CAPITOLO QUINTO

— Deth! — sussurrò Morgon.

Le mani dell’arpista parvero raggelarsi. Il suo volto era così sparuto e tormentato che di familiare in lui non c’era rimasto che la fine struttura delle ossa e lo sguardo. Non aveva cavallo né bagaglio, e tutto ciò che possedeva era all’apparenza quell’arpa di legno scuro, adorna soltanto della sua linea spoglia ed elegante. Le sue mani contorte rimasero ancora un istante sulle corde, poi abbassarono l’arpa sul terreno erboso al suo fianco.

— Morgon! — La voce era rauca per la stanchezza e la sorpresa. Subito però aggiunse, con una cortesia che lasciò il giovane senza parole: — Non volevo disturbarti.

Morgon era ancora senza parole. L’angosciosa, perfetta musica d’arpa che continuava a torcersi come un incubo nel fondo oscuro della sua mente, contrastava ora in modo stridente con l’arpeggio tutto esitazioni e stonature che aveva udito nelle notti precedenti. In lui c’era l’impulso di gridare furiosamente, l’impulso di voltarsi e andar via senza una parola, l’impulso di fare un passo avanti e di fare una domanda. Fu quest’ultima soluzione che scelse, senza quasi rendersene conto.

— Che ti è successo? — La sua stessa voce gli sembrò strana, imprevedibilmente calma dopo quel turbine di sensazioni. L’arpista si esaminò le mani, tenendole sulle ginocchia come se gli pesassero troppo.

— Ho avuto una discussione con Ghisteslwchlohm — disse.

— Non avevi mai perso, in una discussione. — Fece un altro passo avanti, teso e silenzioso come un animale selvatico.

— Non ho perso neppure questa. In caso contrario ci sarebbe un arpista di meno nel reame.

— Sembra che tu non muoia facilmente.

— Già. — Lo scrutò con attenzione, e Morgon tornò a fermarsi. Gli occhi dell’arpista avevano lo sguardo di chi sa ciò che vuol sapere e non intende domandare niente. Dopo qualche istante il ramo cominciò a bruciare troppo vicino alle dita di Morgon, che lo gettò al suolo in un mucchio di foglie secche. Il focherello si sviluppò rossastro, gettando più ombre che riflessi sul volto di Deth, e a Morgon sembrò di rivederlo come l’aveva visto in altri tempi, dinnanzi ad altri fuochi. Tacque, a disagio, poi fece qualche passo avanti e gettò dei rametti sul fuoco. Con un piede vi accumulò sopra le foglie, tracciandovi intorno un circolo di terreno nudo.

— Dove stai andando? — chiese poi.

— Torno dove sono nato. A Lungold. Non ho altro posto dove andare.

— Vai a Lungold a piedi?

Lui scosse le spalle, ebbe un tremito nelle mani. — Non posso cavalcare.

— Non puoi neanche suonare l’arpa. Che pensi di fare a Lungold?

— Non lo so. Chiedere l’elemosina.

Morgon lo fissò per un poco in silenzio. Le sue dita trovarono distrattamente una ghianda, e la gettò nel fuoco. — Tu hai servito Ghisteslwchlohm per seicento anni. Mi hai consegnato a lui. È tanto ingrato?

— No — rispose, spassionatamente. — Era sospettoso. Tu mi hai lasciato andar via vivo da Anuin.

Frugando fra le foglie morte le mani di Morgon tremarono. Per un attimo ebbe l’impressione d’essere attraversato da qualcosa di simile a un vento dall’odore lieve e aspro, che nato nelle desolazioni del nord avesse attraversato il reame portando appena un cenno della sua esistenza in quella silenziosa notte estiva. Lasciò che le sue mani si muovessero; un ramoscello gli si spezzò fra le dita. Lo depose fra quelli che bruciavano e sentì l’impulso di fare caute domande, come se stesse cominciando una gara di enigmi con qualcuno la cui abilità gli era ignota.

— Ghisteslwchlohm era ad An?

— È stato nell’entroterra, dopo che ti sei liberato, per rafforzare il suo potere. Non sapeva dove tu fossi; ma poiché per lui la mia mente è sempre aperta mi ha trovato con facilità, in Hel.

Morgon alzò gli occhi. — La tua mente è ancora vincolata alla sua?

— Così presumo. Non ha più bisogno di me, però tu potresti essere in pericolo.

— Non è venuto a cercarmi ad Anuin.

— Io l’ho incontrato sette giorni dopo esser partito da Anuin. Non sembrava probabile che tu fossi sempre là.

— C’ero. — Gettò sul fuoco un’altra manciata di rametti e li guardò torcersi fra le fiammelle che li divoravano. Tornò a osservare le mani dell’arpista. — Ma cosa ti ha fatto, in nome di Hel?

— Ha costruito un’arpa per me, visto che tu avevi distrutto la mia e che non ero riuscito a procurarmene un’altra. — Nei suoi occhi ci fu una luce di sofferenza, o forse il ricordo di qualcosa che in qualche modo lo divertiva freddamente. Abbassò la testa, e i suoi lineamenti tornarono in ombra. Senza alcuna emozione mormorò: — L’arpa era fatta di fuoco nero. Sulla faccia anteriore c’erano tre stelle che ardevano al calor bianco.

Morgon deglutì saliva. — E tu l’hai suonata! — sussurrò.

— Mi ha costretto a farlo, mentre ero ancora semiconscio. Ho sentito la sua mente che mi strappava dalla memoria quel che era accaduto ad Anuin, i ricordi dei mesi in cui tu e io viaggiammo insieme, quelli degli anni e dei secoli in cui l’ho servito, e poi… L’arpa aveva una voce strana e tormentata, come le voci che udivo di notte quando cavalcavo attraverso Hel.

— Ti ha lasciato vivere.

Lui appoggiò la nuca al tronco, rispondendo allo sguardo di Morgon. — Non ha trovato motivi per fare il contrario.

Morgon tacque. Davanti a lui il fuoco faceva crepitare i ramoscelli con un rumore di ossicini spezzati. D’improvviso ebbe freddo, malgrado l’aria tiepida, e si accostò di più alle fiammelle. Nel buio dei cespugli comparvero gli occhietti rossi di un animale notturno, sbatterono un paio di volte e sparirono. Il silenzio intorno a loro era reso pesante dai mille enigmi a cui gli sarebbe piaciuto dar voce, e sapeva che l’arpista gli avrebbe risposto soltanto con altri enigmi. Tacque un poco, protendendo le mani verso la luce del fuoco.

— Una paga poco soddisfacente per sei secoli di lavoro — disse infine. — Cosa ti aspettavi da lui, quando entrasti al suo servizio?

— Gli dissi che avevo bisogno di un padrone, e che nessuno dei Re ingannati dalle sue menzogne mi sarebbe bastato. Ci adattavamo l’uno all’altro: lui costruì un’illusione, io la sostenni.

— Era un’illusione pericolosa. Non ha mai avuto paura del Supremo?

— Quali motivi gli ha mai dato il Supremo per aver paura? Morgon allungò una mano nel fuoco e sfiorò una foglia. Lasciò le dita nel cuore della fiamma, mentre i ricordi riaffluivano in lui. — Nessuno — mormorò. La fiamma si sollevò improvvisamente alta e ruggente sotto la sua mano, come se l’attenzione di lui si fosse volta altrove. La ritrasse, mentre il fumo gli entrava negli occhi facendoli lacrimare. Poi si esaminò il palmo con una smorfia, e imprecò. — Quando non sto attento, ecco che mi brucio.

— Morgon, non ho acqua per…

— L’ho notato. — Si umettò le dita scottate, e la sua voce si fece aspra. — Non hai cibo, non hai acqua, non hai potere legale né protezione, non hai neppure abbastanza magia da proteggerti dalle ustioni. A stento riesci a far uso dell’unico oggetto che possiedi. Per un uomo che è sfuggito alla morte due volte in sette giorni, riesci a creare un’illusione d’impotenza davvero grande. — Sollevò le ginocchia e vi appoggiò i gomiti. Per un po’ rimase immobile, senza aspettarsi che l’arpista si mettesse a chiacchierare e incurante che volesse farlo o meno. Era il fuoco a chiacchierare, fra loro due, nel suo antico linguaggio che non chiedeva né proponeva enigmi. Ripensando a Raederle si disse che avrebbe dovuto tornare da lei, ma non si mosse. L’arpista sedeva come oppresso dagli anni e dalla stanchezza, immobile quanto una vecchia radice o una pietra corrosa dalla pioggia. Il fuoco, libero dal controllo mentale di Morgon, si stava spegnendo. La luce si ritraeva da lui sempre più. Infine si riscosse e alzò la testa. Le fiammelle agonizzavano fra le ceneri, e il volto dell’arpista era una chiazza d’oscurità.

Si alzò, sfregandosi il palmo scottato. Sentendo il lieve fruscio delle vesti di Deth intuì, oscuramente, che se fosse rimasto tutta la notte davanti a quel fuoco anche l’altro non si sarebbe mosso di lì, restando sveglio e silenzioso fino all’alba. Scosse il capo, stupito dagli impulsi e dalle sensazioni che lo confondevano.

— Mi hai strappato dal sonno con la tua arpa, ed ecco che sono venuto qui ad accovacciarmi come un cane davanti al tuo silenzio. Vorrei sapere cos’è che mi conviene fare con te: se dovrei fidarmi di te, o ucciderti, o fuggire appena ti vedo. Tu giochi una gara di enigmi più abile e mortale di qualunque maestro io abbia mai conosciuto. Hai bisogno di cibo? Possiamo dartene del nostro.

Trascorsero alcuni lunghissimi secondi prima che Deth gli rispondesse, in un sussurro quasi inudibile: — No.

— Va bene. — Esitò, a pugni stretti, ancora sperando a dispetto di tutto in un frammento di verità gettato lì come un’elemosina. Infine, disturbato dal fumo che le braci gli mandavano negli occhi, si girò bruscamente e se ne andò. Fece tre passi nelle tenebre, e il quarto dentro il terribile fuoco azzurro che era esploso fuori dal niente intorno a lui. Il fuoco balenò sempre più vivo, gli fluì attraverso le membra ed egli gridò, piombando a faccia avanti nella luce.

Riprese conoscenza all’alba, ancora disteso bocconi sul terreno dov’era caduto, con la bocca sporca di polvere e frammenti di foglie secche. Qualcuno gli insinuò un piede sotto una spalla e lo girò supino. A poca distanza poté vedere l’arpista, sempre seduto contro l’albero davanti alla cenere del fuoco. Poi due mani lo afferrarono per il petto, e vide in faccia l’individuo che lo stava tirando in piedi a forza.

Un ansito di furia agonizzante gli scaturì dalla gola; subito una mano di Ghisteslwchlohm gli tappò la bocca come per zittirlo. L’arpista lo guardò con occhi vacui e senza luce come le nere acque che scorrevano nelle viscere del Monte Erlenstar, occhi che lo sfidavano, che gli facevano sentire l’amaro in gola. Deth si alzò con il movimento rigido e faticoso di chi è stato seduto per molte ore. Si volse, e seguendo il suo sguardo Morgon vide Raederle, pallida e muta sotto i primi raggi del sole.

La presenza di lei gli strappò un gemito fra i denti. La giovane donna gli restituì uno sguardo con identica disperazione. Era spettinata e piuttosto stanca, ma incolume.

Ghisteslwchlohm disse, brusco: — Se tenti di toccare la mia mente io la ucciderò. Hai capito? — Scosse Morgon per il petto, costringendolo a fissarlo. — Hai capito?

— Sì — rispose lui, e subito dopo si gettò addosso all’uomo per afferrarlo alla gola. Dalle mani di lui sprizzò un’ondata di fuoco bianco che gli attraversò le ossa come una ventata di dolore, facendolo vacillare di lato. Cadde in ginocchio e le sue mani annasparono fra le pietre e i ramoscelli, mentre il sudore gli scorreva a rivoli fin sugli occhi. Raederle gli corse accanto; sentì le mani di lei che lo afferravano per le braccia cercando di aiutarlo a rialzarsi.

Stordito fece per spingerla via, lontano dal fuoco che il mago continuava a proiettare intorno a lui; ma la ragazza non si mosse e nel sostenerlo gridò: — Smettete, basta!

— Saggio consiglio — disse il Fondatore. — Fanne tesoro. — Nella luce che aumentava di minuto in minuto appariva stanco. Morgon notò rughe e ombre profonde sulla maschera di ostentata serenità che indossava da secoli. Era vestito modestamente, con un rozzo abito senza forma che gli dava un aspetto senile e ingannevolmente fragile, impolverato al punto di far pensare che fosse venuto anch’egli a piedi sulla Strada dei Mercanti.

Sforzandosi di vincere il furore e la sofferenza Morgon disse: — Non sentivi la musica del tuo arpista? Si direbbe che tu mi abbia cercato invano dietro ogni cespuglio lungo la strada.

— Attraverso il reame hai lasciato una traccia che anche un cieco avrebbe potuto seguire. Sospettavo che saresti andato a Hed, e ti ho perfino individuato laggiù, ma… — Sollevò di scatto una mano, avvertendolo di non fare troppi movimenti improvvisi. — Ma tu te n’eri già andato. E io non sono certo in guerra coi contadini e le vacche; non ho disturbato nessuno sull’isola. — Lo fissò ad occhi socchiusi. — Hai portato a Hed gli spettri di An. Come ci sei riuscito?

— Tu cosa pensi? Mi hai insegnato parecchio sulle leggi della terra.

— Non fino a questo punto.

D’un tratto Morgon avvertì la mente dell’uomo che lo sondava in cerca d’informazioni. Quel tocco lo accecò un istante, riportandogli il ricordo di altri momenti di cecità e di terrore. E con Raederle inerme accanto a sé anch’egli era indifeso, costretto a stringere i denti e inghiottire un boccone molto amaro. Il mago prese visione dei legami mentali da lui stretti ad Anuin con gli spettri, grugnì un commento e interruppe il sondaggio. Il mattino gettava ombre lunghe e nitide nella radura. Morgon abbassò lo sguardo su quella di Deth che si stendeva ai suoi piedi, immobile, chiedendosi come avesse potuto cadere così scioccamente in quella trappola. La voce sgradevole di Ghisteslwchlohm gli fece rialzare gli occhi.

— Come sei riuscito a farlo?

— Che vuoi dire? Tutto ciò che so l’ho imparato da te.

Il mago lo scrutò pensosamente, come avrebbe fatto per un enigma scritto su una vecchia e polverosa pergamena. Non fece commenti; poi si volse a Raederle. — Voi potete cambiare forma?

Lei si strinse al fianco di Morgon; scosse il capo. — No.

— Nella dinastia di An metà dei Re potevano assumere le sembianze di un corvo, e Deth ha detto che voi avete ereditato dei poteri dalla razza dei cambiaforma. Imparerete in fretta.

Il volto di lei, pallido, arrossì di colpo, ma non guardò l’arpista. — Io non intendo cambiar forma — mormorò, e nello stesso tono pacato, sorprendendo sia Morgon che il mago, aggiunse: — Io vi maledico nel nome di Madir: possano i vostri occhi diventare quelli di un porco, capaci di guardare solo fango, e non alzarsi mai più su del ginocchio di un uomo… — Fu costretta a interrompersi da una mano del mago che le tappò la bocca. L’uomo sbatté le palpebre, come se qualcosa nei suoi occhi avesse per un attimo ceduto all’incantesimo confondendogli la vista. Abbassò la mano sulla gola di lei, e Morgon si tese come una corda d’arpa, pronto a scattare.

Ma il mago si limitò a dire, seccamente: — Risparmiami le altre novantotto imprecazioni. — Tolse la mano, e lei si schiarì la gola. Morgon la sentì tremare.

Raederle ebbe una smorfia. — Io non cambierò forma. Morirò, piuttosto. E questo lo giuro su…

Tacque, quando il mago rialzò di nuovo la mano a sfiorarle le labbra. La mente dell’uomo entrò per qualche istante nella sua; incuriosito disse poi a Deth: — Portala con te nell’entroterra, fino al Monte Erlenstar. Non ho tempo per farlo io stesso. Legherò la sua mente, così non tenterà di fuggire. Il Portatore di Stelle verrà con me a Lungold, e poi al Monte Erlenstar. — Si volse ai cespugli, come se stesse annusando qualcosa oltre la vegetazione ancor piena di ombre. — Troverò degli uomini che vadano a caccia per te e che la sorveglino.

— No.

Con cautela il mago si spostò al fianco di Morgon, per continuare a tenerlo sott’occhio. Corrugando le sopracciglia fissò Deth, finché l’arpista non si decise a parlare ancora.

— Io le sono obbligato. Ad Anuin mi avrebbe lasciato andare via, libero, ancora prima che arrivasse Morgon. Mi ha protetto, anche se involontariamente, costringendo molti spettri a scortarmi. Io non sono più al tuo servizio, e tu mi sei obbligato per questi seicento anni che ti ho dedicato. Lasciala andare.

— Ho bisogno di lei.

— Se vuoi tenere Morgon in tuo potere puoi farti aiutare da uno dei maghi di Lungold.

— I maghi di Lungold sono imprevedibili, e troppo potenti. Inoltre sembrano scioccamente proclivi a sfidare la morte per soddisfare i loro impulsi. Suth lo ha ben dimostrato. Io ti sono debitore, se non altro perché il tuo misero arpeggiare di questa notte ha attirato il Portatore di Stelle e lo ha distratto. Ma dovrai chiedermi qualcos’altro.

— Non c’è altro che voglio. Eccetto, forse, un’arpa con le corde fatte d’aria, che possa esser suonata anche da un uomo senza mani.

Ghisteslwchlohm restò in silenzio. Morgon aveva sollevato lentamente la testa a guardare l’arpista, mentre quelle parole risvegliavano nella sua memoria i frammenti di qualche antico enigma. La voce di Deth era risuonata calma come sempre, ma negli occhi aveva una luce dura che lui non gli aveva mai visto. Ghisteslwchlohm sembrava riflettere su qualcosa di ambiguo, come se dietro la voce del vento mattutino ce ne fosse un’altra che non riusciva a cogliere.

Infine il mago disse, vagamente incuriosito: — Dunque perfino la tua pazienza ha dei limiti. Potrei guarire le tue mani.

— No.

— Deth, tu stai diventando irragionevole. Sai bene quanto me qual è la posta di questa partita. Morgon inciampa come un cieco nel suo stesso potere. Lo voglio al Monte Erlenstar, e per ottenere questo non voglio combattere con lui.

— Io non tornerò nel Monte Erlenstar — disse Morgon d’impulso. Il mago lo ignorò; i suoi occhi scrutavano con attenzione il volto di Deth.

L’arpista disse: — Io sono vecchio, malconcio e stanco. A Hel mi hai lasciato ben poco, salvo la vita. Sai cos’ho fatto dopo? Ho portato il cavallo a Caithnard, ho trovato uno dei pochi mercanti disposti a non sputarmi addosso appena mi vedono, e ho scambiato il cavallo con quell’arpa. — Indicò lo strumento che aveva deposto con bizzarra cura proprio sulle ceneri del fuoco. — L’ultima cosa che mi rimane, adesso.

— Ti ho detto che posso…

— In tutto il reame non esiste più un cortile o una stalla dove mi sarebbe permesso di suonare, anche se tu mi guarissi le mani.

— Hai accettato questo rischio, sei secoli fa — disse Ghisteslwchlohm. Abbassò la voce: — Invece di suonare l’arpa alla mia corte avresti potuto scegliere un posto meno importante, un posto innocuo e povero, la cui debolezza non gli avrebbe però consentito di sopravvivere alla battaglia finale. Tu lo sapevi. Sei troppo intelligente per metterti a recriminare adesso, e non hai nessuno da incolpare per la tua innocenza perduta; un’innocenza che peraltro non hai mai avuto. Puoi startene qui a patire la fame, oppure portare Raederle di An al Monte Erlenstar e aiutarmi a finire questa partita. Poi potrai chiedere per i tuoi servizi tutto ciò che vuoi, qualunque cosa ci sia nel reame. — Tacque, poi la sua voce si fece aspra: — O forse, in qualche angolo della tua mente che non posso raggiungere, sei legato al Portatore di Stelle?

— Io non devo niente al Portatore di Stelle.

— Non è questo che ti ho domandato.

— Mi hai già fatto la stessa domanda, a Hel. Vuoi una diversa risposta? — Si accigliò, come se l’ira che gli vibrava in ogni parola fosse cosa sorprendente anche per lui. Cercò di calmarsi. — Il Portatore di Stelle è il perno intorno a cui ruota il gioco. Io non sapevo, proprio come te, che sarebbe stato un giovane Principe di Hed, né immaginavo che sarei andato pericolosamente vicino ad affezionarmi a lui. Soltanto a questa ipotesi fui cieco, e ora non ha più molta importanza. L’ho tradito due volte per te. Ma dovrai trovare qualcun altro che tradisca Raederle di An. Io sono un debitore. Comunque questa è una cosa di poco conto: lei non è una minaccia per te. E potresti usare al suo posto un altro governatore della terra, se…

— La Morgol?

Deth si fece così rigido che parve smettere di respirare, come se il suo corpo si fosse pietrificato. Morgon, che lo osservava, si accorse con stupore che qualcosa nell’atteggiamento di lui gli aveva fatto venire le lacrime agli occhi.

Sottovoce l’arpista disse: — No!

— È così, allora. — Il mago lo fissava con una smorfia dura sulla bocca. Annuì, impaziente. — Dunque c’è qualcosa di cui t’importa non poco. Stavo cominciando a dubitarne. Se non posso convincerti a tornare al mio servizio, forse potrò costringerti. La Morgol di Herun è accampata fuori Lungold con duecento delle sue guardie. Le guardie son là, presumo, per proteggere la città; ma la Morgol, per qualche suo incomprensibile impulso, sta aspettando te. Credo che ti darò una scelta: se decidi di lasciare qui Raederle, allora sarà la Morgol che porterò con me al Monte Erlenstar, dopo che con l’aiuto di Morgon avrò sottomesso fin l’ultimo dei maghi di Lungold. Scegli!

Lo fissò, in attesa. L’arpista non aveva battuto ciglio, ma ebbe un fremito quando la voce del mago lo aggredì come un colpo di frusta: — Scegli, ho detto!

Raederle si portò una mano alla bocca. — Deth, verrò con te — sussurrò. — Io seguirò Morgon ovunque, anche là, altrimenti sarei spergiura.

L’arpista non disse nulla, ma si mosse a passi lenti verso di loro con gli occhi fissi sul volto di Ghisteslwchlohm. Gli si fermò davanti, e inalò un lungo respiro come preparandosi a parlare. Poi sollevò improvvisamente un pugno e lo abbatté sulla fronte del Fondatore.

Ghisteslwchlohm indietreggiò, attanagliando con una mano il braccio sinistro di Morgon, che restò immobile per la sorpresa. L’arpista aveva però smarrito l’equilibrio, e cadendo con un ginocchio a terra gemette, come se nella sua mano qualche osso avesse ceduto del tutto. Sollevò la testa, pallido e sofferente. Per qualche istante Ghisteslwchlohm lo fissò, ansando, e Morgon ebbe l’impressione che i ricordi di secoli di collaborazione si condensassero nella sua smorfia di disprezzo. Poi alzò la mano destra. Una lingua di fiamma sferzò l’arpista in pieno volto e lo scaraventò all’indietro, facendolo rotolare fra le erbacce, dove giacque immobile e con gli occhi sbarrati verso il cielo.

Il mago tornò ad afferrare Morgon per le braccia, fissandolo quasi che volesse tenerlo fermo anche con lo sguardo, ed egli si rese conto che la vista di Deth steso al suolo gli aveva strappato un singhiozzo rauco. Stava tremando, ma dalle dita che gli attanagliavano i gomiti sprigionava una forza oscura che gli impediva di lottare. Il mago si passò una mano sulla fronte, come se la sferzata di fuoco scaturita dalla sua mente gli avesse lasciato un forte mal di capo. — In nome di Hel! — ringhiò. — Cos’è che ti fa sprecare la tua compassione per lui? Guardami! Guardami… tu ne hai pietà?

— Non lo so! — gridò Morgon. Un’altra lingua di fiamma nacque dalla mano del mago, passò sopra il corpo di Deth e investì la sua arpa, che prese subito fuoco. Nell’aria risuonarono i clangori delle corde che si spezzavano. D’improvviso la figura di Raederle scintillò di pura fiamma. Il mago proiettò su di lei la sua inflessibile forza mentale per costringerla a riprendere le sue sembianze. Mentre era ancora metà donna e metà fuoco, Morgon si sforzò di contrastare il flusso di potere che avrebbe potuto distruggerla, ma ad un tratto una sensazione lo fece trasalire. Si voltò di scatto: fra gli alberi c’erano dodici cavalieri che li stavano fissando incuriositi. I cavalli erano neri come la notte, ma i loro vestiti avevano strani e mutevoli colori del mare.

Nel silenzio che era sceso sulla radura uno degli sconosciuti commentò: — Sembra che il mondo non sia più un posto sicuro per gli arpisti! — Chinò la testa verso Morgon. — Portatore di Stelle… — Il volto pallido e inespressivo era percorso da vibrazioni che parevano distorcerlo. Da tutti loro emanava l’odore del salmastro. — Figlia di Ylon… — Un nuovo lievissimo inchino, poi i suoi occhi liquidi si spostarono su Ghisteslwchlohm. — Supremo…!

Nell’osservarli Morgon valutò l’una dopo l’altra quali erano le sue possibilità di contrastarli, ma non seppe trovarne una. I nuovi venuti non portavano armi, i loro cavalli erano immobili come pietre; ma intuì che un nonnulla sarebbe bastato per farli scattare ferocemente all’attacco. I loro movimenti sembravano sospesi, come la pausa di apparente calma fra due onde, e non avrebbe saputo dire se per incertezza o per semplice curiosità. Sentì le dita di Ghisteslwchlohm che continuavano ad attanagliargli la spalla, e stranamente il fatto che il mago lo volesse vivo gli parve rassicurante.

Il mago parlò, e il cambiaforma rispose alla sua domanda soltanto con un’osservazione fra ironica e minacciosa: — Sono migliaia d’anni che attendiamo d’incontrare il Supremo.

Il mago sibilò fra i denti: — Dunque è così. Siete voi la progenie dei mari che bagnano Ymris e An…

— No. Noi non apparteniamo al mare. Diciamo che diamo forma a noi stessi grazie al suo arpeggio. Sembra che voi non teniate molto al vostro arpista.

— L’arpista è affar mio.

— Vi ha servito bene. Lo abbiamo osservato per secoli mentre distribuiva i vostri comandi, avallava la vostra mascheratura, e attendeva… come attendevamo noi, già da prima che metteste piede nella terra del Supremo, Ghisteslwchlohm. Dov’è il Supremo? — Il suo cavallo avanzò senza alcun rumore, come un’ombra, fermandosi a tre passi da Morgon. Il giovane frenò l’impulso d’indietreggiare. Il tono del Fondatore, stanco e spazientito, lo stupì:

— Non ho voglia di far gare di enigmi. E neanche di combattere. Voi costruite le vostre sembianze coi corpi dei morti e con le alghe marine; voi respirate, suonate l’arpa, potete morire… questo è tutto ciò che so e che m’interessa di sapere di voi. Girate i cavalli e andatevene, o vi troverete a cavalcare dei mucchi di cenere.

Il cambiaforma fece indietreggiare d’un passo il suo animale, ma senza muovere neppure un muscolo. Nei suoi occhi splendenti come l’acqua vi fu una luce divertita. — Maestro Ohm — disse, — conoscete l’enigma di quell’uomo che a mezzanotte aprì la porta di casa, e che fuori non vide il nero del cielo bensì un nero di diverso genere: l’occhio nero di una creatura che si estendeva sopra di lui con le sue dimensioni enormi? Osservateci meglio. E adesso andatevene senza dir altro, lasciando a noi il Portatore di Stelle e la nostra consanguinea.

— Osservatemi voi! — esclamò il Fondatore. Morgon sentì che la mano lo lasciava, ma l’energia che sprigionò dal mago lo fece vacillare di lato: una forza invisibile si abbatté contro i cambiaforma, spezzando di netto una quercia e scuotendo la vegetazione da cui si levarono nugoli di uccelletti terrorizzati. Attorno a loro balenò un fuoco fatto di energia mentale, che devastava e distruggeva, e pur avvertendone l’urto Morgon si rese conto che il Fondatore proteggeva lui e se stesso schermando le loro menti. Quando fra gli alberi abbattuti ritornò la calma, nel nugolo di foglie e nel polverone che lentamente si dissolveva i cambiaforma riapparvero, intatti. Il loro numero s’era raddoppiato, evidentemente perché metà di essi erano venuti in sembianze di cavallo. Subito dopo però, con tutta calma, essi tornarono alla forma precedente, mentre Ghisteslwchlohm perplesso e scornato li fissava prendendo atto dell’estensione dei loro poteri. Morgon si scostò dall’individuo. I cambiaforma risalirono in sella, e qualche istante più tardi benché non si fossero scambiati alcun segnale, li attaccarono violentemente e d’improvviso.

La loro carica fu un’ondata nera, silenziosissima, che li investì con tale rapidità che Morgon ebbe appena il tempo di reagire. D’impulso creò intornò a sé un’illusione di vuoto in cui il suo corpo scomparve, e della quale forse soltanto Raederle si rese conto; la giovane donna ansimò sentendosi afferrare per un polso da lui. Qualcosa lo colpì, lo zoccolo di un cavallo, o forse l’elsa di una spada, e per lo stordimento uscì di nuovo dallo stato d’invisibilità. Irrigidì ogni muscolo in attesa del colpo mortale che poteva abbattersi su di lui; ma in quei brevi istanti tutto ciò che lo toccò fu il vento. Allora proiettò la sua mente via di lì, rapidissima, per miglia e miglia lungo la Strada dei Mercanti, e individuò un carro coperto da un tendone alla guida del quale un uomo stava fischiettando tranquillo. Proiettò la sua mente in quella di Raederle, riempiendola con la consapevolezza di quel che stava per fare, unendosi a lei fisicamente e psichicamente, poi la abbracciò con forza e la trascinò con sé smaterializzandosi nell’aria.

Un istante più tardi si ritrovò disteso accanto alla ragazza sul pianale del carro coperto, fra pezze arrotolate di stoffa ricamata sulle quali sgocciolava il suo sangue.

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