quando cercò di muoversi, si rese conto di aver lordato il suo stesso letto. Il fumo che saturava l’aria gli faceva lacrimare gli occhi.

“Sto forse piangendo?” Non poteva permettere che suo padre se ne accorgesse. Era un Lannister di Castel Granito, lui. “Un leone. Devo essere un leone. Devo vivere da leone. E morire da leone.”

Ma il dolore era spaventoso. Troppo debole anche per gemere, giacque immobile nella sua sozzura e richiuse gli occhi. Da qualche parte, una voce greve, monotona, stava bestemmiando gli dei. Tyrion rimase ad ascoltare quella ridda di cose blasfeme, chiedendosi se fosse giunta la sua ora. Dopo qualche tempo, la stanza svanì.


Era all’esterno della città, in marcia in un mondo privo di colori. Corvi neri si libravano nel cielo grigio con le loro ali nere. Dovunque lui si girasse, avvoltoi famelici stavano banchettando in mezzo a nubi vorticose. Vermi bianchi strisciavano in putrefazioni nere. I lupi erano grigi, come le sorelle del silenzio. Insieme strappavano la carne ai caduti. Il campo dei tornei era disseminato di cadaveri. Il sole brillava come una moneta bianca incandescente. I suoi raggi si riflettevano nel fiume grigio, sulla cui superficie affioravano gli scheletri delle navi distrutte. Dalle pire dei morti si levavano nere colonne di fumo e nembi di livide ceneri.

“Sono stato io” Tyrion Lannister non ne dubitava. “Io ho ordinato loro di andare a morire.”

All’inizio, non c’erano suoni in quel mondo in bianco e nero. Ma dopo un po’, cominciò a udire le voci dei morti, lievi e terribili. Piangevano e gemevano, implorando che il dolore avesse fine. Chiedevano aiuto, invocavano le loro madri. Tyrion non l’aveva mai conosciuta, sua madre. Voleva Shae, ma lei non c’era. Così camminò attraverso le ombre grigie da solo, cercando di ricordare…

Le sorelle del silenzio stavano togliendo ai caduti le armature é i vestiti. Dalle tuniche degli uomini distrutti, tutti i colori brillanti erano svaniti. Adesso erano ricoperti solo di sfumature del bianco e del grigio, e il loro sangue era nero e raggrumato. Osservò i loro corpi nudi presi per le braccia e per le gambe. Li osservò mentre venivano fatti oscillare, per poi essere gettati sulle pire insieme ai corpi che li avevano preceduti. Metallo e stoffe venivano gettati su un carro di legno bianco, trainato da una coppia di alti cavalli neri.

“Così tanti morti.” I cadaveri giacevano inerti, le loro facce afflosciate, o irrigidite, o gonfie del gas della decomposizione. Facce irriconoscibili, nemmeno più umane. Gli indumenti che le sorelle gli avevano tolto erano decorati con cuori neri, leoni grigi, fiori morti, pallidi cervi spettrali. Le armature erano tutte ammaccate, squarciate. Le maglie di ferro sconnesse, lacerate, spezzate. “Perché li ho uccisi?” Aveva conosciuto quella risposta, un tempo. Ma adesso, per qualche ragione, l’aveva dimenticata.

Voleva chiederlo a una delle sorelle del silenzio, ma quando cercò di parlare, scoprì di non avere più la bocca. Pelle liscia, senza increspature, gli copriva i denti. Fu una scoperta che lo riempì di terrore. Come avrebbe fatto a vivere senza bocca? Cominciò a correre. La città non era distante e dentro la città, lontano da tutti questi morti, sarebbe stato al sicuro. Lui non apparteneva ai morti. Non aveva la bocca, ma era ancora un uomo vivo. “Anzi, un leone. Un leone vivo.” Raggiunse la città. Ma trovò le porte sbarrate.


Erano calate le tenebre quando si svegliò nuovamente. All’inizio, non gli riuscì di distinguere nulla ma poi, poco per volta, apparvero i vaghi contorni di un letto. Le tende erano tirate, ma poteva vedere le colonne di legno intarsiato, e le falde del baldacchino di velluto sopra di lui. E sotto di lui, c’era il morbido abbraccio del materasso di piume, il cuscino era di piume d’oca. “Il mio letto. Sono nel mio letto, nella mia stanza.”

Faceva caldo all’interno delle tende. Sotto il grande mucchio di pellicce e di coperte che lo avvolgevano, stava sudando. “Febbre” pensò nell’intontimento. Si sentiva molto debole. Quando cercò di sollevare una mano, il dolore lo trafisse come una pugnalata. Aveva l’impressione che la sua testa fosse diventata enorme, grande quanto tutto il letto, troppo pesante per riuscire a sollevarla dal cuscino. Il resto del corpo quasi non lo sentiva. “Come ho fatto ad arrivare qui?” Cercò di ricordare. Le immagini della battaglia ritornarono, una ridda di frammenti, di lampi sconnessi. Il combattimento lungo il fiume, il cavaliere che gli aveva offerto il guanto ferrato in segno di resa, il ponte formato dai relitti delle navi…

“Ser Mandon.” Rivide gli occhi morti del cavaliere con l’armatura bianca, la sua mano protesa, le fiamme verdi dell’altofuoco riflesse nello smalto della corazza. La paura tornò a sommergerlo come una marea gelida. Sotto le lenzuola, sentì la vescica che cedeva. Avrebbe urlato, se avesse avuto una bocca per farlo. “No, quello era nel sogno.” La testa continuava a pulsargli. “Aiutatemi, qualcuno mi aiuti. Jaime. Shae. Madre… qualcuno… Tysha…”

Nessuno udì. Nessuno venne. Da solo, nelle tenebre, ricadde nel sonno intriso dell’odore di piscio.


Sognò sua sorella, era in piedi accanto al letto, e il lord loro padre stava al suo fianco, con l’espressione aggrottata. Doveva essere un sogno. Lord Tywin si trovava migliaia di leghe lontano, nell’ovest, a combattere Robb Stark. Anche altri andarono e venirono. Varys lo guardò con un sospiro, e Ditocorto fece una battuta di spirito. “Fottuto bastardo traditore” pensò Tyrion, pieno di veleno. “Ti abbiamo mandato a Ponte Amaro, ma tu non sei mai tornato indietro.” A volte li udiva parlare gli uni con gli altri, ma non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Le loro voci gli ronzavano nelle orecchie come vespe dentro un’imbottitura di feltro.

Voleva chiedere chi aveva vinto la battaglia. “Dobbiamo avere vinto noi, diversamente la mia testa sarebbe infilzata su una picca. Se io sono vivo, vuol dire che abbiamo vinto.” Non era certo di che cosa gli facesse più piacere: se la vittoria oppure il fatto di essere ancora in grado di articolare dei pensieri. Le sue facoltà mentali stavano tornando, lentamente, ma stavano tornando. Il che era un bene. La sua mente era tutto quello che aveva.


Al risveglio successivo, le tende erano state tirate e Podrick Payne era in piedi accanto a lui, reggendo una candela. Quando vide Tyrion aprire gli occhi, corse subito via. “No! Non andare. Aiutami…” Cercò di chiamare, ma quello che uscì fu un gemito soffocato. “Sono senza bocca.” Sollevò una mano verso la faccia, ogni movimento era causa di sofferenza e di incertezza. Là dove avrebbero dovuto incontrare carne, labbra denti, le sue dita trovarono della stoffa rigida. “Bende.” Aveva la parte inferiore della faccia strettamente fasciata, una maschera di gesso indurito, con fori per respirare e per nutrirsi.

Poco dopo, Pod riapparve. Questa volta, con lui c’era un estraneo, un maestro, con tanto di tonaca e di catena dell’ordine della Cittadella. «Mio lord, non devi muoverti» mormorò il sapiente. «Sei gravemente ferito. Rischi di causarti danni ancora maggiori. Hai sete?»

Tyrion riuscì in qualche modo ad annuire. Il maestro inserì una cannuccia di rame nel foro del nutrimento e, con molta cautela, gli versò un liquido in gola. Tyrion deglutì, quasi senza sentire il sapore. Si rese conto troppo tardi che quel liquido era latte di papavero. Quando il maestro tolse la cannuccia, lui stava di nuovo scivolando nel sonno.


Sognò di essere a una festa, un banchetto di vittoria in una grande sala. Era seduto sullo scranno d’onore al centro della piattaforma, e tutti levavano i calici a lui, il loro eroe. C’era Marillion, il cantastorie che aveva attraversato con loro le montagne della Luna. Cantava le temerarie imprese del Folletto, accompagnandosi con la sua arpa di legno. Perfino lord Tywin sorrideva in segno di approvazione. Quando la canzone ebbe termine, Jaime si alzò dal suo posto e ordinò a Tyrion d’inginocchiarsi. Con la sua spada dorata, lo toccò prima su una spalla e poi sull’altra e quando Tyrion si rialzò, era un cavaliere. Shae lo aspettava, pronta ad abbracciarlo. Lo prese per mano, ridendo e piena di brio, chiamandolo il suo gigante Lannister.


Si svegliò in una stanza fredda e vuota.

Le tende del letto erano state tirate di nuovo. C’era qualcosa che non andava ma non era in grado di capire che cosa. Lo avevano lasciato solo ancora. Spinse via le coperte e cercò di mettersi seduto, ma le fitte erano insopportabili. Tyrion aveva il respiro affannato e fu costretto a rinunciare. Il dolore alla faccia era il minore dei mali, tutta la parte destra del corpo era un unico incendio di sofferenza. Ogni volta che sollevava il braccio, una lama rovente gli affondava nel petto. “Ma che cosa mi è successo?” Perfino la battaglia, quando lui cercava di ricordare, pareva quasi un sogno. “Sono stato colpito più duramente di quanto mi fossi reso conto. Ser Mandon…”

Quella memoria lo spaventava, ma Tyrion s’impose di non lasciarla andare. Cercò di affrontarla, osservando, scrutando. “Ha cercato di uccidermi, nessun dubbio. E non si è trattato di un sogno. Mi avrebbe tagliato in due se Pod non… un momento: dov’è Pod?”

Digrignando i denti, si afferrò alle tende e tirò. I ganci cedettero e le tende vennero giù, parte sul letto, parte su di lui. Perfino quel piccolo sforzo lo aveva sfinito. La stanza gli girava intorno, pareti nude, ombre cupe, un’unica stretta finestra. Notò un baule che gli apparteneva, un mucchio disordinato di vestiti, la sua malconcia armatura. “Questa non è la mia stanza da letto” si rese conto. “Non è nemmeno la Torre del Primo Cavaliere.” Qualcuno lo aveva spostato. Il suo urlo di rabbia venne fuori come un lamento soffocato. “Mi hanno messo qui dentro a morire.” Fu il suo ultimo pensiero prima di chiudere nuovamente gli occhi. La stanza era fredda e umida, e lui stava bruciando.


Sognò un luogo migliore, una piccola casa confortevole sulla riva del mare, al tramonto. Le pareti erano storte e fessurate, il pavimento era in terra battuta, ma lui aveva sempre sentito il calore in quel posto, perfino quando il fuoco si spegneva.

“Lei mi prendeva sempre in giro quando accadeva” ricordò. “A me non veniva mai in mente di mettere altri ceppi sul fuoco, quello era sempre stato un compito dei servi.” “Noi non abbiamo servi” faceva presente lei. “Tu hai me, sono io il tuo servo” rispondeva lui. “Un servo ben pigro. Che fine fanno i servi pigri a Castel Granito, mio lord?” e lui rispondeva: “Li baciamo”. Questo portava sempre il sorriso sulle sue labbra: “Non ci credo proprio” diceva lei. “Scommetto invece che li picchiano.” Ma lui non cedeva: “Li baciamo, invece… così”. E le mostrava come. “Prima baciamo le loro dita, una a una, e poi i polsi, sì, l’incavo dei gomiti. E poi baciamo le loro strane orecchie, tutti i servi di Castel Granito hanno strane orecchie. E smettila di ridere! Baciamo le guance, il naso con quella gobba nel mezzo, ecco, così, e le loro fronti delicate, i capelli, le labbra… la bocca… mmmmm… così…”

Andavano avanti a baciarsi per ore, passando interi giorni non facendo altro che crogiolarsi nel letto, ascoltando il suono delle onde, accarezzandosi. Per Tyrion, il corpo di lei era meraviglioso, e lei sembrava trovare splendido il suo. A volte, lei cantava per lui. “Ho amato una fanciulla bionda come l’estate, con la luce del sole nei capelli.” «Ti amo, Tyrion» gli diceva prima di addormentarsi, la notte. «Amo le tue labbra. Amo la tua voce, e le parole che mi dici e il modo gentile in cui mi tratti. Amo la tua faccia.»

«Anche la mia faccia

«Sì, sì! Amo le tue mani e come mi toccano. Il tuo uccello, sì, amo il tuo uccello, e quello che sento quando è dentro di me.»

«Anch’io ti amo, mia signora.»

«Amo pronunciare il tuo nome. Tyrion Lannister. Sta bene vicino al mio. Non Lannister ma l’altra parte. Tyrion e Tysha. Tysha e Tyrion. Tyrion. Mio lord Tyrion…»

“Menzogne” pensò lui. “Tutto finto, tutto per i soldi. Era una puttana, la puttana di Jaime, il regalo di Jaime, la mia signora delle menzogne.” Il volto di lei parve dissolversi, svanendo dietro un velo di lacrime. Ma anche dopo che ogni traccia di lei fu scomparsa, Tyrion continuò a udire la sua voce, che lo chiamava, remota: «… Mio lord, riesci a sentirmi? Mio lord? Tyrion? Mio lord?…».

Nella nebbia del sonno narcotico, vide un morbido volto rosa proteso verso il suo…

«… Mio lord?»


«Mio lord Tyrion?»

… Era ritornato nella stanza fredda e umida, con le tende del baldacchino strappate. E la faccia su di lui era un’altra, non quella di Tysha. Una faccia troppo rotonda, con una leggera peluria castana.

«Hai sete, mio lord? Ho il tuo latte, il tuo buon latte. Non devi lottare, no. Non cercare di muoverti. Devi riposare.»

Il maestro aveva la cannuccia di rame in una mano e un’ampolla nell’altra. Quando si chinò ancora di più su di lui, la mano di Tyrion scivolò sotto la catena dell’ordine della Cittadella, l’afferrò, tirò. Il maestro lasciò cadere l’ampolla, disseminando il latte di papavero sulle coperte. Tyrion cominciò a torcere, e torcere. Torse fino a quando sentì gli anelli metallici affondare nel grasso collo dell’altro.

«Basta… latte.» Parole a metà strada tra un ringhio e un rantolo. Non fu nemmeno certo di averle pronunciate realmente. Ma doveva averlo fatto, perché il maestro smozzicò una risposta.

«Lascia, mio lord… ti prego… hai bisogno del latte, il dolore… la catena, no… lascia…»

La faccia rosa stava cominciando a diventare paonazza. Tyrion abbandonò la presa. Il maestro si allontanò dal letto, inspirando aria nei polmoni. Nella sua gola, là dove gli anelli della catena avevano fatto pressione c’erano nitide tracce biancastre. Anche i suoi occhi erano biancastri. Tyrion sollevò una mano. Fece un gesto per chiedere che quella maschera rigida gli venisse tolta. Lo ripeté più volte.

«Tu vuoi… che ti tolgano le bende vero?» disse il maestro. «Ma io non penso… questa sarebbe… una pessima idea, mio lord. Non sei ancora guarito. E la regina…»

La sola menzione di Cersei spinse Tyrion a emettere una specie di ruggito. “Sei anche tu dalla sua parte, quindi?” Puntò un dito accusatore contro il maestro, serrando poi la mano a pugno. Per stritolare, strangolare: una promessa, a meno che l’idiota non facesse come lui gli stava ordinando.

Fortunatamente, l’idiota comprese: «Io… io farò come il mio lord comanda, questo è certo, ma… è una pessima idea, le ferite…».

«Fallo.» Tyrion parlò più forte, questa volta.

Con un inchino, il maestro lasciò la stanza. Rientrò pochi momenti dopo, portando un lungo coltello munito di una lama seghettata, una bacinella piena d’acqua, una pila di pezzuole pulite e svariate ampolle. Tyrion era riuscito a strisciare un po’ indietro, in modo da sedere con la schiena appoggiata ai cuscini. Il maestro gli raccomandò di restare immobile, poi fece scivolare la lama sotto il bordo della maschera, vicino al mento. “Basterebbe un sussulto, e Cersei si sbarazzerebbe di me una volta per tutte.” Tyrion poteva sentire la lama affondare nelle bende indurite, a pochi centimetri dalla sua gola.

Ma quell’uomo roseo e grassoccio non era una delle creature più coraggiose della sua cara sorella. Dopo qualche momento, Tyrion percepì l’aria fredda sfiorargli la guancia. E sentì dolore. Ma quello s’impose d’ignorarlo. Il maestro mise da parte i bendaggi ancora intrisi di pozione narcotica.

«Ora ti prego di rimanere immobile. Devo ripulire la ferita.»

Il suo tocco era gentile, l’acqua era calda, piacevole. La ferita… Nella memoria di Tyrion avvampò un folgorante lampo argenteo, un barbaglio improvviso, proprio davanti agli occhi.

«Adesso sentirai un po’ male» avvertì il maestro.

Poi gli passò sulla faccia un pezzo di stoffa imbevuto di vino che sapeva di erbe. Ma fu molto peggio del previsto. Una specie di linea di fuoco attraversò la faccia di Tyrion, e fu come se un ferro arroventato gli risalisse lungo il naso. Le sue dita si contrassero sulle lenzuola. Inspirò in uno spasmo, ma in qualche modo riuscì a non urlare. Il maestro stava chiocciando come una vecchia gallina.

«Sarebbe stato meglio lasciare la maschera al suo posto fino a quando la carne non si fosse risanata, mio lord. Ma anche così, la ferita appare pulita. Bene, bene. Quando ti abbiamo trovato giù nelle cantine, insieme ai morti e ai morenti, le tue ferite erano sudicie. Hai una costola rotta, senza dubbio puoi sentirla. Il colpo di una mazza ferrata, forse. O forse una caduta, difficile a dirsi. E sei anche stato colpito da una freccia al braccio, all’attaccatura della spalla. Mostrava segni di necrosi, e per qualche tempo abbiamo temuto che tu potessi perdere l’arto. Ma l’abbiamo curata con vino bollente e vermi, e adesso sembra che stia guarendo normalmente…»

«Nome» gorgogliò Tyrion. «Nome.»

Il maestro ammiccò: «Ma… Tyrion Lannister, mio lord. Tu sei il fratello della regina. Ricordi la battaglia? A volte, le ferite alla testa…».

«Il tuo nome.» Tyrion sentiva la gola riarsa, la sua lingua pareva aver dimenticato come si faceva ad articolare le parole.

«Sono maestro Ballabar.»

«Ballabar…» ripeté Tyrion. «Porta lo specchio.»

«Mio lord, mi permetto di suggerire… Questo potrebbe essere, ehm, poco saggio… La tua ferita…»

«Portalo!» La sua bocca era rigida e dolorante, come se un pugno gli avesse spaccato le labbra a metà. «E da bere, vino, non papavero.»

Il maestro, rosso in faccia, si alzò e se ne andò in fretta. Tornò con una caraffa piena di pallido vino ambrato e un piccolo specchio con un’ornata cornice dorata. Si sedette sul bordo del letto, versò mezza coppa di vino e la sollevò fino alle labbra tumefatte di Tyrion. La bevanda era fresca, ma lui quasi non ne sentì il sapore.

«Altro vino» disse lui quando la coppa fu vuota.

Maestro Ballabar versò di nuovo. Al termine della seconda coppa, Tyrion Lannister si sentì sufficientemente forte per dare un’occhiata alla propria faccia.

Si voltò verso lo specchio, e fu incerto se ridere o piangere. Lo squarcio era lungo e distorto, partiva appena sotto l’occhio sinistro e terminava sul lato destro della mandibola. Tre quarti del naso non c’erano più, lo stesso valeva per un pezzo di labbro. Qualcuno aveva ricucito i lembi di carne usando filo di viscere di gatto. I goffi punti di sutura risaltavano lividi contro la carne ancora esposta, rossastra, solo parzialmente risanata.

«Carino» gorgogliò, gettando via lo specchio.

Adesso ricordava. Il ponte dei relitti delle navi. Ser Mandon Moore, la mano tesa, la spada che cala contro la sua faccia. “Se non mi fossi tirato indietro, quel fendente mi avrebbe staccato metà del cranio.” Jaime aveva sempre detto che, tra tutti i cavalieri della Guardia reale, il più pericoloso era proprio Mandon Moore. Quei suoi occhi morti non davano alcuna indicazione di quale sarebbe stata la sua prossima mossa. “Non avrei mai dovuto fidarmi. Di nessuno di loro.” Sapeva che ser Boros e ser Meryn erano fedeli a sua sorella, e adesso anche ser Osmund Kettleblack, ma era stato comunque portato a credere che per gli altri l’onore non fosse completamente perduto. “Cersei deve averlo pagato perché io non facessi ritorno dalla battaglia sul fiume. Che altri motivi potrebbero esserci? Non mi risulta di aver mai danneggiato ser Mandon in nessun modo.” Tyrion si tastò la faccia sfiorando la carne distorta con le sue dita tozze. “Un altro bel regalo da parte della cara sorellina.”

Il maestro era in piedi accanto a letto. Pareva un’oca pronta a spiccare il volo. «Mio lord, ecco… quasi certamente rimarrà una cicatrice…»

«Quasi certamente?»

La sua risata simile a un grugnito si tramutò in una smorfia di dolore. Era chiaro che sarebbe rimasta una cicatrice. Ed era anche chiaro che il suo naso non sarebbe ricresciuto nei prossimi giorni. Non che la sua faccia fosse mai stata una bellezza comunque.

«Così imparo a non giocare con le asce» sogghignò Tyrion. «Dove, siamo?» Parlare gli faceva male, ma lui era rimasto in silenzio per troppo tempo.

«Oh, ti trovi nel Fortino di Maegor, mio lord. Una stanza sopra la Sala da Ballo della regina. Sua Maestà voleva che tu fossi vicino a lei, in modo da potersi occupare di te personalmente.»

“Ci scommetto proprio.” «Riportatemi nelle mie stanze» ordinò Tyrion. “Dove avrò intorno a me i miei uomini, il mio maestro. Ammesso che riesca a trovarne uno di cui mi fidi.”

«Le tue… ecco, mio lord, non è possibile. Il Primo Cavaliere del re ora occupa quelli che erano stati i tuoi appartamenti.»

«Io sono il Primo Cavaliere.» Era sempre più stremato dallo sforzo di parlare. E sempre più confuso da quanto stava udendo.

Maestro Ballabar parve a estremo disagio: «No, mio lord… tu sei rimasto ferito, prossimo alla morte. Il lord tuo padre ha assunto quei doveri, adesso. Lord Tywin, lui è…».

«Qui?»

«Dalla notte della battaglia. Lord Tywin ha salvato tutti noi. Il popolino dice che è stato il fantasma di Renly, ma gli uomini più saggi sanno la verità. Sono stati il lord tuo padre e lord Tyrell, con il Cavaliere di fiori e lord Ditocorto. Hanno cavalcato attraverso le ceneri attaccando l’usurpatore Stannis alle spalle. È stata una grande vittoria. E adesso lord Tywin si è sistemato nella Torre del Primo Cavaliere, in modo da aiutare sua Grazia a ristabilire la giustizia nel reame, siano lodati gli dei.»

«Siano… lodati… gli dei» ripeté meccanicamente Tyrion. Il suo maledetto padre e il maledetto Ditocorto… e il fantasma di Renly? «Io voglio…» “Che cos’è che voglio?” Non poteva dire a quel Ballabar di andare a prendere Shae. Chi poteva mandare, di chi si poteva fidare? Varys? Bronn? Ser Jacelyn? «… il mio scudiero» concluse. «Pod. Payne.» “Era lui sul ponte di relitti… mi ha salvato la vita.”

«Il ragazzo? Il ragazzo strano?»

«Ragazzo strano, sì. Podrick. Payne. Tu va’. Chiama lui.»

«Come desideri, mio lord.»

Maestro Ballabar annuì e se ne andò. Nell’attesa che seguì, Tyrion sentì che le sue forze tornavano ad abbandonarlo. Si chiese per quanto tempo fosse rimasto là dentro, a dormire. “E a Cersei non dispiacerebbe che io continuassi a dormire per sempre, ma non sarò così accondiscendente.”

Podrick Payne fece timidamente il suo ingresso nella stanza da letto. «Mio lord?» Si avvicinò al letto con cautela. “Com’è possibile che un ragazzo così valoroso in battaglia sia tanto spaventato nella stanza di un malato?” si chiese Tyrion. «Io volevo starti vicino, ma il maestro mi ha mandato via.»

«Io ho mandato via lui. Ascolta. Parlare mi è difficile. Bisogno di vino dei sogni. Vino dei sogni, non latte di papavero. Va’ da Frenken. Non Ballabar. Guardalo mentre lo prepara. Portalo qui.» Pod lanciò un’occhiata alla faccia di Tyrion, e distolse rapidamente lo sguardo. “Non posso certo dargli torto.” «Io voglio» riprese Tyrion «le mie… guardie. Bronn. Dov’è Bronn?»

«Lo hanno fatto cavaliere.»

Perfino corrugare la fronte gli causava sofferenza: «Trovalo. Chiamalo».

«Come ordini, mio lord.»

Tyrion afferrò il ragazzo per il polso: «Ser Mandon?».

Il ragazzo ebbe un’espressione contratta: «I-i-i-o non vo-vo-vo-volevo uc-c-c-c…».

«Morto? Sei certo? Morto?»

Podrick spostò il peso da un piede all’altro: «Annegato».

«Bene. Non dire nulla, di lui, di me. Nulla. A nessuno.» Quando il giovane scudiero se ne andò, anche gli ultimi residui delle forze di Tyrion se ne erano andati. Giacque immobile e chiuse gli occhi. Forse avrebbe sognato nuovamente Tysha. “Chissà se la mia faccia le piacerebbe anche adesso” si chiese, con un po’ di amarezza.

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