Era riuscito a sbarazzarsi del ragazzo, e questo era già parecchio.
Dopo la corrida alla stazione e le rivelazioni che ne erano seguite, Jean-Louis Schiffer aveva portato Paul Nerteaux in una brasserie di fronte alla Gare de l’Est, La Strasbourgeoise. Gli aveva di nuovo spiegato quale fosse la vera chiave dell’inchiesta: «Cherchez la femme», cercare la donna. In quella situazione non contava nient’altro, né le vittime, né gli assassini. Dovevano scovare l’obiettivo dei Lupi grigi; la donna che cercavano da cinque mesi nel quartiere turco e che fino a quel momento avevano mancato.
Alla fine, dopo un’ora di discussione serrata, Paul Nerteaux aveva capitolato e aveva dato all’inchiesta una svolta di centottanta gradi. La sua intelligenza e la sua capacità di adattamento continuavano a stupire Schiffer; il ragazzo aveva definito lui stesso la nuova strategia da seguire.
Primo punto: elaborare un identikit della preda basandosi sulle fotografie delle tre morte, poi diffondere un avviso di ricerca nel quartiere turco.
Secondo punto: aumentare i pattugliamenti, moltiplicare i controlli d’identità e le perquisizioni nella Piccola Turchia. Ispezioni di quel tipo potevano apparire ridicole, ma, secondo Nerteaux, la donna che stavano cercando potevano trovarla anche per caso. Era già successo: dopo venticinque anni di latitanza, Totò Riina, il capo supremo di Cosa Nostra, era stato arrestato nel bel mezzo di Palermo a seguito di un banale controllo d’identità.
Terzo punto: tornare da Marius, il capo dell’Iskele, ed esaminare i suoi schedari per vedere se c’erano altre operaie che corrispondevano a quella segnalazione. A Schiffer quell’idea piaceva, ma non poteva certo presentarsi là, dopo il trattamento che aveva riservato al mercante di schiavi.
Per contro, teneva per sé il quarto punto: andare a trovare Talat Gurdilek, l’uomo presso il quale aveva lavorato la prima vittima. Bisognava terminare gli interrogatori di tutti i datori di lavoro delle vittime e lui era il candidato.
Infine c’era il quinto punto, il solo che mirasse agli assassini: avviare una ricerca presso quelli del Servizio immigrazione e dei visti d’ingresso, per verificare se dal novembre 2001 fosse arrivato in Francia qualche fuoriuscito turco noto per i suoi legami con l’estrema destra e con la mafia. Questo significava spulciare tutti gli arrivi dall’Anatolia degli ultimi cinque mesi, confrontarli con le schede dell’Interpol e con i dati della polizia turca.
Schiffer non credeva a quella pista, conosceva troppo bene i rapporti tra i suoi colleghi turchi e i Lupi grigi, ma aveva ugualmente lasciato parlare il giovane poliziotto tutto fuoco e fiamme.
Per la verità, non credeva a nessuna di quelle manovre, ma si era mostrato paziente, perché aveva in testa una nuova idea…
Mentre stavano andando verso l’Ile de la Cité, dove Nerteaux contava di presentare il suo nuovo piano al giudice Bomarzo, lui aveva giocato la sua carta. Gli aveva spiegato che il metodo migliore era quello di separare le squadre. Mentre Paul diffondeva gli identikit e allertava gli uomini del commissariato del decimo arrondissement, lui sarebbe andato da Gurdilek…
Il giovane capitano si era riservato di dargli una risposta dopo l’incontro con il magistrato. L’aveva fatto aspettare per più di due ore in un piccolo bar di fronte al palazzo di giustizia, mettendolo addirittura sotto la sorveglianza di un agente. Poi era uscito dalla riunione tutto su di giri: Bomarzo gli aveva dato carta bianca per il suo programma. Quella prospettiva lo esaltava in modo evidente e ora si mostrava d’accordo su tutto.
Alle diciotto lo aveva lasciato in boulevard de Magenta, vicino alla Gare de l’Est, e gli aveva dato appuntamento alle venti al caffè Sancak, in rue du Faubourg-Saint-Denis, per fare il punto della situazione.
Ora Schiffer camminava in rue du Paradis. Finalmente solo! Finalmente libero… Libero di respirare il gusto acido del suo quartiere, di sentire la forza magnetica del «suo» territorio. La fine del giorno aveva il pallore e il torpore della febbre. Il sole deponeva sulle vetrine delle particelle di luce, una sorta di talco dorato che aveva una macabra grazia, un vero maquillage da imbalsamatore.
Avanzava con passo rapido, preparandosi ad affrontare uno dei più grandi caid del quartiere: Talat Gurdilek. Un uomo che era arrivato a Parigi negli anni Sessanta, a diciassette anni, senza un soldo, senza nessuna qualità particolare, e che ora era proprietario di una ventina di laboratori tessili in Francia e in Germania, oltre a una buona decina di tintorie e di lavanderie automatiche. Un signorotto che controllava tutti i livelli del quartiere turco, ufficiali e non ufficiali, legali e illegali. Quando Gurdilek starnutiva, era tutto il ghetto a prendersi il raffreddore.
Al 58, Schiffer spinse un portone. Penetrò in un vicolo cieco, solcato centralmente da un canale di scolo nerastro e fiancheggiato da laboratori e tipografie. In fondo al vicolo, entrò in un cortile rettangolare, pavimentato a losanghe. Sulla destra c’era una minuscola scala che scendeva in un fossato sormontato da aiuole spelacchiate.
Adorava quell’angolo del quartiere, nascosto agli sguardi, sconosciuto persino alla maggior parte degli abitanti dell’isolato; un cuore nel cuore, una trincea che faceva perdere tutti i punti di riferimento, verticali e orizzontali. Il passaggio era sbarrato da una porta di ferro arrugginita. Vi posò sopra una mano: era tiepida.
Sorrise, poi bussò con forza.
Dopo un po’, un uomo venne ad aprire, liberando una nuvola di vapore. Schiffer diede qualche spiegazione in turco. Il portiere si scostò per lasciarlo entrare. Il poliziotto notò che era a piedi nudi. Nuovo sorriso: nulla era cambiato. Si tuffò in quell’afa.
La luce bianca gli rivelò un quadro familiare: il corridoio di ceramica, i grossi tubi coibentati sospesi al soffitto e rivestiti di tessuto d’un pallido verde chirurgico, i ruscelli di lacrime sul pavimento, le porte bombate in ferro, imbiancate a calce, che sembravano portelloni di caldaia.
Camminarono per qualche minuto. Schiffer sentiva lo sciacquio delle scarpe nelle pozzanghere. Il suo corpo era già madido di sudore. Svoltarono in un nuovo budello di piastrelle bianche, saturo di nebbia. A destra, un’apertura rivelò la presenza di un laboratorio dal quale giungeva un rumore di respiro.
Schiffer si fermò a contemplare lo spettacolo.
Sotto un soffitto di tubi e canalizzazioni punteggiate qua e là da luci, una trentina di operaie, con i piedi nudi e maschere bianche sul viso, si affannava sulle vasche e sugli assi da stiro. Getti di vapore fischiavano a ritmo regolare nell’aria satura di odori di detergenti e di alcol.
Schiffer sapeva che la stazione di pompaggio del bagno turco si trovava nelle vicinanze, da qualche parte sotto i loro piedi, e attingeva acqua a più di ottocento metri di profondità, facendola circolare nelle condutture demineralizzata, clorata, riscaldata prima di essere portata sia al bagno turco vero e proprio, sia verso quella tintoria clandestina. Gurdilek aveva avuto l’idea di accostare la lavanderia ai propri bagni, per sfruttare un unico sistema di canalizzazione. Un modo per fare economia: non una sola goccia d’acqua andava perduta.
Passando, il poliziotto si rifece gli occhi osservando le donne con la maschera di cotone e la fronte lucida di sudore. Le bluse bagnate fasciavano i seni e le natiche, grandi e morbide come piacevano a lui. Si accorse di essere in erezione. Lo considerò un buon auspicio.
Ripresero il loro cammino.
Il calore e l’umidità continuavano a crescere. Per un attimo si sentì uno strano profumo, poi sparì, tanto che Schiffer credette di averlo sognato. Ma qualche passo più in là ricomparve e divenne più netto.
Questa volta Schiffer ne era certo.
Si mise a respirare a basso regime. Sentiva pizzicare le narici e la gola. Il suo sistema respiratorio fu assalito da sensazioni contraddittorie. Aveva la sensazione di succhiare un cubetto di ghiaccio, ma la sua bocca era in fiamme. Quell’odore bruciava e rinfrescava al tempo stesso, aggredendo e purificando in un unico respiro.
La menta.
Avanzarono ancora. L’odore divenne un fiume, un mare nel quale Schiffer si stava immergendo. Era ancora peggio di quanto si ricordasse. A ogni passo egli si trasformava sempre più in una bustina d’infusione sul fondo di una tazza. I suoi polmoni erano paralizzati da un freddo da iceberg, mentre la faccia sembrava una maschera di cera bollente.
Respirava ormai solo con brevi boccate, e quando arrivò in fondo al corridoio era sull’orlo dell’asfissia. Pensò che stava avanzando in un inalatore gigante e, sapendo che non era lontano dalla verità, entrò nella sala del trono.
Era una piscina vuota, poco profonda, circondata da fini colonne bianche che si stagliavano sullo sfondo sfocato del vapore; il bordo era segnato da piastrelle blu di Prussia, nello stile delle vecchie stazioni del metrò. La parete di fondo era tappezzata di paraventi in legno sui quali erano traforati motivi ornamentali ottomani: lune, croci, stelle.
Al centro della vasca c’era un uomo seduto su un blocco di ceramica, con uno spesso asciugamano bianco annodato intorno alla vita, il viso annegato nelle tenebre.
Il suo riso risuonò nel vapore bollente.
Il riso di Talat Gurdilek, l’uomo menta, l’uomo dalla voce bruciata.
Nel quartiere turco la sua storia la conoscevano tutti.
Era arrivato in Europa nel 1961, nel doppio fondo di un’autobotte, secondo il metodo classico. In Anatolia avevano messo su di lui e sui suoi compagni di viaggio una paratia di ferro che poi avevano imbullonato. I clandestini dovevano restare così, distesi, senza aria né luce, per circa quarantotto ore.
Ben presto erano stati oppressi dal caldo e dalla mancanza d’aria. Poi, durante la traversata delle montagne, in Bulgaria, il freddo, trasmesso dal metallo, gli era penetrato fin nelle ossa. Ma il peggio era cominciato ai confini con la Jugoslavia, quando la cisterna, piena di acido, aveva cominciato a perdere.
Lentamente, la vasca aveva distillato i suoi vapori tossici nel sarcofago di metallo. I turchi avevano urlato, bussato, scosso la paratia che li schiacciava, ma il camion aveva proseguito la sua strada. Talat aveva capito che nessuno sarebbe venuto a liberarli prima dell’arrivo e che gridare e muoversi non faceva che aumentare i danni dell’acido.
Era rimasto tranquillo, respirando il meno possibile.
Alla frontiera italiana, i clandestini si erano dati la mano e si erano messi a pregare. Alla frontiera tedesca, la maggior parte di loro era morta. A Nancy, dov’era previsto il primo sbarco, il guidatore aveva scoperto trenta cadaveri allineati, immersi nell’urina e negli escrementi, la bocca aperta in un ultimo spasmo.
Solo un adolescente era sopravvissuto. Ma il suo apparato respiratorio era distrutto. La sua trachea, la laringe e le fosse nasali erano irrimediabilmente bruciate, e il ragazzo aveva perso la voce e l’odorato. Quanto alla respirazione, un’infiammazione cronica l’avrebbe obbligato a inalare in permanenza suffumigi caldi e umidi.
All’ospedale, il dottore aveva fatto venire un traduttore per spiegare al giovane immigrato la triste situazione e per comunicargli che sarebbe ripartito nel giro di dieci giorni, a bordo di un volo charter, alla volta di Istanbul. Tre giorni dopo, Talat Gurdilek scappava, con il volto bendato come una mummia, e raggiungeva la capitale a piedi.
Schiffer l’aveva sempre visto con in mano il suo inalatore. Quando era un giovane capo officina, non lo lasciava mai e parlava tra una vaporizzazione e l’altra. Più tardi, aveva adottato una maschera traslucida che imprigionava la sua voce roca. Poi, il male si era ulteriormente aggravato, ma i suoi mezzi finanziari erano aumentati. Alla fine degli anni Ottanta, Gurdilek aveva costruito l’hammam La Porte Bleue, in rue du Faubourg-Saint-Denis, e aveva attrezzato una sala a uso personale. Una sorta di polmone gigante, un rifugio piastrellato, saturo di vapori di balsamo mentolato.
«Salaam aleikum, Talat. Scusa se ti disturbo durante le tue abluzioni.»
L’uomo si lasciò sfuggire una nuova risata, avvolta in una miscela di vapori:
«Aleikum salaam, Schiffer. Ritorni dal regno dei morti?»
La voce del turco ricordava il sibilo di rami in fiamme.
«Più che altro, sono i morti che mi mandano.»
«Aspettavo la tua visita.»
Schiffer, bagnato fino al midollo, si tolse l’impermeabile e scese gli scalini della vasca:
«Si direbbe che mi aspettano tutti. Degli omicidi che cosa mi dici?»
Il turco fece un respiro profondo e i suoi polmoni produssero un raschiamento di ferraglia:
«Quando ho lasciato il mio paese, mia madre ha versato dell’acqua dietro ai miei passi. Ha disegnato la strada del destino, la strada che avrebbe dovuto farmi tornare. Io non sono mai tornato, fratello. Sono rimasto a Parigi e ho continuato a vedere le cose che peggioravano. Non c’è più niente che vada bene qui.»
Il poliziotto era a soli due metri dal turco, ma continuava a non vederne il volto.
«L’esilio è un duro mestiere, dice il poeta. E, aggiungo io, diventa sempre più duro. Una volta ci trattavano come cani. Ci sfruttavano, ci derubavano, ci arrestavano. Adesso uccidono le nostre donne. Quando finirà tutto questo?»
Schiffer non era dell’umore giusto per sorbirsi quella filosofia da bazar.
«Sei tu che fissi i limiti», replicò. «Tre operaie uccise nel tuo territorio e una proprio nella tua officina: non è poco.»
Gurdilek fece un gesto svogliato.
«Siamo in territorio francese. Proteggerci è compito della vostra polizia.»
«Ma non farmi ridere. I Lupi sono qui e tu lo sai. Chi cercano? E perché?»
«Non lo so.»
«Tu non vuoi saperlo.»
Ci fu un silenzio. Il respiro del turco continuava a solcare pesantemente l’aria.
«Sono padrone di questo quartiere», disse infine. «Non del mio paese. Questo affare ha le sue radici in Turchia.»
«Chi li manda?» chiese Schiffer alzando la voce. «I clan di Istanbul? Le famiglie di Antep? Chi?»
«Non lo so. Te lo giuro.»
Il poliziotto avanzò. Immediatamente, un fremito agitò la nebbia sul bordo della piscina: le guardie del corpo. Si fermò di colpo, tentando ancora di distinguere i lineamenti di Gurdilek. Ma scorse soltanto qualche frammento delle spalle, delle mani e del torso. Una pelle opaca, nera, screpolata dall’acqua, come carta crespa.
«Allora conti di lasciar proseguire il massacro?»
«Il massacro si fermerà quando avranno sistemato quest’affare, quando avranno trovato la ragazza.»
«O quando l’avrò trovata io.»
Le spalle nere si scossero:
«Adesso tocca a me ridere. Non sei all’altezza, amico mio.»
«Chi può aiutarmi in questa operazione?»
«Nessuno. Se qualcuno sapesse qualcosa l’avrebbe già detta. Ma non a te. A loro. Il quartiere aspira solo alla pace.»
Schiffer rifletté un istante. Gurdilek diceva la verità. Era uno dei misteri di quella storia. Come aveva fatto la ragazza a cavarsela fino a quel momento avendo contro l’intera comunità? E perché i Lupi continuavano a cercare nel quartiere? Perché erano certi che si nascondesse ancora nei paraggi?
Cambiò argomento:
«Cos’è successo nel tuo laboratorio?»
«In quel momento io ero a Monaco e…»
«Basta con le cazzate, Talat. Voglio tutti i dettagli.»
Il turco si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato:
«Sono piombati qui, in pieno laboratorio. La notte del 13 novembre.»
«A che ora?»
«Le due del mattino.»
«Quanti erano?»
«Quattro.»
«Qualcuno li ha visti in faccia?»
«Avevano il passamontagna. A quanto dicono le ragazze, erano armati fino ai denti. Fucili, pistole, coltelli. Tutto.»
L’uomo con il giubbotto Adidas aveva descritto la stessa scena. Soldati in tenuta da commando che agivano nel bel mezzo di Parigi. In quarant’anni di carriera non aveva mai sentito una cosa così folle. Chi era quella donna per meritare un tale squadrone?
«Il seguito», mormorò.
«Hanno prelevato la ragazza e se ne sono andati, tutto qui. Non è durato più di tre minuti.»
«Una volta nel laboratorio, come hanno fatto a individuarla?»
«Avevano una foto.»
Schiffer indietreggiò e, attraverso il vapore, disse:
«Si chiamava Zeynep Tütengil. Aveva ventisette anni. Sposata con Burba Tütengil. Senza figli. Stava in rue de la Fidélité 34. Originaria della regione di Gaziantep. Immigrata in Francia dal settembre 2001.»
«Hai lavorato bene, fratello. Ma questa volta non andrai da nessuna parte.»
«Dov’è il marito?»
«È rientrato al paese.»
«Le altre operaie?»
«Dimentica questa faccenda. Sei troppo inquadrato per questo genere di pantano.»
«Smettila di parlare per enigmi.»
«Ai nostri tempi le cose erano semplici. I campi erano nettamente separati. Ora queste frontiere non esistono più.»
«Spiegati meglio, cazzo!»
Talat Gurdilek fece una pausa. I vapori continuavano ad avviluppare il suo profilo. Alla fine disse:
«Se vuoi saperne di più, chiedi alla polizia.»
Schiffer trasalì.
«La polizia? Quale polizia?»
«Ho già raccontato tutto ai ragazzi del commissariato Louis-Blanc.»
Il bruciore della menta gli parve ancora più acuto.
«Quando?»
Gurdilek si sporse sul suo cubo di ceramica:
«Ascoltami bene, Schiffer, perché non te lo ripeterò. Quando i Lupi sono andati via, quella notte, hanno incrociato una macchina di pattuglia. C’è stato un inseguimento. I Lupi hanno seminato i vostri ragazzi. Ma dopo gli sbirri sono venuti qui a dare un’occhiata.»
Schiffer ascoltava quelle rivelazioni senza sapere che pesci pigliare. Per un momento si disse che Nerteaux gli aveva nascosto qualche verbale. Ma non aveva alcuna ragione per pensarla così. Semplicemente, il ragazzo non ne era al corrente.
La voce cavernosa continuò:
«Nel frattempo, le mie ragazze erano fuggite per la tangente. I poliziotti hanno semplicemente constatato l’intrusione e i danni. Il mio capo officina non ha parlato del rapimento, né dei tipi in tenuta da commando. Per la verità, non avrebbe detto niente se non ci fosse stata la ragazza.»
Schiffer sobbalzò:
«La ragazza?»
«Gli sbirri hanno scoperto un’operaia, al fondo dell’hammam, nascosta nel locale macchine.»
Schiffer non credeva alle proprie orecchie. Fin dall’inizio di quell’affare, una ragazza aveva visto i Lupi grigi. E quella ragazza era stata interrogata dalla polizia! Come mai Nerteaux non ne aveva mai sentito parlare? Ormai era una certezza: quelli del commissariato avevano nascosto il verbale.
«Come si chiamava quella donna?»
«Sema Gokalp.»
«Età?»
«Sulla trentina.»
«Sposata?»
«No, nubile. Una strana ragazza. Solitaria.»
«Da dove veniva?»
«Gaziantep.»
«Come Zeynep Tütengil?»
«Come tutte le ragazze del laboratorio. Lavorava qui da qualche settimana. Più o meno dal mese di ottobre.»
«Ha visto il rapimento?»
«Da vicino. Le due ragazze erano insieme, stavano regolando la temperatura nel locale delle tubature. I Lupi hanno prelevato Zeynep. Sema si è nascosta in un ripostiglio. Quando i poliziotti l’hanno scovata era in stato di choc. Morta di paura.»
«Poi?»
«Non ho più avuto notizie.»
«L’hanno rispedita in Turchia?»
«Non ne ho idea.»
«Rispondi Talat. Avrai ben chiesto informazioni.»
«Sema Gokalp è sparita. Il giorno dopo non era già più nella stazione di polizia. Svanita. Yemim ederim. Te lo giuro.»
Schiffer continuava a sudare a grosse gocce. Si sforzò di controllare la propria voce:
«Chi dirigeva la pattuglia quella notte?»
«Beauvanier.»
Cristophe Beauvanier era uno dei capitani del commissariato Louis-Blanc. Un appassionato di culturismo che passava le sue giornate in palestra. Non era il tipo da prendersi carico di una storia così. Bisognava risalire più in alto… Un brivido d’eccitazione scosse i suoi vestiti inzuppati.
Il nababbo parve leggergli nel pensiero:
«Sono loro che coprono i Lupi, Schiffer.»
«Non dire fesserie.»
«Dico la verità e tu lo sai. Hanno eliminato un testimone. Una donna che aveva visto tutto. Forse il viso di uno degli assassini. Forse un dettaglio che avrebbe potuto identificarli. È semplice: coprono i Lupi. Gli altri omicidi sono stati commessi con la loro benedizione. Allora puoi mettere via i tuoi modi da grande giustiziere. Voi non valete più di noi.»
Schiffer evitò di deglutire per non aggravare il bruciore in gola. Gurdilek si sbagliava: l’influenza dei turchi non poteva salire così in alto negli ambienti della polizia francese. Lui era ben piazzato per saperlo: per ben vent’anni aveva fatto da ponte tra i due mondi.
Dunque, doveva esserci un’altra spiegazione.
C’era tuttavia un dettaglio che gli girava per la testa. Un dettaglio che poteva avvalorare l’ipotesi di una macchinazione in alto loco. Il fatto che avessero affidato un’inchiesta concernente tre omicidi a Paul Nerteaux, capitano senza esperienza, sbarcato dalla luna. Solo il ragazzo poteva pensare che gli dessero fiducia fino a quel punto. Aveva davvero l’aria di un tentativo di insabbiamento…
Sotto le sue tempie bollenti, i pensieri si inseguivano. Se quel merdaio era vero, se l’affare era frutto di un’alleanza franco-turca, se davvero i poteri politici dei due paesi avevano lavorato per i propri interessi fregandosene delle vite di quelle povere ragazze e delle speranze di un giovane poliziotto, allora Schiffer avrebbe aiutato il ragazzo fino alla fine.
Due contro tutti: ecco una formula che gli piaceva.
Indietreggiò nel vapore, salutò il vecchio pascià, poi, senza una parola, risalì gli scalini.
Gurdilek bruciò un’ultima risata:
«È ora di fare le pulizie a casa tua, fratello mio.»
Schiffer aprì la porta del commissariato con una spallata.
Tutti gli sguardi si fissarono su di lui. Inzuppato fino alle ossa, li squadrò di rimando, gustandosi le loro espressioni smarrite. Due gruppi di agenti, con addosso la cerata, erano sul punto di uscire. Alcuni luogotenenti stavano loro infilando i bracciali rossi. Le grandi manovre erano già cominciate.
Sul bancone, Schiffer vide una pila di identikit. Pensò a Paul Nerteaux che stava distribuendo i suoi manifesti in tutti i commissariati del decimo arrondissement, come se fossero stati volantini politici, senza dubitare neanche un istante di essere un merlo preso in mezzo a quell’affare. Fu nuovamente assalito dalla rabbia.
Senza dire una parola, salì al primo piano. Si infilò in un corridoio nel quale si aprivano porte in compensato e andò dritto alla terza.
Beauvanier non era cambiato. Spalle gonfie, giacca di pelle nera, scarpe Nike con la zeppa. Il poliziotto soffriva di una strana malattia, sempre più diffusa tra gli sbirri: il giovanilismo. Era ormai vicino alla cinquantina, ma si ostinava ancora a fare la parte del giovane rapper.
Stava fissando alla cintura la sua fondina, in vista della spedizione notturna.
«Schiffer?» disse. «Cosa ci fai qui?»
«Come va, bello mio?»
Prima che lui potesse rispondere, Schiffer lo afferrò per il bavero della giacca e lo appiccicò al muro. In un attimo arrivarono in suo soccorso alcuni colleghi. Da sopra la testa del suo aggressore, Beauvanier indirizzò loro un gesto di distensione:
«Nessun problema ragazzi! È un amico!»
Vicinissimo alla sua faccia, Schiffer mormorò:
«Sema Gokalp. Il 13 novembre scorso. Il bagno turco di Gurdilek.»
Gli occhi si spalancarono. La bocca tremò. Schiffer gli sbatté la testa contro la parete. I poliziotti si precipitarono. Sentiva già le dita chiudersi sulle sue spalle, ma Beauvanier agitò nuovamente la mano, sforzandosi di ridere:
«Vi dico che è un amico. Va tutto bene!»
Lasciarono la presa e fecero un passo indietro. Infine la porta si richiuse, lentamente, come a malincuore. Schiffer allentò a sua volta la stretta e, con un tono più calmo, chiese:
«Cosa ne hai fatto di quella testimone? Come hai fatto a farla sparire?»
«Ehi man! Le cose non sono mica andate così. Io non ho fatto sparire un bel niente…»
Schiffer fece un passo indietro, per guardarlo meglio. La sua faccia aveva una strana dolcezza. Un viso da ragazza, con gli occhi blu e incorniciato da capelli nerissimi. Gli ricordava una fidanzata irlandese che aveva avuto da giovane: una «Black-Irish», che faceva contrastare il bianco col nero, invece del solito binomio bianco e rosso.
Il poliziotto rapper portava un cappellino da baseball con la visiera girata all’indietro, sicuramente per accentuare l’effetto «ragazzo di strada».
Schiffer prese una sedia e lo fece sedere a forza:
«Ti ascolto. Voglio tutti i dettagli.»
Beauvanier cercò di sorridere, ma invano.
«Quella notte, una pattuglia ha incrociato una BMW. A bordo c’erano dei tipi usciti dall’hammam La Porte Bleue e…»
«Questo lo so già. Tu quando sei intervenuto?»
«Circa mezz’ora più tardi. I ragazzi mi hanno chiamato. Li ho raggiunti da Gurdilek. Con quelli della scientifica.»
«Sei tu che hai scoperto la ragazza?»
«No. L’avevano trovata mentre arrivavo. Era fradicia. Sai che lavoro fanno le tipe laggiù. È…»
«Descrivimela.»
«Piccola. Bruna. Magra come un glissino. Batteva i denti. Mormorava cose incomprensibili. In turco.»
«Vi ha raccontato quello che ha visto?»
«Non ci ha raccontato un bel niente. Non ci vedeva neppure. Era traumatizzata.»
Beauvanier non mentiva: la sua voce sembrava sincera. Schiffer andava avanti e indietro nella stanza, continuando a squadrarlo.
«Secondo te, cos’è successo nel bagno turco?»
«Non lo so. Una storia di racket. Tipi che vogliono fare i duri.»
«Il racket contro Gurdilek? E chi è che ne avrebbe il coraggio?»
L’ufficiale si sistemò la giacca di pelle, come se gli prudesse il collo.
«Con i turchi non si può mai sapere. Magari c’è un nuovo clan nel quartiere. O forse è un colpo dei curdi. È il loro business. Gurdilek non ha neppure fatto denuncia. Abbiamo lavorato per niente e…»
D’un tratto ebbe chiara una cosa. Gli uomini della Porte Bleue non avevano parlato del rapimento di Zeynep, né dei Lupi grigi. Dunque Beauvanier credeva veramente alla sua ipotesi di racket. Nessuno aveva stabilito un legame tra quella visita all’hammam e la scoperta del primo corpo due giorni dopo.
«Che cosa ne hai fatto di Sema Gokalp?»
«Al posto di polizia le abbiamo dato dei vestiti e delle coperte. Tremava come una foglia. Abbiamo trovato il suo passaporto cucito nella gonna. Non aveva il visto, niente. Pronta per l’Immigrazione. Ho mandato loro un rapporto via fax. Ne ho inviato uno anche allo stato maggiore, in place Beauvau, per essere coperto. Non mi restava che aspettare.»
«E poi?»
Beauvanier sospirò, passandosi l’indice nel colletto:
«Ha continuato a tremare. Stava diventando decisamente preoccupante. Batteva i denti, non poteva bere né mangiare. Alle cinque del mattino, mi sono deciso a portarla al Sainte-Anne.»
«Perché tu e non gli agenti?»
«Quei coglioni volevano metterle la camicia di forza. E poi… Non lo so, quella ragazza aveva un qualcosa… Ho riempito un modulo “32 13” e l’ho portata.»
La sua voce si spense. Non la smetteva più di grattarsi la testa. Schiffer scorse delle tracce profonde di acne.
«Tossico», pensò.
«L’indomani mattina ho chiamato l’immigrazione e li ho mandati al Saint-Anne. A mezzogiorno mi hanno richiamato: non avevano trovato la ragazza.»
«Era scappata?»
«No, alle dieci del mattino alcuni poliziotti l’avevano prelevata.»
«Quali poliziotti?»
«Non mi crederai mai.»
«Provaci lo stesso.»
«Secondo il medico di guardia, erano ragazzi della DNAT.»
«La Divisione antiterrorismo?»
«Sono andato a verificare di persona. Avevano presentato un ordine di trasferimento. Era tutto in regola.»
Per il suo ritorno all’ovile, Schiffer non avrebbe potuto sognare un fuoco d’artificio più bello. Si sedette su un angolo della scrivania.
«Li hai contattati?»
«Ho tentato. Ma sono rimasti molto abbottonati. Da quanto ho potuto capire, hanno intercettato il mio rapporto a place Beauvau. Poi, gli ordini li ha dati Charlier.»
«Philippe Charlier?»
Il capitano annuì. Tutta quella storia sembrava sfuggirgli completamente. Charlier era uno dei cinque commissari della Divisione antiterrorismo. Un poliziotto ambizioso che Schiffer conosceva da quando era nell’antigang, nel ’77. Un vero bastardo. Forse più astuto di lui, ma non meno brutale.
«Poi?»
«Poi, niente. Non ho mai più avuto notizie.»
«Non mi prendere per il culo.»
Beauvanier esitò. La sua fronte era imperlata di sudore, gli occhi bassi.
«Il giorno dopo mi ha chiamato Charlier in persona. Mi ha fatto un mucchio di domande su quella faccenda. Dove avevamo trovato la ragazza turca, in quali circostanze, cose così.»
«Cosa gli hai risposto?»
«Quello che sapevo.»
«Cioè niente», pensò Schiffer. Il poliziotto con il cappellino terminò:
«Charlier mi ha avvertito che si sarebbe incaricato lui della questione. La comunicazione alla Procura, al Servizio di controllo degli stranieri, la procedura abituale insomma. Mi ha anche fatto capire che era nel mio interesse dimenticare il tutto.»
«Hai ancora il tuo rapporto?»
«Secondo te? Sono passati a prenderlo il giorno stesso.»
«E il registro?»
Il sorriso si trasformò in risata.
«Quale registro? Ehi, man, hanno cancellato tutto. Anche le registrazioni del traffico radio. Hanno fatto sparire il testimone! Completamente e semplicemente.»
«Perché?»
«E io che cosa ne so? Quella ragazza non poteva dire niente. Era fuori come un balcone.»
«E tu, perché non hai fatto niente?»
Il poliziotto abbassò la voce:
«Charlier mi tiene in pugno. Una vecchia storia…»
Schiffer gli piazzò un diretto nel braccio, in modo amichevole, poi si alzò. Cercava di digerire quelle informazioni, camminando per la stanza. Per incredibile che potesse sembrare, il sequestro di Sema Gokalp da parte della DNAT riguardava un affare diverso. Un affare che non aveva niente a che vedere con la serie di omicidi e con i Lupi grigi. E tuttavia, l’importanza della testimone per la sua inchiesta non veniva messa in discussione. Doveva trovare Sema Gokalp, perché lei aveva visto qualcosa.
«Hai ripreso servizio?» arrischiò Beauvanier.
Schiffer si risistemò i pantaloni bagnati e ignorò la questione. Notò sulla scrivania uno degli identikit di Nerteaux. L’afferrò, come un cacciatore di taglie, e domandò:
«Ti ricordi il nome del medico che ha preso in carico Sema al Sainte-Anne?»
«Eccome. Jean-François Hirsch. Mi ha dato una mano per delle ricette…»
Schiffer non ascoltava più. Il suo sguardò si posò di nuovo sull’identikit. Era un’abile sintesi dei volti delle tre vittime. Lineamenti larghi e dolci che splendevano timidamente sotto i capelli rossi. Gli tornò in mente un frammento di una poesia turca:
«Il padichah aveva una figlia / Che assomigliava alla luna nel quattordicesimo giorno…»
Beauvanier azzardò ancora:
«La storia della Porte Bleue ha qualche rapporto con questa tizia?»
Schiffer si mise in tasca l’identikit. Afferrò la visiera del cappellino del poliziotto e la raddrizzò:
«Se qualcuno ti fa delle domande non avrai certo difficoltà a trovare qualcosa da raccontare a ritmo di rap, man.»
Ospedale Sainte-Anne, ore ventuno.
Conosceva bene il posto. Il lungo muro di cinta con le pietre fittamente accostate, la piccola porta, al 17 di rue Broussais, discreta quanto l’ingresso degli artisti in un teatro. Poi la città nella città, complessa, immensa. Un insieme di blocchi e di padiglioni in un miscuglio di secoli e di architetture. Una vera fortezza, che racchiudeva un universo di demenza.
Tuttavia, quella sera la cittadella non sembrava così ben sorvegliata. Fin dai primi edifici, gli striscioni annunciavano un clima particolare: «Sicurezza in sciopero», «Assunzioni o morte!» Più in là, altre scritte: «No agli straordinari», «Ferie rubate»…
Schiffer fu divertito dall’idea del più grande ospedale psichiatrico di Parigi abbandonato a sé stesso, con i pazienti che gironzolavano liberamente. Immaginava già una rivolta dei pazzi, un casino generalizzato dove, nottetempo, i malati prendevano il posto dei medici. Ma, entrando, scoprì solo una città fantasma, totalmente deserta.
Seguì i cartelli rossi che indicavano la direzione del pronto soccorso neurochirurgico e neurologico, e, di sfuggita, notò i nomi dei vialetti. Aveva appena lasciato il viale Guy de Maupassant e ora risaliva il sentiero Edgar Allan Poe. Si chiese se chi aveva concepito quell’ospedale avesse avuto un intento ironico. Maupassant era sprofondato nella follia, e anche l’autore di Il pozzo e il pendolo, ormai alcolizzato, certo non aveva finito la sua esistenza con le idee molto chiare. Nelle città comuniste le vie si chiamavano Karl Marx o Pablo Neruda. Al Sainte-Anne, avevano il nome di pazzi famosi.
Schiffer tirò su il colletto, sforzandosi di giocare il suo consueto ruolo da duro, ma sentiva la paura crescere dentro di sé. Troppi ricordi, troppe ferite dietro quei muri…
Dopo l’Algeria era finito lì, in uno di quegli edifici; e aveva solo vent’anni. Nevrosi di guerra. Era stato internato per diversi mesi, inseguito dalle sue allucinazioni, roso dalle idee di suicidio. Altri che, ad Algeri, avevano lavorato al suo fianco ai Distaccamenti operativi di protezione, non avevano esitato tanto. Si ricordava di un ragazzo di Lille che si era impiccato appena tornato a casa. E di quel bretone che, nella fattoria di famiglia, con un’ascia si era tagliato la mano destra, la mano che aveva collegato gli elettrodi, che aveva spinto le nuche dentro le vasche da bagno…
La sala del pronto soccorso era deserta.
Un grande quadrato vuoto, rivestito di piastrelle color porpora. La polpa di un’arancia sanguigna. Schiffer premette il campanello e vide arrivare un’infermiera all’antica: grembiale allacciato in vita, capelli raccolti e occhiali bifocali.
Nel vederlo così male in arnese ebbe un gesto di disappunto, ma lui, con un movimento secco, le mostrò il tesserino e le spiegò ciò che voleva. Senza dire una parola, l’infermiera partì, alla ricerca del dottor Jean-François Kirsch.
Si sedette su una delle panche fissate al muro. Gli sembrò che le pareti di mattonelle si stessero scurendo. Malgrado i suoi sforzi, non riusciva ad arginare i ricordi che sorgevano dal fondo della sua memoria.
Quando era arrivato ad Algeri per diventare «agente dei servizi informazioni», non aveva cercato di defilarsi, né di attenuare l’atrocità del lavoro con l’alcol o con le pastiglie dell’infermeria. Al contrario: ci si era buttato a capofitto, giorno e notte, convinto che sarebbe rimasto padrone del proprio destino. La guerra lo aveva costretto alla grande scelta, la sola, l’unica: la sua scelta di campo. Non poteva tornare indietro, né voltarsi. E non poteva permettersi di aver torto: andare avanti o farsi saltare le cervella.
Aveva praticato la tortura giorno e notte, strappando confessioni ai ribelli algerini. Dapprima con i metodi consueti: pugni, scosse elettriche, vasca da bagno. Poi con tecniche personali. Aveva organizzato finte esecuzioni, portando i prigionieri incappucciati fuori della città e guardandoli mentre si pisciavano addosso quando puntava loro la pistola alla tempia. Aveva preparato cocktail a base di acido che somministrava a forza, ficcando l’imbuto in gola. Aveva rubato strumenti medici all’ospedale, per creare qualche variante, come quella pompa per lo stomaco che utilizzava per iniettare l’acqua nelle narici…
La paura lui la modellava, la scolpiva, le dava forma in modo sempre più intenso. Quando aveva deciso di dissanguare i propri prigionieri per indebolirli e per dare il loro sangue alle vittime degli attentati, aveva provato una strana ebbrezza. Si era sentito un dio che possedeva il diritto di vita e di morte. Talvolta, nella sala degli interrogatori, rideva da solo, accecato dal proprio potere, mentre contemplava con meraviglia il sangue che gli ricopriva le dita.
Un mese dopo era stato rimpatriato in Francia, colpito da totale mutismo. Le sue mascelle erano paralizzate: non poteva pronunciare neanche una parola. Era stato internato al Sainte-Anne, in un edificio occupato solo da traumatizzati di guerra. Quel genere di posto dove i corridoi risuonano di gemiti e dove è impossibile finire un pasto senza essere inzaccherati dal vomito di un vicino di tavola.
Rinchiuso nel suo silenzio, Schiffer viveva in uno stato di terrore. Nei giardini soffriva di disorientamento; non sapeva più dove si trovava e si chiedeva se gli altri malati non fossero per caso i detenuti che lui aveva torturato. Quando camminava lungo il portico del padiglione, rasentava i muri «per non essere visto dalle sue vittime».
La notte gli incubi prendevano il posto delle allucinazioni. Uomini nudi, inebetiti sulle loro sedie, testicoli che si incendiavano sotto gli elettrodi, mandibole che si fracassavano contro lo smalto dei lavabo, narici che sanguinavano, ostruite dalla siringa… Per la verità, non erano visioni, erano ricordi. Rivedeva soprattutto quell’uomo, appeso a testa in giù, a cui aveva fatto esplodere la testa con un calcio. Si risvegliava annegato nel sudore, si vedeva ancora sporco di quel cervello. Scrutava l’interno della propria camera e vedeva intorno a sé i muri lisci di una cantina, la vasca da bagno installata da poco e, sul tavolo al centro, la ricetrasmittente ANGRC9, la famosa gégène.
I medici gli avevano spiegato che non era possibile cancellare ricordi così. Al contrario, gli consigliarono di affrontarli, di dedicare a essi un po’ di tempo ogni giorno. Quella strategia andava d’accordo col suo carattere. Non si era fermato sul campo, non si sarebbe certo perso ora, in quel giardino popolato di fantasmi.
Aveva firmato il proprio foglio di dimissione e si era immerso nella vita civile.
Aveva fatto richiesta per diventare poliziotto, nascondendo i suoi trascorsi psichiatrici e puntando sul proprio grado di sergente e le sue onorificenze militari. Il contesto politico gli era favorevole. A Parigi gli attentati dell’OAS si moltiplicavano. C’era bisogno di gente per braccare i terroristi, di gente che avesse naso per fiutare il terreno… E quello lui lo sapeva fare. Il suo senso della strada aveva subito fatto meraviglie, così come i suoi metodi. Lavorava da solo, senza l’aiuto di nessuno, mirando solo ai risultati. E di risultati ne otteneva parecchi.
Ormai, la sua esistenza sarebbe stata quella. Avrebbe contato sempre su sé stesso, solo su sé stesso. Sarebbe stato al di sopra delle leggi e al di sopra degli uomini. Sarebbe stato lui stesso la sua sola legge e avrebbe attinto solo alla sua voglia di giustizia. Una sorta di patto cosmico: la sua parola contro tutta la merda del mondo.
«Cosa vuole?»
La voce lo fece sussultare. Si alzò e fotografò l’uomo che stava arrivando.
Jean-François Hirsch era alto, più di un metro e ottanta, e magro. Lunghe braccia e mani massicce. Schiffer le vide come due contrappesi per dare equilibrio a quel profilo longilineo. In più aveva un bel viso, incorniciato da capelli biondi e ricci. Un altro punto di equilibrio… Non indossava il camice, ma un cappotto di loden. Evidentemente stava per uscire.
Schiffer si presentò, senza mostrare il tesserino:
«Luogotenente Jean-Louis Schiffer. Dovrei farle delle domande. Basteranno pochi minuti.»
«Sto finendo il turno e sono già in ritardo. Non si può rimandare a domani?»
La voce era un altro contrappeso. Grave. Stabile. Solida.
«Spiacente», replicò il poliziotto. «È una questione importante.»
Il medico squadrò il suo interlocutore. L’odore di menta si infilava in mezzo a loro come un paravento di freschezza. Hirsch sospirò e si sedette su una delle panche imbullonate:
«Di cosa si tratta?»
Schiffer rimase in piedi.
«Un’operaia turca che lei ha visitato il 14 novembre 2001, al mattino. Era stata portata qui dal luogotenente Christophe Beauvanier.»
«E allora?»
«A noi pare che in quella procedura ci siano state delle irregolarità.»
«Lei di quale ufficio è?»
Il poliziotto ci andò pesante:
«Inchiesta interna. Ispezione generale dei servizi.»
«La avviso, non dirò una parola sul capitano Beauvanier. Mai sentito parlare del segreto professionale?»
Il medico si stava sbagliando sul perché di quelle domande. Certamente aveva aiutato «Mister Man» a risolvere uno dei suoi problemi di droga. Schiffer assunse un tono distaccato:
«La mia inchiesta non riguarda Cristophe Beauvanier. Non me ne importa niente se gli avete prescritto il metadone o qualcosa del genere.»
Schiffer aveva visto giusto, l’altro alzò un sopracciglio poi si raddolcì:
«Cos’è che vuole sapere?»
«L’operaia turca. Mi interessano i poliziotti che sono venuti a prenderla, dopo.»
Lo psichiatra accavallò le gambe e aggiustò la piega dei pantaloni:
«Sono arrivati circa quattro ore dopo che era stata ricoverata. Avevano l’ordine di trasferimento e quello di espulsione. Era tutto regolare. Quasi troppo, direi.»
«Troppo?»
«I moduli erano timbrati, firmati. Venivano direttamente dal Ministero degli interni. Era la prima volta che vedevo tanti documenti per una semplice clandestina.»
«Mi parli di lei.»
Hirsch si osservava la punta delle scarpe, cercando di riordinare le idee:
«Quando è arrivata ho pensato a un’ipotermia. Tremava. Le mancava il fiato. Dopo averla visitata, mi sono reso conto che la sua temperatura era normale. Anche il suo apparato respiratorio era a posto. I sintomi erano di origine isterica.»
«Che cosa vuole dire?»
Abbozzò un sorriso di superiorità:
«Mostrava dei segni fisici, ma nessuna causa fisiologica.»
Poi, puntando l’indice alla tempia, aggiunse:
«Veniva tutto da qui, dalla testa. Quella donna aveva subito uno choc. Il suo corpo reagiva di conseguenza.»
«Secondo lei, che genere di choc?»
«Una violenta paura. Erano i sintomi classici di un’angoscia esogena. Le analisi del sangue lo hanno confermato. Abbiamo trovato tracce di una forte scarica di ormoni e anche un significativo picco di cortisolo. Ma queste sono cose un po’ troppo tecniche per lei…»
Il sorriso divenne beffardamente altezzoso.
Quel tipo cominciava a dargli fastidio, con le sue arie. L’altro parve avvertirlo e, con un tono più naturale, aggiunse:
«Quella donna aveva subito uno stress intenso. A quel livello arriverei a parlare di trauma. Mi ricordava i casi che si incontrano al fronte, dopo le battaglie. Paralisi inspiegabili, asfissie improvvise, balbuzie, quel tipo di…»
«Conosco queste cose. Me la descriva. Fisicamente, intendo.»
«Bruna. Molto pallida. Molto magra, al limite dell’anoressia. Pettinata alla Cleopatra. Un fisico molto duro, ma questo, stranamente, non intaccava la sua bellezza. Al contrario. Da quel punto di vista era abbastanza… impressionante.»
Schiffer incominciava a farsi un’idea piuttosto chiara della ragazza. L’istinto gli suggeriva che quella non era una semplice operaia. Né una semplice testimone.
«L’ha curata?»
«Dapprima le ho iniettato un ansiolitico. I suoi muscoli si sono rilassati. Si è messa a sghignazzare, poi a farfugliare. Una vera buffée delirante. Le sue frasi erano senza senso.»
«In ogni modo parlava in turco, no?»
«No. Parlava francese come lei e me.»
Un’idea folle gli attraversò la mente. Ma preferì accantonarla, per conservare il suo sangue freddo.
«Le ha detto quello che aveva visto? Quello che era successo nell’hammam?»
«No. Non faceva altro che ripetere pezzi di frasi, parole incoerenti.»
«Ad esempio?»
«Diceva che i lupi si erano sbagliati. Sì, proprio così… Parlava di lupi. Ripeteva che avevano rapito la ragazza sbagliata. Incomprensibile.»
Un flash nella sua mente. L’idea di prima tornò prepotentemente. Come aveva fatto un’operaia a capire che gli intrusi erano dei Lupi grigi? Come poteva sapere che avevano sbagliato obiettivo? C’era una sola risposta: la vera Preda era lei.
Sema Gokalp era la donna da uccidere.
Senza difficoltà, Schiffer ricompose il puzzle. Gli assassini avevano avuto una soffiata: il loro obiettivo lavorava, di notte, nell’hammam di Talat Gurdilek. Erano entrati e avevano rapito la prima donna che assomigliasse a quella della loro foto: Zeynep Tütengil. Ma si erano sbagliati: la rossa, la vera, aveva preso delle precauzioni e si era tinta i capelli di nero.
Gli venne un’altra idea. Estrasse dalla tasca l’identikit:
«La ragazza assomigliava a questa?»
L’uomo si sporse in avanti per guardare:
«Assolutamente no. Perché me lo chiede?»
Schiffer mise in tasca il foglio senza rispondere.
Un secondo flash. Una nuova conferma. Sema Gokalp, o la donna che si nascondeva dietro quel nome, era andata oltre nella sua metamorfosi: aveva cambiato volto. Aveva fatto ricorso alla chirurgia estetica. Una tecnica classica per quelli che vogliono prendere definitivamente il largo. Soprattutto nell’universo criminale. Poi si era fatta passare per un’anonima operaia, persa nei vapori della Porte Bleue. Ma perché era rimasta a Parigi?
Per qualche istante cercò di mettersi nei suoi panni. Quando, la notte del 13 novembre 2001, aveva visto penetrare nel laboratorio i Lupi incappucciati, aveva pensato che per lei era finita. E invece gli assassini si erano gettati sulla sua compagna di lavoro. Una rossa che rassomigliava a quella che lei era una volta… Quella donna aveva subito uno stress intenso. Era il minimo che si potesse dire.
«Cos’altro ha raccontato?» riprese. «Cerchi di ricordarselo.»
«Credo…»
Distese le gambe e fissò ancora i lacci delle scarpe.
«Credo che parlasse di una strana notte. Una notte singolare in cui brillavano quattro lune. E poi parlava di un uomo dal mantello nero.»
Se ancora aveva bisogno di un’ultima prova, eccola. Le quattro lune. I turchi che conoscevano il significato di quel simbolo si potevano contare sulle dita di una mano. La verità andava oltre l’immaginabile.
Perché ora lui capiva chi era quella preda.
E perché la mafia turca avesse lanciato i Lupi al suo inseguimento.
«Passiamo ai poliziotti che sono venuti il giorno dopo», riprese Schiffer cercando di controllare la propria eccitazione. «Cos’hanno detto mentre la portavano via?»
«Niente, mi hanno solo mostrato la loro autorizzazione.»
«Che aspetto avevano?»
«Dei colossi. Con dei vestiti costosi. Il genere “guardia del corpo”.»
I cerberi di Philippe Charlier. Dove l’avevano portata? In un centro di detenzione provvisoria? L’avevano rispedita al suo paese? La Divisione antiterrorismo sapeva che era realmente Sema Gokalp? No, sicuramente non lo sapevano. Quel rapimento e quel mistero dovevano avere un’altra spiegazione.
Salutò il medico, attraversò la stanza rossa e, sulla porta, si voltò:
«Ammettendo che Sema sia ancora a Parigi, lei dove la cercherebbe?»
«In un manicomio.»
«Ma ha avuto il tempo di riprendersi da quelle emozioni, no?»
Il tipo alto cercò di spiegarsi meglio:
«Forse mi sono espresso male. Quella donna non ha avuto paura. Ha incontrato il terrore in persona. Ha superato la soglia di ciò che un essere umano può tollerare.»
L’ufficio di Philippe Charlier era al numero 133 di rue du Faubourg-Saint-Honoré, non lontano dal Ministero degli interni.
Gli edifici dall’aria tranquilla a pochi passi dagli Champs-Elysées erano in realtà dei bunker ben sorvegliati. Delle estensioni del potere poliziesco a Parigi.
Jean-Louis Schiffer superò il portone e passò nel giardino. Il parco formava un grande quadrato di ciottoli grigi, lisci e puliti come quelli di un giardino zen. Le siepi di ligustro, tagliate con cura, formavano pareti invalicabili, mentre gli alberi mostravano i loro rami troncati come monconi. Non un luogo di combattimento, pensò Schiffer: un luogo di menzogna.
Al fondo, c’era un edificio dal tetto d’ardesia, con una veranda i cui vetri erano sostenuti da una struttura di metallo nero. Al di sopra di essa, la facciata mostrava le sue cornici, i suoi balconi e i suoi ricami di pietra. «Stile impero», decretò Schiffer, scorgendo gli allori incrociati sulle anfore tonde nelle nicchie. In realtà, lui qualificava così qualsiasi architettura che avesse superato lo stadio dei torrioni e delle feritoie.
Sulla scalinata gli vennero incontro due poliziotti in uniforme.
Schiffer fece il nome di Charlier. Erano le ventidue, ed era certo che lo sbirro dal colletto bianco fosse ancora lì ad architettare complotti alla luce della sua lampada da scrivania.
Uno dei piantoni lo fece annunciare, continuando a tenerlo d’occhio. Ascoltò la risposta, scrutando ancora più intensamente il visitatore. Poi, i due uomini lo fecero passare attraverso un metal detector e lo perquisirono.
Infine, poté attraversare la veranda e si ritrovò in una grande sala di pietra. «Primo piano», gli dissero.
Schiffer si diresse verso la scala. I suoi passi risuonavano come in una chiesa. Gli scalini erano di granito levigato dall’uso e la balaustra di marmo; ai lati due candelabri di ferro battuto.
Schiffer sorrise: si trattavano bene i cacciatori di terroristi.
Il primo piano concedeva qualcosa in più alla modernità: pannelli di legno verniciato, applique in mogano, moquette marrone. In fondo al corridoio rimaneva un ultimo ostacolo da superare: lo sbarramento di controllo che dava l’esatta misura del potere del commissario Philippe Charlier.
Quattro uomini con la tuta di kevlar nero montavano la guardia dietro un vetro blindato. Sopra la tuta portavano una giubba d’assalto nella quale erano infilate pistole, caricatori, granate e altri gingilli del genere. Ognuno di loro teneva in pugno un fucile mitragliatore a canna corta di marca H K.
Schiffer si prestò a una nuova perquisizione. Questa volta, Charlier fu avvertito attraverso una ricetrasmittente. Alla fine, poté raggiungere una doppia porta in legno chiaro sulla quale c’era una targa di rame. Visto l’ambiente, bussare era inutile.
Il Gigante Verde era seduto dietro una scrivania di quercia massiccia, in maniche di camicia. Si alzò e si aprì in un ampio sorriso.
«Schiffer, mio vecchio Schiffer…»
Ci fu una stretta di mano silenziosa, durante la quale i due uomini si studiarono. Charlier era sempre lo stesso. Un metro e ottantacinque. Più di cento chili. Una roccia affabile, col naso rotto e i baffi da orsacchiotto, che, a dispetto dell’alto grado, portava ancora la pistola alla cintura.
Schiffer notò la qualità della camicia: blu cielo, con il colletto bianco, il celebre modello firmato Charvet. Malgrado i suoi sforzi per essere elegante, Charlier conservava nel corpo qualcosa di terribile; una potenza fisica che lo collocava in una dimensione diversa da quella degli esseri umani. Il giorno dell’Apocalisse, quando gli uomini avrebbero avuto solo le proprie mani per difendersi, lui sarebbe stato l’ultimo a morire…
Si sprofondò di nuovo nella sua poltrona di pelle e prese a guardare con disprezzo quel suo interlocutore così mal vestito. Poi, tamburellando con le dita sui fogli che ingombravano la scrivania, chiese: «Cosa vuoi? Ho parecchio lavoro.»
Schiffer sentiva che la sua aria tranquilla era pura finzione: Charlier era teso. Ignorando la sedia che il commissario gli indicava, attaccò:
«Il 14 novembre 2001 hai fatto trasferire un testimone di una violazione di domicilio. La Porte Bleue, un bagno turco nel decimo arrondissement. Il testimone si chiamava Sema Gokalp. Il responsabile dell’inchiesta era Christophe Beauvanier. Il problema è che nessuno sa dove hai trasferito quella donna. Hai cancellato ogni traccia e l’hai fatta sparire. Me ne frego del perché l’hai fatto. Voglio sapere solo una cosa: dov’è?»
Charlier sbadigliò senza rispondere. Era una buona finzione, ma Schiffer sapeva leggere i sottotitoli: l’orco era spaventato. Sulla sua scrivania era appena stata depositata una bomba.
«Non so di cosa parli», disse infine. «Perché cerchi quella donna?»
«È legata a un affare sul quale sto lavorando.»
Il commissario assunse un tono bonario:
«Schiffer, tu sei in pensione.»
«Ho ripreso servizio.»
«Quale affare? Quale servizio?»
Schiffer sapeva di dover fare qualche concessione se voleva ottenere delle informazioni:
«Sto indagando sui tre omicidi del decimo arrondissement.»
Il volto corrucciato si distese:
«Se ne sta occupando la polizia giudiziaria del decimo. Chi è che ti ha tirato dentro?»
«Il capitano Paul Nerteaux, il responsabile dell’inchiesta.»
«E cos’ha a che vedere con tutto questo la tua Sema comesichiama?»
«È la stessa indagine.»
Charlier si mise a giocare con un tagliacarte. Una sorta di pugnale di foggia orientale. Ogni gesto tradiva il suo nervosismo.
«Ho visto di sfuggita un verbale su quella storia dell’hammam», ammise infine. «Un problema di racket credo…»
Schiffer era capace di riconoscere la minima sfumatura, la minima vibrazione di una voce: era il risultato di anni di interrogatori. E Charlier gli sembrava fondamentalmente sincero: l’attacco alla Porte Bleue non lo interessava affatto. Ancora un po’ di esca e poi l’avrebbe intrappolato sul serio.
«Non si trattava di racket.»
«No?»
«I Lupi grigi sono tornati, Charlier. Sono loro che hanno fatto irruzione nell’hammam. Quella notte hanno rapito una ragazza. Il suo cadavere è stato ritrovato due giorni dopo.»
Le sue folte sopracciglia sembravano disegnare due punti interrogativi:
«Perché si divertirebbero a trucidare un’operaia?»
«Hanno un contratto. Cercano una donna. Nel quartiere turco. Sai che me ne intendo di questo tipo di cose. È già la terza volta che si sbagliano.»
«Qual è il legame con Sema Gokalp?»
Si prese il tempo necessario per mentire a metà:
«La notte del bagno turco, lei ha visto tutto. È una testimone fondamentale.»
Negli occhi di Charlier vide il turbamento. Non si aspettava niente del genere.
«Di cosa si tratta secondo te? Chi è immischiato in questa storia?»
«Non lo so», mentì di nuovo Schiffer. «Ma io cerco quegli assassini. E Sema può mettermi sulla strada giusta.»
Charlier sprofondò ancora di più nella sua poltrona.
«Dammi una sola ragione per aiutarti.»
Il poliziotto alla fine si sedette: cominciava il negoziato.
«Oggi sono di buon umore», sorrise Schiffer «e te ne darò due. La prima è che potrei rivelare ai tuoi superiori che sottrai i testimoni di un caso di omicidio. E questo fa disordine.»
Charlier gli restituì il sorriso:
«All’occorrenza posso fornire tutti gli incartamenti. Il suo mandato di espulsione. Il suo biglietto aereo. È tutto in ordine.»
«Hai le mani lunghe, Charlier, ma non arrivano fino in Turchia. Con una sola telefonata, posso provare che Sema Gokalp non è mai giunta a destinazione.»
Il commissario sembrava improvvisamente smagrito.
«Chi crederebbe a un poliziotto corrotto? Da quando eri nell’antigang non hai fatto altro che collezionare provvedimenti disciplinari. Mentre io sono al vertice della piramide.»
«È il vantaggio della mia posizione. Non ho niente da perdere.»
«Dimmi piuttosto la seconda ragione.»
Schiffer appoggiò i gomiti sulla scrivania. Sapeva già di aver vinto.
«Il piano Vigipirate del 1995. Quando ti scatenavi sugli indiziati magrebini al commissariato Louis-Blanc.»
«Ricatto a un commissario?»
«O forse un modo per scaricarsi la coscienza. Io sono in pensione. Potrei aver voglia di vuotare il sacco. Di ricordarmi di Abdel Saraoui, morto per i tuoi pugni. Se io apro le danze, al Louis-Blanc mi seguiranno tutti. Le urla di quel tipo le hanno ancora sullo stomaco, credimi.»
Charlier continuava a fissare il tagliacarte che teneva nelle sue mani enormi. Quando riprese a parlare, la sua voce era cambiata.
«Sema Gokalp non può più aiutarti.»
«L’avete…?»
«No. È stata sottoposta a un esperimento.»
«Che genere di esperimento?»
Silenzio. Schiffer ripeté.
«Che genere di esperimento?»
«Un condizionamento psichico. Una nuova tecnica.»
Era così dunque. La manipolazione psichica era sempre stata l’ossessione di Charlier. Infiltrarsi nel cervello dei terroristi, condizionare le menti, cazzate del genere… Sema Gokalp era stata una cavia, la vittima di un delirio sperimentale.
Ora Schiffer coglieva tutta l’assurdità di quella situazione: Charlier non aveva scelto Sema Gokalp; lei gli era semplicemente caduta tra le mani. Non sapeva che aveva cambiato volto. E, era chiaro che ignorava chi lei fosse davvero.
Si alzò nuovamente, elettrizzato dalla testa ai piedi:
«Perché lei?»
«A causa del suo stato psichico: Sema soffriva di un’amnesia parziale che la rendeva particolarmente adatta a subire il nostro trattamento.»
Schiffer si sporse in avanti, come se avesse capito male:
«Mi stai dicendo che le avete fatto il lavaggio del cervello?»
«Sì, il programma implica un trattamento di quel tipo.»
Batté i pugni sul tavolo:
«Razza di coglione, la sua era proprio l’ultima memoria da cancellare! Aveva delle cose da dirmi!»
Charlier aggrottò le sopracciglia:
«Non capisco la tua indagine. Cos’aveva di così importante da rivelarti quella ragazza? Ha visto dei turchi rapire una ragazza, e allora?»
Indietro tutta:
«Ha delle informazioni su quegli assassini», disse Schiffer camminando per l’ufficio come una belva in gabbia. «Penso anche che lei conosca l’identità della preda.»
«La preda?»
«La donna che i Lupi stanno cercando. E che non hanno ancora trovato.»
«Ed è così importante?»
«Tre omicidi, Charlier, comincia a essere un po’ pesante, no? Continueranno a uccidere finché non l’avranno beccata.»
«E tu vuoi consegnargliela?»
Schiffer sorrise senza rispondere.
Charlier alzò le spalle e le cuciture della camicia rischiarono di saltare.
«A ogni modo non posso fare niente per te», concluse.
«Perché?»
«Ci è scappata.»
«Scherzi?»
«Ti sembra che sia in vena di scherzare?»
Schiffer non sapeva se ridere o urlare. Si risedette, prendendo il tagliacarte che Charlier aveva appena lasciato:
«Sempre coglioni nella polizia. Spiegami com’è andata.»
«Il nostro esperimento mirava a cambiare totalmente la sua personalità. Una cosa mai vista. Siamo riusciti a trasformarla in una borghese francese, nella moglie di un funzionario. Una semplice donna turca. Ti rendi conto? Ora non c’è più limite al condizionamento. Faremo…»
«Me ne frego del tuo esperimento», tagliò corto Schiffer. «Dimmi piuttosto come ha fatto a scappare.»
Il commissario si accigliò:
«In queste ultime settimane ha manifestato dei disturbi, amnesie, allucinazioni. La sua nuova personalità, quella che le avevamo iniettato, cominciava a fessurarsi. Eravamo pronti a ricoverarla, ma lei ha preso il volo.»
«Quando?»
«Ieri. Martedì mattina.»
Incredibile: la preda dei Lupi grigi era di nuovo in libertà. Né turca, né francese, con il cervello come un colabrodo. Al fondo di tutto quel marasma, gli parve di vedere una luce:
«Dunque la sua memoria iniziale sta tornando?»
«Non sappiamo. In ogni caso cominciava a diffidare di noi.»
«A che punto sono i tuoi ragazzi?»
«A un punto morto. Abbiamo rastrellato tutta Parigi. Non c’è stato modo di beccarla.»
Era il momento di giocare il suo jolly. Piantò il tagliacarte sul piano di legno:
«Se ha ritrovato la memoria, agirà come una donna turca. È il mio campo. Posso seguire la sua pista meglio di chiunque altro.»
Il commissario cambiò espressione. Schiffer insistette:
«È turca, Charlier. È selvaggina molto particolare. Hai bisogno di qualcuno che conosca quel mondo e che agisca in tutta discrezione.»
Riusciva a seguire il cammino che quell’idea stava facendo all’interno della mente del colosso. Si tirò indietro, come per aggiustare il tiro:
«I patti sono questi: tu mi lasci libertà d’azione per ventiquattr’ore. Se la becco te la consegno. Ma prima la interrogo.»
Ci fu un nuovo, profondo silenzio. Infine, Charlier aprì un cassetto e tirò fuori un fascio di documenti:
«Ecco il suo dossier. Adesso si chiama Anna Heymes e…»
Con un rapido gesto, Schiffer prese il faldone e lo aprì. Passò in rassegna i fogli dattiloscritti, i referti medici, poi il suo sguardo cadde sulla foto del bersaglio. Esattamente come l’aveva descritta Hirsch. Niente a che vedere con la rossa che gli assassini stavano cercando. Da quel punto di vista, Sema Gokalp non aveva più niente da temere.
Il guerriero dell’antiterrorismo continuò:
«Il neurologo che la stava trattando si chiama Eric Ackermann e…»
«Me ne fotto della sua nuova personalità e di quelli che gliel’hanno confezionata. Lei sta tornando verso le sue origini. È questo l’importante. Cosa sai tu di Sema Gokalp? Cosa sai della ragazza turca che lei era?»
Charlier si agitò sulla poltrona. Sul collo, proprio sopra il colletto della camicia, le vene gli pulsavano:
«Ma… niente! Era solo un’operaia colpita da amnesia e…»
«Hai conservato i suoi vestiti, i suoi documenti, i suoi effetti personali?»
Negò, con un gesto:
«È stato tutto distrutto. Almeno credo.»
«Verifica.»
«È solo roba da operai. Non c’è niente d’interessante per…»
«Alza quel cazzo di telefono e verifica!»
Charlier prese la cornetta. Fece due telefonate, poi grugnì:
«Non ci posso credere. Quei coglioni hanno dimenticato di distruggere i vestiti.»
«Dove sono?»
«Al deposito della Cité. Beauvanier aveva rifilato alla ragazza degli altri stracci. Quelli del commissariato Louis-Blanc hanno spedito quelli vecchi alla prefettura. Nessuno ha pensato di recuperarli. Eccola la mia brigata d’élite.»
«A che nome sono registrati?»
«Direi Sema Gokalp. Quando facciamo delle cazzate le facciamo fino in fondo.»
Prese un modulo in bianco e cominciò a riempirlo. L’«apriti sesamo» per la prefettura.
«Due predatori per una stessa preda», pensò Schiffer.
Il commissario firmò il foglio e lo fece scivolare sul tavolo:
«Ti do tempo tutta la notte. Al minimo imbroglio chiamo quelli dell’Ispettorato generale.»
Lui si mise in tasca il lasciapassare e si alzò:
«Siamo tutti e due sulla stessa barca: non puoi farla affondare.»
Era arrivato il momento di liberarsi definitivamente del ragazzo.
Jean-Louis Schiffer risalì rue du Faubourg-Saint-Honoré, prese avenue Matignon, poi scorse una cabina telefonica sulla rotonda degli Champs-Elysées. Il suo cellulare era ancora scarico.
Dopo un solo squillo, Paul Nerteaux urlò:
«Santo dio Schiffer, dov’è?»
La sua voce tremava per la rabbia.
«Sono nell’ottavo arrondissement. Nel quartiere degli alti papaveri.»
«È quasi mezzanotte. Che cosa ha combinato? Sono stato ad aspettare al caffè Sancak e…»
«È una storia pazzesca, ma ho parecchie novità.»
«È in una cabina? Ne trovo una anch’io e la richiamo: la mia batteria è morta.»
Schiffer riagganciò e si chiese se le forze di polizia non stavano per fallire l’arresto del secolo per mancanza di ricariche di ioni di litio. Socchiuse la porta della cabina: il suo stesso odore di menta lo stava facendo asfissiare.
La notte era tiepida, senza pioggia né vento. Osservò i passanti, le gallerie commerciali, gli edifici in pietra. Tutta una vita di lusso e di agiatezza che a lui era stata negata, ma che forse era di nuovo a portata di mano…
Il telefono della cabina squillò, lui non lasciò a Nerteaux il tempo di parlare:
«Come sei messo con le tue pattuglie?»
«Ho due furgoni e tre radiomobili», rispose con orgoglio. «Ci sono settanta poliziotti dell’anticrimine che battono il quartiere. Tutta la zona è stata dichiarata “criminogena”. Ho consegnato gli identikit a tutti i commissariati e i posti di polizia del decimo arrondissement. Abbiamo passato uno per uno tutti i centri per immigrati, tutti i bar e tutte le associazioni. Non c’è nessuno nella Piccola Turchia che non abbia visto il ritratto. Adesso sto andando alla polizia del secondo arrondissement e…»
«Lascia perdere tutto.»
«Cosa?»
«Non è più tempo di giocare ai soldatini. Non è la faccia giusta.»
«COSA?»
Schiffer inspirò profondamente:
«La donna che stiamo cercando ha subito un’operazione di chirurgia estetica. È per quello che i Lupi grigi non la trovano.»
«Ha… ha le prove?»
«Ho persino il suo nuovo volto. Tutto coincide. Si è pagata un’operazione da diverse centinaia di migliaia di franchi per cancellare la sua vecchia identità. Ha totalmente cambiato il suo aspetto fisico: si è fatta i capelli scuri e ha perso venti chili. Poi, sei mesi fa, si è nascosta nello stesso quartiere turco.»
Ci fu un silenzio. Quando Nerteaux riprese la parola, la sua voce aveva perso diversi decibel:
«Chi… chi è quella donna? Dove ha trovato i soldi per l’operazione?»
«Non ne ho idea», mentì. «Ma non è una semplice operaia.»
«Cos’altro sa?»
Schiffer rifletté qualche istante. Poi rivelò tutto. L’incursione dei Lupi grigi, la preda sbagliata. Sema Gokalp in stato di choc. Il suo fermo al commissariato Louis-Blanc, poi il ricovero al Sainte-Anne. Il rapimento da parte di Charlier e il suo programma demenziale.
Infine, la nuova identità della donna: Anna Heymes.
Quando tacque, Schiffer credette di sentire il cervello del giovane poliziotto che lavorava a pieno regime. Se lo immaginava nella cabina telefonica, perduto da qualche parte nel decimo arrondissement, totalmente rintronato. Come lui. Due pescatori di corallo sospesi in gabbie solitarie, in mezzo all’abisso…
Poi, con tono scettico, Paul chiese:
«Chi le ha raccontato tutto questo?»
«Charlier in persona.»
«Ha vuotato il sacco?»
«Siamo due vecchi amici.»
«Fesserie.»
«Vedo che cominci a capire in che mondo vivi. Nel 1995, dopo l’attentato alla stazione Saint-Michel, alla Divisione antiterrorismo, che allora si chiamava ancora Sesta divisione, avevano i nervi a fior di pelle. Una nuova legge permetteva di prolungare il fermo di polizia, anche senza motivo. Un vero bordello; io c’ero. Ci furono retate in tutti gli ambienti islamici, soprattutto nel decimo arrondissement. Una notte Charlier è arrivato al Louis-Blanc. Era convinto di avere un indiziato, uno che si chiamava Abdel Saraoui. Si è accanito su di lui, a mani nude. Io ero nell’ufficio a fianco. Il ragazzo è morto il giorno dopo all’ospedale Saint-Louis, con il fegato spappolato. Stasera gli ho ricordato quei bei momenti.»
«Siete tutti talmente marci che arrivate persino a essere coerenti.»
«E cosa cambia? L’importante è ottenere buoni risultati.»
«È che mi immaginavo la mia crociata in modo un po’ diversa, tutto qui.»
Schiffer aprì la porta della cabina e prese una nuova boccata d’aria.
«E adesso», chiese Paul, «dove si trova Sema?»
«Questa è la ciliegina sulla torta, ragazzo mio. Ha appena preso il largo. Ha abbandonato la loro bella compagnia proprio ieri mattina. Credo che abbia capito l’inghippo. E poi sta ritrovando la memoria.»
«Merda…»
«È proprio come dici tu. C’è una donna che sta correndo per Parigi, con due identità, due gruppi di bastardi che le stanno alle calcagna e noi in mezzo. Secondo me, lei sta investigando su sé stessa. Sta cercando di sapere chi è veramente.»
Una nuova pausa all’altro capo del filo.
«Allora cosa facciamo?»
«Io ho fatto un patto con Charlier. L’ho convinto del fatto che io sono la persona più qualificata per scovare quella donna. Una ragazza turca è il mio campo. Mette la faccenda nelle mie mani per questa notte. Non sa che pesci pigliare. La sua operazione è illegale. Puzza di marcio lontano un chilometro. Ho il dossier della nuova Sema e due piste. La prima è per te, se tu sei ancora della partita.»
Sentì un fruscio di stoffe e di carta. Nerteaux stava tirando fuori il suo bloc-notes.
«Mi dica.»
«La chirurgia estetica. Sema si è affidata a uno dei migliori chirurghi plastici di Parigi. Dobbiamo ritrovarlo, quel tipo ha avuto un contatto con il vero bersaglio. Prima che cambiasse faccia. Prima che le facessero il lavaggio del cervello. Senza dubbio è l’unico in tutta Parigi che possa dirci qualcosa sulla vera donna che i Lupi grigi stanno cercando. Capisci o no?»
Nerteaux non rispose subito, stava probabilmente scrivendo.
«La lista comprenderà centinaia di nomi.»
«Niente affatto. Bisogna interrogare i migliori, i virtuosi. E tra loro, quelli senza scrupoli. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente. Hai tutta la notte per trovare il tipo. Alla velocità a cui stanno andando le cose, tra poco non saremo soli a seguire questa pista.»
«Allude alla gente di Charlier.»
«No. Charlier non sa neppure che Sema ha cambiato aspetto. Sto parlando dei Lupi grigi. È la terza volta che si sbagliano. Finiranno per capire che quella che cercano non è la faccia giusta. Penseranno alla chirurgia estetica e cercheranno il medico. Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento. Ti lascio il dossier della ragazza con la foto del suo nuovo volto in rue de Nancy. Passa a prenderlo e comincia il lavoro.»
«Do il ritratto alle pattuglie?»
A Schiffer vennero i sudori freddi:
«Assolutamente no. Devi mostrarlo solo ai medici, insieme al tuo identikit, capito?»
Il silenzio saturò nuovamente la linea.
Assomigliavano sempre più a dei sommozzatori persi negli abissi.
«E lei?» chiese Nerteaux.
«Io mi occupo della seconda pista. I ragazzi dell’antiterrorismo hanno dimenticato di distruggere i vecchi vestiti di Sema. Questo è un colpo di culo. Forse quegli abiti contengono un dettaglio, un indizio che ci condurrà alla donna iniziale.»
Guardò l’orologio: mezzanotte. Il tempo stringeva, ma voleva fare un’ultima verifica.
«Da parte tua niente di nuovo?»
«Ho messo il quartiere turco a ferro e fuoco, ma per il momento…»
«L’indagine di Naubrel e Matkowska non ha dato risultati?»
«Ancora niente.»
Nerteaux sembrava stupito da quella domanda. Il ragazzo probabilmente pensava che lui non fosse interessato alla pista delle camere iperbariche. Ma aveva torto. Fin dall’inizio, quella storia dell’azoto lo aveva intrigato.
Quando Scarbon aveva parlato di quella questione, aveva detto: «Io non sono un sub.» Ma Schiffer lo era. Aveva passato gli anni della sua giovinezza a sondare il Mar Rosso e il Mar della Cina. Aveva persino pensato di lasciare tutto e aprire una scuola di immersione nel Pacifico.
Sapeva dunque che l’alta pressione non provoca solo problemi di gas nel sangue, ma anche effetti allucinogeni, uno stato di delirio che tutti i sommozzatori conoscono con il nome di ebbrezza della profondità.
All’inizio dell’inchiesta, quando pensavano di dover inseguire un serial killer, Schiffer aveva fatto fatica a collocare quell’indizio: non capiva perché un assassino capace di massacrare una vagina con delle lame da rasoio perdesse poi del tempo per produrre bolle d’azoto nel sangue delle sue vittime. Non quadrava. Per contro, nell’ambito di un interrogatorio, quel delirio della profondità assumeva un senso.
Uno dei fondamenti della tortura consisteva nell’alternare caldo e freddo. Rifilare delle sberle, poi offrire una sigaretta. Dare delle scariche elettriche, poi proporre un panino. Era quasi sempre in quei momenti di calma che la gente crollava.
Con la camera iperbarica, i Lupi non avevano fatto altro che applicare quell’alternanza, spingendola al parossismo. Dopo i peggiori tormenti, avevano sottoposto la loro vittima a un rapido rilassamento, un’euforia improvvisa provocata dalla sovrapressione. Sicuramente speravano che la violenza del contrasto avrebbe fatto cedere la loro prigioniera, o forse credevano che il delirio avrebbe funzionato come siero della verità…
Dietro quella tecnica da incubo, Schiffer riconosceva il segno implacabile di un maestro di cerimonia. Un professionista della tortura.
Chi?
Scacciò la propria paura e disse:
«Di camere iperbariche a Parigi non devono essercene molte.»
«Quelli della polizia giudiziaria hanno visitato tutti i posti che potevano ospitare quel tipo di macchinario. Hanno interrogato gli industriali che effettuano test di resistenza. Siamo in un vicolo cieco.»
Schiffer sentiva un turbamento nella voce di Nerteaux. Gli stava nascondendo qualcosa? Non aveva tempo per approfondire.
«E le maschere antiche?» riprese.
«Anche questo la interessa?»
Lo scetticismo di Paul raddoppiò.
«Visto il contesto», replicò Schiffer, «mi interessa tutto. Uno dei Lupi potrebbe avere un’ossessione, una forma particolare di follia. A che punto sei su quella questione?»
«A un punto morto. Non ho avuto il tempo di avanzare. Non so neppure se il mio agente ha trovato altri siti archeologici e…»
Tagliò corto e concluse:
«Faremo il punto tra due ore. E trova il modo di ricaricare il tuo cellulare.»
Riagganciò. Per un attimo gli passò davanti agli occhi l’immagine di Nerteaux. Capelli da indiano, occhi color nocciola. Uno sbirro dal volto troppo fine, che non si radeva e si vestiva di nero per darsi un’aria da duro. Ma anche un poliziotto nato, malgrado la sua ingenuità.
Si rese conto che, in fondo, voleva bene a quel ragazzo. Si chiese se per caso non si stava rammollendo, se aveva fatto bene a portarlo dentro a quella che era diventata la sua indagine. Gli aveva detto troppe cose?
Uscì dalla cabina e fece segno a un taxi.
No. Aveva tenuto per sé la cosa più importante.
Salì sull’auto e diede l’indirizzo del Quai des Orfèvres.
Ormai sapeva chi era la preda e perché i Lupi grigi la cercavano.
Per la semplice ragione che lui stesso la stava braccando da dieci mesi.
Una scatola rettangolare di legno bianco, con sopra il sigillo della repubblica in cera rossa. Schiffer soffiò via la polvere dal coperchio e si disse che le sole prove dell’esistenza di Sema Gokalp erano ora in quella specie di bara.
Tirò fuori il suo coltellino svizzero, infilò la lama sotto il sigillo, fece saltare la crosta rossa e sollevò l’assicella. Ne uscì un odore di muffa. Come vide i vestiti, fu assalito da un’assoluta certezza: lì dentro c’era qualcosa per lui.
Istintivamente gettò uno sguardo alle sue spalle. Era nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, nella cabina dalle tende luride, dove i detenuti appena liberati controllano gli effetti personali che vengono loro restituiti.
Il luogo ideale per esumare un cadavere.
Come prima cosa trovò una blusa bianca e una charlotte di carta pieghettata: l’uniforme regolamentare delle operaie di Gurdilek. Poi degli abiti civili: una lunga gonna verde pallido, un cardigan fatto all’uncinetto, una camicetta blu ardesia con il colletto tondo. Delle stoffe da quattro soldi che venivano direttamente dai magazzini TATI.
Quei vestiti erano di foggia occidentale, ma le loro linee, i loro colori e soprattutto i loro abbinamenti ricordavano l’aspetto di quei contadini turchi che portavano ancora i pantaloni a sbuffo malva e camicioni color pistacchio o color limone. Sentì crescere in sé un desiderio sinistro, accentuato ancor più dall’idea di messa a nudo, di umiliazione, di povertà asservita. Il corpo pallido che immaginava sotto quei tessuti lo eccitava terribilmente.
Passò alla biancheria intima. Un reggiseno color carne. Una paio di culottes nere, lise, chiazzate per l’usura. La taglia di quegli indumenti lasciava immaginare misure da adolescente. Pensò ai tre cadaveri: anche larghe, seni pesanti. La donna non si era accontentata di cambiare faccia: aveva scolpito il suo corpo fino alle ossa.
Proseguì la ricerca. Scarpe bucate, collant consunti, e un cappotto di montone liso come il resto. Le tasche erano state svuotate. Tastò il fondo della scatola nella speranza che il loro contenuto fosse stato raggruppato altrove. Un sacchetto di plastica confermò la sua ipotesi. Un mazzo di chiavi, un carnet di biglietti, prodotti di bellezza importati da Istanbul…
Si dedicò al mazzo di chiavi. Le chiavi erano la sua passione. Ne conosceva di tutti i tipi: chiavi piatte, a diamante, a pompa… Ed era egualmente esperto di serrature. Quei meccanismi gli ricordavano le articolazioni umane: quelle che lui amava storcere e controllare.
Osservò le due chiavi nell’anello. Una apriva una serratura semplice; quasi certamente quella di un ostello, di una camera d’albergo o di un appartamento miserabile, occupato ormai da tempo da altri turchi. La seconda, una chiave piatta, era senza dubbio quella del chiavistello superiore della stessa porta,
Roba senza interesse.
Schiffer soffocò una bestemmia: il suo bottino era ridicolo. Quegli oggetti, quei vestiti, disegnavano il profilo di un’operaia anonima. Persino troppo anonima. Tutto ciò sapeva di travestimento, di caricatura.
Era certo che Sema Gokalp avesse un nascondiglio. Quando si è capaci di cambiare faccia, di perdere venti chili, di adottare volontariamente l’esistenza sotterranea di una schiava, si mette sempre in salvo qualcosa.
Schiffer si ricordò delle parole di Beauvanier. Abbiamo trovato il suo passaporto cucito nella gonna. Tastò ogni vestito. Si soffermò sulla fodera del cappotto; lungo l’orlo inferiore, le sue dita si fermarono su un rigonfiamento. Una gobba dura, allungata, dentellata.
Strappò la stoffa e scosse il cappotto.
Nella sua mano cadde una chiave.
Una chiave a gambo forato, con sopra inciso un numero: 4C 32.
«Scommetto cento contro uno che si tratta di un armadietto al deposito bagagli», pensò.
«No, non è di un deposito bagagli. Adesso per quello si usano le combinazioni.»
Cyril Distras era un fabbro geniale, specializzato in serrature. Una volta, Jean-Louis Schiffer aveva scoperto il suo portafoglio sul luogo di un furto con scasso dove una cassaforte ritenuta inviolabile era stata aperta con grande virtuosismo. Allora era andato a cercare il proprietario della carta d’identità e aveva trovato quel giovane biondo, irsuto e miope. Rendendogli i documenti lo aveva avvisato: «Con un nome così, dovresti fare più attenzione.» Poi Schiffer aveva chiuso un occhio sul furto, in cambio di una litografia originale di Bellmer.
«Allora cos’è?»
«Un self-stockage.»
«Un cosa?»
«Un posto dove uno deposita i suoi mobili e le sue cose.»
Da quella notte, Distras non rifiutava nulla a Schiffer. Apertura di porte senza mandato, forzatura di serrature per accertare la flagranza di reato, scasso di casseforti per scovare documenti compromettenti. Quel ladro era una splendida alternativa alle autorizzazioni legali.
«Non riesci a dirmi niente di più?»
Distras inclinò la chiave sotto la lampada. Era uno scassinatore davvero unico: appena si avvicinava a una serratura, avveniva il miracolo. Una vibrazione, un tocco. Era un mistero che si metteva al lavoro. Schiffer non si stancava di osservarlo all’opera. Gli sembrava di scoprire un lato nascosto della natura. L’essenza stessa di un dono inspiegabile.
«Surger», disse l’altro. «Si vedono le lettere in filigrana sul taglio.»
«Conosci il posto?»
«Lo credo bene. Ho parecchia roba nascosta laggiù. È accessibile giorno e notte.»
«Dov’è?»
«Château-Landon. Rue Girard.»
Schiffer inghiottì la saliva. Gli parve bollente.
«Per entrare bisogna digitare un codice?»
«AB 756. La tua chiave ha il numero 4C 32. Quarto livello. Il piano dei minibox.»
Cyril Distras alzò la testa e si sistemò gli occhiali. La sua voce divenne cantilenante:
«Il piano dei piccoli tesori nascosti…»
L’edificio dominava i binari della Gare de l’Est, imponente e solitario come un cargo quando entra in porto. Con i suoi quattro piani, l’immobile dava l’impressione di esser stato rinnovato e ridipinto da poco. Un’isola di pulizia dove custodire beni in transito.
Schiffer superò la prima barriera e attraversò il parcheggio.
Erano le due del mattino e si aspettava di veder spuntare da un momento all’altro una sentinella in tuta nera con il marchio SURGER, con un cane feroce e un manganello elettrico.
Invece, non venne nessuno.
Compose il codice e superò la porta a vetri. In fondo all’atrio, sprofondato in uno strano alone rosso, vide un corridoio in cemento punteggiato di serrande metalliche; ogni venti metri, l’asse principale era attraversato da corsie laterali che lasciavano indovinare un labirinto di compartimenti.
Continuò dritto avanti a sé, sotto le luci d’emergenza, fino a raggiungere, al fondo, una scala. Ogni suo passo su quel cemento grigio provocava un rumore sordo, quasi impercettibile. Schiffer assaporava quel silenzio, quella solitudine, quella miscela di tensione e potere tipica dell’intruso.
Arrivò al quarto livello e si fermò. Lì si apriva un altro, corridoio, dove i box erano più fitti. Il piano dei piccoli tesori nascosti. Schiffer frugò nella tasca e tirò fuori la chiave. Lesse i numeri sulle saracinesche, si perse, infine trovò il 4C 32.
Prima di azionare la serratura, rimase un attimo immobile. Poteva quasi sentire, dietro la paratia, la presenza dell’Altra, di colei che non aveva ancora nome.
Si inginocchiò, girò la chiave, poi, con un movimento secco, alzò la serranda di ferro.
Nella penombra, gli si presentò davanti una cella di un metro per un metro. Afferrò la torcia elettrica che aveva preso a Distras e vide, al fondo, uno scatolone.
L’Altra era sempre più vicina.
Aprì la scatola, si mise la torcia tra i denti e cominciò a frugare.
Dei vestiti. Uniformemente scuri, firmati da grandi stilisti. Issey Miyake. Helmut Lang. Fendi. Prada… Le sue mani incontrarono della biancheria intima. Un chiarore nero: fu questa l’idea che nacque in lui. Il tessuto era d’una dolcezza, d’una sensualità quasi indecente. I pizzi sembravano fremere al contatto con le dita… Questa volta, niente desiderio, niente erezione: la raffinatezza, l’orgoglio subdolo di quella lingerie gli toglievano la voglia.
Proseguì e scovò, avvolta in un pezzo di seta, una nuova chiave.
Una chiave strana, rudimentale, a gambo piatto.
Nuovo lavoro per Distras.
Gli mancava un’ultima certezza.
Tastò ancora, sollevò, rovesciò.
All’improvviso, una spilla d’oro a forma di papavero entrò nel fascio luminoso della lampada, come uno scarabeo magico. Posò la lampada bagnata di saliva, sputò, poi, nell’oscurità, mormorò:
«Allah sukur! Sei tornata.»