Il cielo a meridione era nero, invaso dal fumo che si sollevava da un centinaio di fuochi lontani, le sue dita fuligginose inghiottivano le stelle. Oltre il fiume delle Rapide nere, una linea di fuoco pulsava nella notte, estesa da un capo all’altro dell’orizzonte. Sulla riva di Approdo del Re, il Folletto aveva fatto incendiare l’intera sponda: moli, magazzini, case, bordelli, qualsiasi cosa si trovasse all’esterno delle mura.
Perfino dentro la Fortezza Rossa l’aria era impregnata dell’odore della cenere. Sansa incontrò ser Dontos nel parco degli dei. Lui le chiese perché avesse pianto.
«È colpa del fumo» mentì lei. «Sembra quasi che metà della foresta del re stia bruciando.»
«Lord Stannis usa il fumo per costringere allo scoperto i selvaggi del Folletto.» Parlando, Dontos barcollava. Era costretto a tenersi appoggiato al tronco di un castagno. Una chiazza di vino aveva scolorito le pezze rosse e gialle del suo costume da giullare. «I barbari delle montagne della Luna uccidono i suoi esploratori e razziano le sue carovane. Anche loro hanno appiccato incendi. Il Folletto ha detto alla regina che Stannis farà meglio a insegnare ai suoi cavalli a mangiare cenere, perché non troverà un solo filo d’erba. L’ho sentito io che glielo diceva. Adesso che sono un giullare, sento cose che da cavaliere nemmeno mi sarei immaginato di sapere. Parlano come se non fossi neppure là, e…» si protese verso di lei, alitandole in faccia il suo fiato puzzolente di vino. «Il Ragno tessitore paga in oro ogni più piccola informazione. Credo che Ragazzo di luna sia da anni uno dei suoi.»
“È ubriaco di nuovo, il mio povero Florian, per chiamarlo come fa lui stesso. Eppure non ho altri che lui.” «È vero che lord Stannis ha bruciato la foresta del re a Capo Tempesta?»
Dontos annuì: «Ha dato fuoco agli alberi ammucchiati in una grande pira come offerta al suo nuovo dio, il Signore della Luce, la sacerdotessa rossa che lo ha spinto a farlo. Dicono che adesso è lei a dominarlo, corpo e anima. Stannis ha anche giurato di bruciare il Grande Tempio di Baelor, se riuscirà a prendere la città».
«Faccia pure.» Quando Sansa aveva visto per la prima volta il Grande Tempio di Baelor, con le sue pareti di marmo e le sue sette torri di cristallo, aveva pensato che fosse la cosa più splendida al mondo. Ma questo era stato prima che Joffrey facesse decapitare suo padre sui gradini del luogo sacro. «Io voglio che venga ridotto in cenere.»
«Zitta, piccola, gli dei ti udiranno.»
«E perché dovrebbero? Non ascoltano mai le mie preghiere.»
«Sì, invece. Mi hanno mandato da te, non è forse così?»
Sansa staccò piccoli pezzi di corteccia da un albero. Sentiva la testa vuota, come se avesse la febbre. «Ti hanno mandato da me, ma tu che cosa hai fatto? Hai promesso di portarmi a casa, però sono ancora qui.»
Dontos le diede alcuni amichevoli colpetti sul braccio: «Ho parlato con un uomo che conosco, un buon amico mio… e anche amico tuo, mia lady. Avrà una nave veloce per portarci in salvo, al momento giusto».
«Il momento giusto è adesso» insiste Sansa. «Prima che abbiano inizio i combattimenti. Loro si sono dimenticati di me. Io so che potremmo scappare, se solo ci provassimo.»
«Piccola, piccola mia» Dontos scosse il capo. «Scappare dal castello? Sì, potremmo riuscirci, ma le porte della città adesso sono sorvegliate più che mai, e il Folletto ha addirittura bloccato qualsiasi accesso al fiume.»
Era vero. Sansa non aveva mai visto il fiume delle Rapide nere tanto sinistramente vuoto. Tutti i traghetti erano stati ritirati sulla sponda settentrionale. Quanto alle galee mercantili, o erano fuggite o erano state requisite dal Folletto per essere trasformate in scafi da guerra. Le uniche navi in vista erano le galee da battaglia del re. Si spostavano a remi avanti e indietro, senza sosta, tenendosi nelle acque profonde al centro del fiume, scambiando nugoli di frecce con gli arcieri di Stannis sulla riva sud.
Quanto a lord Stannis, lui era ancora in marcia. Ma due notti prima, con la luna nera, le sue avanguardie avevano fatto la loro comparsa. Approdo del Re si era risvegliata alla vista delle loro tende e dei loro stendardi. Cinquemila uomini, aveva sentito dire Sansa, quasi quanti gli uomini delle cappe dorate della Guardia cittadina. Innalzavano le mele verdi o rosse dei Fossoway, la tartaruga degli Estermont, la volpe circondata di fiori dei Florent. Al comando c’era ser Guyard Morrigen, un celebre cavaliere del Sud che adesso gli uomini chiamavano Guyard il Verde. Sul suo vessillo svettava un corvo in volo, con le ali nere aperte contro un cielo verde tempesta. Ma tra tutti, quelli che più preoccupavano la città erano i vessilli giallo pallido. Lunghe code frastagliate si agitavano su di essi come tentacoli di fuoco, e al posto dell’emblema di lord Baratheon, avevano il segno di un dio: il cuore incendiato del Signore della Luce.
«Quando anche Stannis sarà arrivato, il suo esercito sarà dieci volte più numeroso di quello di Joffrey, lo dicono tutti.»
«Non importa quanto è numeroso il suo esercito, piccola» Dontos le diede una piccola pacca sulla spalla. «Basta che rimanga dall’altra parte del fiume. Senza navi, Stannis non può attraversarlo.»
«Ma ha navi. Più di Joffrey.»
«È una lunga rotta da Capo Tempesta. La sua flotta sarà costretta ad aggirare l’Uncino di Massey, superare lo stretto e infine entrare nell’estuario delle Rapide nere. Forse gli dei manderanno loro una tempesta che li spazzerà via dai mari.» Dontos azzardò un sorriso speranzoso. «Non è facile per te, lo so. Ma devi essere paziente, piccola mia. Quando il mio amico sarà rientrato in città, avremo la nostra nave. Abbi fede nel tuo Florian, e cerca di non avere paura.»
Sansa affondò le dita nel palmo della mano. Sentiva la paura che le artigliava il ventre, era sempre peggio ogni giorno che passava. Incubi di quando la principessa Myrcella era salpata per Dorne continuavano a turbare le sue notti. Sogni oscuri, strangolanti, dai quali si svegliava di soprassalto nel cuore della notte, con il fiato mozzo. Udiva gente che urlava contro di lei, grida prive di parole intellegibili, come quelle degli animali. La circondavano da tutti i lati, gettandole rifiuti addosso, cercando di trascinarla giù dal cavallo. Avrebbero fatto ben di peggio se il Mastino non fosse intervenuto, aprendosi la strada fino a lei a colpi di spada. La folla aveva fatto a pezzi l’Alto Sacerdote, aveva sfondato il cranio a ser Aron Santagar a colpi di pietra. “Cerca di non avere paura!”
L’intera città aveva paura, Sansa poteva vederlo dalle mura del castello. Il popolino si nascondeva dietro imposte chiuse e porte sbarrate, come se queste potessero realmente metterli al sicuro. L’ultima volta che Approdo del Re era caduta, alla fine della dinastìa Targaryen, i soldati dei Lannister avevano saccheggiato e stuprato a piacimento, passando centinaia di persone a fii di spada a dispetto del fatto che la capitale avesse aperto loro le porte. Questa volta, il Folletto era deciso a combattere. E la città sapeva di non potersi aspettare nessuna clemenza.
«Se fossi ancora un cavaliere» continuò a berciare Dontos «dovrei indossare un’armatura e andare sulle mura insieme agli altri. Forse dovrei baciare i piedi di re Joffrey e ringraziarlo con tutto il cuore.»
«Se tu lo ringraziassi per averti trasformato in un giullare ti farebbe nuovamente cavaliere» disse Sansa in tono sferzante.
Dontos ridacchiò: «La mia Jonquil è una ragazza astuta, non è vero?».
«Joffrey e sua madre dicono che sono stupida.»
«E tu lasciali dire. Sei più al sicuro così, cara. La regina Cersei e il Folletto e lord Varys e tutti quelli come loro non fanno altro che sorvegliarsi gli uni con gli altri come falchi predatori, pagano questo o quell’altro per spiarsi a vicenda… Mentre nessuno dà troppo peso alla figlia di lady Tanda, o sbaglio?» Dontos si portò una mano alla bocca, soffocando un rutto. «Che gli dei possano preservarti, mia piccola Jonquil.» Gli stavano venendo le lacrime agli occhi, per effetto del vino. «E adesso da’ un bacetto al tuo Florian. Per buona fortuna.»
Barcollando, Dontos avanzò verso di lei. Sansa evitò le sue labbra umide protese in avanti, e lo baciò in fretta sulla guancia ispida. Gli augurò la buonanotte e si dileguò. Dovette fare ricorso a tutte le sue forze per non piangere. Aveva pianto troppo, negli ultimi tempi. Era poco signorile, lo sapeva, ma non le riusciva di controllarsi. Le lacrime scorrevano e basta, spesso per un nonnulla, e non c’era nulla che lei potesse fare per fermarle.
Il ponte levatoio che conduceva al Fortino di Maegor non era sorvegliato. Il Folletto aveva spostato la maggior parte delle cappe dorate sulle mura della città. Quanto ai cavalieri bianchi della Guardia reale, avevano doveri più importanti che starle addosso. Sansa poteva andare da qualsiasi parte volesse, a patto che non cercasse di lasciare il castello. Solo che non c’era nessuna parte dove volesse andare.
Superò il fossato asciutto, irto di crudeli rostri di ferro, e salì la stretta scala a chiocciola. Ma quando fu davanti alla porta della sua stanza, non riuscì a trovare la forza di entrare. Le sole pareti di quella camera bastavano a farla sentire in trappola. Perfino con la finestra spalancata aveva la sensazione di non riuscire a respirare.
Sansa continuò a salire. Il fumo degli incendi celava l’esile falce di luna crescente e nascondeva le stelle. Il tetto era buio e pieno d’ombre pesanti. Eppure, da lassù si riusciva comunque a vedere ogni cosa: le alte torri e i poderosi masti agli angoli della Fortezza Rossa, il labirinto di strade che si stendeva al di là, il nero corso del fiume a sud e a ovest, la baia a oriente, le colonne di fumo e di ceneri. E poi i fuochi, fuochi dappertutto. I soldati brulicavano sulle mura di Approdo del Re simili a formiche munite di torce, ammassandosi attorno alle barriere di rostri che ora sporgevano dai bastioni. Verso la Porta del Fango, stagliate contro le volute del fumo, Sansa individuò le forme vaghe di tre enormi catapulte, le più gigantesche che si fossero mai viste, le quali torreggiavano al di sopra delle mura di almeno dieci metri. Eppure, nessuna di quelle difese contribuì a diminuire la paura che provava. Un’improvvisa fitta la folgorò da parte a parte, talmente tormentosa che Sansa si afferrò il ventre, singhiozzando. Stava per accasciarsi a terra… Un’ombra si mosse. Dita forti l’afferrarono, la tennero in piedi.
Sansa si aggrappò a uno dei merli, le mani artigliavano la pietra scabra. «Lasciami andare!» gridò. «Lasciami andare!…»
«L’uccellino pensa di avere le ali, non è così? O forse hai intenzione di ridurti a una piccola storpia, come quel tuo fratello a Grande Inverno?»
Sansa si contorse nella stretta micidiale: «Non stavo per cadere. È che… mi hai colto alla sprovvista, ecco tutto».
«Vorrai dire che ti ho fatto paura. Che ti faccio ancora paura.»
Sansa fece un respiro profondo, cercando di calmarsi: «Ho pensato di essere sola, quassù. Io…» distolse lo sguardo.
«L’uccellino proprio non sopporta di guardarmi in faccia, non è vero?» Il Mastino la lasciò andare. «Però la mia faccia sei stata contenta di vederla quando quella folla ti ha preso, o forse non ti ricordi?»
Sansa ricordava anche troppo bene. Ricordava il modo in cui urlavano, il calore del sangue che scorreva sulla sua guancia quando un sasso l’aveva colpita, il fiato puzzolente d’aglio dell’uomo che aveva cercato di strapparla di sella. Poteva ancora sentire la morsa delle dita luride attorno al suo polso, quando aveva perso l’equilibrio, cominciando a cadere.
Era stata certa di stare per morire, ma poi le dita si erano aperte, tutte e cinque simultaneamente, e l’uomo aveva urlato come un cavallo ferito. Una mano diversa, più poderosa, l’aveva spinta nuovamente sulla sella. L’uomo dall’alito puzzolente d’aglio si contorceva a terra, con il sangue che pompava ritmicamente dal braccio mozzato di netto. Ma ce n’erano altri tutto attorno, alcuni armati di bastoni. Il Mastino era andato all’assalto, mulinando la spada, lasciandosi dietro una scia purpurea. Alla fine, il gruppo si era disperso urlando. Lui aveva riso, e per un momento il suo terribile volto ustionato si era come trasfigurato.
Sansa si costrinse a guardarlo, a guardarlo veramente. Era cortesia, e una lady non deve mai dimenticare la cortesia. “Le cicatrici non sono la cosa peggiore, e nemmeno il modo in cui la sua bocca si contorce. Sono i suoi occhi.” Non aveva mai visto occhi così pieni di furore.
«Io… ecco, avrei dovuto venire da…» disse esitando. «A ringraziarti per… per avermi salvata… Sei stato così valoroso.»
«Valoroso?» La sua risata era una specie di ringhio. «Un cane non ha bisogno di coraggio per mettere in fuga dei ratti. Erano trenta contro uno, ma nessuno di loro ha osato affrontarmi.»
Sansa odiava quel suo modo di parlare, sempre tanto brutale, feroce. «Ti dà gioia fare paura alla gente?»
«No, mi dà gioia uccidere la gente» la bocca del Mastino si contorse. «Fa’ pure tutte le smorfie che vuoi, ma risparmiami il falso pietismo. Tu sei di una cucciolata nobile. Non dirmi che lord Eddard Stark di Grande Inverno non ha mai ucciso nessuno.»
«Era suo dovere. Non gli è mai piaciuto uccidere.»
«Questo ti ha detto?» Sandor Clegane rise di nuovo. «Tuo padre ha mentito. Uccidere è la cosa più piacevole che esista.» Sfoderò la sua spada lunga. «Eccola qui, la tua verità. Il tuo prezioso padre l’ha scoperta sui gradini di Baelor. Lord di Grande Inverno, Primo Cavaliere del re, protettore del Nord, il possente Eddard Stark, di una dinastia vecchia di ottomila anni… Ma la lama di Ilyn Payne si è aperta la strada nel suo collo comunque, o no? Ricordi quel balletto che si è fatto quando la sua testa si è staccata dalle spalle?»
Sansa si strinse le braccia attorno al petto, colta da un freddo improvviso: «Perché sei sempre così pieno d’odio? Io ti stavo ringraziando…».
«Ma certo, proprio come uno di quei veri cavalieri che ti piacciono tanto. Dimmi, ragazzina, a che cosa pensi che serva un cavaliere? Magari ad accettare il favore delle nobili signore, a fare bella figura in una corazza placcata d’oro? Un cavaliere serve per uccidere!»
Sandor Clegane appoggiò la lama contro il collo di lei, appena sotto l’orecchio. Sansa percepì il gelido filo dell’acciaio.
«Ho ucciso il mio primo uomo a dodici anni. Ho perso il conto di quanti altri ne ho uccisi dopo quel momento. Alti lord dai nomi antichi, grassi uomini ricchi vestiti di velluto, cavalieri gonfi d’onori come otri di vino, donne, bambini, sì, anche loro… Carne, nient’altro che carne, e io sono il macellaio. Che si tengano pure le loro terre e i loro dei e il loro oro. Che si tengano anche i loro ser.» Clegane sputò a terra davanti a lei, per spiegarle qual era la sua opinione dei ser. «Fino a quando io stringerò questa nel pugno» tolse la lama dalla gola di Sansa «non c’è uomo sulla terra di cui io abbia paura.»
“Eccetto tuo fratello.” Ma questo, Sansa ebbe il buon senso di non dirlo ad alta voce. “Sei davvero un mastino, Sandor, proprio come dici anche tu. Un cane rabbioso selvaggio a metà, che morde qualsiasi mano cerchi di accarezzarlo. E che al tempo stesso sbranerà chiunque cerchi di fare del male ai suoi padroni.”
«Nemmeno degli uomini al di là del fiume hai paura?»
Lo sguardo di Sandor Clegane si spostò sui fuochi lontani: «Tutte quelle cose che bruciano…». Rinfoderò la spada. «Solamente i codardi combattono con il fuoco.»
«Lord Stannis non è un codardo.»
«Non è nemmeno l’uomo che era suo fratello. Robert Baratheon non si sarebbe mai fermato davanti a un fiume.»
«E tu? Che cosa farai quando Stannis lo attraverserà?»
«Combattere. Uccidere. Morire, forse.»
«Non hai paura? Gli dei potrebbero sprofondarti in chissà quali terribili inferi per tutto il male che hai fatto.»
«Quale male?» rise il Mastino. «Quali dei?»
«Gli dei che hanno creato tutti noi.»
«Tutti noi?» la schernì lui. «Dimmi qualcos’altro, uccellino, che razza di dio crea un mostriciattolo come il Folletto, o una povera mentecatta come la figlia di lady Tanda? Se gli dei esistono, per quale motivo hanno creato le pecore che vengono divorate dai lupi? Per quale motivo hanno creato i deboli con cui i forti si trastullano?»
«I veri cavalieri proteggono i deboli.»
Clegane grugnì: «Non esistono veri cavalieri, così come non esistono dei. Se non sei in grado di proteggerti da solo, allora muori e cedi il passo a quelli che ci riescono. Duro acciaio e braccia forti, ecco quello che domina il mondo. E farai meglio a non credere a nulla di diverso».
Sansa arretrò da lui: «Sei crudele».
«Sono onesto. È il mondo a essere crudele. Ora volatene via, uccellino. Mi sono stancato dei tuoi sguardi.»
Sansa scappò lontano, senza dire una parola. Aveva paura di Sandor Clegane… eppure una parte di lei desiderava che ser Dontos avesse un po’ della ferocia del Mastino.
“Gli dei esistono” ripeté a se stessa. “E anche i veri cavalieri esistono. Tutto questo non può essere una menzogna.”
Quella notte, gli incubi tornarono.
La folla l’assaliva da tutte le parti, urlando, come una belva furibonda dai mille volti. In qualsiasi direzione lei si girasse, non vedeva altro che facce distorte in maschere inumane, mostruose. Sansa pianse, disse loro di non aver commesso nulla di male. Inutile, la trascinarono ugualmente giù dal cavallo. «No, vi prego!» Li implorò. «Non fatelo! Non fatelo! «Nessuno le prestò alcuna attenzione. Chiamò in aiuto ser Dontos, chiamò i suoi fratelli, chiamò il suo defunto padre, chiamò la sua lupa, morta anche lei. Chiamò il galante ser Loras Tyrell, che al torneo le aveva offerto una rosa rossa. Ma nessuno di loro venne. Allora chiese aiuto agli eroi delle canzoni, Florian e ser Ryam Redwyne e il principe Aemon Targaryen, Cavaliere del drago. Nessuno di loro la udì. Donne inferocite le furono addosso come un’orda famelica, graffiandole le gambe, prendendola a calci nello stomaco. Qualcuno la colpì in piena faccia e Sansa sentì i denti andare in pezzi. Poi vide qualcosa d’altro: il gelido lampeggiare dell’acciaio. La lama le affondò nel ventre. Si mise a dilaniare, a squarciare, finché di lei rimasero solo rossi brandelli gocciolanti…
Quando si risvegliò la pallida luce del mattino filtrava dalla finestra. Si sentiva stremata e dolorante, come se non fosse riuscita a chiudere occhio. C’era qualcosa di appiccicoso sulle sue cosce. Sansa gettò di lato le coperte. Sangue. Sulle lenzuola, sulla camicia da notte. L’unico pensiero che le attraversò la mente fu che in qualche modo l’incubo si era tramutato in realtà. Ricordò le lame dentro di lei, che si torcevano, che laceravano. Piena di orrore scalciò via le lenzuola e rotolò a terra. Aveva il respiro affannato. Era nuda, insanguinata, terrorizzata.
Ma mentre rimaneva là, carponi sulle pietre del pavimento, cominciò a comprendere. «No, per pietà» la voce di Sansa era un mugolio disperato. «Per pietà…» Non voleva che le accadesse questo, non adesso, non qui. Non adesso, non adesso, non adesso, non adesso.
La follia s’impossessò di lei. Si mise in piedi aggrappandosi alla testata del letto, corse a lavarsi le cosce nel bacile, fregando via gli appiccicosi aloni rossastri. Alla fine, l’acqua era rosa del sangue diluito. Ma quando le serve fossero arrivate, avrebbero visto, avrebbero capito. Poi si ricordò delle lenzuola. Tornò di corsa al letto, fissò con orrore l’ampia chiazza rossa, segno d’inequivocabile chiarezza. Doveva sbarazzarsene, Sansa non riusciva a pensare ad altro, altrimenti tutti avrebbero saputo. Non poteva permettere che accadesse. L’avrebbero costretta a sposare Joffrey, a giacere con lui.
Sansa impugnò il coltello e si avventò sul lenzuolo, tagliando via la parte di stoffa con la macchia. “Ma se mi chiedono del buco, che cosa gli dirò?” Le lacrime ruscellarono sul suo viso. “Devo bruciarle, queste lenzuola.” Fece un fagotto del tessuto incriminante, lo cacciò nel caminetto, lo irrorò con l’olio della lanterna, vi appiccò il fuoco. Ma nemmeno quello bastò: il sangue era filtrato fino al materasso di piume. Così Sansa cercò di arrotolare anche quello, ma era grosso, ingombrante, difficile da muovere. Riuscì a comprimerne soltanto metà nel caminetto. Si mise in ginocchio, spingendo freneticamente il materasso nel fuoco, mentre spesso fumo grigio si gonfiava attorno a lei, invadendo la stanza. La porta venne aperta di schianto, Sansa udì il grido strozzato della sua cameriera.
Ci vollero tre di loro per strapparla al principio d’incendio. Ed era stato tutto per niente. Le lenzuola erano bruciate, ma quando le donne la trascinarono lontano dal materasso, le sue cosce erano nuovamente viscide di sangue. Il suo stesso corpo l’aveva tradita, dispiegando un vessillo nel porpora dei Lannister, in modo che l’intero universo potesse vedere.
Spente le fiamme, portarono via il materasso bruciacchiato, fecero uscire quasi tutto il fumo e prepararono una vasca. Donne andarono e venirono, mugugnando a bassa voce, guardandola in modo strano. Riempirono la vasca d’acqua bollente, le fecero il bagno, le lavarono i capelli e infine le diedero una pezzuola di stoffa da mettersi tra le gambe. A quel punto, Sansa aveva riacquistato la calma, ed era piena di vergogna per essersi comportata in quella maniera folle. Il fumo aveva rovinato la maggior parte dei suoi vestiti. Una delle donne andò a prendere una tunica di lana verde che era quasi della sua taglia. «Non è graziosa come le tue cose, ma andrà bene comunque» disse quando ebbe aiutato Sansa a infilarla. «Le tue scarpe non sono bruciate, almeno non sarai costretta ad andarci a piedi nudi dalla regina.»
Cersei Lannister stava facendo colazione quando Sansa venne introdotta nel suo solarium.
«Puoi accomodarti» esortò graziosamente la regina. «Hai fame?» Accennò alla tavola. Era imbandita con porridge, latte, uova bollite, croccante pesce fritto.
La sola vista del cibo diede a Sansa la nausea. Aveva lo stomaco attorcigliato. «No, grazie, Maestà.»
«Non ti do torto. Tra Tyrion e lord Stannis, tutto quello che mangio sa di cenere. E ora, anche tu ti sei messa ad appiccare incendi. Che cosa pensavi di fare?»
Sansa chinò il capo: «Il sangue mi ha spaventata».
«Il sangue è il sigillo del tuo essere diventata donna. Lady Catelyn ti avrà pur preparata per questo momento. Hai avuto il tuo primo sboccio, nulla di più.»
Sansa non si era mai sentita meno simile a un fiore: «La lady mia madre mi ha parlato. Io però… avevo pensato che sarebbe stato diverso».
«Diverso come?»
«Non so. Meno… pasticciato. Più magico.»
La regina Cersei rise: «Aspetta solo di avere un figlio, Sansa. La vita di una donna è per nove decimi un pasticcio e magia per il decimo che rimane. Qualcosa che non ci metterai molto a imparare. …e i decimi che sembrano magici, alla fine si rivelano i più pasticciati di tutti». Bevve un sorso di latte. «Così ora sei una donna. Hai idea di che cosa significa?»
«Significa che ora sono in condizioni di essere sposata e portata a letto» rispose Sansa. «Per dare figli al mio re.»
La regina le concesse un pallido sorriso: «Prospettiva che ora non trovi più seducente come un tempo, posso vederlo con chiarezza. Non posso biasimarti. Joffrey è sempre stato difficile. Perfino alla sua nascita… sopportai un giorno e una notte di doglie per portarlo in questo mondo. Nemmeno puoi immaginare il dolore, Sansa. Urlai talmente forte da pensare che Robert mi avrebbe udito fino nella foresta del re».
«Sua Grazia non era con te?»
«Robert? Oh, Robert era a caccia. Era quella la sua abitudine. Ogni volta che il mio tempo si avvicinava, il mio regale marito se ne scappava tra gli alberi in compagnia dei suoi cacciatori e dei suoi segugi. Al suo ritorno, mi offriva qualche pernice e una testa di cervo. E io gli offrivo un bambino.
«Non che io volessi che lui ci fosse, siamo chiari. Avevo con me il Gran maestro Pycelle e un esercito di levatrici. E avevo con me mio fratello. Quando dissero a Jaime che non poteva essere presente al parto, lui sorrise. Poi volle sapere chi di loro avrebbe tentato di tenerlo fuori.
«Dubito molto però che Joffrey darebbe prova di una simile devozione nei tuoi confronti. Potresti ringraziare tua sorella per questo, se non fosse morta. Joffrey non ha mai potuto dimenticare quel giorno sul Tridente, quando tu fosti testimone della vergogna che Arya gli inflisse. Così ora quella vergogna lui la infligge a te. Ma sei più forte di quanto sembri. Immagino che tu sopravviverai a un po’ di umiliazioni. Io l’ho fatto. Potrai anche non amare il tuo re, ma di sicuro amerai i suoi figli.»
«Io amo sua Grazia con tutto il cuore.»
«Farai meglio a imparare alcune nuove menzogne, e anche in fretta» la regina sospirò. «Questa in particolare a lord Stannis non piacerà, te lo garantisco.»
«Il nuovo Alto Sacerdote ha detto che gli dei non permetteranno mai a lord Stannis di vincere, perché è Joffrey il re di diritto.»
«Primogenito ed erede di Robert» un mezzo sorriso apparve sul viso della regina. «Però, ogni volta che Robert lo prendeva in braccio, Joffrey si metteva a piangere. Questo a Sua Grazia non piaceva. I suoi bastardi gli hanno sempre fatto una gran festa, succhiandogli il dito quando lui lo infilava nelle loro piccole bocche di bastardi. Robert voleva sorrisi e applausi, sempre. Per cui andò là dove poteva trovarli: dai suoi amici e dalle sue baldracche. Robert voleva essere amato. Mio fratello Tyrion è afflitto dalla stessa malattia. E tu, Sansa? Anche tu vuoi essere amata?»
«Ognuno di noi vuole essere amato.»
«Vedo che il tuo primo sboccio non ti ha reso affatto più intelligente» rispose Cersei. «Sansa, lascia che condivida con te, in questo giorno così speciale, un briciolo di saggezza femminile. L’amore è veleno. Un dolce veleno, certo, ma che comunque uccide.»