SETTE

38.

La suoneria del telefono gli esplose nelle orecchie.

«Pronto?»

Nessuna risposta. Eric Ackermann riagganciò, lentamente, poi guardò l’orologio: le quindici. Era la dodicesima chiamata anonima dal giorno prima. L’ultima volta che aveva sentito una voce umana era stato il mattino precedente, quando Laurent Heymes l’aveva chiamato per avvertirlo della fuga di Anna. Quando aveva cercato di contattarlo a sua volta, nel pomeriggio, non aveva avuto risposta a nessun numero. Era già troppo tardi per Laurent?

Aveva cercato altri contatti; invano.

La prima telefonata anonima l’aveva ricevuta la sera stessa della fuga. Aveva immediatamente guardato dalla finestra: davanti a casa sua, in avenue de Trudaine, c’erano due sbirri. La situazione era dunque chiara: lui non era più l’uomo che deve essere chiamato, il collega che deve essere informato. Adesso era uno da sorvegliare, un nemico da controllare. In qualche ora era stata eretta intorno a lui una barriera. E lui ormai si trovava dalla parte sbagliata della frontiera, dalla parte dei responsabili del disastro.

Si alzò e si diresse verso la finestra della sua camera. I due poliziotti erano sempre di guardia davanti al liceo Jacques-Decourt. Guardò i terrapieni erbosi che dividevano il viale per tutta la sua lunghezza, guardò le piante che vi crescevano, ancora nude nell’aria piena di sole, guardò le strutture grigie del chiosco di square d’Anvers. Non passava una macchina e la via sembrava, come al solito, una strada dimenticata.

Gli venne in mente una frase: «Se il pericolo è concreto, l’afflizione è fisica, se invece è istintuale l’afflizione è psicologica.» Chi l’aveva scritto? Freud? Jung? In che forma si sarebbe manifestato, per lui, il pericolo? L’avrebbero ucciso per la strada? Lo avrebbero sorpreso nel sonno? O semplicemente l’avrebbero incarcerato in una prigione militare? Lo avrebbero torturato per ottenere tutti i documenti riguardanti il programma?

Aspettare. Doveva aspettare la notte per mettere in atto il suo piano.

Restando in piedi vicino al vano della finestra, decise di percorrere a ritroso, con la mente, il cammino che lo aveva condotto fin là, nell’anticamera della morte.

Tutto era cominciato con la paura.

Tutto sarebbe finito con essa.


La sua odissea era iniziata nel giugno del 1985, quando era entrato a far parte dell’équipe del professor Wayne C. Drevets, dell’Università Washington di Saint Louis, nello stato del Missouri. Quegli scienziati si erano prefissi un obiettivo ambizioso: localizzare, grazie alla tomografia a emissione di positroni, la zona della paura all’interno del cervello. Per raggiungere quel risultato, avevano messo a punto un severo protocollo per suscitare il terrore in soggetti volontari. Apparizione di serpenti, minacce di scariche elettriche che sarebbero diventate sempre più forti quanto più si sarebbero fatte attendere…

Alla fine di numerosi test, avevano trovato quell’area misteriosa. Era collocata nel lobo temporale, all’estremità del circuito limbico, in una piccola regione chiamata l’amigdala, una sorta di nicchia che corrisponde al nostro «archeocervello». La parte più antica del nostro organo, quella che l’uomo condivide con i rettili, quella che ospita tanto l’istinto sessuale quanto l’aggressività.

Ackermann si ricordava di quei momenti esaltanti. Per la prima volta poteva vedere, sugli schermi dei computer, le zone cerebrali che si attivavano. Per la prima volta osservava il pensiero in funzione, sorpreso nei suoi ingranaggi più segreti. Ora lo sapeva, aveva ritrovato la rotta e il vascello. La camera a positroni sarebbe stato il veicolo del suo viaggio nella mente umana.

Sarebbe diventato uno di quei pionieri, un cartografo del cervello.

Tornato in Francia, aveva redatto una domanda di fondi e l’aveva indirizzata all’INSERM, l’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica, al CNRS, alla Scuola superiore di alti studi in scienze sociali, e a diverse università e ospedali di Parigi, cercando così di moltiplicare le proprie possibilità di ottenere un finanziamento.

Era passato un anno e non aveva ottenuto nessuna risposta. Allora si era esiliato in Gran Bretagna e si era inserito nel gruppo del professor Anthony Jones, all’Università di Manchester. Con questa nuova équipe, si era imbarcato per un’altra regione neuronale, quella del dolore.

Ancora una volta aveva partecipato a una serie di analisi su soggetti che avevano accettato di subire stimoli dolorosi. Ancora una volta aveva visto accendersi sui monitor una regione inesplorata: il paese della sofferenza. Non si trattava di un territorio concentrato, ma di un insieme di punti che si attivavano simultaneamente, una sorta di ragnatela che si sviluppava attraverso tutta la corteccia.

Un anno più tardi, il professor Jones scriveva sulla rivista «Science»: «Una volta registrata dal talamo, la sensazione del dolore è orientata dal cingolo e dalla corteccia frontale verso il più o il meno negativo. Solo allora quella sensazione diviene sofferenza.»

La scoperta era di importanza capitale. Confermava l’importante ruolo della riflessione nella percezione del dolore. Dal momento che il cingolo funzionava come un selettore di associazioni, si poteva attenuare la sensazione di sofferenza grazie a una serie di esercizi puramente psicologici, si poteva cioè orientarlo e diminuire la sua risonanza nel cervello. Ad esempio, nel caso di una bruciatura, bastava pensare al sole, e non alla pelle carbonizzata, perché il dolore diminuisse… La sofferenza poteva essere combattuta dalla mente: era la stessa topografia del cervello a dimostrarlo.

Ackermann era tornato in Francia sovraeccitato. Si immaginava già alla guida di un gruppo di ricerca multidisciplinare, una superstruttura che avrebbe riunito cartografi, neurologi, psichiatri, psicologi… Ora che il cervello consegnava le sue chiavi fisiologiche, diveniva possibile una collaborazione tra tutte le discipline. Il tempo delle rivalità era passato: bastava guardare la carta e unire le forze!

Ma le sue richieste di fondi erano rimaste lettera morta. Disgustato, disperato, era finito in un laboratorio minuscolo, a Maison-Alfort, dove era ricorso alle anfetamine per ritrovare il morale. Ben presto, gonfio di pastiglie di benzedrina, si era persuaso che la sua richiesta era stata scartata per semplice ignoranza e non per indifferenza: i poteri del Petscan erano ancora troppo poco conosciutisi era deciso a pubblicare tutti gli studi internazionali riguardanti la cartografia del cervello in un solo libro esaustivo. Aveva ripreso i suoi viaggi: Tokyo, Copenaghen, Boston… Aveva incontrato neurologi, biologi, radiologi, aveva decrittato i loro articoli, ne aveva fatto degli estratti. Nel 1992 aveva pubblicato un lavoro di seicento pagine: Radiodiagnostica funzionale e geografia cerebrale, un vero atlante che rivelava un mondo nuovo, una singolare geografia, punteggiata di continenti, di mari, di arcipelaghi…

Malgrado il successo del libro presso la comunità scientifica internazionale, le autorità francesi continuavano a mantenere il silenzio. Peggio, erano state installate due camere a positroni, a Orsay e a Lione, e nessuno aveva pensato a lui. Non una sola volta era stato consultato. Esploratore senza vascello, Ackermann era sprofondato sempre più nel suo universo di sintesi. Di quel periodo si ricordava i voli che, sotto l’effetto dell’ecstasy, lo avevano portato al di là di sé stesso, ma anche i gorghi che gli avevano aperto il cranio durante trip andati male.

Era al fondo di uno di quegli abissi quando aveva ricevuto la lettera del Commissariato per l’energia atomica.

Dapprima aveva creduto che il suo delirio stesse continuando. Poi si era arreso all’evidenza: era una risposta positiva. Poiché l’utilizzo della camera a positroni costringeva a iniettare un tracciante radioattivo, il CEA si interessava ai suoi lavori. C’era persino una commissione scientifica che desiderava incontrarlo per vedere in che misura il CEA poteva impegnarsi finanziariamente nel programma.

Eric Ackermann si era presentato la settimana successiva presso la sede di Fontenay-aux-Roses. Sorpresa: il comitato d’accoglienza era composto essenzialmente da militari. Il neurologo aveva sorriso. Quelle uniformi gli ricordavano la stagione ruggente, nel 1968, quando era maoista e picchiava i celerini sulle barricate della rue Gay-Lussac. A quella visione si sentì più che mai gasato. Tanto più che si era caricato con una manciata di benzedrina per vincere la paura. Se bisognava convincere quegli uccellacci grigi, allora avrebbe saputo lui come parlare…

La sua relazione era durata diverse ore. Aveva cominciato spiegando come l’utilizzo del Petscan avesse permesso, nel 1985, di identificare la zona della paura e come, ora che quella regione era nota, si poteva creare una farmacopea specifica per attenuare l’influenza della paura stessa.

Aveva raccontato tutto ciò a dei militari.

Poi aveva descritto i lavori del professor Jones; aveva parlato di come questi avesse localizzato il circuito neuronale del dolore. Aveva precisato che sarebbe stato possibile limitare la sofferenza, unendo questa localizzazione con un opportuno condizionamento psicologico.

Aveva illustrato le sue conclusioni a un comitato di generali e di psicologi dell’esercito.

Aveva poi chiamato in causa altre ricerche: sulla schizofrenia, sulla memoria, sull’immaginazione…

Aiutandosi abbondantemente con i gesti, con le statistiche, con citazioni di articoli vari, aveva fatto loro balenare delle possibilità uniche: grazie alla cartografia cerebrale si sarebbe potuto osservare, controllare, modellare il cervello umano!

Un mese più tardi aveva ricevuto un’altra convocazione. Avevano accettato di finanziare il suo progetto, a condizione che si installasse all’istituto Henri-Becquerel, un ospedale militare con sede a Orsay. Avrebbe dovuto collaborare con i colleghi dell’esercito in un clima di totale trasparenza.

Ackermann era scoppiato a ridere: avrebbe lavorato per il Ministero della difesa! Lui, il puro prodotto della controcultura degli anni Settanta, lo psichiatra scoppiato che si teneva su a forza di anfetamine… Si era convinto che avrebbe saputo essere più furbo dei suoi finanziatori, che avrebbe saputo manipolarli senza essere manipolato.

Si sbagliava di grosso.


Il campanello del telefono risuonò di nuovo nella stanza.

Lui non si prese neppure la briga di rispondere. Aprì le tende e si affacciò alla finestra. Le sentinelle erano sempre là.

L’avenue de Trudaine offriva una delicata gamma di tinte marroni: colore del fango secco, dell’oro antico, di metalli invecchiati. Ogni volta, quella strada gli faceva pensare, chissà perché, a un tempio tibetano o cinese, la cui pittura scrostata, gialla o rossiccia, rivelava la superficie di un’altra realtà.

Erano le sedici e il sole era ancora alto.

All’improvviso decise di non attendere la notte.

Era troppo impaziente di fuggire.

Attraversò il salone, prese la sua sacca da viaggio e aprì la porta.

Tutto era cominciato con la paura.

Tutto sarebbe finito con essa.

39.

Attraverso la scala d’emergenza, scese nel garage del proprio condominio. Fermo sulla porta scrutò la zona oscura: vuota. Attraversò il parcheggio, poi aprì una porta in lamiera nera, nascosta dietro una colonna. Percorse interamente un corridoio e arrivò alla stazione del metrò Anvers. Gettò un’occhiata dietro di sé: nessuno lo seguiva.

Nell’atrio della stazione, la folla dei viaggiatori gli diede un senso di panico, poi riuscì a razionalizzare: tutta quella gente non faceva altro che favorire la sua fuga. Si aprì un varco senza rallentare, lo sguardo fisso su una nuova porta, dall’altra parte dello spazio di ceramica.

Là, vicino all’apparecchio automatico per le fototessere, fingendo di aspettare l’uscita delle proprie foto, cercò il passepartout che si era procurato. Dopo qualche esitazione, trovò la chiave giusta e aprì discretamente la porta sulla quale c’era scritto: RISERVATO AL PERSONALE.

Con sollievo ritrovò la solitudine. Nel corridoio aleggiava un odore insistente; un effluvio acre, pregnante, che non riusciva a identificare e che sembrava avvilupparlo interamente. Si infilò nel cunicolo, urtando con i piedi scatole marce, cavi dimenticati e contenitori metallici. Non cercò mai di accendere la luce. Triturò serrature, aprì chiavistelli, cancelli, porte piombate. Non si prendeva neppure la pena di richiuderle a chiave, ma le sentiva accumularsi dietro di sé, come altrettanti strati di protezione.

Infine, penetrò nelle viscere di un secondo parcheggio, collocato sotto square d’Anvers. La replica esatta del primo, eccetto per il colore verde chiaro del pavimento e dei muri. Era deserto. Riprese il suo cammino. Era in un bagno di sudore, scosso dal tremito, e si sentiva alternativamente gelare e bruciare. Non era solo l’angoscia, lui li conosceva quei sintomi: la crisi d’astinenza.

Poi, al numero 2033, vide la Volvo station wagon. Il suo aspetto imponente, la carrozzeria grigio metallizzato, la targa del dipartimento dell’Alto Reno gli procurarono una sensazione di conforto. Gli parve che tutto il suo organismo riuscisse a stabilizzarsi, a trovare un punto d’equilibrio.

Da quando Anna aveva manifestato i primi disturbi, aveva capito che la situazione andava aggravandosi. Più di chiunque altro, sapeva che quegli attacchi si sarebbero moltiplicati e che, presto o tardi, il progetto si sarebbe trasformato in una catastrofe. Allora aveva immaginato una soluzione di ripiego. In un primo tempo tornare nella propria regione d’origine, l’Alsazia. Non potendo cambiare nome, si sarebbe confuso con gli altri Ackermann della Terra; più di trecento nei soli dipartimenti del Basso e dell’Alto Reno. Poi ci sarebbe stata la vera partenza: Brasile, Nuova Zelanda, Malesia…

Tirò fuori dalla tasca il telecomando. Stava per azionarlo, quando una voce lo colpì alle spalle:

«Sei sicuro di non dimenticare niente?»

Si voltò e scorse una creatura nera e bianca, chiusa in un cappotto di velluto, a qualche metro da lui.

Anna Heymes.

Avvertì dapprima un’ondata di rabbia. Pensò a un uccello del malaugurio, a una maledizione che lo inseguiva. Ma si ricredette immediatamente: «Consegnarla a loro», si disse. «Consegnarla a loro è la tua sola salvezza.»

Lasciò la sua sacca e assunse un tono tranquillizzante:

«Anna, santo cielo, dov’eri? Ti stanno cercando tutti.»

Avanzò aprendo le braccia.

«Hai fatto bene a venire da me. Tu…»

«Non ti muovere.»

Si bloccò e lentamente, molto lentamente, si girò verso la nuova voce. Un’altra sagoma si staccò dalla colonna alla sua destra. Sentì un tale sbalordimento che la sua voce si fece rauca. Alla superficie della sua memoria stavano affiorando dei ricordi confusi. Conosceva quella donna.

«Mathilde?»

Lei si avvicinò senza rispondere. Con lo stesso tono inebetito ripeté:

«Mathilde Wilcrau?»

Mathilde si piantò davanti a lui, stringendo una pistola automatica nella mano guantata. Lui balbettò, passando lo sguardo dall’una all’altra:

«Voi… voi vi conoscete?»

«Quando non ci si fida più del neurologo dove si va? Dallo psichiatra.»

Come un tempo, lei allungava le sillabe in ondulazioni gravi. Come dimenticare quella voce? La sua bocca fu inondata da un fiotto di saliva. Una fanghiglia che aveva lo stesso gusto dell’aria puzzolente di poco prima. Questa volta lo identificò: era il gusto della paura; acre, profondo, malefico. Ed era lui la sorgente di quel gusto e di quell’odore. Lo trasudava da ogni poro della sua pelle.

«Mi avete seguito? Cosa volete?»

Anna si avvicinò. I suoi occhi indaco brillavano nella luce verdastra del parcheggio. Due occhi scuri come l’oceano, allungati, quasi asiatici. Sorridendo disse:

«Secondo te?»

40.

Nel campo delle neuroscienze, della neuropsicologia e della psicologia cognitiva io sono il migliore al mondo, o quantomeno uno dei migliori. Non è vanità, è semplicemente un fatto riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale. A cinquantadue anni sono quello che si dice un luminare, un punto di riferimento.

E tuttavia, sono diventato veramente importante quando ho abbandonato il mondo scientifico, quando sono uscito dai sentieri battuti per perdermi lungo una strada proibita. Solo in quel momento sono diventato un ricercatore importante, un pioniere che segnerà un’epoca.

Peccato che per me sia ormai troppo tardi…


Marzo 1994

Al termine di sedici mesi di esperimenti di tomografia sulla memoria, terza fase del programma «Memoria personale e memoria culturale», il ripetersi di certe anomalie mi induce a contattare i laboratori che, nell’ambito delle loro ricerche, utilizzano lo stesso tracciante radioattivo usato dalla mia équipe: l’Ossigeno-15.

Risposta unanime: non hanno notato niente di strano.

Non significa che io mi stia sbagliando. Significa che inoculo ai miei soggetti delle dosi superiori e che la particolarità dei miei risultati deriva proprio da quel dosaggio. Intuisco una verità: ho superato una soglia e quella soglia ha rivelato il potere della sostanza.

È troppo presto per pubblicare qualcosa. Mi accontento di redigere un rapporto e un bilancio della stagione appena trascorsa e lo invio ai miei finanziatori, il Commissariato per l’energia atomica. Nell’ultima pagina di una nota allegata, menziono il ripetersi di fatti originali notati nel corso dei test. Fatti che concernono l’influenza indiretta dell’O-15 sul cervello umano e che meriterebbero di essere oggetto di un programma specifico.

La reazione è immediata. Nel mese di maggio vengo convocato presso la sede del CEA. In una grande sala conferenze trovo ad attendermi una decina di specialisti. Capelli a spazzola, modi marziali: li riconosco alla prima occhiata. Sono i militari che mi hanno ricevuto due anni prima, quando ho presentato per la prima volta il mio programma di ricerca.

Comincio la mia relazione, con ordine:

«Il principio della tomografia a emissione di positroni consiste nell’iniettare un tracciante radioattivo nel sangue del soggetto. In quanto radioattivo, emette dei positroni che la camera capta in tempo reale, permettendo così di localizzare l’attività cerebrale. Per quanto mi concerne, io ho scelto un isotopo radioattivo classico, l’Ossigeno-15, e…»

Una voce mi interrompe:

«Nella sua nota lei parla di anomalie. Venga al dunque: che cos’è successo?»

«Ho constatato che, dopo i test, i soggetti confondevano i loro ricordi con gli aneddoti che erano stati loro raccontati durante la seduta.»

«Sia più preciso.»

«Diversi esercizi del mio protocollo consistono nella narrazione di storie immaginarie, piccoli fatti inventati che il soggetto deve poi riassumere oralmente. Dopo i test, i soggetti parlavano di quelle storie come di fatti veri. Erano tutti convinti di aver vissuto realmente quelle narrazioni.»

«Lei pensa che sia stato l’utilizzo dell’O-15 a provocare questo fenomeno?»

«Suppongo di sì. La camera a positroni non può avere effetto sullo stato cosciente: è una tecnica non invasiva. L’O-15 è il solo prodotto somministrato al soggetto.»

«Come spiega questa influenza?»

«Non la spiego. Può essere l’impatto della radioattività sui neuroni. O un effetto della molecola stessa sui neurotrasmettitori. È come se l’esperimento esaltasse la funzione del sistema cognitivo, rendendolo permeabile alle informazioni incontrate durante il test. Il cervello non sa più fare la differenza tra i dati immaginati e la realtà vissuta.»

«Lei pensa che sia possibile, grazie a questa sostanza, impiantare nella mente di un soggetto dei ricordi, diciamo… artificiali?»

«È molto più complesso di quanto…»

«Pensa che sia possibile o no?»

«Sì, si potrebbe pensare di lavorare in questa direzione.»

Silenzio. Un’altra voce:

«Durante la sua carriera, lei ha lavorato sulle tecniche di lavaggio del cervello, non è vero?»

Scoppio a ridere, nel vano tentativo di smorzare l’atmosfera da inquisizione:

«È stato più di vent’anni fa. Era per la mia tesi di dottorato!»

«Ha seguito i progressi che sono stati fatti in questo campo?»

«Più o meno, ma in questo settore ci sono molte ricerche non pubblicate. Lavori classificati come segreti di stato. Non so se…»

«Ci sono sostanze che potrebbero essere utilizzate efficacemente come paravento chimico per nascondere la memoria di un soggetto?»

«Sì, esistono diversi prodotti.»

«Quali?»

«State parlando di manipolazioni del…»

«Quali?»

Rispondo a malincuore:

«Attualmente si parla di sostanze come il GBH, il gamma-hyrossibutirato. Ma per raggiungere questo tipo di obiettivi conviene ancora utilizzare un prodotto più comune: il Valium, ad esempio.»

«Perché?»

«Perché il Valium, a determinate dosi subanestestiche, provoca non solo una parziale amnesia, ma anche degli automatismi. Il paziente diventa permeabile alla suggestione. E per di più conosciamo un antidoto: il soggetto può poi ritrovare la sua memoria.»

Silenzio. La prima voce:

«Ammettendo che un soggetto abbia subito un trattamento del genere, possiamo immaginare di iniettargli nuovi ricordi grazie all’Ossigeno-15?»

«Se voi contate su di me per…»

«Sì o no?»

«Sì.»

Nuovo silenzio. Tutti gli sguardi sono fissi su di me.

«Il soggetto non si ricorderebbe di niente?»

«No.»

«Né del primo trattamento a base di Valium, né del secondo a base di Ossigeno-15?»

«No. Ma è troppo presto per…»

«Oltre a lei, chi altri conosce questi effetti?»

«Nessuno. Ho contattato i laboratori che utilizzano quell’isotopo, ma non hanno notato niente e…»

«Sappiamo chi ha contattato.»

«Vuol forse dire che sono sotto sorveglianza?»

«Ha parlato a viva voce con i responsabili di questi laboratori?»

«No. Si è svolto tutto per e-mail. Io…»

«Grazie professore.»

Alla fine del 1994 stabiliscono un nuovo stanziamento. Per un programma interamente dedicato agli effetti dell’Ossigeno-I5. Ironia della sorte: io che avevo avuto tante difficoltà a trovare i mezzi finanziari per la ricerca che avevo progettato, presentato e difeso, ora mi vedo destinare dei fondi per un progetto che non avevo neppure immaginato.


Aprile 1995

L’incubo comincia. Ricevo la visita di un poliziotto, protetto da due gorilla vestiti di nero. Un colosso dai baffi grigi, con un elegantissimo abito di lana. Si presenta: Philippe Charlier, commissario. Sembra gioviale, sorridente, bonario, ma il mio istinto di vecchio hippy mi suggerisce di stare in guardia. Riconosco in lui quello che ti può spaccare la faccia, quello che seda le rivolte, il bastardo forte del suo diritto.

«Sono venuto a raccontarti una storia», mi dice. «Un ricordo personale. A proposito dell’ondata di attentati che ha seminato il panico in Francia tra il dicembre 1985 e il settembre 1986. Rue de Rennes, ti ricordi? In tutto tredici morti e duecentocinquanta feriti. In quel periodo lavoravo per la Direzione della sorveglianza del territorio. Ci hanno dato un appoggio illimitato. Migliaia di ragazzi, sistemi di intercettazione, fermo di polizia a tempo indeterminato. Abbiamo rivoltato i centri islamici, sconvolto le fila palestinesi, i circuiti libanesi, le comunità iraniane. Parigi era sotto il nostro completo controllo. Abbiamo persino promesso un premio da un milione di franchi a chiunque ci desse informazioni utili. Tutto questo per niente. Non abbiamo scovato un indizio, un’informazione. Niente. E gli attentati continuavano, uccidendo, ferendo, demolendo, senza che potessimo impedire il massacro.

«Un giorno, nel marzo ’86, è cambiato qualcosa e abbiamo arrestato in un solo colpo tutti i membri della filiera: Fouad Ali Salah e i suoi complici. Nascondevano le armi e gli esplosivi in un appartamento di rue de la Voûte, nel dodicesimo arrondissement. Il loro punto di incontro era un ristorante tunisino di rue de Chartres, nel quartiere de la Goutte d’Or. Sono stato io a dirigere l’operazione. Li abbiamo beccati tutti nel giro di qualche ora. Un lavoro pulito, senza sbavature. Dall’oggi al domani, gli attentati sono terminati. Sulla città è tornata la calma.

«Sai cos’è che ha reso possibile quel miracolo? Quel “non so che” che ha modificato tutta la situazione? Uno dei membri del gruppo, Lotfi ben Kallak, aveva semplicemente deciso di cambiare bandiera. Ci ha contattati e ci ha consegnato i suoi complici in cambio della ricompensa. Ha persino accettato di organizzare la trappola, dall’interno.

«Lotfi era pazzo. Nessuno rinuncia alla propria vita per qualche centinaia di migliaia di franchi. Nessuno accetta di vivere come una bestia braccata, di esiliarsi in capo al mondo sapendo che, presto o tardi, il castigo arriverà. Ma io ho potuto misurare l’impatto del suo tradimento. Per la prima volta eravamo all’interno del gruppo. Nel cuore del sistema, capisci? Da quel momento tutto è diventato chiaro, facile, efficace. Questa è la morale della mia storia. I terroristi hanno una sola forza: il segreto. Colpiscono ovunque, quando vogliono. Non c’è che un mezzo per fermarli: penetrare nel loro circuito. Penetrare il loro cervello. Solo allora, tutto diviene possibile. Come con Lotfi. E grazie a te ci riusciremo con tutti gli altri.»

Il progetto di Charlier è chiarissimo: trasformare, grazie all’Ossigeno-15, degli uomini vicini alle reti terroristiche, iniettare loro dei ricordi artificiali, ad esempio un motivo di vendetta, per convincerli a cooperare e a tradire i loro compagni.

«Il programma si chiamerà Morpho», spiega lui, «perché andremo a cambiare la morfologia psichica di un po’ di arabi. Modificheremo la loro personalità, la loro geografia cerebrale. Poi li ributteremo nel loro ambiente d’origine; come cani contaminati in mezzo alla muta.»

Con una voce da far gelare il sangue, conclude:

«La tua scelta è semplice. Da una parte, mezzi illimitati, soggetti a volontà, l’occasione di dirigere, in tutta segretezza, una rivoluzione scientifica. Dall’altra, il ritorno all’esistenza merdosa del ricercatore, la lotta per la grana, i laboratori sull’orlo del fallimento, le pubblicazioni oscure. Senza contare che noi porteremo avanti comunque gli esperimenti; daremo ad altri i tuoi lavori, i tuoi appunti, tutto. Puoi stare certo che quegli scienziati sapranno sfruttare l’azione dell’Ossigeno-15 e sapranno attribuirsi la paternità delle scoperte.»

Nei giorni che seguono prendo informazioni. Philippe Charlier è uno dei cinque commissari della Sesta divisione della Direzione centrale della polizia giudiziaria. Uno dei capi della lotta al terrorismo internazionale, che agisce sotto il controllo diretto di Jean-Paul Magnard, il direttore dell’Ufficio Sei.

All’interno della polizia è soprannominato «Il Gigante Verde», ed è noto per la sua ossessione per l’infiltrazione; ma anche per la violenza dei suoi metodi. Regolarmente messo da parte dallo stesso Magnard, anche lui conosciuto per la sua intransigenza, ma fedele ai metodi tradizionali e allergico a ogni sperimentazione.

Ma siamo nella primavera del ’95, e le idee di Charlier vengono prese in considerazione. Sulla Francia pesa la minaccia di una rete terroristica. Il 25 luglio scoppia una bomba nella stazione RER Saint-Michel e uccide dieci persone. I sospetti cadono sui membri del GIA, ma non esiste l’ombra di una pista per fermare quest’ondata di attentati.

Il Ministero della difesa, insieme con il Ministero degli interni, decidono di finanziare il progetto Morpho. Anche se l’operazione non potrà essere utilizzata nell’immediato, è tempo di usare nuove armi contro il terrorismo internazionale.

Alla fine del 1995, Philippe Charlier mi fa di nuovo visita e parla di scegliere una cavia tra le centinaia di islamici arrestati nel quadro del piano Vigipirate.

È in quel momento che Magnard ottiene una vittoria decisiva. Sulla linea del TGV viene trovata una bombola di gas; la gendarmeria di Lione si appresta a farla esplodere, ma Magnard chiede di analizzarla. Ci trovano sopra le impronte digitali di un sospetto, Khaled Kelkal, che si rivela essere uno degli autori dell’attentato. Il seguito appartiene alla storia, ai media: Kelkal, inseguito come una bestia nei boschi della regione lionese, viene ucciso il 29 settembre, poi la rete viene smantellata.

È il trionfo di Magnard e dei metodi all’antica.

Fine del dossier Morpho.

Uscita di scena di Charlier.

Ciononostante, i fondi vengono stanziati ugualmente. I ministeri incaricati della sicurezza mi mettono a disposizione mezzi consistenti per proseguire i miei lavori. Fin dal primo anno, i risultati dimostrano che avevo visto giusto. È proprio l’Ossigeno-15, iniettato a forti dosi, che rende i neuroni permeabili ai ricordi artificiali. Sotto la sua influenza, la memoria diventa porosa, lascia filtrare elementi di finzione e li integra come realtà.

Il mio protocollo si perfeziona. Lavoro su diverse decine di pazienti, soldati volontari forniti dall’esercito. Si tratta di condizionamenti di debolissima entità. Un solo ricordo artificiale per volta. Dopo, aspetto diversi giorni per accertarmi che «l’innesto» abbia attecchito.

Rimane da tentare un ultimo esperimento: occultare la memoria di un soggetto e poi impiantargli dei ricordi completamente nuovi. Non ho fretta di tentare un tale lavaggio. Tanto più che la polizia e l’esercito sembrano dimenticarmi. In quegli anni, Charlier è relegato a inchieste sul campo, tagliato fuori dalle sfere del potere. Magnard regna incontrastato, con i suoi principi tradizionali. Ho la speranza che mi lascino stare definitivamente. Sogno un ritorno alla vita da civile, una pubblicazione ufficiale dei miei risultati, un’applicazione sana dei miei esperimenti…

Tutto questo sarebbe possibile senza l’11 settembre 2001. Gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono.

Il soffio dell’esplosione polverizza su scala mondiale le certezze delle polizie, le tecniche di investigazione e di controspionaggio. I servizi segreti, le agenzie informative, le polizie e gli eserciti dei paesi minacciati da Al-Quaeda sono in fibrillazione. I responsabili politici sono sbigottiti. Ancora una volta, il pericolo terrorista ha dimostrato la sua forza più grande: il segreto.

Si parla di guerra santa, di minaccia chimica, di allerta atomica…

Philippe Charlier torna in prima linea. È l’uomo della rabbia, dell’ossessione. Una figura forte, dai metodi oscuri, violenti, ma efficaci. Il dossier Morpho viene riesumato. Parole prima disprezzate ora tornano su tutte le labbra: condizionamento, lavaggio del cervello, infiltrazione…

A metà novembre Charlier sbarca all’istituto Henri-Becquerel. Con un grande sorriso annuncia:

«Eccoci di nuovo qui!»

Mi invita al ristorante. Una bettola con cucina lionese: cotechino e vino di Borgogna. L’incubo ricomincia, in mezzo agli odori di grasso e di sanguinaccio.

«Sai qual è il budget annuale della CIA e dell’FBI?» mi chiede.

Dico di no.

«Trenta miliardi di dollari. Hanno satelliti, sottomarini spia, sistemi automatici di riconoscimento, centri di intercettazione mobili. Dispongono della tecnologia più raffinata nel campo della sorveglianza elettronica. Senza contare la National Security Agency e le sue possibilità. Sulla Terra il segreto non esiste più. Se ne è parlato parecchio. Tutto il mondo si è preoccupato. Hanno persino evocato lo spettro del Grande Fratello… Solo che c’è stato l’11 settembre. Un gruppo di ragazzotti armati di coltelli di plastica è riuscito a distruggere le torri del World Trade Center e un bel pezzo del Pentagono, ottenendo un punteggio di circa tremila morti. Gli americani ascoltano tutto, captano tutto, salvo le persone realmente pericolose.»

Il Gigante Verde non ride più. Volge lentamente il palmo delle mani all’insù, sopra il suo piatto:

«Ti immagini i due piatti della bilancia? Da una parte, trenta miliardi di dollari. Dall’altra dei coltelli di plastica. Cos’è che fa la differenza, secondo te? Cos’è che fa pendere questa cazzo di bilancia?»

Tira un pugno sul tavolo.

«La volontà. La fede. La follia. Di fronte al dispiegamento di tecnologie, alle migliaia di agenti americani, una manciata di uomini determinati ha potuto sottrarsi a ogni sorveglianza. Perché nessuna macchina sarà mai forte come un cervello umano. Perché nessun funzionario che conduca una vita normale, che abbia ambizioni normali, potrà mai beccare un fanatico che se ne fotte della propria vita, che si immola per una causa superiore.»

Si ferma, riprende fiato, poi prosegue:

«I piloti kamikaze dell’11 settembre si erano depilati. Tu sai perché? Per essere perfettamente puri al momento di entrare in paradiso. Contro dei bastardi così, non possiamo fare niente. Né spiarli, né comprarli, né capirli.»

I suoi occhi brillano di un bagliore ambiguo.

«Te lo ripeto: c’è un solo modo per prendere questi fanatici. Trasformare uno di loro. Convertirlo per leggere la loro follia. Solo allora ci si potrà battere.»

Il Gigante Verde pianta i gomiti sulla tovaglia, appoggia le labbra sul suo bicchiere di rosso, poi alza i baffi in un sorriso:

«Ho una buona notizia per te. Da oggi il progetto Morpho riparte. Ti ho persino trovato un candidato», ghigna. «Anzi: una candidata.»

41.

«Io.»

La voce di Anna rimbalzò sul cemento come una pallina da ping-pong. Eric Ackermann le rivolse un debole sorriso. Era quasi un’ora che parlava senza fermarsi, seduto nella Volvo station wagon, la portiera aperta, le gambe fuori. Aveva la gola secca e avrebbe dato qualunque cosa per un bicchiere d’acqua.

Anna Heymes rimaneva immobile contro la colonna, come fosse un delicato graffito fatto con l’inchiostro di china. Mathilde Wilcrau continuava a fare avanti e indietro per azionare l’interruttore a tempo ogni volta che i neon si spegnevano.

Parlando, lui guardava l’una e l’altra. La piccola, pallida e nera, malgrado la sua giovane età, gli pareva d’una rigidità antica, quasi minerale. Al contrario, quella alta era vegetale, vibrante di una freschezza intatta. Mostrava ancora quella bocca troppo rossa, quei capelli troppo neri, quel contrasto di colori crudi che ricordava un banco del mercato.

Come poteva avere simili pensieri in quel momento? Sicuramente gli uomini di Charlier stavano battendo il quartiere palmo a palmo, assieme ai poliziotti del distretto, tutti alla sua ricerca. Battaglioni di poliziotti armati che volevano solo fargli la pelle. E quel bisogno di droga che aumentava, che si sommava alla sete toccando ogni particella del suo corpo…

Con tono più grave, Anna ripeté:

«Io…»

Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ackermann si arrischiò:

«Posso averne una?»

Lei accese la sua Marlboro poi, dopo una piccola esitazione, gliene offrì una. Nel momento in cui fece scattare l’accendino cadde l’oscurità. La fiamma penetrò il buio e impresse la scena come un negativo. Mathilde azionò di nuovo l’interruttore.

«Il seguito, Ackermann. Ci manca l’elemento principale: chi è Anna?»

Il tono era sempre minaccioso, ma privo di collera o di odio. Lui ora sapeva che le due donne non l’avrebbero ucciso. Non ci si improvvisa assassini. La sua confessione era volontaria e gli dava sollievo. Attese che il gusto del tabacco bruciato gli riempisse la gola, poi rispose:

«Io non so tutto, anzi… Da quello che mi hanno detto, tu ti chiami Sema Gokalp. Sei turca, operaia clandestina. Vieni dalla regione di Gaziantep, nel Sud dell’Anatolia. Lavori nel decimo arrondissement. Ti hanno portata all’istituto Henri-Becquerel il 16 novembre 2001, dopo un breve ricovero all’ospedale Sainte-Anne.»

Anna rimaneva impassibile, sempre appoggiata alla colonna. Le parole sembravano attraversarla senza effetti apparenti, come un bombardamento di particelle: invisibile ma mortale.

«Mi avete rapita?»

«Direi piuttosto trovata. Non so come sia successo. Uno scontro tra turchi, un saccheggio in un laboratorio del quartiere Strasbourg-Saint-Denis. Una storia di racket, non so esattamente. Quando i poliziotti sono arrivati, nel laboratorio non c’era più nessuno. Solo tu. Eri nascosta in un angolino…»

Respirò una boccata. Malgrado la nicotina, l’odore della paura persisteva.

«La questione è venuta alle orecchie di Charlier. Ha capito subito di avere in mano il soggetto ideale per tentare il progetto Morpho.»

«Perché “ideale”?»

«Senza permesso di soggiorno, senza famiglia, senza legami. E soprattutto in stato di choc.»

Ackermann lanciò un’occhiata a Mathilde; un’occhiata da specialista. Poi tornò ad Anna:

«Non so cosa tu abbia visto quella notte, ma doveva essere qualcosa di atroce. Eri completamente traumatizzata. Le tue membra erano ancora anchilosate per la catalessi tre giorni dopo il fatto. Sobbalzavi al minimo rumore. Ma la cosa più interessante è che il trauma ti aveva confuso la memoria. Sembravi incapace di ricordarti il tuo nome e quei pochi dati scritti sul tuo passaporto. Non la smettevi di mormorare parole senza senso. Quell’amnesia mi preparava il terreno. Avrei potuto impiantarti più rapidamente dei nuovi ricordi. Una cavia perfetta.»

Anna gridò:

«Bastardo!»

Lui annuì, chiudendo gli occhi, poi si riprese e, fedele al proprio ruolo, aggiunse con cinismo:

«E in più, tu parlavi un francese impeccabile. È stato questo dettaglio a dare l’idea a Charlier.»

«Quale idea?»

«All’inizio volevamo soltanto iniettare dei frammenti artificiali nella testa di un soggetto straniero, uno che fosse di una cultura differente. Volevamo vedere che risultati avrebbe dato. Ad esempio, modificare il credo religioso di un musulmano. O instillargli una ragione di risentimento. Ma con te si aprivano altre possibilità. Parlavi perfettamente la nostra lingua. Il tuo fisico era quello di un’europea scura di carnagione. Charlier ha puntato più in alto: un condizionamento totale. Cancellare la tua personalità e la tua cultura e sostituirla con un’identità da occidentale.»

Si fermò. Le due donne rimasero in silenzio. Un tacito invito a proseguire:

«In primo luogo ho reso più profonda la tua amnesia iniettandoti un sovradosaggio di Valium. Poi mi sono dedicato al lavoro di condizionamento vero e proprio. La costruzione di una nuova personalità. Sotto l’effetto dell’Ossigeno-15.»

Mathilde, con voce interessata, chiese:

«In che cosa consisteva?»

Una nuova boccata, poi, senza riuscire a staccare gli occhi da Anna, rispose:

«Essenzialmente nell’esporre delle informazioni. Sotto tutte le forme. Discorsi. Immagini filmate. Suoni registrati. Prima di ogni seduta, ti iniettavo la sostanza radioattiva. I risultati erano incredibili. Nel tuo cervello, ogni dato si trasformava in un ricordo reale. Giorno per giorno, diventavi sempre più la vera Anna Heymes.»

La giovane donna si staccò dal pilastro:

«Vuoi dire che lei esiste veramente

L’odore interno era sempre più forte, sapeva ormai di marcio. Sì, stava marcendo lì, sul posto. Mentre l’astinenza da anfetamine alzava una lenta ondata di panico dal fondo del suo cranio.

«Bisognava riempire la tua memoria con un insieme coerente di ricordi. Il sistema migliore era quello di scegliere una persona esistente e utilizzare la sua storia, le sue foto, i suoi filmati. Ecco perché abbiamo scelto Anna Heymes: avevamo tutto questo materiale.»

«Lei chi è? Dov’è la vera Anna Heymes?»

Si sistemò gli occhiali sul naso, poi rispose:

«Qualche metro sottoterra. È morta. La moglie di Heymes si è suicidata sei mesi fa. Potremmo dire che c’era un posto libero. Tutti i tuoi ricordi appartengono alla sua storia. I genitori morti. I parenti nel Sud-Ovest. Il matrimonio a Saint-Paul-de-Vence. La laurea in legge.»

In quel momento, la luce si spense. Mathilde riaccese. Il ritorno della sua voce coincise con quello della luce:

«Avevate intenzione di abbandonare una donna così in un ambiente turco?»

«No. Non avrebbe avuto senso. Era un’operazione fine a sé stessa. Un tentativo di condizionamento… totale. Per vedere fino a dove potevamo arrivare.»

«E alla fine», chiese Anna, «cosa avreste fatto di me?»

«Non ne ho alcuna idea. Non dipendeva più da me.»

Una menzogna in più. Certo che sapeva cosa ne avrebbero fatto. Cosa fare di una cavia così ingombrante? Lobotomia o eliminazione. Quando Anna riprese la parola, diede l’impressione di aver colto quella sinistra realtà. La sua voce era fredda come una lama:

«Chi è Laurent Heymes?»

«Esattamente ciò che dice di essere: il direttore del Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni.»

«Perché si è prestato a questa mascherata?»

«È tutta colpa di sua moglie. Era in stato di depressione, incontrollabile. Negli ultimi tempi, Laurent aveva tentato di farla lavorare. Una missione particolare, presso il Ministero della difesa, roba che riguardava la Siria. Anna ha rubato dei documenti. Ha cercato di venderli alle autorità di Damasco, per scappare chissà dove. Una pazza. L’affare è stato scoperto. Anna è crollata e si è suicidata.»

Mathilde incalzò:

«E questa storia rimaneva uno strumento di pressione su Laurent Heymes anche dopo la morte di lei?»

«Lui aveva paura dello scandalo. La sua carriera sarebbe stata annientata. Un alto funzionario sposato con una spia… Su quell’affare, Charlier aveva un dossier completo. Teneva in pugno Laurent e tutti gli altri.»

«Gli altri?»

«Alain Lacroux, Pierre Carcilli, Jean-François Gaudemer», elencò voltandosi verso Anna. «I sedicenti funzionari che cenavano con te.»

«Chi sono?»

«Dei pagliacci, dei poliziotti corrotti di cui Charlier sa tutto. Erano obbligati a partecipare a quelle carnevalate.»

«Perché fare quelle riunioni?»

«È stata un’idea mia. Volevo che tu ti potessi confrontare con il mondo esterno, volevo osservare le tue reazioni. Abbiamo filmato tutto. Le conversazioni sono state registrate. Devi capire che tutta la tua esistenza era fasulla: il palazzo di avenue Hoche, la portinaia, i vicini… Era tutto sotto il nostro controllo.»

«Un topo da laboratorio.»

Ackermann si alzò e cercò di fare qualche passo, ma si trovò immediatamente bloccato tra la portiera aperta e il muro del parcheggio. Si afflosciò sul sedile:

«Questo programma è una vera rivoluzione scientifica», replicò con tono rauco. «Non bisogna avere remore morali.»

Dall’alto, Anna gli porse un’altra sigaretta. Sembrava pronta a perdonarlo, a condizione che lui fornisse tutti i dettagli:

«La Maison du Chocolat?»

Mentre accendeva la Marlboro, si accorse che stava tremando. C’era un attacco in arrivo. L’astinenza avrebbe ben presto urlato sotto la sua pelle.

«Quello è stato uno dei problemi», rispose in una nuvola di fumo. «La situazione ci stava sfuggendo di mano. Abbiamo dovuto aumentare la sorveglianza. C’erano continuamente dei poliziotti che ti osservavano. Il guardamacchine di un ristorante, credo…»

«La Marée.»

«Sì, La Marée.»

«Quando lavoravo alla Maison du Chocolat, c’era un cliente che veniva spesso. Un uomo che mi sembrava di conoscere. Era uno sbirro?»

«È possibile. Non conosco tutti i dettagli. Tutto quello che so è che ormai ci stavi sfuggendo.»

Si fece di nuovo buio. Mathilde accese le lampade al neon.

«Ma il vero problema», continuò, «erano le crisi. Ho subito capito che c’era una falla. E che stava peggiorando. Il disturbo concernente i volti era solo un segno premonitore: la tua vera memoria stava tornando in superficie.»

«Perché i volti?»

«Non lo so. Siamo nell’ambito della più pura sperimentazione.»

Le sue mani tremavano sempre più. Si concentrò sul discorso:

«Quando Laurent ti ha sorpresa a osservarlo in piena notte, abbiamo capito che i disturbi si accentuavano. Bisognava ricoverarti.»

«Perché volevi fare una biopsia?»

«Per avere la coscienza a posto. Può darsi che l’introduzione massiccia di Ossigeno-15 abbia provocato una lesione. Bisogna che io capisca questo fenomeno!»

Si fermò di botto, rimpiangendo di aver gridato. Aveva l’impressione che dei cortocircuiti gli facessero crepitare la pelle. Gettò la sigaretta e infilò le dita sotto le cosce. Quanto tempo avrebbe resistito?

Mathilde Wilcrau passò alla questione cruciale:

«Dove stanno cercando? Quanti sono gli uomini di Charlier?»

«Non lo so. Io sono stato messo in disparte. E Laurent pure. Non ho più neppure contatti con lui… Per Charlier il programma è chiuso. Ormai non c’è che un’urgenza: trovarti e toglierti dalla circolazione. Voi li leggete i giornali. Sapete che cosa succede nei media o nell’opinione pubblica per un’intercettazione non autorizzata. Immaginate cosa succederebbe se il progetto venisse scoperto.»

«Dunque, non sono altro che una da ammazzare?» chiese Anna.

«Più che altro, una da curare. Tu non sai cos’hai nella tua testa. Ti devi arrendere, devi metterti nelle mani di Charlier. Nelle nostre mani. È il solo modo di guarire e di salvare la vita a tutti!»

Alzò gli occhi sopra la montatura degli occhiali. Le vedeva sfocate, ed era meglio così. Insistette:

«Santo cielo, voi non conoscete Charlier! Sono sicuro che ha agito nella più completa illegalità. Ora fa pulizia. A quest’ora non so neppure se Laurent è ancora vivo. È tutto fottuto, a meno che possiamo ancora sottoporti a un trattamento.»

La voce gli morì in gola. A cosa serviva proseguire? In quella soluzione non ci credeva neanche lui. A voce bassa, Mathilde, disse:

«Tutto questo, però, non ci dice perché le avete cambiato la faccia.»

Ackermann sentì un sorriso salirgli alle labbra: era dall’inizio che aspettava quella domanda.

«Non l’abbiamo cambiata noi la tua faccia.»

«Cosa?»

Le osservò di nuovo attraverso gli occhiali. La sorpresa aveva bloccato i loro lineamenti. Piantò i suoi occhi nelle pupille di Anna:

«Quando ti abbiamo trovata eri così. Alle prime radiografie ho scoperto le cicatrici, gli impianti, i perni. Era incredibile. Un’operazione estetica completa. Un affare che sarà costato una fortuna. Non certo il tipo di intervento che può permettersi un’operaia clandestina.»

«Cosa vuoi dire?»

«Tu non sei un’operaia. Charlier e gli altri si sono sbagliati. Hanno creduto di rapire un’anonima turca. Ma tu eri molto più di quello. Per folle che possa sembrare, io credo che tu ti stessi nascondendo nel quartiere turco quando ti hanno trovata.»

Anna scoppiò in singhiozzi:

«Non è possibile… Non è possibile… Quando finirà?»

«In un certo senso», continuò lui con uno strano accanimento, «questo aspetto spiega il successo della manipolazione. Io non sono un mago. Non avrei mai potuto trasformare fino a questo punto un’operaia piombata qui dall’Anatolia. Solo Charlier può credere a una cosa del genere.»

Mathilde si soffermò ancora su quel punto:

«Cos’ha detto quando gli hai comunicato che il viso della ragazza era stato modificato?»

«Non gliel’ho detto. Era una cosa da delirio, l’ho nascosta a tutti.»

Si voltò verso Anna e proseguì:

«Anche l’ultimo sabato, quando sei venuta al Becquerel, io ho sostituito le radiografie. Le tue cicatrici apparivano su tutte le lastre.»

Anna si asciugò le lacrime:

«Perché l’hai fatto?»

«Volevo portare a termine l’esperimento. L’occasione era troppo bella… Il tuo stato psichico era ideale per tentare l’avventura. L’unica cosa che contava era il programma…»

Anna e Mathilde erano interdette.

Quando la piccola Cleopatra riprese, la sua voce era secca come una foglia in autunno.

«Se non sono Anna Heymes, né Sema Gokalp, chi sono allora?»

«Non ne ho la più pallida idea. Un’intellettuale, una rifugiata politica… O una terrorista. Io…»

I neon si spensero ancora una volta. Mathilde non si mosse. L’oscurità parve diventare profonda, come dentro una colata di catrame. Passò un breve istante. Lui si disse: «Mi sono sbagliato, adesso mi ammazzano.» Ma la voce di Anna risuonò nelle tenebre:

«Non c’è che un modo per saperlo.»

Nessuno riaccese la luce. Eric Ackermann indovinava il seguito. Anna, improvvisamente vicino a lui, mormorò:

«Mi devi rendere quello che mi hai rubato. La mia memoria.»

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