«Pronto. Sono Paul.»
Dall’altra parte del filo uno sbuffo, poi:
«Hai visto che ora è?»
Lui guardò l’orologio: appena le sei del mattino.
«Scusami. Non ho dormito.»
Lo sbuffare si trasformò in un sospiro di sfinimento.
«Che cosa vuoi?»
«Volevo solo sapere se Céline ha ricevuto le caramelle.»
La voce di Reyna diventò dura:
«Fatti curare.»
«Le ha ricevute sì o no?»
«E mi chiami alle sei per questo?»
Paul diede un pugno al vetro della cabina, il suo cellulare era ancora scarico.
«Dimmi solo se le ha fatto piacere. Non la vedo da dieci giorni!»
«Quello che le ha fatto piacere sono stati i tipi in uniforme che gliele hanno portate. Ha parlato solo di quello per tutto il giorno. Merda. Tutto un percorso ideologico per poi arrivare a questo punto. Degli sbirri come baby-sitter…»
Paul immaginava sua figlia in ammirazione davanti ai galloni d’argento, con gli occhi che le brillavano di fronte alle merendine che gli agenti le stavano dando. L’immagine gli scaldò il cuore. Di colpo, con un tono allegro, promise:
«Ti chiamo tra due ore, prima che lei esca per andare a scuola.»
Reyna riagganciò senza dire una parola.
Uscì dalla cabina e inspirò una lunga boccata d’aria notturna. Si trovava in piace du Trocadéro, tra i musei dell’Uomo e della Marina e il teatro di Chaillot. Una pioggia fine cadeva sullo spiazzo centrale, circondato da staccionate, segno evidente dei lavori di restauro.
Seguì il corridoio formato dalle tavole di legno e attraversò la spianata. L’acquerugiola formava sul suo viso uno strato come d’olio. La temperatura, decisamente troppo dolce per la stagione, lo faceva sudare sotto il suo parka. Quel tempo appiccicoso si accordava bene con il suo umore. Si sentiva sporco, consunto, svuotato; un gusto di cartapesta sulla lingua.
Da quando, alle undici della sera prima, aveva parlato al telefono con Schiffer, stava seguendo la pista dei chirurghi plastici. Aveva accettato la nuova svolta nell’inchiesta: una donna dal viso modificato inseguita nello stesso tempo dagli uomini di Charlier e dai Lupi grigi. Allora si era recato alla sede del Consiglio dell’Ordine dei medici, in avenue de Friedland, ottavo arrondissement, in cerca di medici che avessero avuto problemi con la giustizia. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente, aveva detto Schiffer. Bisognava dunque cercare un chirurgo senza scrupoli. Paul aveva avuto l’idea di cominciare da quelli che avevano la fedina penale sporca.
Si era immerso negli archivi e non aveva esitato a convocare in piena notte il responsabile di quell’ufficio per venirlo ad aiutare. Risultato: più di seicento fascicoli per il solo dipartimento dell’Ile de France negli ultimi cinque anni. Come cavarsela con una lista così? Alle due del mattino aveva chiamato Jean-Philippe Arnaud, il presidente dell’associazione dei chirurghi estetici, per chiedergli consiglio. In risposta, l’altro, insonnolito, aveva fatto tre nomi: virtuosi dalla dubbia reputazione che avrebbero potuto accettare quel tipo di operazione senza andare troppo per il sottile.
Prima di riagganciare, Paul l’aveva ancora interrogato sugli altri chirurghi plastici, quelli «rispettabili». A denti stretti, Araaud aveva aggiunto altri sette nomi, precisando che quei medici, conosciuti e riconosciuti, non si sarebbero mai lanciati in una simile operazione. Paul aveva tagliato corto e lo aveva ringraziato.
Alle tre del mattino aveva dunque una lista di dieci nomi. Per lui, la notte era appena cominciata…
Si fermò dall’altro lato della balconata del Trocadéro, tra i due padiglioni dei musei, di fronte alla valle della Senna. Seduto sugli scalini, si lasciò conquistare dalla bellezza di quello spettacolo. I giardini, con le loro terrazze, le loro fontane e le loro statue, si dispiegavano in una scenografia da fiaba. Il ponte di Iena depositava le sue pennellate di luce sul fiume, fino alla Tour Eiffel, sull’altra riva, che assomigliava a un grosso fermacarte in ghisa. Tutto intorno, gli edifici oscuri del Champ-de-Mars dormivano in un silenzio da tempio. Il quadro d’insieme evocava un regno nascosto del Tibet, uno Xanadu meraviglioso, situato ai confini del mondo conosciuto.
Paul lasciò affluire i ricordi delle ultime ore.
All’inizio aveva cercato di contattare telefonicamente i chirurghi. Ma fin dalla prima chiamata aveva capito che in quel modo non avrebbe ottenuto niente: gli avevano sbattuto la cornetta in faccia. In ogni modo, doveva subito far vedere loro le foto delle vittime e quella di Anna Heymes che Schiffer gli aveva lasciato al commissariato Louis-Blanc.
Si era dunque recato dal più vicino dei chirurghi «sospetti», in rue Clément-Marot. D’origine colombiana, miliardario, l’uomo, secondo Jean-Philippe Arnaud, aveva operato la metà dei «padrini» di Medellin e di Cali. La sua reputazione, in quanto ad abilità, era immensa. Si diceva che potesse operare indifferentemente con la mano destra o con la sinistra.
Malgrado l’ora tarda, l’artista non era ancora a letto, o, quantomeno, non dormiva. Paul l’aveva disturbato nel bel mezzo di alcuni giochi intimi, nella penombra profumata del suo vasto loft. Non aveva visto distintamente il suo viso, ma aveva capito che quei ritratti non gli dicevano niente.
Il secondo indirizzo era quello di una clinica di rue Washington, dall’altra parte degli Champs-Elysées.
Paul aveva beccato il chirurgo proprio prima di un intervento d’urgenza su un grande ustionato. Aveva recitato in pieno la sua parte: tesserino della polizia, qualche parola sull’affare, le foto spiattellate su di una barella.
L’altro non aveva neppure abbassato la mascherina chirurgica. Aveva solo fatto no con la testa, prima di andarsene verso le sue carni carbonizzate. Paul si ricordò allora delle parole di Arnaud: quell’uomo creava artificialmente la pelle umana. Si diceva che, con una bruciatura, potesse modificare le impronte digitali e perfezionare così il cambiamento d’identità di un criminale in fuga.
Paul era ripartito nella notte.
Il terzo lo aveva colto in pieno sonno, nel suo appartamento in avenue d’Eylau, vicino al Trocadéro. Un’altra celebrità, alla quale si attribuivano interventi sulle più grandi star dello spettacolo. E tuttavia, nessuno sapeva «su chi» e «su cosa». Si mormorava che lui stesso avesse cambiato volto, dopo alcuni problemi con la giustizia del suo paese d’origine, il Sudafrica.
Aveva ricevuto Paul con diffidenza, le mani infilate nelle tasche della vestaglia come dei revolver. Dopo aver guardato le foto, con ripugnanza, aveva dato una risposta categorica: «Mai viste».
Paul era uscito da quelle tre visite come da un’apnea profonda. Alle sei del mattino aveva sentito bruscamente il bisogno di segni familiari, di punti di riferimento. Ecco perché aveva chiamato la sua sola famiglia, o almeno quello che ne restava. La telefonata non lo aveva riconfortato. Reyna continuava a vivere su un altro pianeta. E Céline, dal profondo del sonno, era distante anni luce da quell’universo. Un mondo dove gli assassini ficcavano roditori vivi nel sesso delle donne, o dove i poliziotti tagliavano le falangi per ottenere informazioni…
Paul alzò gli occhi. Lo spettro dell’aurora si stagliava all’orizonte, come la sagoma di un astro lontano. Una larga striscia violetta prendeva a poco a poco una tinta rosata e distillava, alla sommità del suo arco, un color di zolfo, già pigmentato da particelle bianche e brillanti. L’argento del giorno…
Si rialzò e tornò sui suoi passi. Quando raggiunse piace du Trocadéro, i caffè stavano aprendo. Scorse le luci del Malakoff, la brasserie dove aveva dato appuntamento a Naubrel e Matkowska, i suoi due agenti della polizia giudiziaria.
Il giorno prima, aveva ordinato loro di abbandonare la pista delle camere iperbariche per raccogliere tutto ciò che potevano trovare sui Lupi grigi e sulla loro storia politica. Paul si concentrava sulla preda, ma voleva anche conoscere i cacciatori.
Sulla porta del caffè-brasserie si fermò un istante pensando al nuovo problema che lo rodeva da qualche ora: la sparizione di Jean-Louis Schiffer. Dopo la telefonata delle ventitré non aveva più dato notizie. Paul aveva cercato a più riprese di contattarlo, ma invano. Avrebbe potuto immaginare il peggio, preoccuparsi per la sua vita; e invece no, sentiva piuttosto che quel bastardo lo aveva preceduto. Una volta in libertà, Schiffer aveva senza dubbio scoperto una pista fertile e l’aveva seguita da solo.
Controllando la sua rabbia, Paul gli concesse mentalmente un ultimo appello: gli dava fino alle dieci per farsi vivo. Passato quel limite, avrebbe fatto partire le ricerche.
Spinse la porta del caffè, sentendosi di nuovo di umore nero.
I due luogotenenti erano già seduti in una zona appartata. Prima di raggiungerli, Paul si sfregò il volto con le mani e cercò di sistemarsi il parka spiegazzato. Voleva provare ad apparire ciò che era, il loro superiore, e non sembrare un barbone strappato alla notte.
Attraversò quell’ambiente troppo illuminato, troppo rinnovato, dove tutto, dai lampadari allo schienale delle sedie, sembrava falso. Finto legno, finto zinco, finta pelle. Un bar pacchiano, abitualmente saturo di vapori d’alcol e di chiacchiere da banco, ma per il momento ancora deserto.
Paul si sedette davanti ai due investigatori e ritrovò con piacere le loro facce allegre. Naubrel e Matkowska non erano dei grandi poliziotti, ma avevano l’entusiasmo della gioventù. Ricordavano a Paul il cammino che lui non aveva mai saputo prendere: quello della spensieratezza, della leggerezza.
Cominciarono inondandolo di dettagli sulle loro ricerche notturne. Paul, dopo aver ordinato un caffè, tagliò corto:
«Okay ragazzi, veniamo ai fatti.»
Si scambiarono uno sguardo complice, poi Naubrel aprì uno spesso dossier pieno di fotocopie:
«Quella dei Lupi grigi è innanzi tutto una storia politica. Da quanto abbiamo capito, negli anni Sessanta le idee di sinistra hanno preso piede in Turchia proprio come in Francia. Per reazione, l’estrema destra è salita alle stelle. Un uomo di nome Alpaslan Türkes, un colonnello che aveva trafficato con i nazisti, ha formato un partito: il Partito d’azione nazionalista. Lui e le sue truppe si sono presentati come un baluardo di fronte alla minaccia rossa.»
La parola passò a Matkowska:
«Nella scia di questo gruppo ufficiale, sono nati dei centri di formazione ideologica destinati ai giovani. Da prima nelle università, poi anche nelle campagne. I ragazzi che vi aderivano si erano scelti il nome di “Idealisti” o anche di “Lupi grigi”». Controllò i suoi appunti: «“Bozkurt”, in turco».
Quelle informazioni si aggiungevano a quelle di Schiffer.
«Negli anni Settanta», continuò Naubrel, «il conflitto tra comunisti e fascisti è diventato durissimo. I Lupi grigi hanno preso le armi. In alcune regioni dell’Anatolia sono stati aperti dei campi di addestramento. Lì hanno indottrinato i giovani Idealisti, li hanno formati agli sport di combattimento e li hanno iniziati all’uso delle armi. Dei contadini analfabeti si sono trasformati in assassini armati, addestrati e fanatici.»
Matkowska sfogliò un nuovo plico di fotocopie:
«A partire dal ’77, i Lupi grigi sono passati all’azione: attentati dinamitardi, mitragliamento di luoghi pubblici, uccisione di note personalità… I comunisti hanno replicato. È iniziata una vera guerra civile. Alla fine degli anni Settanta, ogni giorno in Turchia venivano uccise da quindici a venti persone. Puro e semplice terrore.»
Paul intervenne:
«E il governo? La polizia? L’esercito?»
Naubrel sorrise:
«Appunto. I militari hanno lasciato che la situazione precipitasse per poter intervenire più facilmente. Nel 1980 organizzano un colpo di stato. Pulito, senza sbavature. I terroristi delle due parti vengono arrestati. I Lupi grigi vivono questo come un tradimento: hanno lottato contro i comunisti ed ecco che il governo di destra li mette in galera… All’epoca, Türkes scrive: “Io sono in prigione, ma le mie idee sono al potere.” In realtà, i Lupi grigi vengono liberati quasi subito. A poco a poco Türkes riprende la sua attività politica. Seguendo la sua strada, altri Lupi grigi si rifanno una verginità. Diventano deputati, parlamentari. Ma rimangono gli altri: i killer, i contadini dei campi di addestramento, quelli che non hanno conosciuto altro che violenza e fanatismo.»
«Sì», intervenne Matkowska, «e quelli sono rimasti orfani. La destra è al potere e non ha più bisogno di loro. Türkes stesso volta loro le spalle, troppo occupato a conquistarsi una rispettabilità. Quando escono di galera cosa possono fare?»
Naubrel posò la tazza del caffè e rispose alla domanda; il loro duettare era perfetto:
«Diventano mercenari. Sono armati ed esperti. Lavorano per il miglior offerente, lo Stato o la mafia. Secondo i giornalisti turchi che abbiamo contattato, questo non è un segreto per nessuno: i Lupi grigi sono stati utilizzati dal MIT, il servizio segreto turco, per eliminare leader armeni e curdi. Hanno anche costituito delle milizie, degli squadroni della morte. Ma è soprattutto la mafia a utilizzarli. Recupero crediti, racket, servizio d’ordine… A metà degli anni Ottanta, si inseriscono nel traffico di droga che si sta sviluppando in Turchia. Talvolta si sostituiscono persino ai clan mafiosi e prendono il potere. In confronto ai criminali classici, loro hanno un vantaggio fondamentale: hanno conservato rapporti privilegiati con il potere, in particolare con la polizia. In questi ultimi anni, in Turchia sono scoppiati diversi scandali che hanno rivelato legami più stretti che mai tra mafia, Stato e nazionalismo.»
Paul rifletteva. Tutte quelle storie gli parevano vaghe e lontane. Lo stesso termine «mafia» sembrava voler dire cose molto diverse tra loro. Sempre quell’immagine di piovra, di complotto, di reti invisibili… Ma che cosa stava a indicare esattamente? Non c’era niente che lo avvicinasse agli assassini che stava cercando, né alla donna bersaglio. Non aveva un volto o un nome da mettere sotto i denti.
Come se avesse indovinato i suoi pensieri, Naubrel si lasciò sfuggire un sorriso carico di fierezza:
«E ora, largo alle immagini!»
Spostò le tazze e infilò le mani in una busta:
«In Internet abbiamo consultato gli archivi fotografici del “Milliyet”, il più importante giornale di Istanbul. Siamo riusciti a scovare questo.»
Paul prese la prima foto.
«Cos’è?»
«È il funerale di Alpaslan Türkes. Il “vecchio lupo” è morto nell’aprile del 1997. Aveva ottant’anni. Un vero evento nazionale.»
Paul non credeva ai propri occhi: quel funerale aveva richiamato migliaia di turchi. La didascalia, scritta anche in inglese, recitava: «Quattro chilometri di corteo funebre, sorvegliati da diecimila poliziotti.»
Era un quadro grave e magnifico. Nero come la folla che si accalcava intorno al carro funebre, davanti alla grande moschea di Ankara. Bianco come la neve che quel giorno cadeva in larghi fiocchi. Rosso come la bandiera turca che sventolava ovunque tra i «fedeli»…
Le foto seguenti mostravano le prime file del corteo. Riconobbe l’ex Primo ministro, Tansu Ciller e concluse che dovevano esserci molte altre personalità politiche. Notò anche la presenza di emissari venuti dagli Stati vicini, con i loro vestiti tradizionali dell’Asia centrale, con i berretti e le giacche bordate d’oro.
All’improvviso, a Paul venne un’altra idea. Anche i padrini della mafia turca dovevano aver partecipato a quel funerale… I capi delle famiglie di Istanbul e delle altre regioni dell’Anatolia dovevano essere venuti a rendere un ultimo omaggio al loro alleato politico. Forse tra loro c’era persino quello che tirava le fila del suo caso. L’uomo che aveva messo gli assassini alle calcagna di Sema Gokalp…
Passò in rivista le altre immagini, che rivelavano, tra la folla, dettagli singolari. Ad esempio, la maggior parte delle bandiere rosse non recavano l’emblema turco della mezzaluna, ma tre mezzelune disposte a triangolo. A esse facevano eco dei manifesti con l’effige di un lupo ululante sotto le tre lune.
Paul aveva l’impressione di vedere un esercito in marcia, dei guerrieri di pietra dai valori primitivi, dai simboli esoterici. Più che un semplice partito politico, i Lupi grigi formavano una sorta di setta, un clan misterioso dai riti ancestrali.
Sull’ultima foto vide un dettaglio che lo sorprese: i militanti, al passaggio del feretro, non alzavano il pugno chiuso, come gli era sembrato in un primo tempo. Facevano uno strano saluto con due dita alzate. Si concentrò su una donna in lacrime, sotto la neve, che effettuava quel gesto enigmatico.
Guardando meglio, si vedeva che alzava l’indice e il mignolo, mentre il medio e l’anulare si raggruppavano contro il pollice. A voce alta chiese:
«Cos’è questo gesto?»
«Non so», rispose Matkowska. «Fanno tutti così. Senza dubbio è un segno di riconoscimento. Mi sembrano tutti molto strani!»
Quel segno era una chiave. Due dita alzate, verso il cielo, come fossero due orecchie…
E a quel punto capì.
«Santo cielo», disse. «Non vedete cosa rappresenta?»
Paul mise la sua mano di profilo, puntata verso al vetrina:
«Guardate meglio.»
«Cazzo», disse Naubrel. «È un lupo. Un muso di lupo.»
Uscendo dal locale, Paul annunciò:
«Adesso dividiamo le squadre.»
I due poliziotti accusarono il colpo. Dopo quella notte bianca, speravano certamente di rientrare a casa. Lui ignorò la loro faccia delusa:
«Naubrel, tu riprendi l’inchiesta sulle camere iperbariche.»
«Cosa? Ma…»
«Voglio la lista completa di tutti i siti che ospitano macchinari di quel genere in tutta la regione.»
L’agente aprì le mani in un segno di impotenza:
«Capitano, quest’affare è un vicolo cieco. Con Matkowska abbiamo fatto un rastrellamento a tappeto. Dai cantieri agli impianti di riscaldamento, dalle fabbriche di sanitari alle vetrerie. Abbiamo visitato i laboratori di collaudo, i…»
Paul lo fermò. Se avesse ascoltato la sua stessa volontà avrebbe lasciato perdere. Ma Schiffer, al telefono, gli aveva fatto una domanda a quel proposito; significava che aveva una buona ragione per interessarsene. E ora più che mai, Paul aveva fiducia nell’intuito del vecchio.
«Voglio la lista», tagliò corto. «Tutti i posti dove esiste la minima possibilità che gli assassini abbiano usato la camera iperbarica.»
«E io?» chiese Matkowska.
Paul gli porse le chiavi del suo appartamento:
«Tu vai a casa mia, in rue du Chemin-Vert. Nella mia cassetta delle lettere recuperi i cataloghi, i fascicoli e tutti i documenti riguardanti maschere e busti antichi. È un agente dell’anticrimine che li raccoglie per me.»
«E cosa ne faccio?»
Non è che credesse molto neanche in quella pista, ma, ancora una volta, sentì la voce di Schiffer: E le maschere antiche? L’ipotesi di Paul poteva non essere tanto strampalata…
«Ti sistemi nel mio appartamento», riprese con voce ferma. «Compari ogni immagine con le facce della morte.»
«Perché?»
«Cerca delle somiglianze. Sono certo che l’assassino si ispira a dei reperti archeologici per sfigurarle.»
Il poliziotto guardava incredulo le chiavi che rilucevano nel palmo della sua mano. Paul non disse di più. Dirigendosi verso la sua macchina, concluse:
«A mezzogiorno facciamo il punto. Se, prima di allora, trovate qualcosa di serio, chiamatemi subito.»
Era giunto il tempo di occuparsi di una nuova idea che lo solleticava da un po’: a qualche isolato di là, abitava un consigliere culturale dell’ambasciata di Turchia, Alì Ajik. Valeva la pena di chiamarlo. L’uomo si era sempre mostrato collaborativo nel corso dell’inchiesta e Paul aveva bisogno di parlare con un cittadino turco.
Giunto in macchina, utilizzò il suo cellulare, finalmente ricaricato. Ajik non dormiva, almeno stando a quanto aveva assicurato.
Qualche minuto più tardi, Paul saliva le scale del diplomatico. Vacillava leggermente. La mancanza di sonno, la fame, l’eccitazione…
L’uomo lo accolse in un piccolo appartamento moderno, trasformato nella caverna di Alì Babà. Mobili lucidi che emanavano riflessi dorati. Medaglioni, cornici, lanterne andavano all’assalto dei muri, irradiando l’oro e il rame. Il pavimento spariva sotto i kilim sovrapposti che vibravano tutti degli stessi colori d’ocra. Quell’ambientazione da Mille e Una Notte non si accordava con il personaggio di Ajik, turco moderno e poliglotta d’una quarantina d’anni.
«Prima di me», spiegò in tono di scusa. «L’appartamento era occupato da un diplomatico della vecchia scuola.»
Sorrise, con le mani sprofondate nelle tasche della sua tuta da ginnastica grigio perla:
«Allora, quest’urgenza?»
«Vorrei mostrarle delle fotografie.»
«Delle fotografie? Nessun problema. Entri. Preparo del tè.»
Paul avrebbe voluto rifiutare, ma doveva stare al gioco. La sua visita era informale, per non dire illegale; avanzava sul terreno dell’immunità diplomatica.
Si accomodò a terra, tra i tappeti e i cuscini ricamati, mentre Ajik, seduto con le gambe incrociate, serviva il tè in piccoli bicchieri bombati.
Paul l’osservò. I suoi lineamenti erano regolari, con i capelli neri, tagliati molto corti, che gli fasciavano la testa come un cappuccio. Un volto netto, disegnato con la penna a china. La sola cosa che turbava era lo sguardo, con i suoi occhi asimmetrici. La pupilla sinistra non si muoveva mai ed era sempre posata sul suo interlocutore, mentre l’altra disponeva di tutta la sua mobilità.
Senza toccare il suo bicchiere bollente, Paul attaccò:
«Vorrei dapprima parlarle dei Lupi grigi.»
«Una nuova inchiesta?»
Paul eluse la domanda:
«Che cosa sa di loro?» ^
«È roba molto lontana. Erano potenti soprattutto negli anni Settanta. Uomini molto violenti…»
Bevve piano un sorso di tè.
«Ha notato il mio occhio?»
Paul si fabbricò un’espressione stupita, del tipo: «Adesso che me lo dice…»
«Sì, l’ha notato», sorrise Ajik. «Sono gli Idealisti che me l’hanno cavato. Nel campus dell’università, quando militavo nella sinistra. Avevano dei metodi piuttosto… rudi.»
«E oggi?»
Ajik fece un gesto consumato:
«Non esistono più. Almeno non in forma di gruppo terroristico. Non hanno più bisogno di usare la forza: sono al potere.»
«Non sto parlando di politica. Parlo degli uomini d’azione. Quelli che lavorano per i cartelli criminali.»
La sua espressione assunse una sfumatura ironica:
«Sono strane storie… In Turchia è difficile distinguere la leggenda dalla realtà.»
«Ma è vero o no che alcuni di loro sono al servizio dei clan mafiosi?»
«In passato sì, questo è certo. Ma oggi…»
Corrugò la fronte.
«Ma perché mi fa queste domande? C’è qualche relazione con la serie di omicidi?»
Paul preferì continuare:
«Secondo le mie informazioni, questi uomini, benché lavorino per la mafia, rimangono fedeli alla loro causa.»
«Esatto. In fondo, disprezzano i gangster che danno loro da lavorare. Sono convinti di servire un ideale più elevato.»
«Mi parli di questo ideale.»
Ajik cercò ispirazione, gonfiando esageratamente il petto, come se trattenesse un’enorme boccata di patriottismo.
«Il ritorno dell’impero turco. Il miraggio del Turan.»
«Che cos’è?»
«Ci vorrebbe una giornata intera per spiegarle tutto questo.»
«Per favore», disse Paul con voce più dura. «Devo capire cos’è che li infiamma.»
Alì Ajik si appoggiò su un gomito.
«Il popolo turco nasce nelle steppe dell’Asia centrale. I nostri antenati avevano gli occhi a mandorla e abitavano le stesse regioni dei mongoli. Gli unni, ad esempio, erano dei turchi. Quei nomadi hanno dilagato in tutta l’Asia centrale e hanno raggiunto l’Anatolia nel X secolo dopo Cristo.»
«Ma cos’è il Turan?»
«Un impero fondatore, che sarebbe esistito un tempo, nel quale tutti i popoli di lingua turca dell’Asia centrale sarebbero stati unificati. Una sorta di Atlantide che gli storici hanno spesso indicato, senza mai poter provare che sia esistito. I Lupi grigi sognano quel continente perduto. Sognano di riunire gli uzbechi, i tartari, i turkmeni… Sognano di ricostruire un immenso impero che si estenda dai Balcani al lago Baikal.»
«Un progetto realizzabile?»
«Certamente no. Eppure, in questo miraggio, c’è una parte di realtà. Oggi i nazionalisti raccomandano le alleanze economiche, premono per la condivisione tra i popoli di lingua turca delle risorse naturali.»
Paul si ricordò di quegli uomini dagli occhi a mandorla e dai mantelli di broccato presenti alle esequie di Türkes. Aveva visto giusto: il mondo dei Lupi grigi delineava uno stato nello stato. Una nazione sotterranea, al di sopra delle leggi e delle frontiere degli altri paesi.
Tirò fuori le fotografie dei funerali. Quella posizione da Budda cominciava a fargli venire i crampi.
«Queste foto le dicono qualcosa?»
Ajik prese la prima immagine e mormorò:
«Il funerale di Türkes… Io non ero Istanbul in quel periodo.»
«Riconosce delle personalità importanti?»
«Ma certo, c’è tutta la crema della società. I membri del governo. I rappresentanti dei partiti di destra. I candidati alla successione di Türkes…»
«Ci sono anche dei Lupi grigi in attività? Voglio dire, dei delinquenti conosciuti?»
Il diplomatico passò da una foto all’altra. Sembrava non sentirsi a proprio agio. Come se la sola visione di quegli uomini risvegliasse in lui un antico terrore. Puntò l’indice:
«Quello là: Oral Celik.»
«Chi è?»
«Il complice di Alì Agca. Uno dei due uomini che hanno cercato di assassinare il papa nel 1981.»
«Ed è in libertà?»
«È il sistema turco. Non dimentichi quali sono i rapporti tra i Lupi grigi e la polizia. E neanche l’immensa corruzione che c’è nel nostro sistema giudiziario…»
«Ne riconosce degli altri?»
«Non sono uno specialista.»
«Parlo di quelli celebri. Dei capifamiglia.»
«Vuole dire dei baba?»
Paul memorizzò quel termine che, senza dubbio, era l’equivalente turco di «padrino». Ajik si soffermò su ogni immagine:
«Certi mi dicono qualcosa», ammise infine. «Ma non mi ricordo i loro nomi. Sono facce che appaiono regolarmente sui giornali in occasione dei processi: traffico d’armi, rapimenti, case da gioco…»
Paul prese dalla tasca un pennarello:
«Provi a cerchiare i visi che conosce. E segni accanto il nome, se se lo ricorda.»
Il turco disegnò parecchi cerchi, ma non scrisse nessun nome. All’improvviso si fermò:
«Questo è una vera star. Una figura di livello nazionale.»
Indicò un uomo molto alto, di una settantina d’anni, che camminava appoggiandosi a un bastone. La fronte alta, i capelli grigi pettinati all’indietro, mascelle prominenti che gli davano un profilo da cervo. Una gran brutta faccia.
«Ismaïl Kudseyi. Il buyuk-baba più potente di Istanbul. Recentemente ho letto un articolo su di lui… Pare che sia ancora in gioco. Uno dei più grandi trafficanti di droga della Turchia. Le sue foto sono rare. Si racconta che abbia fatto cavare gli occhi a un fotografo che, di nascosto, aveva realizzato un servizio su di lui.»
«Le sue attività criminali sono note?»
Ajik scoppiò a ridere:
«Certo. A Istanbul dicono che la sola cosa che Kudseyi possa ancora temere sia un terremoto.»
«È legato ai Lupi grigi?»
«Eccome! È uno dei leader storici. La maggior parte degli attuali ufficiali di polizia si è formata nei suoi campi di addestramento. Ma è anche celebre per le sue attività filantropiche. La sua fondazione concede borse di studio ai bambini poveri. E sul fondo c’è sempre un patriottismo esacerbato.»
Paul notò un dettaglio:
«Cos’ha alle mani?»
«Delle cicatrici provocate dall’acido. Si racconta che abbia iniziato come assassino su commissione negli anni Sessanta. Faceva sparire i cadaveri con la soda caustica. Così dicono le voci.»
Paul sentiva uno strano formicolio nelle vene. Un uomo del genere avrebbe potuto ordinare la morte di Sema Gokalp. Ma per quale motivo? E perché lui e non il suo vicino nel corteo funebre? Come fare a condurre un’inchiesta a duemila chilometri di distanza?
Osservò altri volti cerchiati col pennarello. Facce dure, ferme, dai baffi bianchi di neve.
Suo malgrado, provava un rispetto equivoco per quei signori del crimine. Tra loro rimarcò un giovane dai capelli ispidi.
«E questo qui?»
«La nuova generazione. Azer Akarsa. Un pupillo di Kudseyi. Grazie all’aiuto della fondazione, questo piccolo contadino è diventato un grande uomo d’affari. Ha fatto fortuna nel commercio della frutta. Oggi, Akarsa possiede immense coltivazioni nella sua regione natale, vicino a Gaziantep. E non ha ancora quarant’anni. Un golden-boy in versione turca.»
Il nome Gaziantep fece scattare qualcosa nella mente di Paul. Tutte le vittime erano originarie di quella regione. Semplice coincidenza? Si soffermò su quel giovane che indossava una giacca di velluto abbottonata fino al collo. Più che a un uomo d’affari, assomigliava a uno studente bohemien e sognatore.
«Ha fatto politica?»
Ajik confermò con la testa.
«È un leader moderno. Ha fondato i suoi centri di attività. Lì si ascolta il rap, si discute dell’Europa, si bevono alcolici. Tutta roba dall’aria molto liberale.»
«È un moderato?»
«Solo in apparenza. Secondo me, Akarsa è un puro fanatico. Forse il peggiore di tutti. Crede in un radicale ritorno alle radici. È ossessionato dal passato prestigioso della Turchia. Anche lui ha una fondazione, con la quale finanzia degli scavi archeologici.»
A Paul vennero in mente le maschere antiche, i volti scolpiti come fossero pietre. Ma quella non era una pista. E neanche una teoria. Solo un delirio che non poggiava su niente.
«Ha delle attività criminali?» riprese.
«Credo di no. Akarsa non ha bisogno di soldi. E sono sicuro che disprezza i Lupi grigi che si compromettono con la mafia. Ai suoi occhi non sono degni della “causa”.»
Paul diede un’occhiata all’orologio: le nove e trenta. Era davvero l’ora di tornare ai suoi chirurghi. Riordinò le foto e si alzò:
«Grazie Alì. Sono sicuro che, in un modo o nell’altro, queste informazioni mi saranno molto utili.»
L’uomo lo riaccompagnò alla porta. Sulla soglia gli chiese:
«C’è una cosa che non mi ha ancora detto: i Lupi grigi hanno a che vedere con questa serie di omicidi?»
«Sì, è possibile che vi siano implicati.»
«Ma in che modo?»
«Non posso dire niente.»
«Lei… lei crede che siano a Parigi?»
Paul avanzò nel corridoio senza rispondere. Giunto alle scale si fermò:
«Ancora una domanda, Alì. Lupi grigi: perché questo nome?»
«È un riferimento al mito delle origini.»
«Che mito?»
«Si racconta che in tempi molto antichi, i turchi non fossero che un’orda affamata, senza rifugio, perduta nel cuore dell’Asia centrale. Erano ormai in agonia, quando trovarono alcuni lupi che li nutrirono e protessero. Dei lupi grigi che hanno dato origine al vero popolo turco.»
Paul si accorse che stava stringendo il mancorrente fino a far diventare bianche le nocche. Immaginò, nel sole, una muta che si scuoteva di dosso la polvere grigia delle steppe infinite. Ajik concluse:
«Proteggono la razza turca, capitano. Sono loro i guardiani delle origini, della purezza iniziale. Alcuni di loro credono persino di essere i lontani discendenti di una lupa bianca, Asena. Spero che lei si sbagli e che quegli uomini non siano a Parigi. Perché non sono dei criminali ordinari. Non assomigliano a nulla che lei abbia già visto, né da lontano, né da vicino.»
Appena entrato nella Golf, Paul sentì squillare il telefonino:
«Capitano, forse ho qualcosa.»
Era la voce di Naubrel.
«Cosa?»
«Interrogando uno che si occupa di impianti di riscaldamento, ho scoperto che le camere iperbariche vengono utilizzate in un settore di attività al quale non ci siamo ancora interessati.»
Aveva ancora la testa piena di lupi e di steppe e faceva fatica a capire cosa l’altro gli stava dicendo. Quasi a caso, domandò:
«Quale settore?»
«La conservazione degli alimenti. Una tecnica piuttosto recente, importata dal Giappone. Invece di scaldare i prodotti, li si sottopone a una pressione elevata. È più caro, ma permette di conservare le vitamine e…»
«Cazzo, vuota il sacco. Hai una pista?»
Naubrel si adombrò.
«Nella zona di Parigi ci sono diverse aziende che usano questa tecnica. Fornitori di generi di lusso, roba biologica e raffinata. Nella valle della Bièvre c’è uno stabilimento che mi sembra interessante.»
«Perché?»
«Appartiene a un’impresa turca.»
Paul percepì un pizzicore alla radice dei capelli.
«Qual è il nome?»
«Società Matak.»
Due sillabe che non gli dicevano nulla, naturalmente.
«Cosa fanno come prodotti?»
«Succhi di frutta e confetture fini. Secondo le mie informazioni, è più un laboratorio che un sito industriale. Una vera unità pilota.»
Il pizzicore si trasformò in onde elettriche. Azer Akarsa. Il golden-boy nazionalista che aveva fondato il proprio successo sulla frutticoltura. Il ragazzo venuto da Gaziantep. Poteva esserci un rapporto?
Con voce più ferma, Paul riprese:
«Devi trovare il modo di visitare quel luogo.»
«Adesso?»
«Secondo te? Voglio che tu ispezioni da cima a fondo i loro spazi pressurizzati. Ma attenzione: niente di ufficiale, niente tesserino.»
«Ma come vuole che faccia?»
«Inventati qualcosa. Voglio anche che tu identifichi i proprietari dell’azienda in Turchia.»
«Sarà certamente una holding o una società per azioni!»
«Interroga i responsabili sul posto. Contatta la Camera di Commercio qui in Francia. E in Turchia, se è necessario. Voglio la lista dei principali azionisti.»
Naubrel parve capire che il suo superiore aveva un’idea per la testa.
«Che cosa cerchiamo di preciso?»
«Forse un nome: Azer Akarsa.»
«Che cazzo di nomi… Può farmi lo spelling?»
Paul sillabò. Stava per riagganciare quando l’agente chiese:
«Ha acceso la radio?»
«Perché?»
«Questa notte, al cimitero Père-Lachaise, hanno rinvenuto un cadavere. Un corpo mutilato.»
Sentì tra le costole una freccia gelata.
«Una donna?»
«No. Un uomo. Un poliziotto. Un ex del decimo arrondissement. Jean-Louis Schiffer. Uno specialista di roba turca e…»
I danni maggiori causati da una pallottola nel corpo umano non sono provocati dal proiettile in sé, ma dalla sua scia, dal vuoto distruttore che essa crea, come una coda di cometa attraverso la pelle, i tessuti, le ossa.
Paul sentì che quelle parole lo attraversavano allo stesso modo, amplificandosi nelle sue viscere, disegnando una linea di dolore che lo fece urlare. Ma neppure lui sentì il suo grido, perché aveva già piazzato il lampeggiatore sul tettuccio e aveva già azionato la sirena.
Erano tutti là.
Poteva classificarli a seconda della loro tenuta. Gli alti papaveri di piace Beauveau, cappotto nero e scarpe lucidate, che portavano il lutto come una seconda natura. I commissari e i capi brigata, in verde mimetico o in pied-de-poule autunnale, assomigliavano a cacciatori appostati. Gli agenti della giudiziaria, con il giubbotto di pelle e il bracciale rosso, sembravano papponi riconvertiti in poliziotti. Indipendentemente dal grado o dalla funzione, la maggior parte di loro portava i baffi. Era un segno di appartenenza, un marchio che superava le differenze, atteso quanto la coccarda sui loro tesserini.
Paul superò la barriera dei furgoni e delle autopattuglie con i lampeggiatori che giravano in silenzio, ai piedi del tempio crematorio. Si infilò con discrezione sotto il nastro giallo che sbarrava l’ingresso degli edifici.
Una volta all’interno della recinzione, girò a sinistra, sotto le arcate, a si piazzò dietro a una colonna. Non si concesse il tempo di ammirare il posto, di guardare quelle lunghe gallerie tappezzate di nomi e di fiori, quell’atmosfera di rispetto sacro che affiorava dal marmo, dove la memoria dei morti planava come una bruma sopra l’acqua. Si concentrò piuttosto su un gruppo di poliziotti, in piedi nel giardino, per cercare di scorgere tra loro dei volti conosciuti.
Il primo che vide fu Philippe Charlier. Drappeggiato nel suo loden, il Gigante Verde meritava più che mai il suo soprannome. Vicino a lui c’era Christophe Beauvanier, cappellino da baseball e giacca di pelle. Quei due poliziotti, interrogati nella notte da Schiffer, sembravano essersi precipitati lì come sciacalli per assicurarsi che il corpo fosse davvero freddo. Non lontano, Paul notò Jean-Pierre Guichard, il procuratore della Repubblica, Claude Monestier, il commissario capo del Louis-Blanc e anche il giudice Thierry Bomarzo, uno dei pochi che conoscesse il vero ruolo svolto da Schiffer in tutto quell’affare di merda. Paul capì che quella parata ufficiale significava per lui soltanto che la sua carriera non sarebbe sopravvissuta a tutto quel casino.
Ma la cosa più sorprendente era la presenza di Morencko, il capo dell’antiterrorismo, e di Pollet, il comandante della narcotici. C’era un po’ troppa gente per la morte di un semplice ispettore in pensione. Paul pensò a una bomba la cui potenza si sarebbe rivelata solo dopo l’esplosione.
Si avvicinò, sempre al riparo delle colonne. Nella sua testa avrebbero dovuto affollarsi le domande. E invece era colpito da un fatto. Quel corteo di figure scure, sotto le volte del tempio, gli ricordava stranamente le esequie di Alpaslan Türkes. Stesso fasto, stessa solennità, stessi baffi. A suo modo, Jean-Louis Schiffer era riuscito a ottenere dei funerali di stato.
Scorse un’ambulanza, in fondo al parco, ferma vicino a un’entrata sotterranea. Alcuni infermieri in blusa bianca fumavano e parlavano con gli agenti in uniforme. Sicuramente stavano aspettando che la polizia scientifica finisse i rilievi per portare via il corpo. Dunque, Schiffer era ancora all’interno.
Paul uscì dal suo nascondiglio e si diresse verso l’entrata, riparato dalle siepi di ligustro. Stava per raggiungere la scala, quando una voce lo chiamò:
«Ehi! Di là non si passa.»
Si girò e mostrò il tesserino. Il piantone si impietrì, quasi sull’attenti. Paul lo abbandonò al suo stupore e, senza una parola, scese fino al cancello di ferro forgiato.
Gli sembrò di entrare nel dedalo di una miniera, con le sue gallerie e i suoi diversi livelli. Poi i suoi occhi si abituarono all’oscurità e cominciò a comprendere la topografia del luogo. Dei camminamenti bianchi e neri scandivano migliaia di nicchie, di nomi, di mazzi di fiori sospesi in guaine di vetro. Una città troglodita scavata nella roccia.
Si sporse al di sopra di un pozzo aperto sui piani inferiori. Nel secondo interrato riluceva un alone bianco: gli uomini della scientifica erano laggiù. Trovò una nuova scala e scese. Man mano che si avvicinava alla luce, l’aria sembrava scurirsi e pigmentarsi. Nelle narici si insinuava uno strano odore: secco, pungente, minerale.
Giunto al secondo livello, girò a destra. Più che la sorgente luminosa, ora egli seguiva l’odore. Alla prima svolta, vide dei tecnici in tuta bianca, con in testa dei berretti di carta. Avevano installato il loro quartier generale all’incrocio di diverse gallerie. Nelle loro valige cromate, appoggiate su contenitori in plastica, si intravvedevano provette, fiale, spray. Paul si avvicinò senza far rumore; le due sagome gli voltavano la schiena.
Non dovette sforzarsi per tossire: l’aria era satura di polvere. I cosmonauti si girarono; portavano delle maschere a forma di Y rovesciata. Paul esibì di nuovo il tesserino. Una delle teste d’insetto fece «no», alzando le mani guantate.
Risuonò una voce soffocata, impossibile dire quale dei due parlasse:
«Spiacente. Stiamo cominciando il lavoro delle impronte.»
«Solo un minuto. Era il mio compagno. Cazzo, cercate di capirmi.»
Le due Y si guardarono. Trascorse qualche istante. Uno dei tecnici prese una maschera nella valigia:
«Terzo corridoio», disse. «Segui le luci. E resta sulle tavole di legno. Non un piede a terra.»
Ignorando la maschera, Paul si mise in marcia. L’uomo lo fermò:
«Prendila. Altrimenti non riuscirai a respirare.»
Imprecando, Paul fissò il guscio bianco. Costeggiò il primo corridoio sulla sinistra, camminando sulle assi e scavalcando i cavi dei proiettori installati a ogni incrocio. I muri gli parevano interminabili, come interminabile era la litania di nicchie e di iscrizioni funerarie, mentre nell’aria le particelle grigie aumentavano di densità.
Infine, dopo aver svoltato, capì l’avvertimento.
Sotto la luce delle alogene, tutto era grigio: pavimento, pareti, soffitto. Le ceneri dei morti erano uscite dalle nicchie sventrate dai proiettili. Decine di urne erano rotolate a terra, mescolando il loro contenuto alle macerie e all’intonaco.
Sui muri, Paul riuscì a distinguere gli impatti di due armi differenti: un grosso calibro, tipo Shotgun, e una pistola semiautomatica, una 9 millimetri o una 45.
Avanzò, affascinato da quello spettacolo lunare. Aveva visto delle fotografie di città sepolte da un’eruzione vulcanica, nelle Filippine. Strade fossilizzate dalla lava rappresa. Superstiti sconvolti, con facce da statua, che portavano in braccio bambini di pietra. Davanti a lui si stendeva lo stesso panorama.
Superò un nuovo nastro giallo, poi, all’improvviso, in fondo al corridoio, lo vide.
Schiffer aveva vissuto come un bastardo. Ed era morto come un bastardo, in un ultimo soprassalto di violenza.
Il suo corpo, uniformemente grigio, era curvo, di profilo, la gamba destra ripiegata sotto l’impermeabile, la mano destra accartocciata come la zampa di un gallo. Una pozza di sangue si allargava dietro a ciò che restava della scatola cranica, come se uno dei suoi sogni più foschi gli fosse esploso in testa.
Ma la cosa peggiore era la faccia. Le ceneri che la ricoprivano non riuscivano a mascherare l’orrore delle ferite. Un globo oculare era stato strappato, larghi tagli laceravano la gola, la fronte e le guance. Uno di essi, più lungo e profondo, scopriva la gengiva fino a incrociare la ferita dell’orbita. La bocca assumeva così una smorfia atroce, debordante di creta rosa e argento.
Piegato in due da una nausea brutale, Paul si strappò la maschera. Ma il suo stomaco era completamente vuoto. Da quelle convulsioni, l’unica cosa che emerse furono le domande fino a quel momento trattenute: perché Schiffer era venuto lì? Chi l’aveva ucciso? Chi aveva potuto raggiungere un tale grado di barbarie?
In quel momento, cadde in ginocchio e scoppiò in singhiozzi. In un attimo, le lacrime sgorgarono abbondanti, senza che lui cercasse di fermarle o di asciugare il fango che si accumulava sulle sue guance.
Non piangeva per Schiffer.
Non piangeva neppure per le donne assassinate. E neanche per quella che era sotto tiro, in fuga da qualche parte.
Piangeva per sé stesso.
Per la sua solitudine e per il vicolo cieco nel quale ormai si trovava.
«Sarebbe ora che ci parlassimo un po’, non crede?»
Un uomo con gli occhiali, che non aveva mai visto, che non portava la maschera e il cui corpo coperto di polvere sembrava una stalattite, gli stava sorridendo.
«Dunque è lei che ha rimesso in circolazione Schiffer!»
La voce era chiara, forte, quasi allegra, come lo era il blu del cielo.
Paul scosse le ceneri dal suo parka e tirò su col naso; aveva ritrovato un’apparenza di contegno.
«Sì, avevo bisogno di consigli.»
«Che genere di consigli?»
«Sto lavorando su una serie di omicidi nel quartiere turco, a Parigi.»
«La sua iniziativa era stata autorizzata dai superiori?»
«Lei conosce bene la risposta.»
L’uomo con gli occhiali annuì. Non era solo alto: tutto il suo aspetto era imponente. Faccia altera, mento rilevato, fronte ampia incorniciata da ricci grigi. Un alto funzionario nel pieno degli anni, con un profilo curioso da levriero.
Paul sondò il terreno:
«Lei è dell’Ispettorato generale dei servizi?»
«No. Sono Olivier Amien. Osservatorio geopolitica delle droghe.»
Quando lavorava all’OCTRES, Paul sentiva spesso quel nome. Amien era il grande capo della lotta agli stupefacenti in Francia. Un uomo che dettava legge tanto alla narcotici, quanto ai servizi antidroga internazionali.
Voltarono le spalle al tempio crematorio e si incamminarono lungo un vialetto che sembrava una strada acciottolata del XIX secolo. Paul scorse dei necrofori che fumavano, appoggiati a una tomba. Sicuramente stavano parlando dell’incredibile scoperta di quella mattina.
Amien riprese, con un tono carico di sottintesi:
«Credo che lei abbia lavorato anche all’Ufficio centrale degli stupefacenti…»
«Sì, per qualche anno.»
«In quale ambito?»
«Roba piccola. Cannabis soprattutto. Le reti del Nordafrica.»
Amien fece brillare un sorriso nel sole.
«Spero che un breve corso di storia contemporanea non la spaventi…»
Paul pensò a tutti i nomi e a tutte le date che aveva ingurgitato fin dall’alba.
«Faccia pure. Sto seguendo i corsi di recupero.»
L’alto funzionario sistemò sul naso gli occhiali e cominciò.
«Immagino che il nome talebani le dica qualcosa. Dopo l’11 settembre, nessuno ignora più l’esistenza di quegli integralisti. I media hanno passato al setaccio la loro vita e le loro opere… I buddha distrutti. La loro amicizia con Bin Laden. Il loro atteggiamento schifoso verso le donne, verso la cultura e verso ogni forma di tolleranza. Ma c’è una cosa che non si conosce, il solo punto positivo di quel regime: quei barbari hanno lottato con successo contro la produzione di oppio. Durante il loro ultimo anno di potere, hanno praticamente annientato la coltivazione del papavero in Afghanistan. Dalle tremila trecento tonnellate di oppio base prodotte nel 2000, siamo passati a centottantacinque nel 2001. Ai loro occhi, quell’attività era contraria alle leggi coraniche. Certo, dopo che il mullah Omar ha perso il potere, la coltivazione del papavero ha ripreso alla grande. Mentre parliamo, i contadini del Ningarhar guardano schiudersi i fiori della loro semina del novembre scorso. Tra poco, alla fine di aprile, cominceranno la raccolta.»
L’attenzione di Paul andava e veniva, come sotto l’effetto di un’onda interna. La crisi di pianto gli aveva intenerito lo spirito. Era in uno stato di ipersensibilità, pronto a scoppiare a ridere o a piangere al minimo segnale.
«…Ma prima dell’attentato dell’11 settembre», proseguì Amien, «nessuno sospettava che il regime sarebbe finito. Dunque, i narcotrafficanti cominciavano a interessarsi ad altre filiere. I buyuk-baba turchi, i padrini che si occupavano di esportare l’eroina verso l’Europa, si erano orientati verso altri paesi produttori come l’Uzbekistan e il Tagikistan. Non so se lei lo sa, ma sono paesi che condividono le stesse radici linguistiche.»
Paul tirò ancora su col naso:
«Sì, comincio a conoscerle queste cose.»
Amien assentì brevemente.
«Prima, i turchi compravano l’oppio in Afghanistan e in Pakistan. Raffinavano la morfina base in Iran, poi fabbricavano l’eroina nei loro laboratori in Anatolia. Con i popoli di lingua turca, hanno dovuto modificare la loro filiera. Hanno raffinato la gomma nel Caucaso, poi hanno prodotto la polvere bianca nella parte più orientale dell’Anatolia. Questi circuiti hanno richiesto un po’ di tempo per consolidarsi e, stando a quello che sappiamo, fino all’anno scorso erano ancora abbastanza improvvisati. Alla fine dell’inverno 2000-2001 abbiamo sentito parlare di un progetto di alleanza. Un’alleanza triangolare tra la mafia uzbeka, che controlla gli immensi territori delle coltivazioni, i clan russi, eredità dell’Armata Rossa, che controllano da decenni le strade del Caucaso e il lavoro di raffinazione che si svolge in quelle zone, e infine le famiglie turche, che assicurano la fabbricazione dell’eroina propriamente detta. Non avevamo nessun nome, nessuna precisazione, ma alcuni dettagli significativi lasciavano pensare che si stesse preparando una riunione al vertice.»
Giunsero in una parte buia del cimitero. Loculi neri, porte buie, tetti obliqui: quella zona ricordava un villaggio di minatori, schiacciato sotto un cielo di carbone. Amien schioccò la lingua e poi continuò:
«…Questi tre gruppi criminali hanno deciso di inaugurare la loro associazione con un carico-pilota. Una piccola quantità di droga da esportare con funzione di test e dal grande valore simbolico. Una vera porta aperta sull’avvenire… Per l’occasione, ogni partner ha voluto dimostrare la propria specifica capacità. Gli uzbeki hanno fornito una gomma-base di grande qualità. I russi hanno messo al lavoro i loro migliori chimici per raffinare la morfina base e i turchi, dall’altro capo della filiera, hanno fabbricato un’eroina praticamente pura. Un nettare. Noi riteniamo che si siano anche incaricati dell’esportazione del prodotto e del suo trasferimento in Europa. Dovevano dimostrare la loro affidabilità in questo campo. Attualmente, i turchi incontrano una forte concorrenza da parte dei clan albanesi e kosovari che sono diventati padroni delle strade balcaniche.»
Paul continuava a non capire in che modo quella storia lo riguardasse.
«…Tutto questo capitava alla fine dell’inverno 2001. Abbiamo aspettato la primavera per veder comparire questo famoso carico alle nostre frontiere. Un’occasione unica per stroncare sul nascere la nuova filiera…»
Paul osservava le tombe. Ora erano in un luogo chiaro, cesellato, come una musica di pietra che mormorava alle sue orecchie.
«…A partire dal mese di marzo, in Germania, in Francia e in Olanda, le dogane sono state messe in stato di massima allerta. I porti, gli aeroporti, le frontiere stradali erano permanentemente sorvegliati. In ciascun paese sono state interrogate le comunità turche. Abbiamo dato una scrollata ai nostri informatori, messo sotto intercettazione i trafficanti… Fino alla fine di maggio non siamo riusciti a pescare niente. Non un indizio, non un’inforinazione. In Francia abbiamo cominciato a preoccuparci. Abbiamo deciso di scavare più a fondo nella comunità turca. Di fare ricorso a uno specialista. Un uomo che conoscesse i circuiti anatolici come le proprie tasche e che potesse diventare un vero “sottomarino”.»
Furono queste ultime parole a riportare Paul alla realtà. Capì in un istante di essere lui il legame tra le sue inchieste.
«Jean-Louis Schiffer», disse senza nemmeno riflettere.
«Esattamente. Il Cifra, o il Fer, a piacere.»
«Ma era in pensione.»
«Abbiamo dovuto chiedergli di rientrare in gioco…»
Ogni cosa andava al suo posto. Il lavoro di insabbiamento dell’aprile 2001. La corte d’appello di Parigi che rinunciava a perseguire Schiffer per l’omicidio di Gazil Hamet. Paul fece le sue deduzioni ad alta voce:
«Jean-Louis Schiffer ha venduto la sua collaborazione. Ha preteso che si insabbiasse l’affare Hamet.»
«Vedo che lei conosce bene il dossier.»
«Faccio anch’io parte del dossier. E comincio a capire come funzionano le cose alla polizia. La vita di un piccolo spacciatore non vale niente in confronto alle sue grandi ambizioni di caposervizio.»
«Lei dimentica la nostra motivazione principale: fermare un circuito internazionale, bloccare…»
«La smetta. Conosco la canzone.»
Amien alzò le sue lunghe mani, come per rinunciare a ogni polemica su quell’argomento.
«Comunque, il nostro problema è stato ancora un altro.»
«Cioè?»
«Schiffer ha cambiato bandiera. Quando ha scoperto quale clan partecipava all’alleanza e quali erano le modalità di spedizione, non ci ha avvisato. Pensiamo che abbia offerto i suoi servizi al cartello dei trafficanti. Probabilmente si è fatto avanti per accogliere il corriere qui a Parigi e per fornire la droga ai migliori distributori. Chi meglio di lui conosceva i trafficanti presenti sul territorio francese?»
Amien rise cinicamente:
«In questo affare abbiamo avuto poco intuito. Abbiamo richiesto il Fer, ma ci è capitato il Cifra… Gli abbiamo proposto l’occasione che aspettava da sempre. Per Schiffer, questo affare era una vera apoteosi.»
Paul rimase in silenzio. Cercava di ricostruire il proprio mosaico, ma le lacune erano ancora troppo numerose. Dopo un minuto riprese:
«Se Schiffer ha concluso la sua carriera con quel colpo da maestro, perché stava lì a marcire all’ospizio di Longères?»
«Perché, ancora una volta, le cose non sono andate come previsto.»
«Sarebbe a dire?»
«Il corriere mandato dai turchi non si è mai fatto vivo. È lui che ha fregato tutti e se l’è filata con il carico. Sicuramente, Schiffer ha avuto paura che sospettassimo di lui e ha preferito sotterrarsi a Longères in attesa che le acque si calmassero. Anche un uomo come lui temeva i turchi. Lei immagina cosa fanno ai traditori…»
Nuovo ricordo: il Cifra che si ritira sotto falso nome a Longères, la sua aria da clandestino all’ospizio. Sì: temeva le rappresaglie delle famiglie turche. I pezzi si sistemavano, ma Paul non era ancora convinto. L’insieme gli sembrava troppo fragile, troppo precario.
«Tutto questo», replicò, «non è che frutto di ipotesi. Non avete uno straccio di prova. In primo luogo, come fate a essere sicuri che la droga non è mai arrivata in Europa?»
«Ci sono due elementi che lo dimostrano chiaramente. Primo: un’eroina del genere avrebbe fatto un bel po’ di rumore sul mercato. Ad esempio avremmo dovuto constatare una recrudescenza di morti per overdose, ma non è successo niente.»
«E il secondo elemento?»
«Abbiamo ritrovato la droga.»
«Quando?»
«Proprio oggi.» Amien diede un’occhiata dietro di sé. «Nel tempio crematorio.»
«Qui?»
«Se avesse proseguito ancora un po’ nella cripta, l’avrebbe vista lei stesso, sparsa tra le ceneri dei morti. Doveva essere nascosta in una delle nicchie che sono state sventrate nella sparatoria. Ora è inutilizzabile. Devo confessare che il simbolismo è efficace: la morte bianca tramutata in morte grigia… Schiffer, questa notte, è venuto a cercare quell’eroina. È la sua inchiesta che lo ha portato fino alla droga.»
«Quale inchiesta?»
«La vostra.»
Erano cavi elettrici che continuavano a non trovare i loro giusti collegamenti. Con la testa confusa, Paul bofonchiò:
«Non capisco.»
«Eppure è tutto così maledettamente semplice. Da parecchi mesi abbiamo cominciato a pensare che il corriere utilizzato dai turchi fosse una donna. In Turchia le donne sono medici, ingegneri, ministri. Perché non trafficanti di droga?»
Questa volta il collegamento ebbe luogo. Sema Gokalp, Anna Heymes. La donna dai due volti. La mafia turca aveva inviato i Lupi sulle tracce di quella che l’aveva tradita.
La preda era il corriere.
Paul abbozzò una ricostruzione lampo: quella notte, Schiffer aveva sorpreso Sema mentre recuperava la droga.
C’era stato lo scontro.
C’era stato il massacro.
E la preda fuggiva ancora…
Olivier Amien non rideva più:
«La sua inchiesta ci interessa, Nerteaux. Abbiamo stabilito un legame tra le tre vittime del suo caso e la donna che stiamo cercando. I capi del cartello turco hanno mandato dei killer per scovarla, ma fino a ora non l’hanno beccata. Dov’è? Lei ha qualche indizio per trovarla?»
Paul non rispose. Pensò al treno che gli era passato sotto il naso: i Lupi grigi che torturano le donne, sulla pista della droga; Schiffer che con il suo fiuto capisce che anche lui sta inseguendo la stessa persona, quella che lo aveva fregato fuggendo con il prezioso carico…
All’improvviso prese la decisione. Senza preamboli, raccontò tutta la questione a Olivier Amien. Il rapimento di Zeynep Tütengil, nel novembre 2001. La scoperta di Sema Gokalp nel bagno turco. L’intervento di Philippe Charlier e la sua operazione di pulizia. Il programma di condizionamento psichico. La creazione di Anna Heymes. La memoria che a poco a poco ritornava… fino a farla rientrare nei suoi panni di trafficante e a farle prendere la strada del cimitero.
Quando Paul ebbe finito, l’alto funzionario pareva rintronato. Dopo un lungo silenzio, chiese:
«È per questo che Charlier è là?»
«Con Beauvanier. Ci sono dentro fino al collo in questa storia. Sono venuti ad assicurarsi che Schiffer sia davvero morto. Ma resta Anna Heymes. E Charlier deve ritrovarla prima che lei parli. La eliminerà appena l’avrà presa. State correndo tutti dietro alla stessa lepre.»
Amien si piazzò davanti a Paul, immobile. La sua espressione aveva la durezza della pietra:
«Charlier è un problema mio. Lei cos’ha per localizzare la donna?»
Paul guardò le tombe intorno a sé. Un ritratto antiquato, in una cornice ovale. Una Vergine placida, con lo sguardo verso il basso, drappeggiata in una languida cappa. Un Cristo taciturno, dai riflessi di bronzo…
Amien gli afferrò violentemente il braccio:
«Qual è la sua pista? L’assassinio di Schiffer le ricadrà addosso. Come poliziotto lei è finito. A meno che non si becchi la ragazza e che l’affare venga portato alla luce. Con lei nel ruolo di eroe. Ripeto la mia domanda: qual è la sua pista?»
«Voglio continuare l’inchiesta per conto mio», dichiarò Paul.
«Mi dia le informazioni, poi si vedrà.»
«Voglio la sua parola.»
Amien si irritò:
«Parli, santo dio.»
Paul abbracciò con un ultimo sguardo i monumenti: la faccia corrosa della Vergine, la lunga testa del Cristo, il cammeo dai tratti seppia… Comprese infine il messaggio: i volti. La sola via per raggiungerla.
«Ha cambiato faccia», mormorò. «Chirurgia estetica. Ho la lista dei dieci chirurghi che, a Parigi, avrebbero potuto effettuare l’operazione. Ne ho già visitati tre. Mi dia il resto della giornata per interrogare gli altri.»
Amien mostrò tutta la sua delusione.
«È… è tutto quello che ha in mano?»
Paul si ricordò dell’impianto di conservazione della frutta, del vago sospetto su Azer Akarsa. Se quel bastardo era implicato nella serie di omicidi, lui lo voleva tutto per sé.
«Sì», mentì. «È tutto. Ed è già parecchio. Schiffer era convinto che il chirurgo ci avrebbe permesso di ritrovarla. Mi lasci provare che aveva ragione.»
Amien serrò le mascelle: ora assomigliava a un predatore. Indicò il cancello alle spalle di Paul:
«La stazione del metrò Alexandre-Dumas è dietro di lei, a cento metri. Sparisca. Le do fino a mezzogiorno per beccarla.»
Paul capì che il poliziotto lo aveva portato lì intenzionalmente. Era fin dall’inizio che voleva proporgli quel patto. Gli infilò un biglietto da visita nella tasca:
«Il mio cellulare. La ritrovi, Nerteaux. È la sua sola possibilità di venirne fuori. Altrimenti, nel giro di qualche ora, la preda sarà lei.»
Paul non prese il metrò. Nessun poliziotto degno di questo nome prende il metrò.
Corse fino a piace Gambetta, seguendo il muro di cinta del cimitero, e recuperò la sua macchina parcheggiata in rue Emile-Landrin. Tirò fuori la sua vecchia mappa di Parigi, ancora macchiata di sangue, e rilesse la lista degli ultimi medici.
Sette chirurghi.
Distribuiti su quattro quartieri di Parigi e due cittadine dell’hinterland.
Segnò il loro indirizzo con un cerchio sulla carta, poi mise a punto l’itinerario più rapido per interrogarli l’uno dopo l’altro.
Quando fu sicuro della via da seguire, fissò il lampeggiatore e sgommò, concentrato sul primo nome.
Dottor Jérôme Chéret.
18, rue du Rocher, ottavo arrondissement.
Puntò a ovest, risalì il boulevard de la Villette, il boulevard Rochechouart, poi il boulevard de Clichy. Passava sulle corsie preferenziali dei bus, divorava le piste ciclabili, mordeva i marciapiedi e, per due volte, prese persino delle strade contromano.
Giunto in vista del boulevard de Batignolles, rallentò e chiamò Naubrel:
«Dove sei?»
«Sto uscendo dallo stabilimento della Matak. Me la sono cavata con i tipi dell’Ufficio d’igiene. Una visita a sorpresa.»
«E allora?»
«Una fabbrica bianchissima, pulitissima. Un vero laboratorio. Ho visto la camera iperbarica. Lavata con cura: inutile cercare qualsiasi traccia. Ho anche parlato con gli ingegneri…»
Paul aveva immaginato un sito industriale in stato di abbandono, pieno di ruggine e di grida che nessuno avrebbe potuto sentire. Ma l’idea di uno spazio immacolato gli parve di colpo più adatta.
«Hai interrogato il capo stabilimento?» chiese.
«Sì. Con discrezione. È un francese. Mi è sembrato pulito.»
«E più in alto? Sei risalito ai proprietari turchi?»
«Lo stabilimento dipende da una società per azioni, la YALIN AS, a sua volta appartenente a una holding con sede ad Ankara. Ho già contattato la Camera di commercio di…»
«Vedi di sbrigarti. Trova la lista degli azionisti. E controlla prima di tutto il nome di Azer Akarsa.»
Riagganciò e consultò l’orologio: venti minuti da quando era partito dal cimitero.
All’incrocio di Viller, svoltò bruscamente a sinistra e si ritrovò in rue du Rocher. Spense la sirena e il lampeggiatore: era d’obbligo un ingresso senza clamore.
Alle undici e venti suonava il campanello di Jérôme Chéret. Venne fatto passare per una porta secondaria, per non spaventare la clientela. Il medico lo ricevette discretamente nell’anticamera della sala operatoria.
«Solo un’occhiata», disse Paul dopo qualche parola di spiegazione.
Questa volta si limitò a due documenti: l’identikit di Sema Gokalp e il nuovo viso di Anna.
«È la stessa?» chiese il medico con tono ammirato. «Bel lavoro.»
«La conosce o no?»
«Né una né l’altra. Spiacente.»
Paul scese di corsa le scale, tra tappeti rossi e stucchi bianchi.
Un segno di cancellatura sulla mappa e di nuovo in strada.
Erano le undici e quaranta.
Dottor Thierry Dewaele.
22, rue de Phalsbourg, diciassettesimo arrondissement.
Stesso genere di edificio, stesse domande, stessa risposta.
Alle dodici e quindici, mentre Paul girava di nuovo la chiave di avviamento, il telefonino gli squillò nella tasca. Un messaggio di Matkowska: aveva già chiamato durante il suo breve colloquio con il medico. Evidentemente, dietro quegli spessi muri da casa di lusso, il telefonino non prendeva. Lo richiamò.
«Ho delle novità sulle sculture antiche», disse Matkowska. «Un sito archeologico che riunisce delle teste giganti. Ho le foto. Quelle statue presentano delle fessure… Hanno esattamente lo stesso andamento delle mutilazioni…»
Paul chiuse gli occhi. Non capiva cosa lo esaltava maggiormente: l’avvicinarsi alla follia omicida o l’aver avuto ragione fin dall’inizio.
Matkowska proseguì, agitato:
«Sono teste di dei, mezzi greci e mezzi persiani, che risalgono agli inizi dell’era cristiana. Il santuario di un re, in cima a una montagna, nella Turchia orientale…»
«Dove esattamente?»
«A sud-est. Verso la frontiera siriana.»
«Dammi dei nomi di città importanti.»
«Aspetti.»
Sentì rumore di fogli e bestemmie soffocate. Si guardò le mani: non tremavano. Si sentiva pronto, foderato da un involucro di ghiaccio.
«Ecco. Ho la cartina. Il sito archeologico di Nemrut Daği è vicino ad Adiyaman e a Gaziantep.»
Gaziantep. Una nuova convergenza di eventi in direzione di Azer Akarsa. Possiede immense coltivazioni nella sua regione natale, vicino a Gaziantep, aveva detto Alì Ajik. Quelle coltivazioni erano forse situate ai piedi della stessa montagna che ospitava le sculture? Azer Akarsa era cresciuto all’ombra di quelle teste colossali?
Paul tornò al punto cruciale. Aveva bisogno di sentirselo confermare:
«E quelle teste richiamano veramente il viso delle vittime?»
«Capitano, è allucinante. Le stesse spaccature, le stesse mutilazioni. C’è la statua di una dea della fertilità che assomiglia perfettamente al volto della terza vittima. Niente naso, mento piallato… Ho sovrapposto le due immagini. Le fessure coincidono al millimetro. Non so cosa voglia dire, ma è roba da prendersi un colpo e…»
Paul sapeva per esperienza che, dopo un lungo tunnel, gli indizi decisivi potevano venir fuori uno dietro l’altro nel giro di poche ore. Risentì ancora una volta la voce di Ajik: È ossessionato dal passato prestigioso della Turchia. Anche lui ha una fondazione, con la quale finanzia degli scavi archeologici.
Il golden-boy finanziava dei lavori di restauro proprio su quel sito? Quei volti ancestrali lo interessavano per una ragione personale?
Paul si fermò, fece un lungo respiro, poi si pose la questione essenziale: Azer Akarsa era l’assassino principale, il capo del commando? La sua passione per gli antichi resti poteva giungere a esprimersi in quegli atti di tortura e di mutilazione? Era ancora troppo presto per andare così lontano. Paul staccò la mente da quella teoria, poi ordinò:
«Concentrati su quei monumenti. Cerca di scoprire se recentemente ci sono stati lavori di restauro. Se sì, cerca chi li finanzia.»
«Lei ha un’idea?»
«Può darsi che sia una fondazione, ma non ne conosco il nome. Se la scopri, trovane l’organigramma e consulta la lista dei principali donatori, dei responsabili. Cerca in particolare il nome di Azer Akarsa.»
Fece di nuovo lo spelling del cognome. Ora gli sembrava che tra le lettere balenassero scintille.
«È tutto?» chiese l’agente.
«No», fece Paul quasi senza voce. «Verifica anche i visti di ingresso concessi ai cittadini turchi a partire dal novembre scorso. Controlla se Akarsa è tra quelli.»
«Ma ci vorranno delle ore!»
«No. È tutto informatizzato. E ho già avvertito un tipo dell’Immigrazione. Contattalo e dagli quel nome. Sbrigati.»
«Ma…»
«Muoviti.»
Didier Laferrière.
12, rue Boissy-d’Anglas, ottavo arrondissement.
Varcando la soglia dell’appartamento, Paul ebbe un presentimento; una sensazione da sbirro, quasi paranormale. Lì c’era qualcosa che faceva al caso suo.
Lo studio era sprofondato nella penombra. Il chirurgo, un omino dai capelli grigi e crespi, rimase dietro la sua scrivania. Con una voce neutra chiese:
«La polizia? Che cosa è successo?»
Paul espose la situazione e tirò fuori le sue foto. Il medico parve farsi ancora più piccolo. Accese una lampada sul tavolo e si chinò verso i documenti.
Senza esitazione, puntò l’indice sul ritratto di Anna Heymes.
«Non l’ho operata, ma questa donna io la conosco.»
Paul serrò i pugni. Santo dio, la sua ora era venuta.
«È passata di qui qualche giorno fa», continuò l’uomo.
«Può essere più preciso?»
«Lunedì scorso. Se vuole posso verificare sull’agenda…»
«Cosa voleva?»
«Aveva un’aria strana.»
«Perché?»
Il chirurgo scosse il capo.
«Mi ha fatto delle domande sulle cicatrici conseguenti a certi interventi.»
«E cosa c’è di strano in questo?»
«Niente. Solo che, o recitava una commedia, o soffriva di amnesia.»
«Perché?»
Il dottore tamburellò col dito sulla foto di Anna Heymes:
«Perché questa donna aveva già subito l’operazione. Alla fine del nostro colloquio, ho notato le cicatrici. Non so cosa cercasse venendo da me. Forse voleva intraprendere un’azione legale contro chi l’aveva operata.»
Riguardò il ritratto.
«Peraltro, si tratta di un lavoro stupendo.»
Un altro punto per Schiffer. «Secondo me, sta investigando su sé stessa.» Era esattamente ciò che era successo: Anna Heymes aveva braccato Sema Gokalp. Aveva risalito il filo del proprio passato.
Paul era senza fiato, aveva l’impressione di seguire una scia di fuoco. La preda era là, davanti a lui, a portata di mano.
«È tutto quello che ha detto?» riprese. «Nessun indirizzo?»
«No. Ha concluso dicendo solo “giudicherò prove alla mano” o qualcosa del genere. Era incomprensibile. Chi è quella donna, esattamente?»
Paul si alzò senza rispondere. Prese un blocco di post-it sulla scrivania e scrisse il proprio numero di cellulare:
«Se per caso la richiama, cerchi di localizzarla. Le parli dell’operazione. Degli effetti collaterali. Qualsiasi cosa. L’importante è che lei la blocchi e mi chiami. Capito?»
«È certo di stare bene?»
Paul si fermò con la mano sulla maniglia della porta:
«Perché?»
«Non so. È tutto rosso.»
Pierre Laroque
24, rue Maspero, sedicesimo arrondissement.
Niente.
Jean-François Skenderi, Clinica Massener,
58, avenue Paul-Doumer, sedicesimo arrondissement.
Niente.
Alle due del pomeriggio, Paul attraversò di nuovo la Senna.
Direzione rive Gauche.
Una forte emicrania l’aveva indotto a rinunciare al lampeggiatore e alla sirena, e cercava frammenti di pace sul volto dei passanti, tra i colori delle vetrine, tra i riflessi del sole. Era meravigliato di fronte a quella gente che viveva una giornata normale in un’esistenza normale.
Chiamò più volte i suoi luogotenenti. Naubrel continuava a battagliare con la Camera di commercio di Ankara. Matkowska stava passando al setaccio i musei, gli istituti di archeologia, gli uffici del turismo e persino l’UNESCO, alla ricerca di chi aveva finanziato i lavori a Nemrut Daği. Nello stesso tempo non perdeva di vista la lista dei visti, che il motore di ricerca continuava ad analizzare, anche se il nome di Akarsa si rifiutava di comparire.
Paul stava soffocando nel suo stesso corpo. Piastre infuocate gli bruciavano il volto. L’emicrania gli spaccava la nuca. E poi palpitazioni lancinanti, così forti che avrebbe potuto contarle. Avrebbe dovuto fermarsi in una farmacia, ma continuava a rimandare quella sosta al crocevia successivo.
Bruno Simonnet
139, avenue de Ségur, settimo arrondissement.
Il chirurgo era un uomo massiccio. In braccio teneva un grosso gatto. A vederli insieme, in una così perfetta osmosi, non si capiva quale dei due accarezzasse l’altro. Paul stava mettendo via le sue foto, quando il medico disse:
«Lei non è il primo a mostrarmi quella faccia.»
«Che faccia?» trasalì Paul.
«Quella là.»
Simonnet indicò l’identikit di Sema Gokalp.
«Chi gliel’ha mostrata prima di me? Un poliziotto?»
Annuì. Le sue dita continuavano a grattare dolcemente la testa del gatto. Paul immaginò che si trattasse di Schiffer:
«Uno di una certa età, robusto, capelli grigi?»
«No. Un giovane. Spettinato. Il tipo dello studente. Parlava con un lieve accento straniero.»
Paul incassò il colpo come un pugile alle corde. Dovette appoggiarsi alla cornice di marmo del camino.
«Un accento turco?»
«E come faccio a saperlo! Comunque sì, probabilmente un accento orientale.»
«Quando è venuto?»
«Ieri mattina.»
«Che nome ha dato?»
«Nessun nome.»
«Un contatto?»
«No. Strano vero? Nei film voi lasciate sempre i vostri dati, no?»
«Torno subito.»
Paul corse alla sua auto. Prese una delle foto dei funerali di Türkes in cui compariva Akarsa. Rientrò e la porse al chirurgo.
«L’uomo in questione compare su questa foto?»
Il medico indicò l’uomo con la giacca di velluto:
«È lui, senza dubbio.»
Alzò gli occhi:
«Non è un suo collega?»
Paul cercò in fondo a sé stesso gli ultimi frammenti di sangue freddo e mostrò di nuovo l’identikit della rossa:
«Lei mi ha detto che le ha fatto vedere questo ritratto. Era esattamente lo stesso? Un disegno come questo?»
«No. Una foto in bianco e nero. Una foto di gruppo. Scattata in un campus universitario o qualcosa del genere. La qualità era pessima, ma la donna era la stessa. Nessun dubbio in proposito.»
Nei suoi occhi balenò per un istante l’immagine di Sema Gokalp, giovane studentessa turca in mezzo ai suoi compagni di corso.
La sola foto che i Lupi grigi avessero di lei.
L’immagine sfocata che era costata la vita a tre donne innocenti.
Paul partì lasciando un’ampia traccia di gomma sull’asfalto.
Fissò di nuovo il lampeggiante sul tettuccio e diede corrente: la luce e la sirena perforarono quell’atmosfera da acquario.
Le deduzioni a cascata.
I battiti del suo cuore all’unisono.
Ormai i Lupi grigi seguivano la sua stessa pista. Ci erano voluti tre cadaveri perché capissero il loro sbaglio. Adesso cercavano il chirurgo plastico che aveva trasformato il loro bersaglio.
Nuova vittoria postuma per Schiffer.
«Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento.»
Paul guardò l’orologio: le quattordici e trenta.
Mancavano solo due nomi sulla lista.
Doveva scovare il chirurgo prima che lo facessero gli assassini.
Doveva trovare la donna prima di loro.
Paul Nerteaux contro Azer Akarsa.
Il figlio di nessuno contro il figlio di Asena, la Lupa Bianca.
Frédéric Gruss abitava tra le colline di Saint Cloud. Il tempo di prendere la direttissima lungo la Senna e di filare fino al Bois de Boulogne. Paul contattò di nuovo Naubrel:
«Con i turchi, sempre niente da fare?»
«Sto sgobbando come un matto, ma…»
«Lascia perdere tutto.»
«Cosa?»
«Hai tenuto le copie delle foto del funerale di Türkes?»
«Sì, le ho nel mio computer.»
«C’è un’immagine dove il feretro è in primo piano.»
«Aspetti, prendo nota.»
«Su quella foto, il terzo uomo partendo da sinistra è un giovane con la giacca di velluto. Voglio che tu ingrandisca il suo ritratto e che lanci una segnalazione di ricerca a nome di…»
«Azer Akarsa?»
«Esatto.»
«È lui l’assassino?»
Paul aveva i muscoli della gola così tesi che faceva fatica a parlare:
«Lancia la segnalazione di ricerca.»
«Va bene. È tutto?»
«No. Vai da Bomarzo, il giudice incaricato dell’inchiesta sugli omicidi. Chiedigli un mandato di perquisizione per la società Matak.»
«Io? Sarebbe meglio che andasse lei…»
«Vai da parte mia. Spiegagli che ho delle prove.»
«Delle prove?»
«Un testimone oculare. Chiama anche Matkowska e chiedigli le foto di Nemrut Daği»
«Di cosa?»
Fece di nuovo lo spelling e spiegò di cosa si trattava.
«Chiedigli anche se il nome di Akarsa non è spuntato tra i visti. Metti insieme il tutto e vai dal giudice.»
«E se mi chiede dov’è lei?»
Paul esitò:
«Tu dagli questo numero.»
Dettò il numero di Olivier Amien. Che se la sbrighino tra loro, pensò chiudendo la comunicazione. Era in vista del ponte di Saint-Cloud.
Le quindici e trenta.
Il boulevard de la République luccicava nel sole, serpeggiando lungo la collina che porta a Saint-Cloud. Un grande abbagliamento primaverile che invogliava alle spalle nude, alle pose languide tra i tavolini all’aperto dei caffè. Peccato: per l’ultimo atto, Paul avrebbe preferito un cielo minaccioso. Un cielo da apocalisse, nero e lacerato dal temporale.
Risalendo lungo la strada, si ricordò della sua visita all’obitorio di Garches con Schiffer: quanti secoli erano passati da quel giorno?
Nella parte alta della città trovò vie calme e serene. La crème de la crème dei quartieri chic. Un piccolo concentrato di vanità e di ricchezza che dominava la valle della Senna e la «città bassa».
Paul tremava. La febbre, la stanchezza, l’eccitazione. La sua vista era turbata da brevi eclissi. Stele scure colpivano il fondo delle sue orbite. Era incapace di resistere al sonno, era una delle sue debolezze. Non c’era mai riuscito, neanche quando, da bambino, aspettava, paralizzato dall’angoscia, il ritorno di suo padre.
Suo padre. L’immagine del vecchio cominciava a confondersi con quella di Schiffer; le lacerazioni del sedile in finta pelle si mescolavano alle ferite del cadavere coperto di ceneri…
Fu svegliato da un colpo di clacson. Il semaforo era diventato verde e lui si era addormentato. Ripartì con rabbia e trovò infine la rue des Chênes.
La prese e rallentò, alla ricerca del numero 37. Le case rimanevano invisibili, nascoste com’erano dietro a muri di pietra o a filari di pini. Si sentiva un brontolio d’insetti; tutta la natura sembrava intorpidita dal sole primaverile.
Trovò un posto per parcheggiare proprio davanti al numero civico giusto: un cancello nero, chiuso tra due pilastri imbiancati a calce.
Stava per suonare, quando vide che uno dei due battenti era socchiuso. Nella sua mente si accese un segnale di pericolo. La cosa non quadrava con l’aria di diffidenza che si respirava nel quartiere. Meccanicamente, Paul alzò la linguetta di Velcro che chiudeva la sua pistola.
Il parco della proprietà era senza sorprese. Prato all’inglese, alberi grigi, un vialetto in ghiaia. Al fondo, la casa padronale si stagliava massiccia, con i suoi muri bianchi e le imposte nere. A fianco, un garage a due o tre posti, chiuso con una porta basculante.
Nessun cane e nessun domestico a venirgli incontro. Apparentemente, nessun movimento all’interno.
Il segnale d’allarme nella sua mente salì di tono.
Salì i tre scalini che portavano all’ingresso e notò un’altra dissonanza: una finestra rotta. Deglutì e, molto lentamente, tirò fuori dalla fondina la sua 9 millimetri. Scavalcò la finestra facendo attenzione a non pestare i frammenti di vetro sul pavimento. A un metro, sulla sua destra, si apriva l’atrio. Ogni suo gesto era avvolto dal silenzio. Paul voltò la schiena all’entrata e avanzò nel corridoio.
A sinistra, una porta socchiusa recava la scritta SALA D’ATTESA. Più in là, sulla destra, un’altra porta, spalancata. Senza dubbio lo studio del chirurgo. Scorse dapprima il muro della stanza, ricoperto di materiale insonorizzante: placche di gesso e paglia mescolati.
Poi il pavimento. A terra erano sparse delle fotografie: volti di donna, bendati, tumefatti, suturati. L’ultima conferma ai suoi sospetti: erano venuti a frugare lì.
Dall’altra parte del muro si sentì uno scricchiolio.
Paul si immobilizzò con le dita serrate sul calcio della pistola. In quel momento capì che non sarebbe vissuto per più di un istante. Poco importava la durata dell’esistenza, poco importavano la fortuna, le speranze, le delusioni della vita. La sola cosa che contava era il suo eroismo. Capì che i prossimi secondi avrebbero dato un senso pieno al suo passaggio sulla terra. Qualche oncia di coraggio e di onore nella bilancia delle anime…
Stava balzando verso la porta, quando il muro si squarciò.
Paul fu proiettato verso la parete opposta. Il fuoco e il fumo riempirono d’un tratto il corridoio. Ebbe appena il tempo di scorgere un buco grande come un piatto, che due nuovi colpi lacerarono il materiale isolante. La paglia del conglomerato si infiammò, trasformando il corridoio in un tunnel di fuoco.
Paul si rannicchiò al suolo, la nuca bruciata dalle fiamme. Frammenti di intonaco e di paglia gli caddero addosso.
Quasi subito tornò il silenzio. Paul alzò gli occhi: davanti a lui un ammasso di calcinacci che offriva un’ampia visione dello studio.
Loro erano là.
Tre uomini in tuta nera, imbottiti di cartucciere e mascherati con passamontagna da commando. Ognuno di loro aveva in mano un fucile lanciagranate, modello SG 5040. Prima di allora, Paul l’aveva visto solo sui cataloghi, ma lo riconobbe con certezza.
Ai loro piedi, il cadavere di un uomo in veste da camera. Frédéric Gruss si era assunto gli ultimi rischi del suo mestiere.
D’istinto, Paul cercò la sua Glock. Ma non era più tempo. Sul suo ventre, il sangue gorgogliava, formando meandri rossi tra le pieghe della giacca. Non provava alcun dolore; ne concluse che era stato ferito a morte.
Alla sua sinistra risuonarono acuti stridii. Malgrado i timpani assordati, Paul percepì con una chiarezza irreale i passi che calpestavano le macerie.
Nell’apertura della porta apparve un quarto uomo. Stesso profilo nero, stesso cappuccio, stessi guanti, ma senza fucile.
Si avvicinò e valutò la ferita di Paul. Con un gesto secco si strappò il passamontagna. Il suo volto era completamente dipinto. Le curve e gli arabeschi brunastri sulla sua pelle rappresentavano il muso di un lupo. I baffi, le sopracciglia, gli occhi sottolineati con il nero. Una smorfia all’henné che ricordava quella dei guerrieri maori.
Paul riconobbe l’uomo della fotografia: Azer Akarsa. Tra le dita teneva una foto polaroid: un ovale pallido incorniciato da capelli neri. Anna Heymes, poco dopo l’operazione.
Ora, i Lupi potevano ritrovare la loro preda.
La caccia sarebbe continuata. Ma senza di lui.
Il turco si inginocchiò.
Guardò Paul in fondo agli occhi e, con voce dolce, disse:
«La pressione le rende pazze. La pressione annulla il loro dolore. L’ultima donna cantava con il naso tagliato.»
Paul chiuse gli occhi. Non capiva il senso esatto di quelle parole, ma capì una cosa: l’uomo sapeva chi lui fosse ed era già stato informato della visita di Naubrel al suo laboratorio.
Come in un lampo, rivide le ferite delle donne, i tagli sui loro volti. Un elogio alla pietra antica firmato Azer Akarsa.
Sentì una schiuma affiorare alle labbra: sangue. Quando riaprì gli occhi, il lupo assassino gli stava puntano alla fronte una calibro 45.
Il suo ultimo pensiero fu per Céline.
Pensò che non aveva trovato il tempo di telefonarle prima che andasse a scuola.