CAPITOLO QUINDICESIMO

Le pareti salirono intorno a lui e lo circondarono. Dodici finestre, tagliate nella pietra blu-mezzanotte, erano spalancate sull’inarrestabile mormorio del vento. Sentì un tocco e si volse, tornando di colpo alla sua forma fisica.

Davanti a lui c’era il Supremo. Aveva sulle mani le cicatrici del mago, e il volto sottile apparteneva all’arpista. Ma i suoi occhi non erano quelli dell’arpista né quelli del mago: erano gli occhi del falco, fieri, sensibili terribilmente potenti. Morgon se ne sentiva inchiodato, e quasi rimpiangeva d’aver pronunciato quel nome, che dopo tanto tempo s’era rigirato dentro di lui mostrandogli la sua faccia oscura. Per la prima volta in vita sua gli mancava il coraggio di far domande; aveva la bocca troppo secca per parlare.

Nel vuoto del silenzio del Supremo sussurrò: — Dovevo trovarti… Devo capire!

— Ma ancora non capisci. — La voce di lui parve sfumarsi nel vento. Poi celò le stimmate del potere da qualche parte dentro di sé e tornò ad essere soltanto l’arpista, placido e familiare, con cui Morgon poteva discutere. Quella trasformazione bloccò ancora la voce del giovane, causandogli un conflitto di emozioni. Cercò di controllarle. Ma quando il Supremo allungò una mano verso di lui, facendogli comparire l’arpa a tracolla e appesa al fianco la spada stellata, lui lo afferrò per un braccio.

— Perché?

Di nuovo gli occhi del falco lo fissarono, catturando il suo sguardo. In quelle scure pupille, come se gli stesse leggendo nella memoria, vide la silenziosa e millenaria partita che il Supremo aveva giocato, ora coi Signori della Terra, ora con Ghisteslwchlohm, ora con lui stesso, tessendo un intricato arazzo di enigmi alcuni dei quali erano vecchi quanto il tempo. Morgon strinse i pugni allo spasimo, mentre quelle manovre e quegli stratagemmi gli si dispiegavano davanti: un Signore della Terra s’era mosso da solo, emergendo dalle ombre di una guerra terribile e infinita… s’era nascosto per migliaia d’anni, ora come una foglia nel ricco humus del sottobosco, ora come un tratto di corteccia assolata sul fianco di un pino. Poi, per altri mille anni, aveva assunto le fattezze di un mago, e nei mille anni successivi quelle di un arpista dal volto imperscrutabile dietro i cui occhi misteriosi era impossibile leggere il potere.

— Perché — sussurrò ancora, e rivide se stesso a Hed, seduto all’estremità di un molo, con le dita su un’arpa che non sapeva suonare e l’ombra del Supremo stesa su di lui. Il vento del mare o una mano del Supremo gli avevano scostato i capelli dalla fronte, scoprendo le stelle. L’arpista le aveva guardate: una promessa emersa da un passato così lontano che perfino il suo nome era sepolto. E mentre il suo silenzio s’intrecciava a quegli enigmi gli mancava la voce per parlare.

— Ma perché? — Il sudore, o le lacrime, bruciava nei suoi occhi. Se li asciugò, poi tornò ad afferrare il Supremo per un braccio come per tenerlo fermo in quella forma. — Avresti potuto uccidere Ghisteslwchlohm con un pensiero. E invece lo hai servito. Tu. Mi hai consegnato a lui. Eri stato il suo arpista per tanto tempo da aver ormai dimenticato il tuo nome?

Il Supremo alzò una mano e gli prese il polso in una morsa. — Tu sei l’esperto di enigmi. Rifletti.

— Io ho giocato la partita che avevi preparato per me. Ma non so per quale motivo…

— Pensaci. Io ti ho trovato a Hed, innocente, ignorante, inconscio del tuo destino. Non sapevi neanche suonare l’arpa. Chi, in questo reame, avrebbe potuto risvegliare il tuo potere?

— I maghi — ringhiò lui. — Avresti potuto impedire la distruzione di Lungold. Tu eri là. I maghi avrebbero potuto sopravvivere, liberi, e istruirmi per darti la protezione di cui avevi bisogno…

— No. Se io avessi usato il mio potere per fermare quella battaglia, tu avresti dovuto affrontare i Signori della Terra molto prima che io fossi pronto. Loro mi avrebbero distrutto. Pensa ai loro volti. Ricordali. Le facce dei Signori della Terra che hai visto nel Monte Erlenstar. Io sono uno di loro. E i bambini, che una volta essi amavano, erano sepolti sotto il Monte Isig. Come avresti potuto capirli, nella tua ignoranza? Capire la loro brama, la loro estraneità da ogni legge? In tutto il reame, chi avrebbe potuto insegnarti tutto questo? Tu volevi una scelta, io te l’ho data: avresti potuto assumere il tipo di potere che hai imparato da Ghisteslwchlohm, distruttivo, crudele e senza amore. O avresti potuto sopportare la tenebra fino a prendere la forma, capirla, e uscirne per fare qualcosa di meglio. Quando ti sei liberato dal potere di Ghisteslwchlohm, perché hai dato la caccia a me invece che a lui? Ti aveva strappato il governo della terra. Io avevo tradito la tua fiducia e il tuo affetto. E tu hai inseguito chi aveva offeso la cosa che valutavi di più…

Morgon aprì i pugni, li richiuse. Il respiro gli usciva come un rantolo e dovette trattenerlo, calmarsi, per poter fare un’ultima domanda: — Che cosa vuoi da me?

— Rifletti, Morgon. — La calma voce di lui si fece bassa, quasi inudibile, gentile. — Tu hai preso la forma del vento, e del cuore selvaggio di Osterland. Tu hai visto mio figlio, morto, sepolto nel Monte Isig. Dalle sue mani hai preso le stelle del tuo destino. E con tutto il potere e la rabbia che avevi sei riuscito a farti strada fin qui, per conoscermi. Tu sei il mio Erede della terra.

Morgon non riuscì a parlare. Stava afferrando il braccio del Supremo come se temesse che il pavimento della torre svanisse sotto di lui. Poi udì la propria voce, atona, lontana, ansimare: — Il tuo Erede!

— Tu sei il Portatore di Stelle, l’erede profetizzato dai morti di Isig, colui che io ho atteso per secoli e oltre ogni speranza. Da dove pensi che sia venuto il potere che ora hai sulle leggi della terra?

— Io non… non ci avevo pensato. — La voce gli divenne un sussurro, mentre i suoi pensieri tornavano a Hed. — Tu mi stai dando… tu mi stai restituendo Hed.

— Ciò che ti darò è l’intero reame, quando morirò. Sembra che tu lo ami, con tutti i suoi spettri, i contadini testardi e i suoi venti mortali… — Tacque, sorpreso dal singhiozzo di Morgon. Il volto di lui s’era rigato di lacrime, mentre gli enigmi scioglievano il loro groviglio, nodo per nodo, intorno al cuore della torre. Abbassò le braccia, cadde in ginocchio ai piedi del Supremo e chinò il capo, con le mani segnate dalle cicatrici chiuse contro il petto. Non riuscì a dir niente, non sapeva neppure quale lingua di luce e di tenebra il falco, che aveva così governato la sua vita, avrebbe voluto udire. Storditamente pensò ancora a Hed, e gli parve di avere l’isola stretta fra le braccia, sul suo cuore. Poi il Supremo s’inginocchiò di fronte a lui e gli sollevò il volto prendendolo fra le mani.

I suoi occhi erano quelli dell’arpista, scuri come la notte, e non più colmi di silenzio ma di dolore.

— Morgon — mormorò. — Vorrei che tu non fossi una persona per cui ho avuto tanto affetto.

Gli passò un braccio intorno alle spalle, tenendolo a sé con fierezza come aveva fatto il falco coi suoi artigli. Poi tacque, finché Morgon non ebbe l’impressione che il suo cuore, e le pareti della torre, e la notte stellata al di fuori fossero fatti non di sangue o di pietra o di aria ma del respiro dell’arpista. S’accorse di avere ancora le lacrime agli occhi, e di temere che toccando la figura che aveva accanto essa cambiasse forma un’altra volta. Qualcosa di duro e acuminato, luttuoso, gli chiudeva la gola e i polmoni, ma non si trattava di lutto. Vincendo quella sofferenza, sentendosi come se il dolore del Supremo fosse la sola cosa che riusciva a comprendere, disse: — Cos’è accaduto a tuo figlio?

— La guerra lo uccise. Da lui venne strappato ogni potere. Non poteva più vivere… fu lui a darti la spada stellata.

— E tu… da allora sei rimasto solo. Senza un erede. L’unica cosa che avevi era una promessa.

— Sì. Ho vissuto in segreto per migliaia d’anni, senza niente in cui sperare salvo una promessa. Il sogno di un bambino morto. E poi tu sei venuto. Morgon, io non ho fatto niente di ciò che avrei dovuto fare per tenerti in vita. Niente. La mia sola speranza eri tu.

— Mi stai dando anche le desolazioni del nord. Io le ho amate. Le amo. E le nebbie di Herun, i vesta, l’immenso entroterra… ebbi paura, quando mi accorsi come amavo tutto questo. Ogni forma mi attirava, e non potevo impedirmi di volere… — La sofferenza gli tormentava il petto come una lama. Trasse un respiro rauco, faticoso. — Tutto ciò che volevo da te era la verità. Io non sapevo… non immaginavo che mi avresti dato tutto ciò che ho sempre amato.

Non riuscì a dir altro. I singhiozzi lo scuotevano tanto che gli parve di non poter più sopportare la sua forma. Ma il Supremo gli tenne le mani sulle spalle e gli parlò, placandolo pian piano. Ancora incapace di parlare Morgon restò immobile ad ascoltare il vento, che portava sulla torre raffiche di pioggia. La sua testa era china su una spalla del Supremo. Per un poco mantenne il silenzio, e quando rialzò gli occhi la sua voce stanca suonò più calma:

— Non potevo immaginarlo. Tu non mi hai lasciato guardare più lontano della mia rabbia.

— Non osavo permettere che tu vedessi troppo. La mia vita era in grave pericolo, e tu eri molto prezioso per me. Ho cercato di salvartela come ho potuto, usando me stesso, usando la tua ignoranza, perfino il tuo odio. Non sapevo se mi avresti perdonato, ma tutte le speranze del reame erano riposte in te, e volevo che tu fossi potente, confuso, sempre alla mia ricerca e tuttavia senza trovarmi mai, benché ti fossi continuamente vicino…

— Io dissi… dissi a Raederle, mentre tornavamo dal nord, che con te mi aspettava una gara di enigmi che avrei potuto perdere.

— No. A Herun tu hai visto in me la verità che cercavi. Per questo ti ho lasciato. Da te potevo sopportare tutto, ma non la freddezza. — Gli accarezzò i capelli, poi lo prese ancora per le spalle. — Tu e la Morgol avete impedito al mio cuore di diventare pietra. Sono stato costretto a trasformare ogni parola che le avevo detto in una bugia. E tu l’hai di nuovo trasformata in una verità. Questa è stata la tua generosità, anche nel momento in cui mi odiavi.

— Tutto ciò che chiedevo, perfino quando l’odio per te mi rodeva, era una piccola, povera, insignificante ragione per amarti. Ma tu mi davi soltanto enigmi… Quando credetti che Ghisteslwchlohm ti avesse ucciso, piansi senza sapere perché. Quand’ero nelle terre del nord a suonare l’arpa col vento, troppo stanco anche per pensare, eri tu a darmi forza… a darmi una ragione per vivere. — Le mani gli si riaprirono lentamente. Ne poggiò una su una spalla del Supremo, esitante, e un tremito lo scosse. Nei suoi occhi scuri lesse la stanchezza, e qualcosa dell’infinita e terribile pazienza che lo aveva tenuto in vita così a lungo, solo e senza nome, minacciato dai suoi stessi consanguinei nel mondo degli uomini. Con una smorfia Morgon chinò il capo.

— Perfino io ho cercato di ucciderti.

Le dita dell’arpista gli sfiorarono una guancia, gli scostarono i capelli dagli occhi. — Hai impedito ai miei nemici di concentrare la loro attenzione su di me. Ma, Morgon, se quel giorno ad Anuin non ti fossi trattenuto, non so cos’avrei fatto. Se avessi usato il mio potere per fermarti, poi nessuno di noi sarebbe vissuto molto. E se avessi lasciato che tu mi uccidessi, disperato com’ero per aver trascinato me e te in una tale situazione, il potere che sarebbe passato nelle tue mani ti avrebbe distrutto. Così ti diedi un enigma, nella speranza che questo ti facesse pensare ad altro.

— Conoscevi bene il mio animo — sussurrò lui.

— No. Non hai fatto altro che sorprendermi… fin dall’inizio. Io sono vecchio quanto le pietre di questa piana. Le grandi città dei Signori della Terra furono distrutte da una guerra a cui nessun uomo avrebbe potuto sopravvivere. Io nacqui da una stirpe che viveva nell’innocenza; avevamo molto potere, e tuttavia capivamo le implicazioni del potere. È per questo che, anche se mi odiavi, io volli che tu capissi Ghisteslwchlohm e il modo in cui lui distrusse se stesso. Un tempo noi vivevamo pacificamente in quelle grandi città. Esse erano aperte a ogni mutamento. Il nostro aspetto cambiava ad ogni stagione, e prendevamo la conoscenza da tutte le cose: dal silenzio dell’entroterra al ghiaccio accecante delle desolazioni settentrionali. Non capimmo mai, finché non fu troppo tardi, che l’energia contenuta in ogni pietra e in ogni goccia d’acqua può governare l’esistenza come la distruzione. — Tacque e distolse lo sguardo, con una smorfia amara. — La donna che tu hai conosciuto come Eriel fu la prima di noi ad assumere tanto potere. Ed io fui il primo a vedere le implicazioni di quel potere… quel paradosso che sta alla base della magia e spinge allo studio degli enigmi. Così feci una scelta: cominciai a legare a me tutte le forme della terra secondo le loro stesse leggi, e non permisi più che qualcosa disturbasse quelle leggi. Ma dovetti combattere per impadronirmi delle leggi della terra, e non ci mettemmo molto a capire che guerra fosse quella. Il reame, così come tu lo conosci, non sarebbe sopravvissuto due giorni alle forze che vennero scatenate. Devastammo le nostre stesse città. Ci uccidemmo l’un l’altro. E strappando ogni potere ai nostri figli distruggemmo anche loro. Io avevo già imparato a dominare i venti, e questa fu la sola cosa che mi salvò. Riuscii a legare il potere di tutti gli altri Signori della Terra, lasciando loro soltanto quel poco con cui erano nati. Poi li spazzai nel mare, mentre il territorio devastato risanava se stesso pian piano. E misi nel sepolcro i nostri figli. Di tanto in tanto qualche Signore della Terra usciva dal mare, ma non avevano la forza di spezzare il legame che avevo posto su di loro. E non poterono mai trovarmi, perché i venti mi nascondevano. Fu allora che giunsero gli uomini…

Morgon deglutì saliva. — L’Anno dell’Insediamento!

— Sì. Vennero da un mondo lontano. Ed io m’impadronii di loro per inserirli nell’ambiente. Portavano con sé molte cose, semenze, animali… e questo ricostruì la vita nel reame, su tutta la costa. Fin dall’inizio i Signori della Terra cercarono di usarli. Si mescolarono con loro, diedero loro un po’ del proprio sangue, del proprio potere, e gli effetti di ciò furono a volte strani, anche se io li contrastai sempre. Ma sono troppo vecchio ormai, e sapevo che non li avrei potuti trattenere in eterno. Anche loro lo sanno. Ero già vecchio quando divenni un mago di nome Yrth, per costruire l’arpa e la spada di cui il mio erede avrebbe avuto bisogno. Ghisteslwchlohm apprese dai bambini morti dell’Isig la profezia sul Portatore di Stelle, e divenne per me un altro nemico, dalle grandi capacità, ignaro d’essere quella progenie che i Signori della Terra avevano creato per combattermi. Ciò che lo seduceva era la speranza di un potere maggiore. Egli pensò che se avesse controllato il Portatore di Stelle ne avrebbe assimilato il potere ereditario, e sarebbe divenuto il Supremo di fatto oltreché di nome. Questo lo avrebbe ucciso invece, ma io non mi preoccupai di spiegarglielo. Quando mi accorsi che stava aspettando il tuo arrivo lo sorvegliai… a Lungold, e in seguito al Monte Erlenstar. Assunsi le fattezze di un arpista che era morto nella distruzione della città, ed entrai al suo servizio. Volevo che non ti accadesse nulla fuori dal mio controllo. Quando infine ti trovai, seduto sul molo di Tol, con in mano un’arpa che non sapevi neppure suonare e la corona dei Re di Aum sotto il tuo letto, mi accorsi che l’ultima cosa che mi sarei aspettato, dopo quegli interminabili secoli di solitudine, era qualcuno che avrei potuto amare… — Tacque, mentre Morgon lo stava fissando oltre un velo di lacrime. — Hed. Avevo voluto un erede che proseguisse la guerra, e avevo predisposto negli uomini un’eredità di pace! Così neppure io mi aspettavo che fosse la più pacifica delle terre a generare il Portatore di Stelle, un giovane e amabile Principe di Hed, sovrano di contadini testardi e ignoranti che non credevano in niente fuorché nel Supremo…

— Sono ancora poco più di questo. Ignorante e testardo. Ho messo in pericolo le nostre vite venendo a cercarti qui?

— No. Questo è il solo posto in cui nessuno si aspetterebbe di trovarci. Ma ci resta poco tempo. Hai attraversato Ymris senza toccare la sua legge della terra.

Morgon allargò le mani. — Non ho osato — disse. — E riuscivo a pensare soltanto a te. Dovevo trovarti prima che i Signori della Terra trovassero me.

— Lo so. Ti ho lasciato in una situazione pericolosa. Ma mi hai rintracciato, e io ho la legge della terra di Ymris. Ne avrai bisogno. Ymris è sede di un grande potere. Voglio che tu ne prenda la conoscenza dalla mia mente. Non temere — aggiunse, vedendo la sua espressione preoccupata. — Voglio solo che tu abbia questa conoscenza, niente che tu non possa sopportare. Siediti.

Morgon si accovacciò sul pavimento di pietra. Fuori imperversava un temporale e il vento faceva penetrare la pioggia dalle finestre, ma non era freddo. Il volto dell’arpista stava mutando, le rughe tormentate si spianavano sotto la carezza di una pace antica, come se contemplasse il reame. Morgon lo contemplò, lasciandosi trascinare dalla brama di quella pace finché non ne fu avvolto, ed il tocco mentale del Supremo gli scese vibrante in fondo al cuore. Su di lui aleggiò ancora l’ombrosa e profonda voce del falco:

— Ymris… fu qui che nacqui, sulla Piana del Vento. Ascolta il suo potere al di là della pioggia, al di là delle grida dei morti. È come te, una terra fiera e gentile. Resta immobile e ascoltala…

Lui si congelò in quella posa, teso al punto che poteva udire l’erba piegarsi sotto il peso della pioggia e l’eco degli antichi nomi che erano stati pronunciati lì negli ultimi secoli. E poi egli divenne l’erba.

Lentamente trascinò se stesso nella terra ad Ymris, col cuore che gli pulsava della sua lunga e sanguinosa storia, mentre il suo corpo si espandeva nei campi, sulla costa impervia, nelle strane e silenti foreste. Si sentì vecchio come le prime pietre tagliate dal Monte Erlenstar e conficcate in quella terra, e conobbe la devastazione che la guerra aveva lasciato nel suolo di Ruhn. In Ymris avvertì la presenza di un potere che lo costringeva a deviare, quasi che la sua mente si trovasse di fronte una montagna o un mare invalicabile. Ma conobbe anche strani momenti di quiete: un immobile laghetto segreto dove si rispecchiavano molti misteri; bizzarre pietre che un tempo erano state fatte per parlare; foreste infestate da animali neri tanto timidi che morivano se solo un uomo li guardava; e sui confini occidentali querce così antiche che ricordavano il passaggio dei primi esseri umani diretti a popolare Ymris. Di tutto ciò fece tesoro. Il Supremo non gli aveva dato della sua mente che la consapevolezza di Ymris; il potere che negli occhi del falco lo aveva intimorito era scomparso quando tornò a guardarli.

Allorché riaprì le palpebre era l’alba, e al suo fianco stava accovacciata Raederle. La vista di lei lo fece ansimare di sorpresa. — Come sei arrivata fin qui?

— In volo.

La risposta era così semplice che per un attimo gli parve priva di significato. — Anch’io.

— Tu sei salito per le scale. Io ho volato fin quassù.

Il volto di lui era così vacuo per lo stupore che la ragazza sorrise. — Morgon, è stato il Supremo a lasciarmi entrare. Se non l’avesse fatto avrei continuato a volare intorno alla torre squittendo per tutta la notte.

Lui ebbe un borbottio e le strinse dolcemente una mano. Ma capì che era stanca, e quando il suo sorriso svanì le rimase negli occhi uno sguardo preoccupato. Il Supremo era in piedi accanto a una delle finestre. Sulla pietra nero-blu si spandeva la prima luce del giorno; sullo sfondo del cielo il profilo dell’arpista appariva teso e sfinito, con gli zigomi che stiravano la pelle esangue. Ma i suoi occhi erano quelli di Yrth, luminosi e colmi di mistero. Morgon lo fissò a lungo senza muoversi, di nuovo immerso nella pace di quell’animo, finché il volto familiare sembrò mescolarsi all’argentea luce del mattino. Poi il Supremo si volse a cercare il suo sguardo.

Per attirare Morgon accanto a sé non usò un gesto, solo il suo semplice desiderio senza parole. Lui lasciò la mano di Raederle e si alzò; attraversò stancamente il locale e si fermò dinnanzi all’uomo.

— Ci sono cose che non posso prendere da questa terra — disse.

— Morgon, il potere che hai sentito è in ciò che resta dei Signori della Terra morti. Quelli che combatterono al mio fianco su questa piana. E il potere sarà lì, quando ne avrai bisogno.

Qualcosa profondamente sepolto nella pace di Morgon sollevò il muso come un segugio cieco nel buio, all’odore delle parole del Supremo. — E l’arpa? E la spada? — chiese con calma. — Io capisco a stento il potere che contengono.

— Troveranno da sole il loro uso. Guarda.

Un fumoso banco di nebbia si stava spostando al suolo sulla pianura: erano vesta, sotto le nuvole basse e pesanti. Morgon li osservò incredulo, poi poggiò una tempia contro la pietra fredda. — Quando sono arrivati?

— La notte scorsa.

— Dov’è l’esercito di Astrin?

— Per metà è intrappolato fra Tor e Umber, ma l’avanguardia si è gettata allo sbaraglio, aprendo una strada per i vesta, le guardie della Morgol e i minatori di Danan. Sono alle spalle del branco. — Lesse nei pensieri di Morgon e strinse i pugni. — Non li volevo qui per combattere.

— E allora perché? — sussurrò lui.

— Tu ne avrai bisogno. Noi due dobbiamo metter fine a questa guerra quanto prima. È lo scopo per cui sei nato.

— Ma come?

Il Supremo non rispose subito. Dietro il suo sguardo tranquillo e introverso il giovane sentì una stanchezza e una pazienza oltre le umane capacità di comprensione: l’arpista attendeva che lui capisse, forse, qualcosa. Infine riprese, quasi dolcemente: — Il Principe di Hed e i suoi contadini si sono uniti all’esercito di Mathom, al confine meridionale. Se vuoi che restino in vita, devi trovare una soluzione.

Morgon girò su se stesso e si precipitò alle finestre opposte del locale, quasi che oltre la nuda boscaglia all’orizzonte fosse possibile vedere quella piccola truppa di contadini, armati di falci e di forconi. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. Con una stretta al cuore mormorò: — Ha lasciato Hed. Ha vestito da guerrieri i contadini e i pescatori, e ha lasciato Hed. Che sta succedendo al nostro mondo? È la fine?

— È venuto a battersi per te. E per la sua terra.

— No! — Si volse e strinse i pugni, ma non per l’ira. — È venuto perché tu lo volevi qui. E anche la Morgol, e Har… li hai spinti sulla stessa strada su cui hai spinto me, mettendo una spina di gelo e di mistero nel loro cuore. Che significa? Cos’è che non mi hai ancora detto?

— Io ti ho dato il mio nome.

Morgon tacque. Fuori stava cominciando a nevicare, grossi fiocchi che il vento faceva roteare. Una raffica glieli portò sul volto e sulle mani, dove bruciarono un attimo e svanirono. Un tremito lo scosse, e ad un tratto si rese conto che non aveva più voglia di far domande. Raederle aveva voltato le spalle ad entrambi. Appariva stranamente isolata nel centro della stanza. Quando Morgon le andò accanto rialzò la testa, ma evitò lo sguardo di lui per fissare il Supremo.

L’uomo le si avvicinò, quasi che ubbidisse al muto desiderio di lei come poco prima Morgon aveva ubbidito al suo. Le tolse dal viso una ciocca dei lunghi e scompigliati capelli di rame. — Raederle, è tempo che tu vada via.

Lei scosse il capo. — No — replicò con calma. — Io sono per metà una Signora della Terra. Dopo tutti questi secoli, avrai almeno uno dei tuoi consanguinei a battersi con te. Io non vi lascerò.

— Ma sei nell’occhio del ciclone.

— Ho scelto io di venire, e di stare con quelli che amo.

Lui tacque. Per un attimo tornò a essere soltanto l’arpista, senza età, imperscrutabile, solitario. — Tu!… — sussurrò poi. — Non me lo sarei aspettato. Così potente, così bella, e tanto amabile. Sei com’erano i nostri bambini, quando crescevano coi loro poteri, prima della guerra. — Le prese la mano sinistra e la baciò, poi guardò il bianco simbolo che le ornava il palmo. — Ci sono dodici venti — disse a Morgon. — Tenuti sotto controllo sono innocui. Scatenati, sono più terribili di ogni arma o potere di mago del reame. Essi sono anche i miei occhi e i miei orecchi, poiché possono plasmarsi in ogni cosa, sentire ogni parola, vedere ogni movimento, e sono dappertutto… La gemma che Raederle tenne in mano era stata tagliata e sfaccettata dai venti. Fui io a crearla allorché giocavo con loro, molto prima di usarli nella guerra. E in essa si rispecchiarono anche quei ricordi.

— Cosa stai cercando di dirmi? — La voce di lui tremava. — Io non posso dominare i venti.

— No, non ancora. Ma non preoccuparti. — Passò un braccio attorno alle spalle di Morgon, attirandolo nella sua immobilità. — Ascolta: in questa camera puoi udire la voce di tutti i venti del reame. Ascolta la mia mente.

Lui aprì i pensieri al silenzio del Supremo. I vaghi e incoerenti mormoni all’esterno della torre, filtrati dalla mente dell’uomo, si tramutavano in tutte le più affascinanti note dell’arpa stellata. La musica gli riempì il cuore dei dolci e leggeri venti estivi, e di quelli gelidi e selvaggi del nord; ed egli li amava, se li sentiva pulsare nel sangue. In lui nacque la brama di fermare quel momento, e restò legato nell’incantesimo dell’arpa e dell’arpista finché nel bianco cielo invernale brillò alta la luce del giorno.

La musica d’arpa tacque. Morgon era senza voce, chiuso nel desiderio di trattenere al suo fianco il Supremo. Ma il braccio gli lasciò le spalle, e l’uomo lo fece voltare di fronte a sé.

— Ora — disse. — Abbiamo fra le mani una battaglia. Voglio che tu trovi Hereu Ymris. Stavolta ti darò un avvertimento: quando toccherai la sua mente, farai scattare una trappola preparata per te. I Signori della Terra sapranno dove sei, e che il Supremo è con te. Accenderai la scintilla della battaglia sulla piana. Loro dispongono di scarsi poteri mentali… li tengo ancora legati; ma hanno la mente di Ghisteslwchlohm, e useranno i suoi poteri di mago per tentare di ucciderti. Io cercherò di annullare ogni energia di cui lui farà uso.

Morgon si volse a guardare Raederle. Gli occhi di lei lo informarono di ciò che già sapeva: che niente di quanto poteva dire o fare l’avrebbe indotta a lasciarli. Chinò la testa allora, in un assenso diretto sia a lei che al Supremo. Poi lasciò che la sua mente si avventurasse nel silenzio dei territori umidi intorno alla torre. Sfiorò un singolo stelo d’erba, lo seguì col pensiero dalla radice alla cima. E appena fu penetrato nella struttura della legge della terra, appartenente ad Hereu, questo divenne il suo legame col Re di Ymris.

Avvertì un sottofondo di dolore costante, un groviglio di rabbia e di disperazione, e sentì in lontananza il vuoto scrosciare e ritrarsi delle onde fra gli scogli. Aveva stampata dentro di sé la forma di ogni pietra e di ogni roccia sporgente dalla costa, e subito riconobbe un tratto di riva dinnanzi a Meremont. Sentì odore di legno bagnato e di cenere: il Re giaceva in una capanna di pescatori mezzo bruciata, sulla spiaggia, a non più di mezzo miglio dalla Piana del Vento.

Trasalì e fece per parlare. Ma d’un tratto i flutti lo investirono, sommergendo i suoi pensieri. Gli parve di guardare giù per un lungo e oscuro tunnel fin dentro gli occhi dorati, alieni, di Ghisteslwchlohm.

Avvertì riconoscimento e stupore in quella mente prigioniera. Poi un arpione fatto di pensiero si proiettò in lui per catturarlo, e le pupille del mago bruciarono nelle sue, avide e feroci. Il contatto mentale s’interruppe, Morgon se ne allontanò in fretta. Il Supremo lo afferrò per le spalle vedendolo vacillare, e tornato in se stesso lui cercò ancora di parlare, ma lo sguardo del falco lo azzitti.

Attese, scosso da improvvisi e violenti battiti di cuore. Legata alla stessa attesa Raederle sembrava di nuovo remota, come appartenente a un’altra parte del mondo. Disperatamente lui tentò di parlare, d’incrinare il silenzio che li schiacciava nell’immobilità, facendo di loro delle statue di pietra. Ma gli parve d’essere soltanto un’estensione del Supremo, senza una sua volontà, senza voce, senza iniziativa. Un movimento stracciò l’aria gelida, e poi un altro. La bruna e affascinante Signora della Terra che Morgon aveva conosciuto col nome di Eriel stava dinnanzi a loro, e al suo fianco c’era Ghisteslwchlohm.

Per qualche istante il Supremo saggiò il potere che s’era riunito contro di lui. Ci fu stupore e paura negli occhi della donna, allorché riconobbe l’arpista. Il mago, faccia a faccia col Supremo, con colui che aveva cercato per tanti secoli, parve sul punto di spezzare il legame che gli imprigionava la mente. Negli occhi del falco ci fu un vago sorriso, gelido come il cuore delle desolazioni nordiche.

— Anche la morte, Maestro Ohm — disse, — è un enigma.

Negli occhi di Ghisteslwchlohm lampeggiò una rabbia oscena. Qualcosa scaraventò Morgon attraverso la stanza. Urtò nella parete scura ed essa cedette sotto di lui, precipitando fuori in una nebbia nera e azzurra d’illusioni distrutte. Udì il grido di Raederle, e nella sua visione confusa un corvo balzò in alto. Cercò di afferrarlo, ma il volatile gli passò fra le mani e sfuggì all’esterno. Scorse il volto di Ghisteslwchlohm avvolto in una strana luce: al suo fianco ci fu uno strappo ed egli gemette, senza capire cosa gli era stato strappato via. Poi si volse e vide la spada stellata nelle mani di Ghisteslwchlohm; la lama si sollevò lenta, lampeggiando minacciosa d’ombra e di luci, finché le stelle bruciarono di fuoco incombendo su Morgon. Lui non riuscì a fare un sol gesto: le stelle gli strappavano l’energia, fisse come luci ipnotiche nelle sue pupille. Vide la lama raggiungere l’apice e fermarsi, e poi lampeggiare in un fendente diretto verso di lui. In quell’istante nel suo campo visivo ci fu il corpo dell’arpista, in piedi sotto quella falce di luce, calmo com’era stato nel salone del Re ad Anuin.

Dalla gola di Morgon sfuggì un rantolo. L’affilatissima lama piombò con un terribile rumore sul corpo del Supremo. Lo colpì dritto al cuore, e nello stesso momento si frantumò con uno schiocco fra le mani di Ghisteslwchlohm. Morgon balzò in ginocchio, abbracciando il corpo inerte mentre cadeva. Non riuscì neppure a trarre il fiato, trafitto anch’egli in fondo al cuore da una lama di dolore. Il Supremo gli chiuse le dita adunche su una spalla; le sue mani erano quelle spezzate dell’arpista, quelle segnate da cicatrici del mago. Cercò di ansimare qualcosa; il volto gli si confuse da una forma all’altra, nelle lacrime attraverso cui Morgon lo guardava. Il giovane lo strinse a sé, mentre nel petto gli cresceva un grido di furia e d’agonia, ma il Supremo era già sul punto di svanire nel niente. Con una mano fatta di pietra scarlatta, o di fuoco, sfiorò le stelle sulla fronte di lui. Sussurrò il nome di Morgon; la mano ricadde a contatto del suo cuore. — Libera i venti!

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