NOVE

51.

Mathilde Wilcrau non aveva mai visto così da vicino una camera a positroni.

Dall’esterno, l’apparecchio assomigliava a un normale macchinario per la TAC: un ampio cilindro bianco, dentro al quale si incastrava una barella d’acciaio dotata di strumenti di misura e d’analisi. Un apposito supporto sorreggeva la flebo, mentre su un carrello lì vicino erano allineate siringhe sottovuoto e flaconi di plastica. Tutto quell’insieme disegnava, nella penembra della sala, una strana costruzione, un grandioso geroglifico.

Per scovare una macchina del genere, i fuggitivi avevano dovuto recarsi al Centro ospedaliero e universitario di Reims, a cento chilometri da Parigi. Eric Ackermann conosceva il direttore del servizio di radiologia. Lo aveva chiamato a casa e lui si era subito precipitato per accoglierlo. Sembrava un ufficiale di frontiera che avesse ricevuto all’improvviso la visita di un importante generale.

Erano sei ore che Ackermann stava lavorando intorno all’apparecchio. Nella cabina di comando, Mathilde Wilcrau lo osservava all’opera. Anna era sdraiata, con la testa nella macchina e lui, chino sul suo corpo, faceva delle iniezioni, regolava la flebo, proiettava delle immagini su uno schermo collocato nell’arcata superiore del cilindro. E soprattutto parlava.

Guardandolo agitarsi come una fiamma, attraverso il vetro, Mathilde non poteva impedirsi di rimanere affascinata. Quel tipo alto, immaturo, al quale non avrebbe neppure prestato la propria auto, aveva portato a termine, in un contesto di estrema violenza politica, un esperimento cerebrale unico. Aveva superato una soglia decisiva per la conoscenza e il controllo del cervello.

Un passo in avanti che, in altre circostanze, avrebbe potuto aprire nuove possibilità terapeutiche. Roba da far scrivere il proprio nome in tutti i manuali di neurologia e di psichiatria. Chissà se per il metodo Ackermann ci sarebbe stata una seconda possibilità?

Il rosso continuava ad agitarsi, accompagnandosi con movimenti nervosi. Mathilde sapeva leggere bene quei gesti. Al di là dell’andamento febbrile della seduta, Ackermann era drogato fino al collo. Dipendeva dalle anfetamine e dagli altri eccitanti. D’altra parte, appena arrivato, aveva fatto «rifornimento» alla farmacia dell’ospedale. Quelle droghe di sintesi riflettevano esattamente ciò che lui era: un uomo dalla mente bruciata, che aveva vissuto per la chimica e grazie alla chimica…

Le sei.

Cullata dal ronzio dei computer, Mathilde si era addormentata più volte. Quando si risvegliava cercava di riordinare le idee. Invano. C’era un pensiero dominante che l’accecava, come una lampada attirava una falena.

La metamorfosi di Anna.

Il giorno prima, aveva raccolto quella creatura senza memoria, vulnerabile e nuda come un bebè. La scoperta dell’henné aveva cambiato tutto. Intorno a quella rivelazione lei si era cristallizzata come un quarzo. In quel momento le sembrava di aver capito che il peggio non era più da temere, ma, al contrario, da affrontare. Era lei che, malgrado il pericolo, aveva voluto avanzare contro il nemico e sorprendere Eric Ackermann.

Era lei, ormai, che aveva preso il comando.

Poi, grazie all’interrogatorio nel parcheggio, era apparsa Sema Gokalp. L’operaia misteriosa dalle molteplici contraddizioni. La clandestina venuta dall’Anatolia che parlava perfettamente il francese. La prigioniera in stato di choc che, dietro al proprio silenzio e al proprio viso mutato, nascondeva un altro passato…

Chi si celava dietro a quel nuovo nome? Chi era la creatura capace di trasformarsi fino a divenire un’altra?

Per avere una risposta bisognava aspettare che lei ritrovasse definitivamente la memoria. Anna Heymes. Sema Gokalp… Era come una bambolina russa dalle identità incassate l’una nell’altra: ogni suo nome, ogni suo aspetto nascondeva ogni volta un altro segreto.

Eric Ackermann si alzò dalla sedia. Tolse l’ago a farfalla dal braccio di Anna, spostò il supporto della flebo e alzò lo specchio all’interno dell’arco. L’esperimento era finito. Mathilde si stiracchiò, poi cercò ancora una volta di schiarirsi le idee. Non ci riuscì. Una nuova immagine le invase la mente.

L’henné.

Quelle linee rosse che disegnavano le mani delle donne musulmane sembravano tracciare un solco profondo tra l’universo parigino e il mondo lontano di Sema Gokalp. Un mondo di deserti, di matrimoni combinati, di riti ancestrali. Un universo selvaggio e spaventoso, nato all’ombra dei venti bollenti, dei rapaci e delle rocce.

Mathilde chiuse gli occhi.

Mani tatuate; arabeschi bruni che si aggrovigliano nel cavo delle mani callose, intorno ai polsi opachi delle dita muscolose; non un solo centimetro di pelle è libero da quei tratti; la linea rossa non si interrompe mai: si lancia, si avviluppa, torna su sé stessa, in anelli e cesellature, fino a dar vita a una geografia ipnotica…

«Si è addormentata.»

Mathilde sussultò. Ackermann era in piedi davanti a lei. Il camice gli dondolava sulle spalle come una bandiera bianca. La fronte era imperlata di sudore. Era scosso da tic e tremiti, ma, nel contempo, la sua figura emanava una strana forza, la sicurezza del sapere, sotto il nervosismo del drogato.

«Com’è andata?»

Prese una sigaretta sulla console informatica e l’accese. Inalò una profonda boccata poi, in un tunnel di fumo, rispose:

«Dapprima le ho iniettato del Flumazenil, l’antidoto del Valium. Poi ho cancellato il mio condizionamento sollecitando ogni zona della sua memoria sotto l’effetto dell’Ossigeno-15. Ho percorso a ritroso lo stesso cammino.» Con la sigaretta disegnò nell’aria un asse verticale. «Con le stesse parole, gli stessi simboli. Peccato che io non abbia più le fotografie e i video degli Heymes. Ma penso che il lavoro più grosso sia fatto. Per il momento le sue idee sono confuse. I suoi veri ricordi torneranno a poco a poco. Anna Heymes sta per scomparire e per lasciare il posto alla prima personalità. Ma attenzione», continuò agitando la sigaretta, «è pura sperimentazione.»

Un vero pazzo, pensò Mathilde, una miscela di freddezza e di esaltazione. Aprì le labbra, ma un nuovo lampo la fermò. Ancora una volta l’henné. Le linee sulle mani prendono vita; anse, spirali, volute si infilano lungo le vene, si attorcigliano intorno alle falangi, fino a raggiungere le unghie nere di pigmenti…

«All’inizio non sarà piacevole», proseguì Ackermann aspirando dalla sua sigaretta. «I differenti livelli del suo cosciente andranno a innestarsi l’uno nell’altro. Le capiterà di non saper più distinguere ciò che è vero da ciò che è artificiale. Poi, progressivamente, la sua memoria iniziale prenderà il sopravvento. Con il Flumazenil ci sono anche rischi di convulsioni, ma le ho dato un’altra cosa per limitare gli effetti collaterali…»

Mathilde si tirò indietro i capelli e pensò che doveva avere una faccia spettrale.

«E i volti?»

Lui spazzò il fumo con un gesto vago.

«Anche quella faccenda dovrebbe finire. I suoi punti di riferimento vanno consolidandosi. I suoi ricordi stanno diventando più chiari, pertanto le sue reazioni si equilibrano. Ma, lo ripeto, tutto questo è assolutamente nuovo e…»

Mathilde vide un movimento dall’altra parte del vetro. Andò immediatamente nella sala della radiodiagnostica. Anna era già seduta sulla barella del Petscan, le gambe dondolanti, le mani appoggiate all’indietro.

«Come ti senti?»

Sul suo volto comparve un sorriso. Le sue labbra chiare segnavano appena la pelle.

Tornò anche Ackermann e spense le ultime macchine.

«Come ti senti?» ripeté lei.

Anna le diede un’occhiata esitante. In quel momento, Mathilde capì. Non era più la stessa donna di prima: gli occhi viola le sorridevano dall’interno di un’altra coscienza.

«Hai una sigaretta?» chiese di rimando, con una voce che cercava il proprio timbro.

Mathilde le porse una Marlboro. Seguì con lo sguardo la mano fragile che l’afferrava. Il disegno all’henné tornò in sovrimpressione. Fiori, picchi e serpenti si avvolgevano intorno a un pugno chiuso. Un pugno tatuato chiuso su di una pistola automatica…

Da dietro il fumo della sua sigaretta, la donna dalla frangia nera, mormorò:

«Preferivo essere Anna Heymes.»

52.

La stazione ferroviaria di Falmières, a dieci chilometri a ovest di Brest, era un edificio solitario, posto lungo i binali in aperta campagna. Una baracca in pietra molare piazzata tra l’orizzonte nero e il silenzio della notte. Tuttavia, con la sua piccola lanterna gialla e la sua pensilina di vetro, aveva un aspetto rassicurante. Il tetto di tegole, i muri divisi in due fasce, blu e bianca, gli steccati di legno le davano un’aria da giocattolo, da plastico per trenini elettrici.

Mathilde fermò l’auto nel parcheggio.

Eric Ackermann aveva chiesto di essere lasciato a una stazione. «Una qualsiasi. Me la caverò.»

Da quando avevano lasciato l’ospedale, nessuno aveva più detto una parola. Ma la qualità del silenzio era cambiata. L’odio, la collera, la diffidenza erano cadute; i tre fuggitivi ora condividevano una strana forma di complicità.

Mathilde spense il motore. Nel retrovisore vide il volto livido del neurologo seduto sul sedile posteriore. Un’autentica lama di nichel. Uscirono tutti insieme.

Fuori si era alzato il vento. Raffiche violente si abbattevano rumorosamente sulla strada. Lontano, nuvole appuntite si allontanavano scoprendo una luna purissima, come un grosso frutto dalla polpa blu.

Mathilde si chiuse il cappotto. Avrebbe pagato chissà quanto per un tubetto di crema idratante. Le sembrava che ogni ventata le seccasse la pelle, le scavasse un po’ più profondamente le rughe del volto.

Camminarono fino alla recinzione fiorita, sempre senza dire una parola. La situazione le fece pensare a uno scambio di ostaggi, al tempo della guerra fredda, su un ponte della vecchia Berlino: nessuna possibilità di dirsi addio.

All’improvviso, Anna chiese:

«E Laurent?»

Era una domanda che aveva già fatto, prima, nel parcheggio della piace d’Anvers. Era l’altro versante della sua storia: la prova di un amore che persisteva, malgrado il tradimento, le menzogne, la crudeltà.

Ackermann pareva troppo spossato per mentire:

«Onestamente, credo che ci siano poche possibilità che sia ancora vivo. Charlier non lascerà alcuna traccia dietro di sé. E Heymes non è affidabile. Un tipo capace di crollare al primo interrogatorio o addirittura di consegnarsi da solo. Dopo la morte della moglie…»

Il neurologo si fermò. Per un attimo Anna sembrò tener testa al vento, poi le sue spalle cedettero. Si girò senza dire nulla e tornò in macchina.

Mathilde guardò per l’ultima volta lo spilungone dai capelli color carota perso nel suo impermeabile.

«E tu?» chiese, quasi con compassione.

«Vado in Alsazia. Vado a perdermi nella massa degli “Ackermann”.»

Sogghignò, con un verso da anatra, e con un lirismo esagerato, aggiunse:

«Poi troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»

Mathilde non rispose. Lui continuava a dondolarsi, con la sua borsa stretta al petto. Proprio come faceva all’università. Ackermann schiuse le labbra, esitò, poi sussurrò:

«In ogni caso, grazie.»

Armò l’indice per un saluto da cow-boy, poi si girò verso la stazione isolata tenendo le spalle contro il vento. Dove andava di preciso? «Troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»

Parlava di un paese terreno o di una nuova regione del cervello?

53.

«La droga.»

Mathilde era concentrata sulle strisce bianche dell’autostrada che scintillavano davanti a lei come certi plancton che brillano la notte sotto la prua delle navi. Fece passare qualche secondo, poi diede un’occhiata alla sua passeggera. Un volto di gesso, liscio, indecifrabile.

«Sono una trafficante di droga», riprese Anna con un tono neutro. «Quello che da voi si chiama “un corriere”.»

Mathilde annuì, come se in fondo si attendesse quella rivelazione. In effetti, ormai si attendeva qualunque cosa. Non c’era più limite alla verità. Quella notte, ogni nuovo passo era una vertigine.

Si concentrò ancora sulla strada. Passarono dei lunghi istanti prima che domandasse:

«Che genere di droga? Eroina? Cocaina? Anfetamina? Cosa?»

Le ultime sillabe le aveva pronunciate quasi gridando. Tamburellò con le dita sul volante. Doveva calmarsi. Immediatamente.

La voce riprese:

«Eroina. Esclusivamente eroina. Diversi chili ogni viaggio. Mai di più. Dalla Turchia all’Europa. Addosso. Nei bagagli. O con altri mezzi. Ci sono degli accorgimenti, dei trucchi. Il mio lavoro consisteva nel conoscerli. Tutti.»

Mathilde aveva la gola così secca che ogni respiro era una sofferenza.

«Per… per chi lavoravi?»

«Le regole sono cambiate, Mathilde. Meno cose sai, meglio sarà per te.»

Anna aveva assunto un tono strano, quasi superiore.

«Qual è il tuo vero nome?»

«Nessun vero nome. Anche questo faceva parte del mestiere.»

«Come facevi? Dammi dei dettagli.»

Anna le oppose un nuovo silenzio, pesante come marmo. Poi, dopo un po’, riprese:

«Non era una vita esaltante. Marcire negli aeroporti. Conoscere i migliori scali. Le frontiere meno controllate. Le coincidenze più rapide o, al contrario, quelle più complicate. Le città dove le valige ti aspettano sulla pista. Le dogane dove perquisiscono e quelle dove non perquisiscono. La topografia dei depositi bagagli e dei luoghi di transito.»

Mathilde ascoltava, ma soprattutto afferrava la grana della voce: Anna non aveva mai parlato così schiettamente.

«Un’attività da schizofrenica. Parlare continuamente lingue diverse, rispondere a diversi nomi, possedere differenti nazionalità. E avere come casa solo il comfort standard delle sale VIP degli aeroporti. E sempre, ovunque, la paura.»

Mathilde sbatté gli occhi per scacciare la sonnolenza. Il suo campo visivo diventava meno nitido. Le strisce della strada oscillavano, si frastagliavano… Chiese ancora:

«Da dove vieni esattamente?»

«Non ho ricordi precisi. Ma torneranno, ne sono sicura. Per il momento mi limito al presente.»

«Ma cos’è successo? Come hai fatto a ritrovarti a Parigi nei panni di un’operaia? Perché hai cambiato faccia?»

«La storia classica. Ho voluto tenere per me l’ultimo carico. Ho cercato di fregare i miei capi.»

Si fermò. Ogni ricordo sembrava costarle uno sforzo enorme.

«Era nel giugno dell’anno scorso. Dovevo consegnare la droga a Parigi. Un carico speciale. Molto prezioso. Avevo un contatto, ma ho scelto un’altra strada. Ho nascosto l’eroina e ho consultato un chirurgo estetico. Almeno credo… A quel punto potevo fare quello che volevo… Ma durante la mia convalescenza è successo qualcosa che non avevo previsto. Che nessuno aveva previsto: l’attentato dell’11 settembre. Da un giorno all’altro le dogane sono diventate delle muraglie. Perquisizioni e controlli ovunque. Non potevo certo ripartire con la droga come avevo previsto. Né potevo lasciarla a Parigi. Dovevo restare, dovevo aspettare che la situazione si calmasse, ben sapendo che i miei capi avrebbero fatto di tutto per ritrovarmi… Mi sono nascosta dove, in linea di massima, nessuno cercherebbe una donna turca che vuole sparire: tra i turchi. Tra le operaie clandestine del decimo arrondissement. Avevo un nuovo volto e una nuova identità. Nessuno poteva scovarmi.»

La voce si spense, come fosse esaurita. Mathilde cercò di ravvivare la fiamma:

«Cos’è successo dopo? Come hanno fatto i poliziotti a trovarti? Erano al corrente della droga?»

«Non è andata così. La scena è ancora confusa, ma mi pare di intravederla… In novembre io lavoravo in una tintoria. Una specie di lavanderia sotterranea in un hammam. Un posto che non immagini, o almeno non immagini che sia lì a un chilometro da casa tua. Una notte sono arrivati.»

«I poliziotti?»

«No, i turchi mandati dai miei capi. Sapevano che mi ero nascosta là. Qualcuno doveva avermi tradito, non so… Ma, evidentemente, non sapevano che avevo cambiato faccia. Sotto i miei occhi hanno rapito una ragazza che mi somigliava. Una certa Zeynep qualche cosa… Misericordia, quando ho visto entrare quegli assassini… Mi ricordo solo un grande lampo di paura.»

Mathilde cercò ancora di ricostruire la storia, di colmare le lacune:

«Come sei arrivata da Charlier?»

«Non ho dei ricordi precisi in proposito. Ero in stato di choc. Credo che gli sbirri mi abbiano trovato nel bagno turco. Rivedo un commissariato, un ospedale… In un modo o nell’altro Charlier è stato informato della mia esistenza. Un’operaia colpita da amnesia. Senza statuto legale in Francia. La cavia perfetta.»

Anna parve soppesare la propria ipotesi, poi mormorò:

«C’è un’ironia incredibile nella mia storia. I poliziotti non hanno mai saputo chi ero veramente. Così, loro malgrado, mi hanno protetta dagli altri.»

Mathilde cominciava a provare dolore al ventre: la paura, accentuata ancor di più dalla stanchezza. La vista si oscurava. Le forme bianche della strada diventavano dei gabbiani, strani uccelli dal volo convulso.

In quel momento apparve il cartello che indicava la tangenziale. Parigi era all’orizzonte. Si concentrò sulla striscia d’asfalto e proseguì:

«Chi sono questi uomini che ti stanno cercando?»

«Dimentica tutto questo. Te lo ripeto: meno sai, meglio è.»

«Ti ho aiutata», replicò lei a denti stretti. «Ti ho protetta. Parla! Voglio sapere la verità.»

Anna esitò ancora. Era il suo mondo, un mondo che non aveva mai svelato a nessuno.

«La mafia turca ha una particolarità», finì per dire. «Utilizza killer che provengono dal fronte politico. Si chiamano Lupi grigi. Sono dei nazionalisti, fanatici di estrema destra che credono nel ritorno della Grande Turchia. Terroristi che hanno passato la loro infanzia nei campi di addestramento. Inutile dirti che, rispetto a loro, gli sbirri di Charlier sembrano dei boy-scout armati di coltellino.»

I pannelli blu aumentavano. PORTE DE GLIGNANCOURT. PORTE DE LA CHAPELLE. Mathilde aveva ormai una sola idea in testa: abbandonare quella bomba alla prima stazione di taxi. Tornare al suo appartamento, ritrovare le sue comodità, la sua sicurezza. Voleva dormire per venti ore di seguito e svegliarsi il giorno dopo dicendo: è stato solo un incubo.

Prese l’uscita della Chapelle e disse:

«Resto con te.»

«No. Impossibile. Io devo fare una cosa.»

«Cosa?»

«Recuperare il mio carico.»

«Vengo con te.»

«No.»

Dentro di sé, sentì che stava diventando più dura. Più orgoglio che coraggio.

«Dov’è? Dov’è la droga?»

«Al cimitero Père-Lachaise.»

Mathilde lanciò un’occhiata ad Anna; le sembrò distrutta, ma anche più dura, più densa: un cristallo di quarzo compresso sui suoi strati di verità…

«Perché proprio là?»

«Venti chili. Bisognava trovare un deposito.»

«Non vedo perché il cimitero.»

Anna sorrise d’un sorriso sognante, quasi rivolto a sé stessa.

«Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia…»

Si fermarono a un semaforo rosso. Dopo quell’incrocio, rue de la Chapelle diventava rue Marx-Dormoy. Mathilde ripeté più forte:

«Perché proprio al cimitero?»

«È verde. In place de la Chapelle prendi in direzione Stalingrad.»

54.

La città dei morti.

Viali ampi e rettilinei, bordati di alberi imponenti che sapevano tenere il loro rango. Blocchi massicci, monumenti, tombe lisce e nere.

Nella notte chiara apparivano le ampie aiuole: lusso, opulenza.

Nell’aria c’era un profumo natalizio; tutto sembrava cristallizzato, avviluppato dalla cupola della notte, come quelle piccole sfere che, capovolte, fanno cadere la neve sul paesaggio.

Avevano attaccato la fortezza attraverso l’entrata di rue Père-Lachaise, vicino a place Gambetta. Anna aveva guidato Mathilde lungo la grondaia che fiancheggiava il cancello, poi tra le punte di ferro che sormontavano il muro di cinta. La discesa dall’altra parte era stata ancora più facile, perché lungo il muro passavano dei cavi elettrici.

Ora stavano seguendo il vialetto dei Combattenti Stranieri. Sotto la luna, le tombe e i loro epitaffi si disegnavano con precisione. Un bunker dedicato ai morti cecoslovacchi della grande guerra; un monolite bianco ricordava la morte dei soldati belgi, una stele colossale dai molteplici angoli, nello stile di Vasarely, rendeva omaggio ai defunti armeni…

Quando Mathilde scorse, in alto sulla collinetta, il grande edificio con i due camini, capì. Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia. Il tempio crematorio. Con uno strano cinismo, Anna la trafficante aveva nascosto il suo carico di eroina in mezzo alle urne cinerarie.

Nella luce notturna, quella costruzione, contornata da quattro lunghi edifici, ricordava una moschea, crema e oro, guarnita con una larga cupola e dominata dai suoi camini che parevano minareti.

Attraversarono dei giardini allineati e delimitati da siepi squadrate e fitte. Al di là, Mathilde distingueva le gallerie costellate di scomparti e di fiori. Le venne da pensare a pagine di marmo incrostate di scritte e di sigilli colorati.

Tutto era deserto.

Nessun guardiano in vista.

Anna raggiunse il fondo del parco, dove la scala di una cripta sprofondava al di sotto dei cespugli. Alla fine degli scalini c’era un cancello di ghisa, chiuso a chiave. Cercarono una via d’entrata. Come un’ispirazione, un battito d’ali fece loro alzare gli occhi: dei piccioni si stavano agitando, rincantucciati contro la griglia di una finestrella posta a un paio di metri d’altezza.

Anna si tirò indietro per valutare le dimensioni del passaggio. Poi, introdusse i piedi negli ornamenti di metallo del cancello e si arrampicò. Qualche istante più tardi, Mathilde sentì il raschiare della griglia strappata e il breve schiaffo di un vetro rotto.

Senza neppure riflettere, prese anche lei lo stesso cammino.

Giunta in alto si infilò nella finestra. Toccò terra nel momento in cui Anna premette l’interruttore.

Il santuario era immenso. Disposte intorno a un pozzo quadrato, le gallerie diritte, scavate nel granito, si allungavano a perdita d’occhio. A intervalli regolari, delle lampade diffondevano una debole luce.

Si avvicinò alla balaustra del pozzo: sotto di loro c’erano ancora tre livelli e un gran numero di gallerie. Al fondo dell’abisso, una minuscola vasca di ceramica. Sembrava di essere nel cuore di una città sotterranea costruita intorno a una fonte sacra.

Anna prese una delle due scale. Mathilde la seguì. Man mano che scendevano, il brontolio del sistema di aerazione si faceva più forte. A ogni pianerottolo, la sensazione del tempio, della tomba gigante diveniva più schiacciante.

Al secondo piano interrato, Anna imboccò una galleria sulla destra, punteggiata di scomparti e pavimentata con piastrelle bianche e nere. Camminarono a lungo. Mathilde osservava la scena con uno strano distacco. Di tanto in tanto, nel tenue chiarore delle lampade, notava qualche dettaglio. Un mazzo di fiori freschi posato a terra, avvolto nella stagnola. Un ornamento, una decorazione che distingueva un certo scomparto cinerario. Come il volto di quella donna di colore, i cui capelli ricci parevano affiorare dalla superficie del marmo. L’epitaffio diceva: TU ERI SEMPRE CON ME. TU SARAI SEMPRE CON ME. Oppure, più in là, quella foto di bimba, dal bordo grigio, incollata su una semplice lastra di gesso. Sopra, avevano scritto a pennarello: LEI NON È MORTA, MA DORME. SAN LUCA.

«Qui!» disse Anna.

Il corridoio terminava in uno scomparto più ampio degli altri.

«Il cric», ordinò.

Mathilde aprì la sacca che portava a tracolla e tirò fuori l’attrezzo. Anna lo ficcò tra il marmo e il muro, poi fece leva con tutta la sua forza. Sulla superficie si aprì una prima fessura. Spinse ancora alla base del blocco. La lastra si spezzò in due pezzi e cadde a terra.

Anna ripiegò il cric e lo usò come martello contro la piccola parete di gesso che chiudeva il loculo. Cominciarono a saltare via dei pezzetti che si infilarono tra i suoi capelli neri. Martellava con ostinazione, senza preoccuparsi del rumore.

Mathilde non respirava più. Le pareva che i colpi dovessero sentirsi fino in piace Gambetta. Quanto tempo sarebbe passato prima dell’arrivo dei guardiani?

Tornò il silenzio. Immersa in una nuvola biancastra, Anna si sporse in avanti per sgomberare le macerie.

All’improvviso, un tintinnio risuonò alle loro spalle.

Le due donne si voltarono.

Ai loro piedi, in mezzo ai pezzi di gesso, luccicava una chiave.

«Prova con questa. Risparmierai tempo.»

Videro un uomo con i capelli a spazzola. La sua immagine si rifletteva sulla scacchiera del pavimento. Sembrava camminare sulle acque.

Puntando il suo fucile a pompa, chiese:

«Dov’è?»

Indossava un impermeabile spiegazzato che lo ingobbiva, ma questo non diminuiva l’impressione di potenza che emanava da lui. Era soprattutto il suo volto che, illuminato di lato dal raggio di una lampada, sprigionava una forza d’una crudeltà raggelante.

«Dov’è?» ripeté facendo un passo in avanti.

Mathilde si sentì male. Un dolore scavò nel suo ventre, le gambe le mancarono. Dovette aggrapparsi al loculo per non cadere. Ora non si giocava più. Non si trattava più di tiro a segno, né di triathlon, né di rischi calcolati.

Stavano semplicemente per morire.

L’intruso avanzò ancora, poi, con un gesto secco, armò il fucile:

«Porco dio, dov’è la droga?»

55.

L’uomo con l’impermeabile prese fuoco.

Mathilde si gettò a terra. Nel momento in cui toccò il suolo, capì che la fiamma era uscita dal fucile che egli aveva in pugno. Si rotolò tra i detriti di gesso. Contemporaneamente, una seconda verità le balenò in mente: era Anna che aveva sparato per prima; doveva aver nascosto una pistola automatica nello scomparto cinerario.

Gli spari si moltiplicarono. Mathilde si rannicchiò, con le mani chiuse a pugno sopra al testa. Sopra di lei, gli scomparti cominciarono a esplodere, liberando le urne e il loro contenuto. Quando le prime ceneri la toccarono, urlò. Si alzarono delle nuvole grigie, mentre i proiettili fischiavano e rimbalzavano. In una nebbia di polvere, vide scintille sugli spigoli di marmo, filamenti di fuoco che saltellavano sui calcinacci, vasi che rotolavano a terra rimbalzando e lanciando riflessi argentati. Il corridoio sembrava un inferno siderale, una miscela d’oro e di ferro…

Si raggomitolò ancor di più. I colpi fracassavano i loculi. I fiori si laceravano. Le urne si rompevano svuotandosi, mentre i proiettili sferzavano lo spazio intorno. Si mise a strisciare, chiudendo gli occhi e sussultando a ogni sparo.

All’improvviso tornò il silenzio.

Mathilde si fermò di colpo e aspettò diversi secondi prima di aprire le palpebre.

Non vide nulla.

La galleria era completamente ostruita dalle ceneri, come dopo un’eruzione vulcanica. La puzza di cordite si mescolava alla polvere rendendo ancora più irrespirabile l’aria.

Mathilde non osava muoversi. Pensò di chiamare Anna, ma non lo fece. Non doveva farsi localizzare dall’assassino.

Continuando a riflettere, tastò il proprio corpo: nessuna ferita. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò. Non un respiro. Non un fremito intorno a lei, fatta eccezione per qualche calcinaccio che cadeva ancora con un rumore smorzato.

Dov’era Anna?

Dov’era l’uomo?

Erano morti entrambi?

Strinse gli occhi per tentare di scorgere qualcosa. Vide infine, due o tre metri più in là, una lampada che produceva una luce fioca. Si ricordò che quei lumi punteggiavano il corridoio ogni dieci metri. Ma qual era? Quello dell’entrata o quello dell’uscita? A destra o a sinistra?

Represse un colpo di tosse, deglutì, poi, senza fare rumore, si alzò su un gomito. Cominciò ad avanzare verso sinistra, in ginocchio, evitando i calcinacci, i bossoli, i cumuli di cenere rovesciati dai vasi…

Improvvisamente, la nebbia si materializzò davanti a lei.

Una forma interamente grigia: l’assassino.

Le sue labbra si aprirono, ma una mano le schiacciò la bocca. Negli occhi iniettati di sangue che la guardavano, Mathilde lesse: se gridi sei morta. Si trovò in gola la canna di un revolver. Sbatté furiosamente le palpebre in segno di assenso. Lentamente, l’uomo sollevò le dita. Lei lo implorò ancora con lo sguardo, esprimendogli la sua totale sottomissione.

In quel momento avvertì una sensazione disgustosa. Era successo qualcosa che la sconvolgeva più della paura di morire: se l’era fatta addosso.

I suoi sfinteri avevano ceduto.

Urina ed escrementi colavano lungo le sue gambe, infradiciando i collant.

L’uomo l’afferrò per i capelli e la trascinò lungo il pavimento. Mathilde si morse le labbra per non urlare. Attraversarono le coltri di nebbia, in mezzo ai vasi, ai fiori e alle ceneri umane.

Svoltarono più volte nelle diverse gallerie. Sempre tirata brutalmente, Mathilde strisciava nella polvere con un sibilo ovattato. Sbatteva le gambe, ma i suoi movimenti non producevano alcun rumore. Apriva la bocca, ma non ne usciva alcun suono. Singhiozzava, gemeva, il suo respiro fischiava tra le labbra, ma tutto sembrava assorbito dall’aria polverosa. In mezzo a tutto quel dolore, capiva che il silenzio era il suo migliore alleato. Al minimo rumore, l’uomo l’avrebbe uccisa.

Rallentarono. Sentì la pressione diminuire. Poi l’uomo l’afferrò di nuovo e cominciò a salire alcuni scalini. Mathilde si inarcò. Un’onda di sofferenza si irradiava dalla sua testa fino al fondo della colonna vertebrale. Le pareva che delle pinze mortali le tirassero la pelle del volto. Le gambe continuavano ad agitarsi, pesanti, umide, coperte di vergogna. Sentiva la fanghiglia immonda che le insudiciava le cosce.

Ancora una volta, tutto si fermò.

Non durò che un istante, ma fu sufficiente.

Mathilde si piegò su sé stessa per vedere cosa stava succedendo. L’ombra di Anna si stagliava nella nebbia, mentre l’assassino, in silenzio, impugnava la sua pistola.

Con un sussulto si alzò in ginocchio per avvertirla.

Troppo tardi: lui tirò il grilletto e ci fu un fracasso assordante.

Ma niente accadde come previsto. Il profilo esplose in mille pezzi, le ceneri si trasformarono in grandine dolorosa. L’uomo gridò. Mathilde si liberò e partì all’indietro, rotolando giù dagli scalini.

Mentre precipitava, capì cos’era successo. L’altro non aveva sparato contro Anna, ma contro una porta a vetri, sporca di polvere, che gli rimandava la propria immagine riflessa. Mathilde ricadde sulla schiena e vide l’impossibile. Mentre la sua nuca sbatteva contro il pavimento, scorse in alto la vera Anna, grigia e impietrita, attaccata al telaio della porta sventrata. Li stava aspettando lassù, sopra i morti, come fosse in assenza di peso.

Appoggiandosi al muro con la mano sinistra, Anna si lanciò in avanti con tutte le forze. Nell’altra mano teneva il collo rotto di un vaso di vetro. Il suo bordo tagliente si piantò dritto nel viso dell’uomo.

Non ebbe il tempo di impugnare il revolver, che già Anna aveva ritirato la sua lama. Lo sparo attraversò la polvere. Un istante dopo lei attaccava di nuovo. Il vetro scivolò sulla tempia e stridette sulla pelle. Un altro proiettile si perse nell’aria. Anna era già appiattita contro la parete.

Fronte, tempie, bocca: tornò più volte all’attacco. La faccia dell’uomo si lacerava schizzando sangue da ogni parte. Confuso, perse la pistola e prese ad agitare le braccia come se fosse stato assalito da uno sciame di api assassine.

Anna gli diede il colpo di grazia. Si gettò su di lui. Rotolarono a terra. Il vetro gli si infilò nella guancia destra. Anna continuò a premere, uncinando letteralmente la pelle, mettendo a nudo la gengiva.

Aiutandosi con i gomiti, Mathilde scivolò sulla schiena. Urlava, senza riuscire a distogliere gli occhi da quel combattimento selvaggio.

Anna lasciò infine il vetro e si alzò. L’uomo, nella fanghiglia delle ceneri, gesticolava, cercando di estrarre il coccio piantato nella propria orbita. Anna raccolse la pistola e aprì le mani dell’agonizzante. Afferrò il collo del vaso e lo girò, poi lo tirò fuori dall’arcata sopraccigliare: dentro c’era l’occhio sanguinante dell’uomo. Mathilde cercò ancora di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Anna spinse la canna nell’orbita vuota e sparò.

56.

Fu di nuovo il silenzio.

Di nuovo l’odore acre delle ceneri.

Le urne rovesciate, con i loro coperchi lavorati.

I fiori di plastica, sparsi e colorati.

Il corpo si era schiantato a qualche centimetro da Mathilde, cospargendola di sangue, di cervella e di frammenti d’osso. Un braccio toccava una delle sue gambe, ma non aveva la forza di spostarsi. I battiti del suo cuore erano così deboli che l’intervallo tra una pulsazione e l’altra le sembrava dovesse essere ogni volta l’ultimo.

«Dobbiamo andare via. I guardiani possono arrivare da un momento all’altro.»

Mathilde alza gli occhi.

Quello che vede le strazia il cuore.

Il volto di Anna è diventato di pietra. La polvere dei morti si è ammassata sui suoi lineamenti, disegnando screpolature e rughe. Per contrasto, i suoi occhi sono iniettati di sangue.

Mathilde pensa all’occhio strappato dal coccio di vetro: sta per vomitare.

Anna ha in mano una sacca sportiva, senza dubbio recuperata nel loculo.

«La droga è fottuta», dice. «Non abbiamo il tempo di piangerci sopra.»

«Chi sei tu? Santo cielo, chi sei?»

Anna posa il sacco a terra e lo apre:

«Non ce li avrebbe regalati, credimi.»

Afferra delle mazzette di dollari, li conta rapidamente poi li rimette dentro.

«Era il mio contatto a Parigi», riprende. «Quello che doveva distribuire la droga in Europa e mantenere i rapporti con la rete di vendita.»

Mathilde guarda il cadavere. Scorge una smorfia scura da cui spunta un occhio che fissa il soffitto. Vuole dargli un nome, a guisa di epitaffio:

«Come si chiamava?»

«Jean-Louis Schiffer. Era uno sbirro.»

«Uno sbirro era il tuo contatto?»

Anna non risponde. Prende dal fondo della sacca un passaporto e lo sfoglia rapidamente. Mathilde torna a guardare il corpo:

«Eravate… soci?»

«Lui non mi aveva mai vista, ma io conoscevo la sua faccia. Avevamo un segno di riconoscimento. Una spilla a forma di papavero. E anche una specie di parola d’ordine: le quattro lune.»

«Cosa significa?»

«Lascia perdere.»

Continua a rovistare, tenendo un ginocchio a terra. Tira fuori diversi caricatori per pistola automatica. Mathilde la osserva incredula. Il suo volto assomiglia a una maschera di fango secco; una figura rituale fissata nella creta. Anna non ha più niente di umano.

«Cosa farai adesso?»

La donna si alza e toglie dalla cintura una pistola: certamente l’automatica che ha trovato nello scomparto. Aziona una molla sul calcio ed espelle il caricatore vuoto. La sua sicurezza tradisce il lungo allenamento:

«Parto. Non c’è futuro per me a Parigi.»

«Dove vai?»

Innesta un nuovo caricatore.

«In Turchia.»

«In Turchia? Ma perché? Se vai laggiù ti troveranno.»

«Mi troveranno dovunque vada. Devo tagliare le radici.»

«Le radici?»

«Le radici dell’odio. L’origine della vendetta. Devo tornare a Istanbul. Devo sorprenderli. Loro non mi aspettano là.»

«Loro chi?»

«I Lupi grigi. Presto o tardi scopriranno la mia nuova faccia.»

«E allora? Ci sono mille posti dove nasconderti.»

«No. Quando scopriranno il mio nuovo volto sapranno dove scovarmi.»

«Perché?»

«Perché il loro capo l’ha già visto, anche se in una situazione completamente diversa.»

«Non ci capisco niente.»

«Te lo ripeto: dimentica tutto questo! Mi seguiranno fino al giorno della loro morte. Per loro non è un contratto come gli altri. Ne fanno una questione d’onore. Io li ho traditi. Ho tradito il mio giuramento.»

«Che giuramento? Di cosa stai parlando?»

Lei mette la sicura e infila l’arma dietro la schiena.

«Io sono una di loro. Sono una Lupa.»

Mathilde si sente mancare il fiato e sente il sangue che rallenta nelle vene. Anna si inginocchia e le cinge le spalle. Il suo viso non ha più colore, ma quando parla, tra le labbra si scorge la lingua rosa, quasi fluorescente.

Una bocca di carne cruda.

«Sei viva, ed è già un miracolo», dice lei con dolcezza. «Quando tutto sarà finito, ti scriverò. Ti darò i nomi, le circostanze, tutto. Voglio che tu conosca la verità, ma a distanza. Quando sarò sul punto di concludere e tu sarai al riparo.»

Mathilde non risponde, è stravolta. Per alcune ore, un’eternità, ha protetto quella donna come se fosse stata carne della sua carne. Ne ha fatto sua figlia, il suo bebè.

E in realtà è un’assassina.

Un essere violento e crudele.

Dal fondo del suo corpo si risveglia una sensazione atroce. Un vortice di melma in una vasca piena di marciume. L’umidità glauca dei suoi visceri rilasciati, aperti.

In quel momento, l’idea della gestazione le taglia il respiro.

Sì: quella notte ha partorito un mostro.

Anna si alza e prende la sua sacca.

«Ti scriverò. Te lo giuro. Ti spiegherò tutto.»

Sparisce, in un’eclisse di ceneri.

Mathilde resta immobile, gli occhi fissi sulla galleria vuota.

Lontano, le sirene del cimitero risuonano.

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