EPILOGO

Alla fine di aprile, nell’Anatolia orientale le nevi d’altitudine cominciano a sciogliersi e liberano il cammino fino alla cima più elevata dei monti Tauri, il Nemrut Daği. La stagione turistica non è ancora iniziata e il luogo rimane nella sua perfetta solitudine.

Dopo ogni missione, l’uomo attendeva quel momento per ritornare dai suoi dei di pietra.

Il giorno prima, il 26 aprile, era decollato dall’aeroporto di Istanbul ed era atterrato nel tardo pomeriggio ad Adana. Si era riposato qualche ora in un hotel vicino all’aeroporto, poi, in piena notte, a bordo di un’auto noleggiata, aveva ripreso il viaggio.

Ora stava guidando verso oriente, in direzione di Adiyaman, a quattrocento chilometri da lì. Tutto intorno, ampi pascoli dalle ondulazioni leggere. Quell’oscillare d’ombre rappresentava la prima tappa, il primo stadio della purezza. Gli tornò alla mente l’inizio di una poesia che, da giovane, aveva scritto in turco antico: «Ho solcato i mari del verde…»

Alle sei e trenta, dopo che aveva superato la città di Gaziantep, il paesaggio cambiò. Nelle prime luci del giorno, apparve la catena dei monti Tauri. I pascoli fluidi lasciarono il posto a deserti pietrificati, all’elevarsi di picchi scoscesi e rossi, mentre più in là si aprivano crateri come girasoli essiccati.

Di fronte a quello spettacolo, di solito i viaggiatori provavano un’apprensione, un’angoscia confusa. Lui, al contrario, amava quei toni d’ocra e di giallo, più forti e più crudi del blu dell’alba. O, ritrovava le proprie tracce, l’aridità che lo aveva forgiato. Era il secondo stadio della purezza. Si ricordò il seguito della sua poesia:

«Ho solcato i mari del verde,

Ho abbracciato pareti di pietra, orbite d’ombra…»

Quando si fermò ad Adiyaman, il sole stava per spuntare. Alla stazione di servizio della città, riempì il serbatoio della sua macchina, mentre il ragazzo puliva il parabrezza. Poi guardò, intorno a sé, le macchie di ferro, le case color del bronzo disperse fino a piedi della montagna.

Lungo il viale principale, vide i depositi Matak, i suoi depositi, dove la frutta sarebbe stata immagazzinata a tonnellate, per essere trattata, conservata ed esportata. Non provò alcun piacere. Quelle ambizioni ordinarie non lo avevano mai interessato. Per contro, sentiva l’imminenza della montagna, la prossimità dei terrazzamenti…

Cinque chilometri più in là, lasciò la strada principale. Niente più asfalto, niente più cartelli indicatori. Solo una sterrata tagliata nella montagna che serpeggiava fino alle nuvole. In quel momento ritrovò la sua vera terra natale. I pendii di polvere color porpora, le erbe alte, le pecore grigie e nere che si spostavano appena al suo passaggio.

Oltrepassò il suo villaggio. Incrociò donne dal foulard ornato d’oro. Volti di cuoio rosso, cesellati come vassoi di rame. Creature selvagge, indurite dalla terra, maturate nella preghiera e nella tradizione, creature come sua madre. Tra quelle donne, c’erano forse delle persone della sua stessa famiglia…

Ancora più in alto, scorse dei pastori accucciati lungo la scarpata, avvolti in vesti troppo grandi. Si rivide, venticinque anni prima, seduto al loro posto. Si ricordava ancora di quel maglione che gli aveva servito da mantello, con le maniche troppo lunghe, dalle quali le sue mani spuntavano ogni anno un po’ di più. Le sue maglie erano state il solo calendario che aveva avuto.

Sentì le sue dita fremere di antiche sensazioni. Il contatto con il suo cranio rasato, quando si proteggeva dalle botte di suo padre. La dolcezza dei frutti secchi quando, tornando dai pascoli, lasciava che la sua mano sfiorasse la superficie dei grossi sacchi del droghiere. I malli di noce che raccoglieva d’autunno e che gli macchiavano il palmo per tutto l’inverno…

Penetrò nella cappa di nuvole.

Tutto divenne bianco, ovattato, umido. La strada cominciava a essere bordata di mucchi di neve. Una neve particolare, impregnata di sabbia, luminescente e rosa.

Prima di iniziare l’ultimo tratto, mise le catene. Avanzò sobbalzando ancora per un’ora. I cumuli di neve ammassati dal vento brillavano sempre di più e assumevano la forma di corpi languidi. L’ultima tappa verso la purezza.

«Ho accarezzato i pendii di neve,

spolverati di sabbia rosa,

gonfi come corpi di donna…»

Infine, individuò il parcheggio, ai piedi della roccia.

In alto, la montagna rimaneva invisibile, velata di nebbia.

Scese dall’auto e annusò l’aria. Il silenzio della neve pesava su quel luogo come un blocco di cristallo.

Si riempì i polmoni d’aria gelata. Era a più di duemila metri, doveva salirne altri trecento. In previsione dello sforzo, sgranocchiò del cioccolato, poi, con le mani in tasca, si mise in marcia.

Superò il capanno dei guardiani, che rimaneva chiuso fino a maggio, poi seguì le tracce di pietra che emergevano appena dalla neve. L’ascensione divenne difficile. Dovette fare una deviazione per evitare il tratto più scosceso del pendio. Avanzava di sbieco, appoggiando la sinistra alla parete e sforzandosi di non scivolare nel vuoto. La neve scricchiolava sotto i suoi passi.

Cominciava ad avere il fiato grosso. Arrivò alla prima terrazza, quella a est, ma non vi si attardò. Lì, le statue erano troppo erose. Si concesse solo qualche istante di riposo sull’«altare del fuoco»: una piattaforma di pietra, verde come il bronzo, che offriva una vista a centottanta gradi sui monti Tauri.

Il sole stava infine rendendo grazie al paesaggio. Al fondo della valle si distinguevano delle zone rosse, macchie gialle e bocche di smeraldo, vestigia delle fertili pianure sulle quali si fondava la prosperità dei regni antichi. La luce che si posava su quei crateri scavava delle pozze bianche, splendenti. Altrove, quella stessa luce sembrava intercettare la polvere e scomporre ogni dettaglio in miliardi di pagliuzze luccicanti. Il sole giocava con le nuvole e sulle montagne passavano ombre come espressioni su un volto.

Fu preso da un’emozione indicibile. Non riusciva a convincersi che quelle terre erano le «sue» terre, che apparteneva lui stesso a quella bellezza smisurata. Gli sembrava di vedere le antiche orde avanzare all’orizzonte, le orde dei primi turchi che avevano dato potenza e civiltà all’Anatolia.

Guardando meglio, vide che non si trattava né di uomini, né di cavalli, ma di lupi. Mute di lupi argentati che si confondevano con il riverbero della terra. Lupi divini, pronti a unirsi ai mortali per dare origine a una razza di guerrieri perfetti…

Continuo il cammino, in direzione del versante ovest. La neve si faceva più spessa e più leggera, vellutata. Guardò indietro le proprie orme e gli parvero come una scrittura misteriosa che serviva a tradurre quel silenzio. Infine, raggiunse la seconda terrazza, là dove si innalzavano i Volti di Pietra.

Erano cinque. Cinque teste colossali alte più di due metri. In origine erano appoggiate su corpi altrettanto colossali, in cima al tumulo che costituiva la tomba vera e propria, ma i terremoti le avevano abbattute. Gli uomini le avevano rialzate e ora esse sembravano aver acquistato forza dal suolo, pareva che gli stessi contrafforti delle montagne fossero diventati le loro spalle.

Al centro c’era Antioco I re di Commagene, che aveva voluto essere seppellito in mezzo a quegli dei meticci, greci e persiani al tempo stesso, frutto del sincretismo tra quelle civiltà perdute. Al suo fianco, c’era Zeus-Ahura Mazdah, il re degli dei, che si incarnava nel fulmine e nel fuoco. Dall’altra parte, Apollo-Mitra, che imponeva la santificazione degli uomini nel sangue dei tori. E poi Tyche, che con la sua corona di spighe e di frutti simboleggiava la fertilità del regno…

Malgrado la loro potenza, quei volti avevano espressioni giovanili: bocca a cuore, barba arricciata… E soprattutto i grandi occhi bianchi che sembravano sognare. Persino i guardiani del santuario, il Leone, re degli animali, e l’Aquila, signora dei cieli, avvolti in una coltre di neve, contribuivano all’idea di mansuetudine che emanava da quel corteo.

Non era ancora l’ora giusta: la foschia era troppo fitta perché il fenomeno avesse luogo. Strinse la sciarpa e si mise a pensare al sovrano che aveva fatto erigere quel sepolcro. Antioco Epifano I. Il suo regno era stato così prospero che si era sentito benedetto dagli dei, fino a considerarsi uno di loro e a farsi inumare in cima a quel monte sacro.

Anche Ismaïl Kudseyi si era creduto un dio, uno che ha diritto di vita e di morte sui propri sudditi. Ma aveva dimenticato la cosa principale: egli non era che uno strumento della causa, un anello nella catena del Touran. Ignorando quell’aspetto, lui aveva tradito sé stesso e i Lupi. Aveva macchiato le leggi di cui un tempo era stato il rappresentante. Era diventato un uomo degenerato, vulnerabile. Ecco perché Sema aveva potuto abbatterlo.

Sema. L’amarezza gli seccò improvvisamente la bocca. Era riuscito a eliminarla e tuttavia non aveva trionfato. Tutta quella caccia era stata un grande casino, un fallimento che aveva cercato di nascondere sacrificando la sua preda secondo le regole ancestrali. Aveva dedicato il suo cuore agli dei di pietra del Nemrut Daği, quegli dei che aveva da sempre onorato, scolpendo i loro lineamenti nelle carni delle sue vittime.

La nebbia si dissipò.

Si inginocchiò nella neve e attese.

Nel giro di qualche istante, la foschia si sarebbe alzata e avrebbe avvolto le teste giganti, portandole con sé nella sua leggerezza, muovendole del suo stesso movimento e dando loro la vita. I volti avrebbero perso di definizione e avrebbero preso a galleggiare sopra la neve. Allora sarebbe stato impossibile non pensare a una foresta. Impossibile non vederli avanzare… Antioco in testa, poi Tyche e gli altri Immortali al seguito, circondati, accarezzati, fumigati dai vapori del ghiaccio. Infine, in quel momento di sospensione, le loro bocche si sarebbero aperte e avrebbero lasciato sfuggire le parole.

Da bambino aveva assistito spesso a quel prodigio. Aveva imparato a captare quel mormorio, a comprendere quel linguaggio. Minerale, antico, incomprensibile per quelli che non erano nati là, ai piedi di quelle montagne.

Chiuse gli occhi.

Pregò perché i giganti gli accordassero la loro clemenza. E sperò in un nuovo oracolo: parole di nebbia che gli rivelassero il proprio avvenire. Cosa avrebbero suggerito oggi i suoi mentori di pietra?

«Resta immobile.»

Una voce di donna.

Riuscì a girare la testa e scorse una lunga sagoma, vestita di un parka e di pantaloni aderenti neri. I suoi capelli, anch’essi neri, spuntavano da sotto il berretto in due ruscelli di riccioli che cadevano sulle spalle.

Era pietrificato. Come aveva fatto quella donna a seguirlo fin lì?

«Chi sei?» chiese lui in francese.

«Il mio nome non ha importanza.»

«Chi ti manda?»

«Sema.»

«Sema è morta.»

Non poteva sopportare di essere colto di sorpresa, così, nel segreto del suo pellegrinaggio. La voce continuò:

«Sono la donna che è rimasta al suo fianco a Parigi. Quella che le ha permesso di sfuggire alla polizia, di ritrovare la memoria e di tornare in Turchia per affrontarti.»

L’uomo annuì. Sì, fin dall’inizio mancava qualcosa a quella storia. Da sola, Sema Hunsen non avrebbe potuto sfuggirgli così a lungo: qualcuno doveva averla aiutata. Una domanda gli attraversò le labbra, con un’impazienza che rimpianse.

«Dov’è la droga?»

«In un cimitero. Dentro le urne cinerarie. Un po’ di polvere bianca, in mezzo alla polvere grigia…»

Lui scosse di nuovo la testa. Riconosceva l’ironia di Sema, che aveva esercitato il suo mestiere come se fosse stato un gioco. Tutto suonava corretto, un vero tintinnio di cristallo.

«Come hai fatto a trovarmi?»

«Sema mi ha scritto una lettera. Mi ha spiegato tutto. Le sue origini, la sua formazione, la sua specialità. Mi ha anche dato i nomi dei suoi vecchi amici, i suoi nemici di oggi.»

Lui notò che in quelle parole c’era una sorta d’accento, una maniera strana di prolungare le sillabe finali. Osservò un istante gli occhi bianchi delle statue: non si erano ancora svegliate.

«Perché ti immischi in tutto questo?» domandò. «La storia è chiusa. Si è chiusa senza di te.»

«È vero, sono arrivata troppo tardi. Ma posso ancora fare qualcosa per Sema.»

«Cosa?»

«Impedirti di proseguire la tua mostruosa caccia.»

L’altro la guardò e sorrise malgrado la pistola puntata. Era una donna alta, bruna, molto bella. Il suo viso era pallido, segnato da infinite rughe che però, invece di attenuare quella bellezza, la rendevano più netta. Quell’apparizione gli aveva tolto il fiato. Fu lei che riprese:

«A Parigi ho letto gli articoli sugli omicidi di tre donne. Ho studiato le mutilazioni che tu hai inferto loro. Sono psichiatra. Potrei dare dei nomi complicati alle tue ossessioni, al tuo odio per le donne… Ma a cosa servirebbe?»

L’uomo capì che era venuta per ammazzarlo, che lo aveva seguito fin lì per abbatterlo. Morire per mano di una donna: era impossibile. Si concentrò sulle teste di pietra. Ben presto la luce avrebbe dato loro la vita. I Giganti gli avrebbero detto come agire?

«E così mi hai seguito fin qui», disse per guadagnare tempo.

«A Istanbul non ho avuto problemi per localizzare la tua società. Sapevo che, prima o poi, ci saresti andato, malgrado il mandato di cattura, malgrado la tua situazione. Quando alla fine sei comparso, circondato dalle tue guardie del corpo, non ti ho più mollato. Per giorni ti ho seguito, spiato, osservato. E ho capito che non avevo alcuna possibilità di avvicinarti e ancor meno di sorprenderti…»

Dalle sue parole filtrava una strana determinazione. Quella donna cominciava a interessarlo. Le gettò un’altra occhiata. Attraverso il vapore del suo fiato, un altro dettaglio lo colpì. La sua bocca, d’un rosso troppo vivo, reso quasi viola dal freddo. All’improvviso, quel colore ravvivò il suo odio per le donne. Come le altre, anche lei era un’immagine blasfema. Una tentatrice, sicura del proprio potere…

«Ed è allora che è avvenuto il miracolo» proseguì lei. «Un mattino sei uscito dal tuo nascondiglio. Solo. E sei andato all’aeroporto… A me è bastato imitarti e comprare un biglietto per Adana. Ho immaginato che tu andassi a visitare dei laboratori clandestini o un campo d’addestramento. Ma perché partire solo? Ho pensato a una famiglia, ma non è il tuo genere. L’unica tua famiglia è una muta di lupi. E allora cosa? Nella sua lettera, Sema ti descriveva come un cacciatore venuto dall’Est, dalla regione di Adiyaman, e ossessionato dall’archeologia. In attesa della partenza, ho comprato delle carte e delle guide. Così ho scoperto il Nemrut Daği e le sue statue. Con le loro fessure nella pietra, mi hanno ricordato dei volti sfigurati. Ho capito che quelle sculture erano il tuo modello. Il modello che dava forma alla tua demenza. Stavi andando a cercare il raccoglimento in quel santuario inaccessibile, stavi per incontrare la tua follia.»

Lui ritrovò la calma. Sì, apprezzava davvero la singolarità di quella donna. Era riuscita a prenderlo nel suo stesso territorio. Era entrata, per così dire, in sintonia con il suo pellegrinaggio. Forse era persino degna di ucciderlo…

Diede un’ultima occhiata alle statue. Ora il loro biancore risplendeva sotto il sole. Non gli erano mai sembrate così forti e, al tempo stesso, così lontane. Il loro silenzio era una conferma. Aveva perso: non era più degno di loro.

Inspirò profondamente, poi, accompagnandosi con un cenno del capo, disse:

«Avverti la potenza di questo luogo?»

Sempre stando in ginocchio, prese una manciata di neve rosa e la sbriciolò:

«Io sono nato a qualche chilometro da qui, nella vallata. All’epoca non c’erano turisti. Io venivo a isolarmi su questa terrazza. È ai piedi di queste statue che ho forgiato i miei sogni di potenza e di fuoco.»

«Di sangue e di morte.»

Lui acconsentì, con un sorriso.

«Noi lavoriamo per il ritorno dell’impero turco. Ci battiamo per la supremazia della nostra razza in Oriente. Ben presto, le frontiere dell’Asia centrale salteranno. Parliamo la stessa lingua, abbiamo le stesse radici. Noi discendiamo tutti da Asena, la lupa bianca.»

«Tu usi un mito per nutrire la tua follia.»

«Un mito è una realtà divenuta leggenda. Una leggenda può diventare realtà. I Lupi sono di ritorno. I Lupi salveranno il popolo turco.»

«Non sei altro che un assassino. Un omicida che non conosce il prezzo del sangue.»

Malgrado il sole, si sentiva intirizzito, paralizzato dal freddo. Mostrò, alla sua sinistra, il bordo di neve che si perdeva nella vibrazione dell’aria:

«Un tempo, sull’altra terrazza, i guerrieri venivano benedetti con il sangue di toro in nome di Apollo-Mitra. È da questa tradizione che nasce il vostro battesimo, il battesimo dei cristiani. È dal sangue che nasce la grazia.»

Con la sua mano libera, la donna si sistemò alcune ciocche nere. Il freddo accentuava e arrossava le rughe, ma quella geografia precisa aumentava il suo splendore. Alzò il cane della pistola:

«Allora è il momento di essere felice. Perché il sangue sta per scorrere.»

«Aspetta.»

Lui continuava a non capire la sua audacia, la sua perseveranza.

«Nessuno corre certi rischi. Specie per una persona incrociata per qualche giorno. Chi era Sema per te?»

Lei esitò, poi, piegando leggermente la testa di lato, disse:

«Un’amica. Solo un’amica.»

Accompagnò quelle parole con un sorriso. E quel grande sorriso rosso, stagliandosi sul bassorilievo del santuario, fu la conferma di tutte le verità.

Forse lei sola incontrava davvero il suo destino in quel luogo.

O, quanto meno, lo incontrava al pari di lui.

Tutti e due stavano trovando il loro esatto posto in quell’affresco ancestrale.

Si concentrò su quelle labbra splendenti. Gli tornarono alla mente i papaveri selvatici di cui sua madre bruciava il gambo per meglio preservarne il colore scarlatto.

Quando la canna della calibro 45 si incendiò, lui capì che era felice di morire all’ombra di un tale sorriso.


FINE
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