CAPITOLO OTTAVO

Rientrò in città appena in tempo, perché due soldati di Ymris stavano già compiendo uno sforzo pertinace per chiudere il portone. I cardini gemevano, schizzando fuori la ruggine accumulata per secoli, ed i battenti di quercia scavavano solchi al suolo sollevando il terriccio. Morgon li chiuse con un pensiero così violento che il suo cuore rimbombò come l’architrave. Richiamata da quel flusso di potere una mente, familiare e mortale, raggiunse la sua da lontano. Nell’aria scura dinnanzi a lui roteò una colonna di vampe bianche e azzurre, così vorticosa e affascinante che riuscì solo a fissarla senza fiato. Ma un attimo dopo gli parve che tutte le ossa del suo corpo volassero via a pezzi, mentre nel cervello qualcosa gli bruciava come una stella. D’impulso proiettò se stesso nel muro di pietra che aveva alle spalle, e lasciò fluttuare la mente in quella cieca immobilità. Il potere s’infranse contro la parete e scivolò via. Come se recuperasse dalla notte le sue ossa una per una Morgon si rimaterializzò, e stordito comprese d’essere ancora vivo. Uno dei soldati, col volto insanguinato, lo aiutò a rialzarsi. L’altro giaceva morto nella polvere.

— Nobile…

— Io sto bene — ansimò. Scagliò i suoi pensieri fuori dall’attimo di spaziotempo in cui si trovava. Appena in tempo, perché quando la seconda lancia d’energia squarciò il tramonto riuscì a evitarla smaterializzandosi, e si trasportò a poca distanza dalla grande Scuola in fiamme. La gente correva per le strade verso le porte della città: guardie della Morgol, guerrieri di Ymris, commercianti, bottegai e pescatori, tutti s’erano armati e sembravano animati da una ferrea determinazione. Sul bordo dell’immenso spiazzo deserto che circondava l’edificio c’erano dei ragazzini, come ipnotizzati dal lingueggiare delle fiamme che si riflettevano sui loro volti in ondate rossastre. Ad un tratto i muri della casa alle loro spalle si scossero, una cascata di mattoni e calcinacci grandinò in strada, ed essi si dispersero gridando di spavento.

Morgon richiamò dalle profondità del suo subconscio tutta l’energia di cui poteva disporre, ne fece roteare il flusso dentro di sé nutrendolo e aumentandone le dimensioni, finché sentì che la terribile spirale di quel potere rischiava di strappargli via i pensieri dalla mente. Quando lo scagliò avanti esso fu un crepitante fulmine di luce diretto contro l’entità che si acquattava nella Scuola, lo vide sparire saettando fra i muri diroccati e attese l’esplosione, ma nulla accadde. Un attimo dopo esso riapparve in un arco guizzante e lampeggiò verso Morgon con la stessa mortale intensità. Lui lo fissò incredulo per una frazione di secondo, poi aprì la mente per riassorbirlo. La saetta d’energia implose nelle tenebre dentro di lui. Ma accecato dal suo lampeggiare non si era accorto che dietro di essa ne era lingueggiata fuori un’altra, e colta di sorpresa la sua mente ne subì l’abbagliante impatto. Il colpo lo fece rotolare sul selciato, cieco e rantolante in cerca d’aria, mentre soltanto l’intuito lo avvertiva dell’arrivo di un secondo violento fulmine d’energia. Proiettò la sua identità di nuovo nella pietra, fra le fessure del selciato sotto di lui, nell’oscurità e nel silenzio del terreno, e intanto che si smaterializzava sentì l’acciottolato che gli esplodeva attorno. Una scheggia riuscì a colpirlo a una guancia, ma quasi non se ne accorse. Il suo corpo si mescolò alla terra, ed egli fu conscio soltanto dell’immobilità che lo circondava e delle piccole creature che vivevano in quel mondo senza luce. La presenza delle talpe e dei vermi, degli insetti e delle radici, penetrò come un flusso di ottusa calma nella sua mente sconvolta e pian piano la placò. Quando infine riemerse alla superficie gli parve che il mondo si fosse fatto più scuro, pervaso appena da minuscoli e silenziosi barbagli di luce. Lasciò che i suoi pensieri fossero quelli primitivi e informi di un verme della terra, e animato soltanto da essi s’incamminò nel buio.

Quel travestimento mentale gli permise di attraversare lo spiazzo deserto fino alla Scuola senza venir individuato. Il fuoco che s’era nutrito dell’antico potere stagnante fra le pietre ardeva ancora; fredde fiamme verdastre balenavano fra le mura corrose, divorando l’energia rimasta dentro di esse. La mente di Morgon, sintonizzata sulle ottuse sensazioni di una creatura che strisciava avanti, non captava segnali di pericolo benché intorno a lui ruggisse ancora la distruzione. Un muro crollò mentre lo oltrepassava; le macerie si sgretolarono proprio alle sue spalle, ma tutto ciò che sentì fu una lontana vibrazione che a stento dai piedi gli si trasmise al cervello. Poi un misterioso e gentile tocco mentale lo indusse ad emergere dall’informità di quei pensieri da verme, ed a seguirlo incuriosito. Spezzando la catena psichica che s’era imposto tornò conscio di sé, e si ritrovò al centro della devastazione e delle fiamme, con un sussulto. Lo strano tocco mentale si fece imperativo, ed egli s’accorse che il locale in cui era penetrato stava crollando su se stesso. Non gli restava il tempo di fuggire: di nuovo smaterializzò la sua identità nelle pietre, le stesse che gli rovinarono attorno, divenne parte di quel caos di calcinacci, si spezzò al suolo con loro e si risollevò come polvere aleggiando sull’ammasso di macerie quando esso tornò immobile. Dopo qualche istante rimise insieme i suoi pensieri e riprese la sua forma umana. Soltanto allora vide Nun, un’ombra vaga oltre il polverone, che lo scrutava dopo avergli dato quell’avvertimento. La maga non disse nulla e svanì dopo un momento, lasciando dietro di sé uno sbuffo del fumo della pipa a roteare nell’aria.

La battaglia che infuriava nel cuore della Scuola sembrava scuotere il terreno. Cautamente si fece strada in quella direzione. Dal lampeggiare di luci che scorgeva oltre le belle finestre dell’edificio principale comprese che il suo punto focale era là dove aveva preso inizio: il vasto salone circolare che ancora riecheggiava del nome del Fondatore. Dalla facilità con cui le ondate di poteri venivano deviate fuori dal locale gli parve di arguire che lo scontro era a senso unico. Il Fondatore stava giocando al gatto col topo con i maghi, e usava le loro vite come un richiamo per attirarlo lì. Un istante più tardi Morgon ne ebbe la prova. Sentì la mente del Fondatore scivolare fra le fiamme come uno scandaglio di luce nera che lo cercava. I suoi pensieri ne vennero sfiorati brevemente: la consapevolezza di un potere enorme e pericoloso proprio dinnanzi a lui. Ma quel potere non tentò di attanagliare la psiche di Morgon; se ne ritrasse, e subito dopo lui udì un grido che gli raggelò il sangue.

Aloil uscì da una delle finestre roteando nell’aria, in una forma che non era più esattamente la sua. Il mago stava lottando disperatamente contro l’energia che l’aveva sollevato dal suolo, ed i suoi pensieri erano un groviglio frenetico, ma liberarsi gli era impossibile. La sua forma fisica stava cambiando inarrestabilmente. Dalle spalle gli emersero rami che si allungarono divenendo tronchi fronzuti; il viso sconvolto perse ogni espressione mutandosi in dura corteccia, e il suo corpo si allungò come un tronco cilindrico e nodoso. Quando sfiorò il terreno dai piedi gli scaturirono radici che penetrarono a fondo nell’erba, e ogni sua identità umana svanì in un fruscio di fronde. Sul vasto spiazzo dove nulla era cresciuto per sette secoli c’era adesso una grande quercia, vivente ma immobile. E poi da una finestra scaturì un fulmine diretto verso l’albero, così potente che avrebbe potuto schiantarlo facendolo volare via dalle radici.

Ma Morgon aprì la mente per riassorbirlo prima che l’albero ne fosse ucciso. Lo scagliò di nuovo all’interno, verso Ghisteslwchlohm, e sentì una delle pareti esplodere in pezzi. Poi, proiettandosi spietatamente nelle difese psichiche del Fondatore, unì i pensieri a quelli di lui, così com’erano stati uniti nelle oscure profondità del Monte Erlenstar.

Assorbì il potere che ruggiva per scacciarlo, lasciandolo bruciare innocuo in un angolo della mente. Pian piano la sua stretta si rinsaldò, finché i processi psichici del Fondatore tornarono ad essergli familiari, intimi, quasi che li avesse distesi dinnanzi agli occhi. Ignorò le esperienze, gli istinti, la lunga e misteriosa storia della vita del Fondatore, e si concentrò soltanto sulla sorgente dei suoi poteri, per estrarglieli sino a prosciugarla. Subito dopo s’accorse che Ghisteslwchlohm aveva capito ciò che lui stava cercando di fare, avvertendo i rabbiosi e frenetici flussi d’energia che lo colpivano e quasi lo scossero via; li contrastò e li respinse, finché dimenticò ogni altra cosa salvo quella mente ritorta attorno alla sua in uno scontro disperato. E infine quella lotta fatta d’energia e di potere cessò. Spinse più a fondo le sue dita immateriali, cercando altra energia da bloccare e di cui impadronirsi, e senza che se lo aspettasse d’un tratto fu il Fondatore a cedergli qualcosa: con sua sorpresa si trovò ad assorbire di nuovo la consapevolezza del governo della terra di Hed.

La sua stretta mentale vacillò, incrinandosi per la furia e il disgusto davanti a quell’ironico regalo. Un lampo di rabbia allo stato puro lo scaraventò al suolo. Stordito cercò a tentoni di opporre una difesa, ma la sua mente non riuscì che ad emettere strali di fuoco a caso. Il potere lo colpì ancora, mandandolo a rotolare sui sassi arroventati. Qualcuno lo tirò in piedi: erano i maghi, e stringendoglisi attorno essi distolsero l’attenzione di Ghisteslwchlohm innalzando uno sbarramento di forza che scosse l’interno dell’edificio. Talies, spolverandosi la tunica infangata, disse con voce secca: — Uccidilo!

— No.

— Tu… testardo contadino di Hed! Se sopravviverò a questa battaglia giuro che andrò a studiare alla Scuola degli Enigmi. — Si volse di scatto. — In città si sta combattendo. Sento le grida dei morenti.

— C’è un esercito di cambiaforma. Hanno attaccato la porta principale mentre sorvegliavamo le altre. Ho visto… mi è parso di vedere Yrth. È capace di parlare ai corvi?

Il mago annuì. — Bene. Probabilmente sta combattendo coi mercanti. — Aiutò Morgon a riassumere l’equilibrio. Ma la terra tremava sotto di loro, e una scossa più forte li fece cadere di nuovo l’uno sull’altro. Si rialzò sulle ginocchia. Morgon si tirò stancamente in piedi ed esaminò le mura intorno al salone. — Ormai dev’essere esausto.

— Tu credi?

— Bisogna che io entri là.

— E come?

— Entrerò a piedi, camminando. Ma devo distrarre la sua attenzione… — Rifletté qualche istante, sfregandosi una contusione su un polso. Scandagliò l’edificio con la mente e ripercorse le rovine dell’antica biblioteca, dove giacevano i resti di centinaia di libri di magia. Quelle pagine semidistrutte erano ancora gravide di potere: i lucchetti chiusi da incantesimi, le parole arcane non pronunciate da secoli, l’energia dei maghi che avevano messo per iscritto le loro esperienze con le forze arcane. Risvegliò quei poteri dormienti, ne attrasse fluidi e rivoli dentro di sé. Per un istante fu quasi sopraffatto dal caos di quei frammenti. Parlando ad alta voce recitò strane teorie di nomi, di parole magiche, incantesimi scarabocchiati da studenti su fogli sparsi, talora grotteschi, un miscuglio di conoscenze e di energie che nel riemergere balenavano di bizzarre forme nella luce rossa dell’incendio. Ombre, pietre che si muovevano e parlavano, uccelli ciechi le cui ali brillavano di colori incantati, creature goffe che sembravano costruire se stesse emergendo dai mucchi di macerie, tutto ciò egli riunì e mise in marcia contro Ghisteslwchlohm. Rievocò gli spettri degli animali uccisi durante la distruzione: pipistrelli, corvi, donnole, furetti, volpi, lupi dal pelame bianco e topi. Le loro forme scivolarono nella notte intorno a lui chiedendo di nuovo la loro vita, finché non li mandò verso la sorgente del potere. Aveva poi cominciato a lavorare sulle radici degli alberi morti rimaste nella terra, quando l’avanguardia del suo esercito saggiò le difese del Fondatore. L’assalto di quei frammenti di potere, rozzi, quasi innocui, e tuttavia troppo numerosi per poter essere ignorati, distolse l’attenzione del Fondatore. Per un momento ci fu un altro intervallo, durante il quale lo spettro di un lupo uggiolò le note di una canzone morta. Morgon corse senza far rumore verso il salone. C’era quasi arrivato allorché il suo fantomatico esercito scaturì fuori dal locale passandogli sopra e attorno, e come una marea di ombre si disperse nella notte verso la città.

Morgon li dovette inseguire col pensiero come con una rete, per imbrancare e ricacciare nell’oblio le spiacevoli creature da lui create prima che spargessero il panico in città. Lo sforzo di ricatturare quelle che volavano come orridi pipistrelli o avanzavano come turbini di pulviscolo richiese tutta la sua attenzione. Quand’ebbe finito la sua mente risuonava dei nomi e delle parole magiche che aveva dovuto ritirare in sé. Riempì i suoi pensieri di fuoco, dissolse in esso ciò che restava di quei poteri e ne trasse forza e chiarezza. Poi si rese conto, col batticuore, che intorno a lui c’era il buio quasi assoluto.

Uno strano silenzio aleggiava sul terreno desolato. Fra le macerie mucchi di rottami e calcinacci surriscaldati rosseggiavano ancora, ma intorno alla Scuola la notte era priva di rumori, e alzando gli occhi poté vedere le stelle. Tese gli orecchi, ed il solo vocio che udì proveniva da strade lontane in cui evidentemente si stava combattendo. Di nuovo si mosse a passi felpati, ed entrò nel salone.

L’interno era oscuro e immobile come le caverne sotto il Monte Erlenstar. Fece un tentativo di illuminare quella tenebra, ma non riuscendo a vincerla rinunciò subito. D’impulso allora materializzò la spada stellata, l’afferrò per la lama e la tenne dinnanzi a sé, girando attorno le tre stelle; da tutto ciò che ancora ardeva richiamò luce e calore, e l’elsa proiettò tre raggi rossi che nell’oscurità gli mostrarono la figura di Ghisteslwchlohm.

Senza dir parola si fissarono l’un l’altro. In quella luce innaturale il Fondatore appariva sparuto, con la pelle tesa sulle ossa del volto. La sua voce suonò stanca, né remissiva né minacciosa, quando imprevedibilmente disse: — Ancora non riesci a vedere nel buio.

— Imparerò.

— Devi assorbire la tenebra… tu sei un enigma, Morgon. Dai la caccia a un arpista in tutto il reame per ucciderlo perché detesti la sua musica, e non vuoi uccidere me. Avresti potuto farlo quando legavi la mia mente, ma non l’hai fatto. Potresti provarci adesso, ma non vuoi. Perché?

— E tu non vuoi uccidere me. Perché?

Il mago emise un grugnito. — Una gara di enigmi… avrei dovuto immaginarlo. Come hai potuto sopravvivere e fuggire quel giorno sulla Strada dei Mercanti? A stento io stesso mi sono salvato.

Morgon lo fissò in silenzio. Abbassò la punta della spada sul pavimento. — I cambiaforma, chi sono? Tu sei il Supremo, dovresti saperlo.

— Erano soltanto una leggenda, favole e poemi, qualcosa fatto d’alghe e di conchiglie rotte… una strana accusa fatta da un principe di Ymris, finché tu non hai lasciato la tua terra per cercarmi. Ma adesso… stanno diventando un incubo. Tu cosa sai di loro?

— So che sono antichi. Possono essere uccisi. Hanno poteri enormi ma li usano raramente. E stanno ammazzando mercanti e guerrieri nelle strade di Lungold. Io non so, in nome di Hel, cosa mai siano.

— Che cosa vedono in te?

— Ciò che vedi tu, presumo, qualunque cosa sia. Dovresti essere tu a dare questa risposta a me.

— Senza dubbio. L’uomo saggio conosce il suo nome.

— Non prendermi in giro. — La luce dell’elsa vacillò fra le sue mani. — Tu hai distrutto Lungold per tenere il mio nome lontano da me. Tu hai nascosto tutto ciò che riguardava questo nome, e dalla Scuola degli Enigmi di Caithnard hai sorvegliato…

— Risparmiami la storia della mia vita.

— È questo ciò che voglio da te. Maestro Ohm. Supremo. Dove hai trovato il coraggio di assumere l’identità del Supremo?

— Nessun altro la reclamava.

— Perché?

Il mago restò in silenzio un momento. — Tu potresti estrarmi a forza le risposte — disse poi. — Io saprei raggiungere e legare ancora le menti dei maghi di Lungold, e farei sì che tu non riusciresti a toccarmi. Potrei fuggire, e tu potresti inseguirmi. O potresti essere tu a fuggire ed io a inseguirti. Potresti uccidermi, ma questo sarebbe un lavoro difficile e poi avresti perduto il tuo più potente protettore.

— Protettore!

— Io ti voglio vivo. Credi che per i cambiaforma sia lo stesso? Ora ascoltami…

— Non provarci! — disse stancamente Morgon. — Posso annientare il tuo potere una volta per tutte. Per quanto sia strano, a me non importa che tu viva o muoia. Se non altro ti comprendo, il che è più di quanto io possa dire dei cambiaforma o di… — Tacque. Il mago fece un passo verso di lui.

— Morgon, tu hai visto il mondo attraverso i miei occhi e hai il mio potere. Più andrai a toccare le leggi della terra, e più gli uomini si ricorderanno di questo.

— Non ho intenzione d’immischiarmi con le leggi della terra. Chi credi che io sia?

— Hai già cominciato a farlo.

Morgon lo fissò. Sottovoce disse: — Ti sbagli. Io non ho neppure cominciato a vedere coi tuoi occhi. In nome di Hel, cos’è che vedi quando mi guardi?

— Morgon, io sono il mago più potente del reame. Potrei battermi contro di te.

— Quel giorno, sulla Strada dei Mercanti, qualcosa ti ha spaventato. Hai bisogno che io combatta per te. Cosa accadde? Hai visto i limiti del tuo potere in quegli occhi verde-mare? Loro vogliono me, e tu non vuoi cedermi a loro. Ma sembri ben certo che non riusciresti a opporti a un esercito di quella progenie del mare.

Ghisteslwchlohm tacque ancora un poco, mentre riflessi rossi illuminavano il suo profilo. — E tu ci riusciresti? — chiese a bassa voce. — Chi ti aiuterebbe? Il Supremo? — In quell’istante Morgon avvertì l’improvvisa tensione della sua mente, un’onda di pensiero che si allargava nel salone e sul terreno esterno in cerca delle menti dei maghi, per penetrare in loro e legarli ancora una volta a sé. Morgon sollevò la spada; le stelle mandarono un lampo di luce negli occhi di Ghisteslwchlohm. Il mago distolse lo sguardo, la sua concentrazione si spezzò. Poi alzò una mano e dalle sue dita scaturirono refoli di luce. I bagliori saettarono nelle tre stelle come se queste li avessero risucchiati. Nel salone cadde una tenebra densa come una cosa viva, che occluse perfino il chiarore della luna. Nella mano di Morgon la spada si raggelò. Il freddo gli risalì lungo il braccio, nelle ossa, dietro gli occhi: un legame invisibile gli immobilizzò le membra e i pensieri. Esserne consapevole servì soltanto a intensificarne l’effetto; lottare per muoversi non ebbe altro risultato che farlo stringere di più intorno a lui. Allora gli cedette e rimase fermo nel buio, conscio che era illusione e sapendo che accettarla, come l’accettazione dell’impossibile, era il solo modo per uscirne. Plasmò se stesso all’immobilità, divenne il gelo da cui era attanagliato, e quando l’onda di potere che s’era addensata da qualche parte oltre l’oscurità infine gli si abbatté addosso la sua mente gelida e immobile la bloccò, con l’inerzia di un macigno di ferro.

Sentì l’incredula e furibonda imprecazione di Ghisteslwchlohm, e scosse via da sé l’incantesimo. Riuscì a catturare con la mente quella del mago appena prima che lui svanisse. Un ultimo impeto di energia lo costrinse ad allentare un po’ la presa, e capì d’essere vicino al limite della resistenza. Ma il mago era esausto; perfino la sua illusione di tenebra si sfaldava. La luce delle stelle brillò di nuovo; le mura diroccate che li circondavano emettevano lievi aloni luminosi di potere. Ghisteslwchlohm alzò una mano, come se volesse estrarre qualcosa da quelle macerie ardenti, poi la lasciò ricadere inerte. Morgon gli strinse attorno un lieve legame, e pronunciò il suo nome.

Il nome mise radici nel suo cuore e nei suoi pensieri. Ciò che si trovò ad assorbire non fu potere, bensì ricordi, mentre guardava il mondo per pochi tremuli istanti come attraverso la mente di Ghisteslwchlohm.

Vide la grande sala in cui erano com’era stata al tempo del suo splendore, con le decorazioni quasi brucianti dei fuochi della magia ed i pannelli di legno di cedro ancora freschi e odorosi. Più di cento paia d’occhi lo avevano fissato quel giorno, mille anni prima, mentre lui spiegava le nove regole della magia. E mentre parlava già coltivava in sé, celandola anche alla mente del più potente di loro, tutta la conoscenza relativa alle tre stelle.

S’era seduto nella reggia del Monte Erlenstar manovrando il suo difficile e inquieto potere. Aveva penetrato la mente dei sovrani, non per dominarne le azioni ma per conoscerli, per studiare l’istinto del governo della terra che a quel tempo non sapeva ancora padroneggiare. Aveva visto un sovrano di Herun cavalcare da solo verso il Passo Isig e avvicinarsi sempre più, per interrogarlo su un enigma e su tre stelle. Aveva confuso la mente del cavallo del Morgol; l’animale s’era impennato nitrendo, e il Morgol Dhairrhuwyth era rotolato giù per la scarpata mentre una slavina di macigni precipitava con lui ruggendo il suo terribile monito.

Molto tempo prima di questi avvenimenti era entrato, pieno di meraviglia, nella grande sala del trono di Monte Erlenstar, dove una leggenda più antica d’ogni memoria umana affermava che abitasse il Supremo. L’aveva trovata vuota. Le gemme grezze incastonate nelle pareti erano sporche e senza luce. Generazioni di pipistrelli avevano fatto il nido nei soffitti. I ragni avevano tessuto tele fragili come illusioni intorno al trono. Lui era entrato lì per porre una domanda su una creatura che sognava nelle profondità del Monte Isig. Ma dinnanzi a sé non aveva visto nessuno a cui porla. Aveva spazzato le ragnatele dal trono e s’era seduto, stupito da quel silenzio e da quell’abbandono. E mentre la luce che penetrava dalle porte malconce si faceva grigia, aveva cominciato a intrecciare il progetto di un inganno…

Era stato in un altro luogo, silente e incantevole, su un’altra montagna, e la sua mente s’era immersa in una misteriosa pietra bianca. Essa stava sognando il sogno di un bambino, e lui aveva trattenuto il respiro nel vedere quella strana immagine irreale: una grande città su una pianura ventosa, una città che nella memoria del bambino cantava col vento. Il bambino osservava quel panorama da una certa distanza; la sua mente sfiorava le foglie, la corteccia di un albero, gli steli d’erba; aveva guardato se stesso attraverso gli stolidi occhi di un rospo; s’era visto riflesso in quelli di un pesce; i suoi capelli avevano attratto l’attenzione di un uccellino che costruiva il nido. Il sogno aveva destato in lui l’impulso rovente di fare una domanda, e mentre il bambino si chinava ad annusare il profumo di una foglia lui gliel’aveva rivolta. Il bambino era sembrato volgersi nell’udire la sua voce, con occhi scuri e vulnerabili come quelli di un passero.

— Chi è stato a distruggervi?

Il cielo era divenuto grigio come pietra sopra la pianura; la luce aveva abbandonato il volto del bambino. S’era teso, in ascolto. Il vento aveva preso a soffiare sulla piana, sconvolgendo le erbe. Da lontano era giunto un rumore insopportabile, quasi troppo grande per poter essere udito. Da uno degli edifici della città una pietra s’era staccata, precipitando al suolo. Un’altra s’era schiantata su una strada. Il rumore s’era subito trasformato in un basso terrificante ruggito che in qualche modo lui aveva riconosciuto, sebbene non potesse più vedere né udire, ed i pesci schizzassero fuori dal ruscello in secca, e l’uccellino fosse stato strappato via dall’albero…

— Che cos’è? — sussurrò Morgon attraverso la mente di Ghisteslwchlohm, attraverso la mente del bambino, protendendosi per afferrare meglio la fine del sogno. Ma mentre tornava a penetrarvi esso si dissolse in acqua sconvolta, in vento scuro di tempesta, e gli occhi del bambino divennero bianchi come pietra. Il suo volto sfumò in quello di Ghisteslwchlohm, dagli occhi cerchiati di stanchezza e pervasi da una luce pallida come schiuma.

Stupito, teso nello sforzo di captare ancora qualcosa, Morgon intravide un movimento con la coda dell’occhio. Girò la testa di scatto. Le tre stelle lampeggiarono sul suo volto; vacillò e gli parve di perdere conoscenza per un istante. Indietreggiò nella luce palpitante ed i suoi piedi annasparono fra le macerie, mentre si mordeva a sangue un labbro. Rialzò la testa: la punta della spada stellata era appoggiata sul suo cuore.

Il cambiaforma che stava dinnanzi a lui aveva gli occhi bianchi come quelli del bambino. Nel vedere il suo sorrisetto sardonico Morgon sentì una fredda paura scivolare in lui. Ghisteslwchlohm era sempre immobile, poco lontano, e li fissava. Si volse e vide che in piedi fra le macerie c’era anche una donna. Il suo volto affascinante ostentava calma, nella luce rossastra che spioveva su di lei. Morgon udì i rumori della battaglia che infuriava dietro le spalle della donna: lance e spade, magia e armi fatte d’ossa umane che s’erano sbiancate negli abissi marini.

La donna ebbe un cenno col capo. — Portatore di Stelle — disse, senza alcuna ironia. — Tu stai cominciando a vedere troppo lontano.

— Io sono ancora un ignorante. — Deglutì saliva. — Cosa volete da me? Non me l’avete ancora detto. La mia vita o la mia morte?

— Entrambe. Nessuna delle due. — Gli occhi di lei si spostarono su Ghisteslwchlohm. — Maestro Ohm. Cosa dobbiamo farne di voi? Siete stato voi a svegliare i poteri del Portatore di Stelle. L’uomo saggio non forgia la spada che lo può uccidere.

— Voi chi siete? — sussurrò il Fondatore. — Mille anni fa spensi le braci di un sogno con tre stelle. Dov’eravate allora?

— Aspettavamo.

— Chi siete? Voi non avete una vostra forma, non avete nome…

— Il nome lo abbiamo. — La voce della donna suonava calma e nitida, ma in essa Morgon udì un tono che non era umano, come se la pietra o il fuoco avessero parlato con la voce di una creatura razionale e senza età. Di nuovo la paura gli corse nelle membra come un vento gelido. Cercò di scacciarla dando voce a una domanda, che uscì atona dalle sue labbra:

— Quando… quando il Supremo fuggì dal Monte Erlenstar, da chi stava scappando?

Un flusso di potere mutò parte del volto di lei in oro liquido. Non gli rispose. Ghisteslwchlohm aprì la bocca, e l’ansito che emise si udì chiaramente malgrado il frastuono della battaglia:

— No! — fece un passo indietro. — No!

Morgon non capì d’aver accennato a muoversi finché non sentì il dolore della punta che gli premeva nel petto. Sollevò le mani verso il mago. — Che cosa gli fate? — gridò. — Non vedo niente! — Il freddo metallo lo spinse indietro. L’impulso che l’aveva fatto muovere si trasformò in un crepitio di fuoco che scaturì dall’elsa stellata, costringendo il cambiaforma ad aprire la mano. La spada cadde sul pavimento e si smaterializzò. Anche lui perse l’equilibrio e finì a terra; cercò di rialzarsi. Il cambiaforma si chinò ad afferrarlo per il colletto della tunica. Fissando quegli occhi privi d’espressione Morgon proiettò una saetta di potere simile a un grido nella mente di lui. Il grido si perse in un gelido mare dalle acque torbide. Il cambiaforma tirò Morgon in piedi e lo lasciò, libero ma stupefatto. Di nuovo lui protese una sonda psichica verso la mente del mago e dentro di essa sentì soltanto l’eco del mare.

I combattenti sciamarono confusamente fra le mura dell’edificio in rovina. Incalzati dai cambiaforma, i mercanti, i guerrieri esausti e le guardie della Morgol indietreggiarono fin nel grande salone. A spingerli era un agitare di spade fatte di ferro e di ossa provenienti da navi naufragate, e nel caos lo scontro si fece spietato. Morgon vide due guardie della Morgol cadere uccise prima ancora di riuscire a muoversi per dal loro man forte. Con un’imprecazione fece materializzare la spada, ma una ginocchiata del cambiaforma lo colpì al ventre e lo costrinse a piegarsi in due, senza fiato. Cadde in ginocchio, accecato dal dolore. Il salone parve diventare silenzioso intorno a lui; tutto ciò che vedeva erano i calcinacci sotto le sue mani; i rumori erano scomparsi come nell’occhio vibrante dell’uragano. Come in un sogno udì, al centro di quel silenzio, il nitido e fragile risuonare d’una singola nota d’arpa.

I rumori della battaglia esplosero di nuovo intorno a lui. Ansando raucamente sollevò la testa in cerca della spada e vide Lyra, che schivava e vibrava colpi fra i mercanti che tenevano la porta al suo fianco. Avrebbe voluto gridare, fermare la battaglia finché lei era viva, ma non ne ebbe la forza. La giovane donna corse qua e là nella mischia. Era pallida e sudata, con cerchi neri di stanchezza intorno agli occhi. Sulla tunica e perfino fra i capelli aveva del sangue raggrumato. Mentre girava lo sguardo sul campo di battaglia d’improvviso lo vide. Sollevò la lancia e la scagliò con violenza nella sua direzione. Ad occhi sbarrati lui guardò l’arma che volava in un ampio semicerchio, incapace di muoversi: la lancia lo sfiorò, si conficcò nel petto del cambiaforma che gli stava dietro e lo rovesciò al suolo. Lui afferrò la spada e si rialzò, vacillando. Lyra si chinò a togliere la lancia dalle mani di una delle colleghe uccise. La bilanciò, protendendola indietro mentre aggiustava la mira, e poi con un movimento fluido e rapido scagliò anche quella.

L’arma volò in una lunga parabola al termine della quale c’era il cuore del Fondatore. Gli occhi del mago, nebulosi e vacui, se anche la videro arrivare non sbatterono neppure. Nella mente di Morgon si svolse in un attimo: vide l’espressione di Lyra farsi stupita e inorridita allorché la ragazza capì che il mago era paralizzato, incosciente di quel che gli stava accadendo; non c’era nessun onore nel dare la morte a un avversario del tutto inerme e inconsapevole. Morgon fu tentato di emettere un Urlo per spezzare quella lancia, tanto era desideroso di ritrovare un barlume di verità nello strano sogno di un bambino che era chiuso nella mente del mago. Ma a muoversi furono le sue mani, ed esse materializzarono l’arpa stellata nell’aria. Nello stesso momento in cui comparve, le sue dita suonarono l’ultima corda: la nota di basso vibrò nell’atmosfera in un’eco devastante, distruggendo tutte le armi che c’erano dentro e fuori dal salone.

Il silenzio si sparse aleggiando con la polvere nel grande locale. I guerrieri di Ymris fissarono sbigottiti i mozziconi delle spade rimasti nelle loro mani. Lyra aveva ancora lo sguardo inchiodato nell’aria, là dove la sua lancia s’era disintegrata, a due passi da Ghisteslwchlohm. Quando la giovane donna si volse, il suo fu l’unico movimento nel salone. Morgon cercò i suoi occhi; gli parve stanchissima, sul punto di crollare. Le poche guardie rimaste in vita lo stavano guardando con volti contratti dalla disperazione. I cambiaforma s’erano immobilizzati, e il loro aspetto fisico appariva incerto, sfumato, quasi che un nulla bastasse per trasformarli in una marea fatta di niente. Perfino la donna che lui conosceva come Eriel non si muoveva e lo fissava, in attesa.

In quell’istante ebbe una vaga consapevolezza del potere che essi vedevano e temevano in lui, un potere che restava tuttavia in qualche inesplorata regione oltre la soglia della sua coscienza. La profondità della propria ignoranza lo sgomentò. Tenne l’arpa fra le mani senza saper cosa fare, rendendosi conto che se pure stava bloccando i cambiaforma non capiva in che modo avvenisse ciò. Al lieve movimento delle sue dita sullo strumento l’espressione di Eriel mutò, facendosi stupita.

La donna si mosse rapida verso di lui: se per prendergli l’arpa, o per ucciderlo con la sua stessa spada, o per trasformare la sua mente in una sorta di mare vuoto come quella di Ghisteslwchlohm lui non avrebbe saputo dirlo. Strinse la spada e indietreggiò. E proprio allora il tocco di una mano femminile su una spalla lo fermò.

Accanto a lui c’era Raederle. Il volto della giovane donna era bianco come l’alabastro sotto l’alone dei capelli di rame, quasi che fosse appena tornata in forma umana dalla pietra calcarea, come i figli dei Signori della Terra. Le dita di lei lo strinsero piano, ma non lo stava guardando. Fu a Eriel che si rivolse: — Tu non devi toccarlo!

Gli occhi scuri della bruna la considerarono incuriositi. — Figlia di Ylon. Hai fatto la tua scelta? — Riprese a camminare, e Morgon sentì il grande potere imprigionato nella mente di Raederle sprizzare in liberi flussi verso la donna. Per qualche momento vide la forma che Eriel aveva assunto sfaldarsi, rivelando qualcosa d’incredibilmente antico e selvaggio, legato all’oscuro cuore della terra e al fuoco. Attanagliato dalla meraviglia e dal timore s’irrigidì, cinereo, conscio che non avrebbe potuto muoversi neppure se la cosa a cui Raederle stava dando forma fosse stata la sua stessa morte.

Poi un grido gli saettò nella mente, strappandolo da quell’orrido fascino ipnotico. Stordito girò lo sguardo nel salone. Il vecchio mago che aveva già visto alla porta della città attrasse i suoi occhi, e li trattenne con la strana luce magnetica delle sue pupille.

Di nuovo l’urlo silenzioso lo percorse come una frustata: Fuggi! Lui non si mosse. Non voleva lasciare Raederle, e tuttavia sapeva di non poterla aiutare; si sentiva incapace perfino di pensare. Poi un potere s’impadronì della sua mente sfibrata, costringendolo a cambiare forma. Gridò, e dal becco che era diventata la sua bocca scaturì il fiero stridio di protesta del falco. Il potere lo afferrò e come una mano invisibile lo scaraventò fuori dalle macerie ancora ardenti della Scuola dei Maghi, su nel cielo della città assalita e oltre, verso l’immenso regno della notte sconfinata.

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