CAPITOLO NONO

I cambiaforma lo inseguirono attraverso l’entroterra. La prima notte saettò via nel cielo in forma-falco, e la città in fiamme rimpicciolì dietro di lui fino a sparire nelle tenebre. D’istinto volò a settentrione, lontano dalle terre del Reame, stabilendo la rotta con l’odore dell’acqua sotto di lui. All’alba si sentì al sicuro. Scese di quota verso la riva del lago, e gli uccelli acquatici sulla superficie increspata dalla brezza mattutina si dispersero terrorizzati al suo apparire. Ignorando il groviglio dei loro pensieri confusi si gettò in picchiata fra gli alberi, ed appena toccò il terreno si smaterializzò. Molte miglia più a nord riapparve di nuovo, e in forma umana si lasciò cadere in ginocchio sulla sponda di un canale che univa due laghi, esausto e scosso da conati di vomito. Giacque inerte, disteso sulla sabbia lambita dalla corrente fresca. Dopo un poco trovò la forza d’immergere il volto nell’acqua e bevve.

Al crepuscolo lo ritrovarono. Era riuscito a pescare un pesce, e per la prima volta in due giorni aveva potuto mangiare. L’afa del pomeriggio luminoso e la monotona voce del fiume l’avevano poi indotto a chiudere gli occhi in preda alla sonnolenza. Fu lo squittio di uno scoiattolo a destarlo, e alto nel cielo già sfumato d’ombra vide uno stormo di uccelli che non avrebbero dovuto migrare in quella direzione. Rotolò silenziosamente nell’acqua e cambiò forma. La corrente lo portò da un corso d’acqua all’altro, lo fece roteare in vaste polle cristalline dove più volte uccelli acquatici lo adocchiarono con aria famelica. Spaventato capì chi era a dargli la caccia, e nuotò con tutte le sue forze controcorrente, mentre veloci e confuse forme oscure roteavano sulla superficie dell’acqua e gli piombavano addosso ogni volta che tentava di riemergere. Finalmente trovò dinnanzi a sé acqua profonda e si gettò in basso. Cercò il fondale per nascondersi e riposare fra i sassi, ma l’acqua divenne ben presto gelida e oscura, un abisso che gli fece tremare il cuore, e accorgendosi che le sue branchie non assorbivano ossigeno fu costretto a tornare verso l’alto. Lentamente nuotò in direzione della superficie, osò riemergere e vide soltanto insetti notturni che svolazzavano al chiar di luna. Proseguì finché fu di nuovo su un fondale basso, e lì cercò un folto di erbe palustri in cui nascondersi. Non si mosse fino al mattino successivo.

Fu destato dal salto di un pesce che accanto a lui balzò nella luce solare per ingoiare un insetto, e su di lui s’allargarono anelli di minuscole onde. Quando riprese la forma umana, emergendo di colpo dalle erbe fino alle ginocchia, l’acqua scrosciò attorno in una grandine di goccioline d’argento. A guado uscì dal lago, e fra i cespugli si fermò ad ascoltare i rumori della zona.

Il silenzio era così intenso che sembrava aleggiare fin lì da terre senza vita oltre i confini del mondo. La brezza mattutina gli parve una creatura aliena sussurrante un linguaggio del tutto sconosciuto. Ripensò alla voce antica e selvaggia della Piana del Vento, che ululava attraverso Ymris migliaia di nomi e di ricordi. Ma le voci dell’entroterra sembravano essere ancora più antiche, lingue da cui perfino le parole s’erano dilavate via col tempo, fatte ormai soltanto di vuoto. A lungo restò immobile respirando quel silenzio, finché non lo sentì entrare nella sua mente e riempirla di nulla e di desolazione.

Alle labbra gli salì il nome di Raederle. Ciecamente si volse, coi pensieri contorti in un gelido nodo di paura. Dovette chiedersi se era ancora viva, se a Lungold era rimasto qualcuno ancora in vita. Rimuginò sulla tentazione di tornare in città, e appoggiò i pugni stretti allo spasimo sulla corteccia di un albero, attanagliato dal pensiero di lei. L’albero tremò sotto quella pressione, e un corvo che era appollaiato su di esso volò via gracidando. Rialzò la testa di scatto, teso come un animale che annusasse il vento. Le placide acque del lago si stavano increspando: un grosso branco di pesci emerse alla superficie. Nel fissarli sentì il sangue martellargli nelle tempie. Proiettò i suoi pensieri in cerca delle menti selvatiche dell’entroterra, ed a qualche miglio di distanza scoprì una mandria di alci. Mutò forma e rimase coi grossi quadrupedi mentre si spostavano a settentrione verso il Thul.

Quel giorno pascolò con loro. Decise poi di guidarli al Thul e di seguirne il corso verso est, finché i cambiaforma non avessero perso le sue tracce, e quindi di tornare a Lungold. Due giorni più tardi, quando la mandria si riunì ad abbeverarsi al fiume, s’allontanò al galoppo lungo la riva. Ma sbalordito s’accorse che parecchi alci lo seguivano con decisione. Disperatamente cambiò forma e si alzò in volo, svoltando a sud nel cielo già scuro. Ma decine di altri volatili si alzarono dalla boscaglia e lo costrinsero a tornare a nord oltre il Thul, lo spinsero verso il Lago della Dama Bianca e a settentrione, ed egli cominciò a capire che lo stavano volutamente incalzando in direzione del Monte Erlenstar.

Quel sospetto lo riempì di furia e di terrore. Sulla sponda del Lago della Dama Bianca atterrò e si preparò a combattere. Li attese in forma umana, sollevando la spada stellata in modo che l’elsa emettesse tre sanguigni raggi luminosi, e li sventagliò attorno come un richiamo. Ma nessun rispose alla sua sfida. Era pomeriggio e nella calura nulla si muoveva; le acque del lago stagnavano lisce come una lastra d’argento. Sondò intorno e non riuscì a percepire neppure le loro menti. Infine quando il sole basso già stendeva veli purpurei d’ombra sul lago, cominciò a credere d’averli seminati. Smaterializzò la spada e assunse la forma-lupo. Ma mentre si stava allontanando li vide davanti a sé, immobili come l’aria, che riprendevano forma emergendo dalle ombre e dalle chiazze di luce della foresta.

Riassunse le sue spoglie e si gettò avanti brandendo la spada, contro quelle che nel crepuscolo gli parvero forme d’uomo complete a metà, e le attaccò per uccidere, anche se nella sua furia disperata era conscio che con una parte della sua mente li stava incitando ad ammazzarlo. Colpì a morte due cambiaforma prima di rendersi conto che, come in un orrido scherzo, erano stati loro a lasciarsi trafiggere. Non volevano battersi: tutto ciò che volevano era impedirgli di tornare a sud. Riassunse la forma-lupo e galoppò fra gli alberi in riva al lago, verso settentrione. Un nutrito branco di lupi si ammassò alle sue spalle. Si volse ancora e li aggredì. Gli animali si batterono con lui ringhiando, finché ad un tratto capì, mentre rotolava al suolo con un grosso lupo che gli affondava i denti in una zampa, che l’animale non era un cambiaforma. Lo scosse via da sé con un flusso d’energia che gli creò attorno un alone di fiamma. I lupi si allargarono in circolo fissandolo con occhi di brace, senza capire che creatura fosse, eccitati dall’odore del suo sangue. Nel guardarli l’errore che aveva commesso lo fece ridere acremente. Ma l’amaro che aveva in bocca gli bloccò la gola. Per un poco non riuscì a pensare a niente. Tremando in quella notte senza stelle si riempì le narici con l’odore muschioso emanato dai cento e più lupi che gli giravano intorno minacciosi. Poi, mosso dall’idea che avrebbe potuto usarli per attaccare i cambiaforma, proiettò i suoi pensieri nelle menti del branco e le prese tutte sotto controllo. Ma qualcosa spezzò il legame con cui li teneva; i lupi scomparvero veloci nelle tenebre e lo lasciarono solo. E si accorse che non sarebbe riuscito a volare: il braccio ferito dal morso gli bruciava e s’era intorpidito. L’odore di solitudine che emanava dalle fredde acque scure lo sopraffece. Lasciò spegnere il cerchio di fiamma che aveva creato intorno a sé. Intrappolato fra i cambiaforma e il nero orrore del Monte Erlenstar, non seppe in che direzione muoversi. Scosso da un tremito restò fra i cespugli agitati dal vento, lasciando che la notte addensasse veli di tenebra e ricordi dolorosi su di lui.

Il lieve palpito d’ali di un’altra mente sfiorò la sua, aleggiandogli fino al cuore. Deglutì saliva e s’accorse che aveva di nuovo la forza per muoversi, come se un incantesimo si fosse spezzato. La voce del vento cambiò: riempiva la notte portandogli da ogni direzione il nome di Raederle in cento sussurri.

Mentre accendeva il fuoco con un impulso d’energia ebbe quasi la certezza che la giovane donna avrebbe potuto davvero essere dovunque intorno a lui, nel grande albero a cui s’era accostato, o nel fuoco che si levava dal mucchio di foglie morte per scaldargli il volto. Strappò via le maniche della tunica e le usò per bendarsi il braccio. Poi sedette davanti al fuoco, e con gli occhi fissi nelle braci cercò di capire i cambiaforma e le loro misteriose intenzioni. D’improvviso sentì in bocca il sapore caldo delle lacrime, e fu ancor più sicuro che Raederle era viva, e che era con lui. Si alzò, seppellì il fuoco sotto qualche manciata di terriccio. Nascose il suo corpo entro un’illusione di tenebra e riprese a camminare, sempre a nord, lungo l’immensa sponda del Lago della Dama Bianca.

Non vide più traccia dei cambiaforma finché non fu all’altezza delle rapide schiumose del fiume Cwill, che usciva dal lago nell’angolo più settentrionale. Da lì riuscì a spingere lo sguardo fino a contrafforti del Passo Isig, che in distanza si levavano bianchi di picchi e creste nevose, mentre più sulla sinistra svettava la lontana cima del Monte Erlenstar. Decise di fare un altro disperato tentativo di toglierseli dalle costole. Si gettò nell’impetuosa corrente del Cwill e si lasciò trasportare, ora sotto forma di pesce, ora con l’aspetto di un tronco d’albero, attraverso i gorghi e le rapide interminabili, e giù per molte tonanti cascate, finché non smarrì del tutto il senso dell’orientamento e quello del tempo. Il fiume lo trascinò a oriente interminabilmente e infine si trovò a galleggiare in una vasta polla verdolina. Rimase inerte, un pezzo di legno inzuppato d’acqua, consapevole soltanto della fibrosa corteccia entro cui stagnava nell’insensibilità. La corrente lo portò verso la riva e lo fece arenare fra rami secchi ed erbe sporche di fango. Si arrampicò sulla sponda in forma di topo muschiato, scosse l’acqua dalla pelliccia e zampettò via fra i cespugli spinosi.

Soltanto quando fu nell’ombra della boscaglia riprese forma umana. Vide allora che non s’era spostato ad est tanto quanto aveva creduto. A nord ovest era ancora visibile il Monte Erlenstar, cupo ed enorme nella luce smorta della sera. Ma sapeva d’esser più vicino a Isig; se avesse potuto giungervi salvo, il dedalo di cunicoli sotto la montagna gli avrebbe offerto un nascondiglio sicuro. Attese il buio. Poi, con l’aspetto fisico di un orso, avanzò fra la vegetazione verso il Monte Isig guidandosi con le stelle.

Seguì le stelle fino all’alba, allorché impallidirono; poi, senza accorgersene, cominciò a deviare dalla sua direzione. Gli alberi erano fitti e gli nascondevano la vista delle montagne; grovigli di rovi e cumuli di macigni lo costringevano a svolte continue. Dinnanzi a lui il terreno scese fra scarpate e burroncelli, in fondo a uno dei quali trovò il letto di un torrente in secca, e lo seguì convinto di andare a nord. Ma quando sbucò in una zona aperta vide d’essersi mosso verso il Monte Erlenstar. Con un’imprecazione deviò nuovamente a est. Intorno a lui tornò a chiudersi una parte d’alberi che stormivano al vento; il sottobosco s’infittì forzandolo ad altre deviazioni finché, mentre stava attraversando un fiumiciattolo, scorse la mole del Monte Erlenstar dritto davanti a lui e ancor più vicino.

Si fermò, coi piedi a mollo nell’acqua. Il sole brillava ormai a occidente, infiammando le nuvole come una torcia. Nella sua forma-orso aveva caldo, era coperto di polvere e avvertiva i morsi della fame. Sentendo un ronzio d’api annusò in cerca dell’odore del miele. Un grosso pesce saettò nell’acqua verso di lui; gli avventò contro una zampa e lo mancò. Ad un tratto l’istinto ursino lo avvertì di qualcosa. Indietreggiò nell’acqua e girò la testa da una parte e dall’altra, a zanne scoperte, ringhiando una sfida: sapeva che molto vicino a lui c’erano delle presenze ostili, qualcuno che voleva spingerlo lontano dal Monte Isig.

Non riuscì a vedere nulla, ma dalle fauci gli emerse un ruggito furibondo che squarciò il silenzio e rimbalzò fra le colline e le scarpate. Subito dopo ritornò alla forma-falco, si proiettò nel cielo con un guizzo di penne dorate e lasciò dietro di sé l’entroterra, volando rapidissimo in direzione dell’Isig.

Pochi istanti più tardi i cambiaforma guizzarono fuori dagli alberi, e con un grande stormire d’ali si gettarono al suo inseguimento. Per un po’ di tempo li tenne a distanza, sfruttando ciecamente tutta la velocità di cui disponeva e volando dritto verso la grande montagna verdeggiante. Ma al tramonto lo stormo d’uccelli gli s’era fatto più vicino. Erano creature di forma sconosciuta; le loro ali brillavano d’oro e di porpora agli ultimi raggi del sole, avevano lunghi artigli e occhi di fiamma, con becchi affilati bianchi come l’avorio. In breve lo circondarono e cominciarono a dargli addosso, in urti e scontri violenti, finché le sue ali furono sbrindellate e le penne del petto gli si arrossarono di sangue. Il suo volto si fece incerto e penoso, ma i volatili continuarono ad attaccarlo spietatamente, stordendolo a colpi d’ala e annientando la sua resistenza. E ad un tratto, con un grido acuto e disperato, volse le spalle al Monte Isig e si lasciò spingere a occidente.

Per tutta la notte volò attorniato dai loro occhi fiammeggianti. All’alba vide i ripidi versanti del Monte Erlenstar davanti a sé. Allora ritornò alla sua forma umana, a mezz’aria, e si lasciò cadere a corpo morto col vento che gli fischiava attorno verso la foresta sottostante. Ma qualcosa esplose nella sua mente poco prima che si schiantasse al suolo. E intorno a lui ci fu la tenebra.

Quando riprese conoscenza era sempre immerso nel buio. C’era odore di roccia e di umidità. Lontano, da qualche parte, un ruscello mormorava nel sottosuolo. D’improvviso riconobbe quel rumore, e con un ansito strinse i pugni allo spasimo. Giaceva disteso sulla schiena su una pavimentazione di nuda roccia; ogni osso del corpo gli doleva, e la sua pelle era costellata di ferite lasciate da becchi e da artigli. Il silenzio della montagna premeva sul suo petto come un incubo. A denti stretti tese gli orecchi, febbrilmente, ciecamente, in attesa di una voce che non si faceva udire, mentre ricordi angosciosi balenavano nel groviglio di sofferenza che era in lui.

Nell’accorgersi che stava quasi respirando quella tenebra, come se volesse dissolversi per sempre in essa, si rialzò a sedere. A occhi sbarrati guardò attorno e ansimò ancora. Dalla notte senza stelle che erano i suoi pensieri riuscì a strappare un ricordo di luce e di fuoco. Sul palmo di una mano gli nacque una fiammella fredda, e ne aumentò le dimensioni finché fu in grado di vedere le pareti dell’immensa caverna in cui si trovava. Era la prigione dove aveva languito per il più lungo e sconfortante anno della sua vita.

Aprì la bocca, ma la parola gli si bloccò in gola come una pietra. Il riflesso della fiammella gli ritornava moltiplicato mille volte da pareti incrostate di cristalli di ghiaccio e di fuoco, striate d’oro e d’argento, in un firmamento di bagliori lontani. L’interno della montagna era della roccia con cui i Signori della Terra avevano costruito le loro città, ed egli poté vedere le tracce lasciate dagli strumenti che ne avevano tagliato lastre e blocchi squadrati.

Si tirò in piedi a fatica. Un tratto di parete liscia gli rimandò la sua immagine come uno specchio venato di bagliori. La grotta era immensa; trasformò la fiamma che aveva in mano in una lingua di luce alta più della sua testa, e malgrado ciò non riuscì a vederne il fondo, che si perdeva in una tenebra irretita da filoni d’oro.

Il ruscello di cui aveva udito la voce tanto a lungo scendeva da una parete obliqua e levigata dai riflessi di diamante, traendo note liquide da una superficie d’acqua. Alzò la fiamma e vide un grande lago sotterraneo, immobile e nero come una distesa di carbone. Le sue rive erano muraglie di roccia, e il soffitto che si curvava altissimo su di esso appariva niveo come se fosse incrostato di brina.

S’inginocchiò e immerse una mano nell’acqua. Lievi cerchi d’onde nere si allargarono attorno. Stranamente questo lo fece ripensare alla scala che spiraleggiava fino alla vetta della Torre del Vento. Aveva la gola secca per la sete, e dopo aver spazzato via dall’acqua il velo di polvere si chinò a bere. Ma il sapore gli fece torcere il volto in una smorfia di disgusto. Era salata, piena di minerali disciolti.

— Morgon.

Il suono di quella voce lo fece irrigidire. Si volse di scatto e incontrò gli occhi di Ghisteslwchlohm.

Aveva le occhiaie scure, marchiate dalla stanchezza di un potere non suo. Questo fu tutto ciò che Morgon poté vedere, prima che la fiamma sulla sua mano ondeggiasse e si spegnesse lasciandolo di nuovo al buio.

— E così — mormorò, — anche il Fondatore è prigioniero. — Si alzò senza far rumore e nello stesso movimento cercò di fare un passo avanti per afferrarlo; ma qualcosa lo fece ruotare su se stesso e con sua sorpresa sentì il vuoto sotto ai piedi. Perse l’equilibrio, e con un grido cadde nel lago. Annaspò, sputacchiando acqua, e infine trovò la riva di roccia liscia ai piedi di Ghisteslwchlohm.

Se ne trasse fuori e giacque carponi, tentando di rimettere ordine nei pensieri. Contattò la mente di un pipistrello appollaiato a testa in giù in un angolo lontano, ma il mago lo afferrò per una spalla prima che potesse cambiar forma.

— Non c’è fuga di qui — disse. La sua voce era diversa, lenta e dolce, quasi che nel parlare tendesse l’orecchio a una marea inudibile di altre voci lontane. — Portatore di Stelle, tu non farai uso del tuo potere. Tu non farai altro che aspettare.

— Aspettare — mormorò lui. — E che cosa? La morte? — Tacque, mentre il significato di quella parola si faceva solido nella sua mente. — Non c’è una musica d’arpa, stavolta, a darmi una ragione di vivere. — Rialzò la testa, stringendo le palpebre nell’oscurità. — O forse stai aspettando il Supremo? Se credi che il Supremo abbia qualche interesse per me, puoi aspettare fino a vedermi diventare pietra come i figli dei Signori della Terra.

— Ne dubito.

— Tu. Tu esisti a malapena. Chi sei tu per dubitare di qualcosa? Perfino gli spettri di An hanno più forza di volontà di te. Non saprei neanche dire se tu sia vivo o morto, sebbene dentro di te vivano ancora in qualche modo i ricordi e i propositi dei maghi. — Abbassò la voce in un sussurro: — Io potrei combattere per te. Farei anche questo, pur di riavere la libertà.

La mano gli lasciò la spalla. Sondò quella strana mente riempita di mare, per cercare l’identità che nascondeva, ma essa lo eluse. Gli parve di nuotare in una marea che lo sollevava e lo rigettava indietro, e infine ansimò come soffocato. Udì la voce del mago farsi più lontana nel buio davanti a lui:

— Per te non c’è modo di tornare alla libertà.

Più tardi dormì un poco, cercando di ritrovare le forze. Sognò l’acqua. Una sete ardente lo svegliò, si spostò sulla riva e provò di nuovo a bere quel liquido acre. Ancora una volta fu costretto a sputarlo prima d’inghiottire, e tossì a lungo, in ginocchio. Tornato a distendersi cadde in un sonno febbrile, e sognò di bere. Sognò di precipitare nell’acqua fredda e tenebrosa, e di nuotare verso le sue immobili profondità. Sognò di respirare quell’acqua e si svegliò di colpo, ansante e spaventato, scoprendo di trovarsi immerso nel lago. Due mani lo trassero all’asciutto e lo lasciarono a vomitare acqua amara sul bordo di roccia.

Quel bagno gli aveva almeno schiarito un po’ la testa. Disteso bocconi scrutò la tenebra, e si chiese se non sarebbe riuscito a farsi attirare dentro di essa, così come sognando l’acqua vi era precipitato. Volutamente lasciò che l’oscurità entrasse nel più profondo della sua psiche, ma d’un tratto i ricordi di quella notte durata un anno lo sopraffecero, e il panico scaturì da lui sotto forma di un flusso di luce. Vide per un attimo il volto di Ghisteslwchlohm, poi una mano del mago schiaffeggiò la lingua di luce da lui creata e la mandò in pezzi come il vetro.

Morgon sussurrò: — Per ogni torre senza porta c’è un enigma, e la sua risposta apre una porta. Me lo insegnasti tu.

— Qui c’è una porta, e c’è un enigma.

— La morte. Ma non è questo ciò che pensi. Altrimenti poco fa mi avresti lasciato affogare. Se al Supremo non interessa la mia vita né la mia morte, tu cosa intendi fare?

— Aspettare.

— Aspettare! — Un tremito lo scosse, mentre freneticamente i suoi pensieri si agitavano in cerca di una qualche soluzione. — I cambiaforma hanno aspettato per migliaia di anni. Tu hai visto il loro nome, un istante prima che t’immobilizzassero. Cos’hai visto? Cosa può essere tanto forte da surclassare un Maestro della Terra? Qualcuno che prende i poteri e le leggi della propria esistenza da ogni cosa vivente, dalla terra, dal fuoco, dall’acqua, dal vento… il Supremo fu scacciato dal Monte Erlenstar dai cambiaforma. E poi venisti tu, e trovasti vuoto il trono su cui la leggenda voleva il Supremo. Così assumesti la sua identità, e giocasti i tuoi giochi di potere, intanto che aspettavi qualcuno di cui solo quei bambini di pietra conoscevano il nome: il Portatore di Stelle. Hai sorvegliato i luoghi dove c’erano la conoscenza e il potere, riunendo i maghi a Lungold, insegnando a Caithnard. E un giorno a Caithnard è venuto il figlio del Principe di Hed, con gli stivali ancora sporchi di fango e una domanda sulla fronte. Ma questo non era sufficiente. Tu stai ancora aspettando. I cambiaforma stanno ancora aspettando. Il ritorno del Supremo. Tu vuoi usarmi come esca, ma se lui avesse qualche interesse per me avrebbe potuto trovarmi già da tempo.

— Lui verrà.

— Ne dubito. Ti ha permesso d’imbrogliare il reame per secoli. Non gli importa nulla di ciò che fanno gli uomini e i maghi nel reame. Ha lasciato che tu mi togliessi il governo della terra, cosa per cui avrei potuto ucciderti. Di me non gli interessa niente. — Tacque, lasciando vagare gli occhi nella tenebra. Ascoltò il silenzio che sembrava essere congelato in ogni molecola di roccia. — Chi poteva avere tanto potere da distruggere la città dei Maestri della Terra? Da costringere il Supremo a nascondersi? Chi può aver avuto il potere di un Maestro della Terra? — Tacque ancora. Poi una risposta, come una fiammella guizzante nella cenere, cominciò a balenare nel profondo della sua mente.

Si alzò a sedere. L’aria sembrava essersi improvvisamente assottigliata; trovò difficoltà a respirare. — I cambiaforma… — La sua gola assetata tornò a chiudersi. Si coprì gli occhi con le mani, aggiungendo oscurità all’oscurità. C’erano delle voci che fluttuavano fuori dai suoi ricordi, fuori dalla roccia che lo circondava: — La guerra non è finita, soltanto interrotta per radunare le forze… Quelli che vengono dal mare. Edolen. Sec. Essi ci hanno distrutto affinché non potessimo più vivere sulla terra; non abbiamo potuto dominarlo… — Le voci dei Maestri della Terra morti, i bambini. Le mani gli ricaddero sul pavimento di pietra, ma la tenebra più nera continuava a premergli sugli occhi. Rivide il bambino del sogno distogliere lo sguardo dalla foglia che aveva toccato, volgersi a fissare la pianura, tremando, aspettando. — Loro potevano toccare una foglia, un seme, una montagna, e conoscerne l’essenza, e diventare quegli oggetti. Questo è ciò che Raederle vide, questo è il potere che amò in loro. E tuttavia si uccisero l’un l’altro, e seppellirono i loro bambini a morire sotto una montagna. Conoscevano i linguaggi profondi della terra, e tutte le sue leggi, tutte le forme e le essenze. Cosa accadde loro? Si scontrarono con una forma che non aveva leggi ma soltanto potere? — La sua voce era divenuta un sussurro sognante. — Cos’era questa forma?

Di colpo tacque. Tremava, e tuttavia stava sudando. L’odore dell’acqua lo tormentava spietatamente. Si avvicinò ancora al lago, attanagliato dalla sete. Le sue mani s’arrestarono prima di sfiorare la superficie. Il viso di Raederle, bello come un sogno, lo fissava riflesso nello specchio d’acqua sotto le sue dita. I lunghi capelli le aleggiavano intorno all’ovale dei lineamenti come fili di sole. Dimenticò la sua sete. Restò immobile a lungo, in ginocchio, osservando quel riflesso e senza capire se era qualcosa di reale o un’immagine scaturita dalla sua nostalgia. Ma non gliene importava. Poi una mano entrò nel suo campo visivo e agitò l’acqua, annientando quel volto in un gorgo di piccole onde.

Un impulso di furia omicida fece balzare in piedi Morgon. Ciò che voleva era strangolare Ghisteslwchlohm con le sue mani, ma non riuscì neppure a vedere dove fosse il mago. E un potere lo percosse con la forza di una serie di pugni sul volto e sul petto. Non s’accorse neanche del dolore; nella sua mente passò un groviglio di forme, ed egli le scartò l’una dopo l’altra, alla ricerca di una che fosse abbastanza potente da contenere la sua rabbia. Sentì che le membra gli si smaterializzavano; i suoi pensieri furono permeati da un suono profondo, rauco, selvaggio, la voce delle più remote profondità dell’entroterra. Ma essa non era più una voce vuota. Qualcosa vibrò dentro di lui, i suoi pensieri divennero un groviglio privo di linguaggio, e nella sua mente restò soltanto un rumore echeggiante simile a quello di una corda d’arpa stonata. Sentì la furia che era in lui espandersi, gonfiarsi sino a occupare tutte le cavità e le fessure dell’immensa caverna di roccia. Scaraventò il mago attraverso l’intero spazio sotterraneo, come una foglia in balia del vento, e lo mandò a spiaccicarsi nella parete di pietra.

E in quell’istante capì quale forma avesse assunto.

Riassunse subito le sembianze umane, mentre la selvaggia energia lo abbandonava di nuovo. S’inginocchiò sulla pietra e tremò, scosso da singhiozzi di paura e di stupore. E sentì i tonfi con cui il corpo del mago rotolava giù lungo la parete obliqua, il rumore con cui le sue ossa si spezzavano sulla roccia. Nel muoversi per la caverna Morgon udì intorno a lui delle voci, e comprese che esse parlavano i complessi e vari linguaggi della terra.

Sentì il sussurro del fuoco, il fruscio delle foglie, l’ululato di un lupo nel desolato chiarore lunare dell’entroterra, e il secco crepitare delle foglie del granoturco. Poi da lontano gli giunse all’orecchio un suono, quasi che la montagna stessa singhiozzasse. Avvertì una vibrazione nella roccia sotto i suoi piedi. Un uccello marino stridette rauco. Qualcuno, una mano di corteccia d’albero e di luce, lo gettò disteso a terra.

Mentre la spada stellata gli si materializzava in mano sussurrò: — Un enigma, e una porta.

Ma sebbene attendesse una spada da contrastare con la sua nell’oscurità, nulla giunse a sfiorarlo. Col fiato mozzo per la tensione esplorò lo spazio circostante. E fu allora che la voce di Raederle, esplodendo in un Grande Urlo, fece grandinare sassi dal soffitto: — Morgon!

Involontariamente sferrò un colpo di lato con la spada, e la sentì rimbalzare nella roccia. D’istinto, inorridito, gridò anch’egli il nome di Raederle, e la pavimentazione s’inclinò sotto di lui facendolo ruzzolare verso il lago. La spada rimbalzò al suolo dietro di lui, e stava ancora vibrando, di una strana e alta vibrazione, quando la mano di lui la riafferrò. Ci fu uno schianto cristallino, come se una delle pareti si fosse squarciata.

La roccia risuonò: una nota bassa e profonda che sembrava provenire dal suo stesso cuore. I nidi di cristalli esplosero grandinando attorno; la base della montagna si scosse con un ruggito. Ovunque piovevano polvere e sassi, frammenti di minerale rimbalzavano sul pavimento. La lingua dei pipistrelli, dei delfini e delle api brontolava nella caverna. L’aria tremò di una tensione elettrica, e Morgon udì il grido di Raederle. Ansimando un’imprecazione si tirò in piedi. Il terreno sussultò, emise un boato soffocato. Tutto un lato della pavimentazione della grotta si sollevò e andò in pezzi, e la scossa lo scaraventò nel lago. L’acqua del bacino rispondeva alle vibrazioni sollevandosi in alti schizzi.

Per qualche istante annaspò in profondità, immerso nel buio. Quando riuscì a emergere il rumore che gli colpì i timpani lo convinse che la montagna si stava spaccando in due.

Una terribile folata di vento ululò nella caverna, accecò Morgon e gli ricacciò il fiato in gola. Il lago ne fu sconvolto in un nero vortice che lo travolse come una pagliuzza. Prima di esserne risucchiato udì qualcosa che avrebbe potuto essere sia il sangue che gli pulsava nella testa, sia la nota emessa da una corda d’arpa che suonava nel cuore di quel vento d’uragano.

Un’ondata lo sollevò. Il contenuto del lago oscillava come l’acqua in un catino, e lui venne sbattuto contro la liscia parete di fondo. Inalò un respiro, fu attirato in profondità e nuotò selvaggiamente per risalire; ma venne scaraventato di nuovo in alto contro la roccia da un’ondata. Mentre annaspava con le mani sulla parete la sentì squarciarsi con un rumore secco proprio davanti a lui. L’acqua si precipitò nella larga fessura, trascinandolo con sé. E oltre il ruggito del lago udì i colpi squassanti della montagna le cui viscere stavano crollando.

L’acqua che s’era impossessata di lui lo fece rotolare lungo un pendio e poi in quello che risultò essere un impetuoso fiume sotterraneo. Cercò di tirarsene fuori afferrandosi a un macigno, e poi artigliò le dita alla roccia tempestata di gemme, ma il vento soffiava ancora fortissimo e lo trascinò via, spingendo anche l’intera massa d’acqua. Il torrente si rovesciò da un gorgo all’altro. Ad un tratto il corso d’acqua sbucò impetuosamente da un fianco della montagna, lo portò via lungo un’interminabile rapida schiumosa, e infine lo gettò, semiannegato e con la gola piena di quell’acqua mineralizzata, nel fiume Ose.

Con la poca forza che gli restava raggiunse la riva, se ne trasse fuori e giacque rantolando sul terreno scaldato dal sole. La selvaggia forza del vento lo scuoteva ancora, i grandi pini oscillavano come sul punto di spaccarsi. Con un colpo di tosse sputò il liquido che aveva nei polmoni; quando poi si chinò a bere l’acqua dolce dell’Ose per poco una raffica di vento non lo sbatté di nuovo nel fiume. Rialzò la testa e guardò la montagna. Una buona parte di quel versante sembrava esser stata risucchiata all’interno; ovunque giacevano alberi sradicati, sparsi fra le slavine e i mucchi di terriccio. E lungo tutto il passo, fin dove poteva spingere lo sguardo, il vento infuriava mettendo a dura prova la resistenza degli abeti.

Cercò di alzarsi ma non ne aveva più l’energia. Il vento sembrava volerlo scacciare fuori dalla sua forma corporea. Si trascinò su per la riva e cercò riparo stretto alle radici di un albero. Era saldo, ma tenendosi al legno lo sentì tremare e scricchiolare.

Aggrappandosi alle sporgenze della corteccia riuscì a mettersi in piedi. Poi fece un passo di lato e sollevò le braccia, quasi per fermare il vento. Dalle mani e dai capelli gli crebbero rami fronzuti. I suoi pensieri sprofondarono come radici nel terreno, il suo corpo s’innalzò. Lacrime di resina scesero lungo la sua corteccia, il suo nome divenne la polpa interna e intorno ad essa si allargarono anelli su anelli come barriere di silenzio. La sua testa svettò alta sulla boscaglia. Attanagliato alla terra, oscillando alla furia del vento, sparì dentro se stesso e si rinchiuse nel solido scudo ligneo dei suoi ricordi.

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