Brandon Stark preferiva la dura pietra del sedile della finestra al conforto del materasso di piume e delle coperte calde. Quando giaceva nel letto, era come se le pareti lo opprimessero e il soffitto incombesse su di lui. Quando giaceva nel letto, la sua stanza si tramutava in una cella, e il castello di Grande Inverno in un carcere, mentre fuori della finestra il vasto mondo continuava a chiamarlo.
Non poteva più camminare, Brandon Stark. Non poteva più scalare, né cacciare, né combattere con la spada di legno come faceva un tempo. Ma poteva ancora osservare. Gli piaceva guardare le luci tenui apparire dietro le finestre ai quattro angoli di Grande Inverno, quando candele e focolari venivano accesi dietro i vetri a losanghe della torre e del salone. E amava ascoltare i meta-lupi ululare al cielo stellato.
Negli ultimi tempi, li sognava spesso, i lupi. “Mi stanno parlando, da fratello a fratello” questo diceva fra sé udendo il loro ululato. Poteva quasi capirli… non proprio del tutto, ma quasi. Come se stessero comunicando in un linguaggio che un tempo lui aveva conosciuto ma che ora aveva dimenticato. I giovani Walder avevano paura di loro, ma nelle vene degli Stark scorreva sangue di lupo. “E in alcuni” lo aveva avvertito la vecchia Nan “è più forte che in altri.”
Gli ululati di Estate erano prolungati e tristi, pieni di sofferenza, pieni della memoria di cose perdute. Quelli di Cagnaccio erano più ferali. Le loro voci rimbalzavano nei cortili e negli androni del maniero, e risuonavano in tutto il castello, come se un intero branco di famelici meta-lupi avesse invaso Grande Inverno. Ma i meta-lupi rimasti erano solamente due dei sei che erano stati un tempo. “Anche a loro mancano i loro fratelli e le loro sorelle?” si domandava Bran. “Li chiamano? Chiamano Vento grigio e Spettro? Chiamano Nymeria e lo spirito di Lady? Vogliono che tornino a casa, in modo da essere nuovamente un branco?”
«Chi può sapere quello che passa per la mente di un lupo?» aveva replicato ser Rodrik Cassel quando Bran gli aveva chiesto perché ululassero. Lady Catelyn, madre di Bran, lo aveva nominato castellano di Grande Inverno in sua assenza e quei doveri lasciavano a ser Rodrik ben poco tempo per rispondere a domande oziose.
«È la libertà che invocano» aveva sostenuto Farlen, il mastro dei canili, il quale non aveva verso i meta-lupi più affetto di quanto ne avessero i suoi mastini. «A loro non piace stare rinchiusi entro una cinta di mura, e chi può dare loro torto? Le creature selvagge appartengono alla natura selvaggia, non a un castello.»
«Vogliono cacciare» aveva concordato Gage, il cuoco, mentre gettava cubetti di prosciutto nella grande pentola dello stufato. «L’olfatto di un lupo è migliore di quello di qualsiasi uomo. Da come la vedo io, hanno fiutato l’odore di una preda.»
Maestro Luwin, però, non la pensava a quel modo. «Spesso i lupi ululano alla luna. Questi invece ululano alla cometa. Vedi quanto è luminosa, Bran? Forse credono che la cometa sia la luna.»
Quando però Bran aveva ripetuto quella frase a Osha, lei aveva riso forte. «I tuoi lupi sanno molte più cose del tuo maestro» aveva risposto la donna che era stata tra i bruti. «I lupi conoscono verità che il vecchio ha dimenticato.» Il modo in cui aveva pronunciato quelle parole aveva fatto correre brividi gelidi lungo la schiena di Bran, e quando lui aveva domandato quale fosse il significato della cometa, la risposta di Osha era stata: «Sangue e fuoco, piccolo mio. Niente di bello».
Bran aveva chiesto della cometa anche a septon Chayle mentre entrambi stavano occupandosi di alcune antiche pergamene salvate a stento dall’incendio della biblioteca del castello. «È la spada che taglia le stagioni» aveva ribattuto lui e, poco dopo, dalla Cittadella di Vecchia Città era giunto il corvo bianco che portava l’annuncio dell’autunno. Per cui, senza dubbio doveva essere Chayle ad aver ragione.
Ma la vecchia Nan non era dello stesso avviso, e lei aveva vissuto più a lungo di tutti quanti loro. «Draghi» aveva risposto, sollevando il capo a annusando l’aria. Era pressoché cieca, la vecchia Nan, quindi non era in grado di vedere la cometa, eppure sosteneva di poterne fiutare l’odore. «Questi sono draghi, ragazzo» aveva insistito. Nan non lo chiamava mai “principe”, non l’aveva mai fatto.
La sola cosa che Hodor aveva detto era stata: «Hodor». Ma in fondo, era anche l’unica parola che sapesse dire.
Eppure, i meta-lupi continuavano a ululare. Le guardie sulle mura imprecavano a denti stretti, i mastini nei canili abbaiavano furiosamente, i cavalli tiravano calci all’interno dei loro stabbioli, i due giovani Walder rabbrividivano davanti al focolare e perfino maestro Luwin si lamentava per le notti insonni. Bran era l’unico a essere tranquillo. Dopo che Cagnaccio aveva morso Piccolo Walder, ser Rodrik aveva confinato i meta-lupi nel parco degli dei, ma le pietre di Grande Inverno giocavano strani scherzi con i suoni e a volte pareva che le due belve stessero ululando nel cortile appena sotto la finestra di Bran. Altre volte, lui avrebbe scommesso che erano saliti sulle mura, muovendosi lungo i camminamenti come sentinelle. La sola cosa che desiderava era riuscire a vederli.
Riusciva però a vedere la cometa, incombente al di sopra del corpo di guardia e della Torre della campana, che si stendeva fin sopra la forma tozza e rotondeggiante della Prima Fortezza, le sagome dei doccioni che si stagliavano nere contro il crepuscolo violetto. Un tempo, Bran conosceva ogni singola pietra di quegli edifici, dentro e fuori. Li aveva scalati tutti, arrampicandosi lungo muri verticali con la medesima facilità con cui altri ragazzi correvano giù per le scale. I tetti erano stati i suoi nascondigli segreti, e i corvi sulla cima della torre spezzata i suoi migliori amici.
Ma poi lui era precipitato.
Bran non ricordava di essere caduto, ma tutti dicevano che era successo, così lui supponeva che fosse vero. Era stato a un passo dalla morte. Nell’osservare i doccioni corrosi dalle intemperie sulla sommità della Prima Fortezza, là dove dicevano che lui era finito nel vuoto, Bran sentiva uno strano vuoto nel ventre. Adesso non poteva più scalare niente, non poteva più nemmeno camminare, né correre, né tirare di spada. Tutti i suoi sogni di diventare cavaliere erano diventati nient’altro che ricordi amari.
Estate, il suo meta-lupo, aveva ululato il giorno in cui lui era caduto, e aveva continuato a ululare per tutto il tempo in cui il suo piccolo corpo spezzato era rimasto a giacere nel letto. Glielo aveva confidato suo fratello Robb prima di partire per la guerra. Estate era stato triste per lui, Cagnaccio e Vento grigio avevano condivìso quella sofferenza. E la notte in cui il corvo insanguinato aveva recato la notizia della morte di Eddard Stark, loro padre, i meta-lupi avevano capito anche quello. Bran si trovava nella torretta di maestro Luwin insieme a Rickon e stavano ascoltando la storia dei Figli della foresta quando le parole di Luwin erano state sopraffatte dagli ululati di Estate e di Cagnaccio.
“Ma adesso, per chi si lamentano?” Che un nemico avesse ucciso suo fratello Robb, il re del Nord? Che Jon Snow, suo fratello bastardo, fosse caduto dalla Barriera? Che sua madre fosse morta, o una delle sue sorelle? O forse si trattava di qualcosa d’altro, come il maestro e il septon e la vecchia Nan sembravano credere?
“Se io fossi veramente un meta-lupo” pensò “sarei in grado di capire il loro canto.” Nei suoi sogni di lupo, era in grado correre su per le pendici delle montagne — aspre montagne ricoperte dai ghiacci e più alte della più alta delle torri — e rimanere su quelle cime impervie al cospetto della luna piena, con l’intero mondo sotto di lui, proprio com’era stato un tempo.
«Uuuu» gridò Bran con poca convinzione. Poi si portò le mani attorno alla bocca e sollevò il viso verso la cometa rossa. «Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu, ahuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu» ululò. Fu un suono stupido quello che gli venne fuori, un suono troppo alto, troppo vuoto e troppo tremante. L’ululato di un bambino, non di un lupo. Eppure Estate gli rispose, e la voce profonda della belva soverchiò quella infantile di Bran. Cagnaccio si unì al coro. Bran ululò di nuovo: “Haruuuuuuuu”. Tutti e tre ulularono insieme, ultimi rimasti del loro branco.
Tutto quel gridare fece accorrere alla sua porta una delle guardie, Testa di fieno, quello con la verruca sul naso. Diede un’occhiata nella camera da letto e vide Bran che ululava, appollaiato sul davanzale della finestra.
«Che cos’è questo grido, mio principe?»
A Bran continuava a fare effetto quando lo chiamavano “principe”, anche se di fatto era l’erede di Robb, il quale era il re del Nord. Voltò la testa e ululò alla guardia: «Uuuuuuuuu. Uu-uu-uuuuuuuuuuuuuuu».
Testa di fieno fece una smorfia: «Basta, principe. Basta così».
«Uu-uu-uuuuuuuuuuuuuuu. Uuu-uuu-uuuuuuuuuuuuuuu.»
Testa di fieno batté in ritirata. Quando fece ritorno, con lui c’era maestro Luwin, tutto in grigio, la catena del suo ordine stretta al collo.
«Bran, quelle bestie fanno già abbastanza rumore anche senza il tuo aiuto.» L’anziano sapiente attraversò la stanza e andò ad appoggiare una mano sulla fronte del ragazzo. «È molto tardi, e tu dovresti essere già addormentato.»
«Sto parlando con i lupi.» Bran allontanò la mano.
«Vuoi che Testa di fieno ti porti a letto?»
«Ci vado da solo, a letto.» Mikken aveva conficcato a martellate una fila di sbarre di ferro nei muri della stanza, in modo che Bran potesse muoversi a forza di braccia. Erano spostamenti lenti, faticosi, che gli facevano dolere le spalle, ma lui detestava essere portato a braccia. «E comunque, non devo dormire se non ne ho voglia.»
«Tutti gli uomini devono dormire, Bran. Perfino i principi.»
«Quando dormo mi trasformo in un lupo.» Bran si voltò di nuovo a scrutare nella notte. «Sognano, i lupi?»
«Tutte le creature sognano, io credo, anche se non come gli uomini.»
«E gli uomini morti? Anche loro sognano?» Bran stava pensando a suo padre. Nel profondo delle tenebrose cripte di Grande Inverno, uno scalpellino stava cesellando le fattezze di lord Eddard in una lastra di granito.
«Alcuni dicono di sì, altri di no» rispose il maestro. «Quanto ai morti, loro non dicono nulla in materia.»
«E gli alberi, sognano?»
«Gli alberi? No…»
«Invece sognano.» C’era un’improvvisa certezza nel tono di Bran. «Sognano i sogni degli alberi. Anch’io sogno di un albero, a volte… Un albero-diga, come quello nel parco degli dei. Mi chiama. I sogni dei lupi sono migliori. Fiuto odori, a volte, sento il sapore del sangue.»
Maestro Luwin passò due dita sotto la catena, nel punto in cui gli aveva scavato il collo. «Bran, se tu solamente passassi un po’ più di tempo con gli altri bambini…»
«Io li odio, gli altri bambini» ribatté Bran, alludendo ai Walder. «Ti ho ordinato di mandarli via.»
«I giovani Frey sono i protetti della lady tua madre.» Luwin si rabbuiò. «Sono stati mandati qui per essere allevati a Grande Inverno dietro suo preciso ordine. Non spetta a te cacciarli, né sarebbe una cosa gentile da fare. Inoltre, una volta via di qui, dove potrebbero mai andare?»
«A casa. È colpa loro se tu non mi permetti di tenere Estate.»
«Non è stato il ragazzo Frey a chiedere di venire attaccato» replicò il maestro. «Nemmeno io lo avevo chiesto.»
«È stato Cagnaccio a morderlo.» Il grande meta-lupo nero di Rickon era talmente feroce da spaventare persino Bran. «Estate non ha mai attaccato nessuno.»
«Estate ha squarciato la gola di un uomo in questa stessa stanza, o forse te ne sei dimenticato? La verità è che quei simpatici cuccioli che tu e i tuoi fratelli trovaste nella neve adesso sono cresciuti, sono diventati belve pericolose. I ragazzi Frey dimostrano saggezza nel diffidare di loro.»
«Sono i Walder che dovremmo mettere nel parco degli dei, così potrebbero giocare a fare i signori del guado finché ne hanno voglia, ed Estate potrebbe dormire di nuovo con me. Se sono il principe, perché non mi tratti come tale, Luwin? Volevo cavalcare Danzatrice, ma Alebelly rifiuta di lasciarmi uscire dal castello.»
«E con ragione. La foresta del Lupo è piena di pericoli, e la tua ultima uscita dovrebbe avertelo insegnato, questo. Vorresti forse che qualche fuorilegge ti prendesse prigioniero per poi venderti ai Lannister?»
«Estate mi salverebbe» insistette Bran, ostinato. «Ai principi dovrebbe essere permesso di solcare i mari, di dare la caccia ai cinghiali e di addestrarsi con le lance.»
«Bran, bambino mio, perché ti tormenti in questo modo? Un giorno, potrai arrivare a compiere alcune di queste gesta, ma adesso sei solo un ragazzo di otto anni.»
«Preferirei piuttosto essere un lupo. Se così fosse, potrei vivere nella foresta e dormire quando ne ho voglia. Potrei ritrovare Arya e Sansa: sentirei il loro odore e potrei accorrere per salvarle. E quando Robb andasse in battaglia, potrei combattere al suo fianco, come Vento grigio. Squarcerei la gola allo Sterminatore di re con le mie zanne, così, e poi la guerra finirebbe, e tutti potrebbero tornare a Grande Inverno. Se solo fossi un lupo…» Ululò di nuovo. «Uuu-uuu-uuuuuuuuuuuuuuuu.»
Luwin alzò la voce: «Un vero principe accoglierebbe di buon grado…».
«Aahu-uuuuuuuuuuuuuuu» Bran ululò più forte. «Uuu-uuuuuuuuuuuuu.»
Il maestro si arrese. «Come vuoi, piccolo» e con un’espressione a metà tra la compassione e il disgusto lasciò la stanza.
Una volta che Bran fu di nuovo solo, ululare non fu più altrettanto eccitante. Dopo un po’, finì con l’acquietarsi. “Certo che li ho accolti di buon grado” rimuginò Bran, pieno di risentimento. “Mi sono comportato come il lord di Grande Inverno, come un vero lord, Luwin non può dire il contrario.” Quando i Walder erano arrivati dalle Torri Gemelle, era stato Rickon, il suo fratellino di quattro anni, a non volerli al castello. Si era messo a urlare che voleva sua madre e suo padre e suo fratello Robb, non quegli estranei. Era toccato a Bran cercare di calmarlo e dare il benvenuto ai Walder. Aveva offerto loro carne, idromele e un posto accanto al focolare. In seguito, perfino maestro Luwin lo aveva lodato per come si era comportato.
Ma questo era stato prima del gioco.
Il gioco si faceva con un tronco d’albero, un lungo bastone, dell’acqua e urla in quantità. L’acqua, Walder e Walder assicurarono a Bran, era la cosa più importante. Al posto del tronco si poteva usare un’asse, o anche delle pietre affioranti: invece del bastone lungo andava bene anche un ramo. Non era nemmeno necessario urlare. Ma senza acqua, il gioco non si poteva fare. Dal momento che maestro Luwin e ser Rodrik non permettevano loro d’inoltrarsi nella foresta del Lupo alla ricerca di un torrente, i ragazzi dovettero accontentarsi di una delle pozze di acqua scura nel parco degli dei. Walder e Walder non avevano mai visto acqua che ribolliva dal sottosuolo, ma furono d’accordo nel dire che avrebbe addirittura reso il gioco più divertente.
Entrambi si chiamavano Walder Frey. Grande Walder diceva che c’erano torme di Walder alle Torri Gemelle, chiamati così in onore del loro nonno, lord Walder Frey. «A Grande Inverno, noi abbiamo i nostri nomi» aveva replicato Rickon in tono altezzoso nell’udire ciò.
Il gioco si svolgeva sistemando il tronco sull’acqua, con uno dei giocatori che impugnava il bastone, in bilico sulla mezzeria. Lui era il signore del guado, e quando un altro giocatore si avvicinava, lui diceva: «Sono il signore del guado, chi va là?». A quel punto, l’altro giocatore doveva fare un bel discorso, spiegando chi era e per quale motivo doveva essergli permesso di attraversare il fiume. Il signore poteva chiedere all’altro giocatore di fare giuramenti o di rispondere a domande. Non si doveva dire la verità, era chiaro, ma i giuramenti erano impegni solenni, a meno che non venisse pronunciata la parola “forsecheno”. Per cui il trucco stava nel far passare il “forsecheno” senza che il signore del guado se ne accorgesse. Dopo di che, il giocatore poteva tentare di mandare il signore del guado a mollo, in modo da diventare lui, a sua volta, signore del guado. Ma solo dopo aver detto “forsecheno”, altrimenti il giocatore era fuori gara. Il signore del guado era l’unico ad avere il bastone, e poteva gettare in acqua chiunque volesse in qualsiasi momento.
In pratica, il gioco si riduceva a una specie di rissa a base di spinte, colpi e cadute in acqua, il tutto punteggiato da sonore litigate su chi fosse riuscito a dire “forsecheno”. Ed era quasi sempre Piccolo Walder a restare signore del guado.
Si chiamava Piccolo Walder nonostante fosse grande e grosso, con una faccia rubiconda e un bel pancione rotondo. Grande Walder, invece, aveva lineamenti affilati, era magrolino e di un palmo più basso. «Lui è più vecchio di me di cinquantadue giorni» aveva spiegato Piccolo Walder. «All’inizio era più grande lui, io però sono cresciuto più in fretta.»
«Siamo cugini, non fratelli» aveva aggiunto Grande Walder, quello piccolo. «Io sono Walder figlio di Jommos. Mio padre è figlio della quarta moglie di lord Walder. Lui, invece, è Walder figlio di Merrett. Sua nonna era la terza moglie di lord Walder, una Crakehall. Anche se il più vecchio sono io, lui è più avanti di me nella linea di successione.»
«Solamente di cinquantadue giorni» aveva obiettato Piccolo Walder. «E nessuno di noi due diventerà mai il lord delle Torri Gemelle, stupido.»
«Io lo diventerò, invece» aveva ribattuto Grande Walder. «Non siamo solamente noi a chiamarci Walder. Ser Stevron ha un nipote, Walder il Nero, lui è il quarto nella Linea di successione. Poi c’è Walder il Rosso, il figlio di ser Emmon, e poi Walder il Bastardo, che non entra proprio nella linea di successione. Lui si chiama Walder Rivers, non Walder Frey. Infine, c’è una ragazza di nome Walda.»
«E Tyr. Ti dimentichi sempre di Tyr.»
«Lui è Waltyr, non Walder» aveva precisato Grande Walder con aria da saputello. «E tanto viene dopo di noi, per cui non conta. Comunque, a me è sempre stato antipatico.»
Ser Rodrik aveva stabilito che condividessero quella che era stata la stanza di Jon Snow. Lui ormai era nei Guardiani della notte e non sarebbe più tornato a Grande Inverno. Bran non sopportava quell’invasione: era come se i Frey stessero cercando di rubare il posto di Jon.
Così era rimasto a guardare con ansia mentre i due Walder si battevano con Turnip, il ragazzo delle cucine, e con Bandy e Shyra, le due figlie di Joseth. I Walder avevano decretato che Bran dovesse essere il giudice di gara, con il compito di decidere se i giocatori avessero effettivamente detto “forsecheno”. Ma nel momento in cui il gioco aveva inizio, tutti si dimenticavano di lui.
Le grida e i tonfi nell’acqua attirarono ben presto parecchi altri: Palla, la ragazza dei canili, Calon, figlio di Cayn, Tom, il cui padre, Fat Tom, era stato ucciso ad Approdo del Re con lord Stark. Non ci volle molto perché tutti quanti si ritrovassero fradici e infangati; Palla era inzaccherata dalla testa ai piedi, i capelli pieni di muschio e senza fiato dalle gran risate. Era dalla notte in cui era arrivato il corvo insanguinato, che Bran non udiva così tante risate. “Se avessi ancora le gambe, li butterei in acqua tutti quanti” pensò amaramente. “Sarei io il solo signore del guado.”
Alla fine, anche Rickon era arrivato di corsa nel parco degli dei, seguito da vicino da Cagnaccio. Rickon rimase a guardare Turnip e Piccolo Walder lottare per il controllo del bastone fino a quando Turnip perse l’equilibrio e fini in acqua con un grandioso “splash”, gambe e braccia annaspanti.
«Io! Io adesso! Voglio giocare!»
Piccolo Walder gli fece cenno di accostarsi al tronco e Cagnaccio, come sempre, andò dietro a Rickon.
«No, Cagnaccio, tu no» comandò il piccolo Stark. «I lupi non possono giocare. Tu rimani con Bran…»
E Cagnaccio, in effetti, era rimasto con Bran, ma quando Piccolo Walder aveva colpito Rickon con il bastone, un fendente secco al ventre, in meno di un battito di ciglia il meta-lupo nero era già balzato sull’asse. L’acqua si colorò di sangue, tutti e due i Walder strillavano talmente forte come se stessero andando al macello e Rickon, seduto nel fango, era piegato in due dalle risate. Hodor arrivò pencolando, gridando: «Hodor! Hodor! Hodor!».
Dopo quell’evento, stranamente, Rickon decise che i Walder gli piacevano. Non giocarono mai più al signore del guado, ma fecero altri giochi: mostri e principesse, gatti e topi, vieni-nel-mio-castello e tanti altri. Sempre seguiti da Rickon, i Walder facevano razzie di torte e di miele nelle cucine, correvano lungo le mura, gettavano ossa ai cuccioli nei canili e si addestravano con le spade di legno sotto l’occhio attento di ser Rodrik. Rickon era addirittura arrivato a mostrare loro le cripte, giù nel profondo della terra, dove lo scalpellino lavorava alla tomba del padre.
«Non avevi il diritto di farlo!» Bran aveva urlato al fratello dopo essere venuto a saperlo. «Quello è un posto nostro… Un posto solo per gli Stark!» Ma a Rickon questo non importava.
La porta della sua camera si aprì. Entrò maestro Luwin, reggendo una fiasca di vetro verde. Insieme a lui c’erano Osha e Testa di fieno.
«Ti ho preparato una pozione per dormire, Bran.»
Osha lo prese tra le braccia ossute. Era molto alta per essere una donna, e incredibilmente forte. Senza sforzo alcuno, lo trasportò fino al letto.
«Questo ti darà un sonno senza sogni» assicurò Luwin, togliendo il tappo alla fiaschetta. «Un sonno dolce, senza sogni.»
«Sul serio?» Bran voleva credere che fosse vero.
«Sì, piccolo. Bevi, adesso.»
E Bran bevve. Il liquido era denso e sapeva di gesso, ma conteneva anche un po’ di miele, così andò giù più facilmente.
«Tornerò da te domattina.» Luwin, sorridendo, gli diede una piccola pacca sulla spalla nel congedarsi. «Ti sentirai meglio, vedrai.»
Osha si trattenne ancora un momento. «Hai fatto ancora il sogno del lupo?»
Bran annuì.
«Non lottare così duramente, ragazzo. Ti vedo parlare con l’albero-cuore. Forse gli dei stanno cercando di risponderti.»
«Gli dei?» Bran, già intontito, fece fatica ad articolare le parole. Il volto di Osha si fece indistinto e grigio.
“Un sonno dolce, senza sogni” fu l’ultimo pensiero di Bran.
Invece, non appena le tenebre si chiusero su di lui, si ritrovò nel parco degli dei.
Si muoveva silenziosamente sotto i grandi alberi-sentinella, dai tronchi grigioverdi, superando querce contorte vecchie quanto il tempo.
“Sto camminando!” Bran se ne rese conto con esultanza. Una parte di lui sapeva che si trattava solamente di un sogno, ma poter camminare, anche se in sogno, era sempre meglio della realtà della sua stanza, dei muri, del soffitto e della porta.
Era buio sotto gli alberi, ma la cometa rossa gl’illuminava il cammino e i suoi passi erano sicuri. Stava muovendosi su quattro gambe, forti e veloci. Poteva sentire il terreno sotto i suoi piedi, il soffice scricchiolare delle foglie cadute, le radici spesse e le dure pietre, i profondi strati dell’humus. Era una bella sensazione.
La sua testa era piena di odori forti, inebrianti: la verde emanazione delle pozze fangose, il profumo penetrante della terra che marciva sotto le sue zampe, gli scoiattoli sulle querce. L’odore degli scoiattoli gli fece tornare alla mente il gusto acre del sangue caldo, mentre le sue zanne frantumavano le loro ossa. La bocca gli si riempì di bava. L’ultima volta che aveva mangiato era stato appena mezza giornata prima, ma non c’era piacere nella carne già morta, nemmeno nella carne di cervo. Sopra di lui, al sicuro tra le foglie e i rami, poteva udire gli scoiattoli che squittivano e si agitavano. Mai si sarebbero azzardati a scendere dove lui e suo fratello erano in caccia.
Suo fratello… Riusciva a sentire anche lui, un odore familiare, forte come quello della terra, nero come la sua pelliccia. Suo fratello stava scivolando lungo le mura, in balia della sua furia. Un giro dopo l’altro, una notte dopo l’altra, instancabile. Andava alla ricerca di prede. E di una via d’uscita, in modo da ricongiungersi con sua madre, i suoi fratelli di nidiata, il suo branco… Sempre in cerca, senza mai riuscire a trovare.
Oltre gli alberi s’innalzavano le mura, barriere di uomini-pietra morti che isolavano questo frammento vivente di foresta. Barriere grigie, punteggiate dal lichene, eppure forti, spesse, più alte di quanto qualsiasi lupo fosse mai stato in grado di saltare. Gelido ferro e legno acuminato sigillavano gli unici fori tra le pietre ammucchiate tutt’attorno. Suo fratello si fermava di fronte a ognuna di quelle fessure, mostrando le zanne nel suo furore, ma non c’era comunque via d’uscita.
La prima notte, anche lui aveva fatto lo stesso, ma aveva imparato che non sarebbe servito a niente. Qui, il ringhio ferale non era in grado di aprire alcun varco. Aggirare le mura non le avrebbe spinte più indietro. Sollevare una delle zampe posteriori a lasciare il proprio marchio sugli alberi non sarebbe servito a tenere lontani gli uomini. Il mondo si era stretto attorno a loro, ma oltre quelle barriere di alberi, le grandi caverne grigie degli uomini-pietra continuavano a esistere. “Grande Inverno”: ricordava quel nome, ne evocò all’improvviso il suono. Al di là delle muraglie di roccia erette dall’uomo, alte fino al cielo, il vero mondo stava lanciando il suo richiamo. E lui sapeva di dover rispondere a quel richiamo, oppure morire.