Una piccola spada d’oro.
Lui la vedeva così nei suoi ricordi. In realtà, lo sapeva, era un semplice tagliacarte di rame, con l’impugnatura cesellata alla maniera spagnola. Paul, otto anni, l’aveva appena rubato nel garage di suo padre e si era rifugiato nella sua camera. Si ricordava perfettamente l’atmosfera di quel momento. Le imposte chiuse. Il calore schiacciante. La quiete della siesta.
Un pomeriggio d’estate come tanti altri.
Se non fosse che quelle poche ore avevano sconvolto la sua vita per sempre.
«Cosa nascondi nella mano?»
Paul chiuse il pugno; sua madre era sulla soglia della stanza.
«Fammi vedere cosa nascondi.»
La voce era calma, solamente tinta di curiosità. Paul strinse le dita. Lei avanzò nella penombra, attraversando i raggi di sole che filtravano dalle persiane; poi si sedette sul bordo del letto e gli aprì dolcemente la mano:
«Perché hai preso il tagliacarte?»
Lui non le vedeva il viso, immerso nell’ombra:
«Per difenderti.»
«Difendermi da chi?»
Silenzio.
«Difendermi da papà?»
Lei si sporse verso di lui. Il suo volto apparve in una linea di luce; la faccia tumefatta, chiazzata di ematomi; uno dei due occhi, con il bianco pieno di sangue, lo fissava come un oblò. Ripeté:
«Difendermi da papà?»
Muovendo il capo, lui annuì. Ci fu un attimo di sospensione, una immobilità, poi lei lo abbracciò, come un’onda quando si frange. Paul la respinse; non voleva lacrime, nessun gesto di pietà. La sola cosa che contava era lo scontro che ci sarebbe stato. Il giuramento che aveva fatto a sé stesso, la sera prima, quando suo padre, completamente ubriaco, aveva picchiato sua madre fino a lasciarla svenuta sul pavimento della cucina. Quando il mostro si era girato e l’aveva visto lì, tremante, nel vano della porta, lo aveva avvertito: «Tornerò. Tornerò e vi ucciderò tutti e due!»
Allora Paul si era armato e ora attendeva il suo ritorno con la spada in mano.
Ma l’uomo non era tornato. Né l’indomani né il giorno successivo. Per un caso di cui solo il destino conosceva il segreto, Jean-Pierre Nerteaux si era fatto ammazzare la notte stessa in cui aveva proferito quelle minacce. Il suo corpo era stato scoperto due giorni più tardi, dentro al proprio taxi, vicino ai depositi petroliferi del porto di Gennevilliers.
All’annuncio dell’omicidio, Françoise, la moglie, aveva reagito in maniera strana. Invece di andare subito a identificare il cadavere, aveva voluto recarsi sul luogo della scoperta per verificare che la Peugeot 504 fosse intatta e che non ci fossero problemi con la compagnia dei taxi.
Paul si ricordava anche dei più piccoli dettagli. Il viaggio in autobus fino a Gennevilliers; il borbottare di sua madre frastornata; la sua stessa apprensione di fronte a un avvenimento che non comprendeva. Tuttavia, appena scorta la zona dei depositi, era stato colto da meraviglia. Corone d’acciaio giganti si alzavano nei terreni brulli. In mezzo alle rovine di cemento spuntavano erbacce e arbusti. Aste d’acciaio arrugginivano come cactus di metallo.
Un vero paesaggio western, simile ai deserti che riempivano i fumetti della sua biblioteca.
Sotto un cielo in fusione, la madre e il bambino avevano attraversato le zone di stoccaggio. Al fondo di quelle terre abbandonate, avevano scoperto la Peugeot, mezza sprofondata nelle dune grigie. Paul aveva captato ogni segno che fosse all’altezza dei suoi otto anni. Le uniformi dei poliziotti, le manette scintillanti al sole; le spiegazioni a bassa voce; i meccanici, le mani nere nella luce bianca, che si agitavano intorno alla macchina…
Gli era occorso un po’ per comprendere che suo padre era stato pugnalato al volante. Ma solo un secondo per scorgere, attraverso la porta posteriore socchiusa, le lacerazioni nello schienale del sedile.
L’assassino si era accanito sulla sua vittima attraverso il sedile.
Quella visione aveva colpito il bambino rivelandogli la segreta coerenza dell’evento. Due giorni prima aveva desiderato la morte di suo padre, si era armato, poi aveva confessato il suo piano criminale alla madre. Tutto ciò aveva assunto il valore di una maledizione: una forza misteriosa aveva realizzato il suo desiderio. Non era lui che aveva impugnato il coltello, ma era proprio lui che aveva ordinato, mentalmente, l’esecuzione.
A partire da quel momento, non si ricordava più di niente. Né della sepoltura, né delle lacrime di sua madre, né delle difficoltà finanziarie che avevano segnato la loro quotidianità. Paul era concentrato unicamente su quella verità: lui era il solo colpevole.
Il grande mandante del massacro.
Molto più tardi, nel 1987, si era iscritto alla facoltà di diritto della Sorbona. A forza di lavoretti, aveva accantonato abbastanza denaro per affittare una camera a Parigi e per tenersi a debita distanza da sua madre, che non la smetteva più di bere. Addetta alle pulizie in un grande magazzino, lei esultava all’idea che suo figlio diventasse avvocato. Ma Paul aveva altri progetti.
Con la laurea in tasca, nel 1990 Paul era entrato nella scuola per ispettori di Cannes-Ecluse. Due anni più tardi ne era uscito, primo in graduatoria, e aveva potuto scegliere uno dei posti più ambiti dalle matricole della polizia: l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. Il tempio dei cacciatori di droga.
La sua strada sembrava tracciata. Quattro anni in un ufficio centrale o in una brigata d’élite, poi ci sarebbe stato il concorso interno per commissarii. Prima dei quarant’anni, Paul Nerteaux avrebbe ottenuto un posto di prestigio al Ministero degli interni, in place Beauvau, sotto gli stucchi dorati della Grande Maison. Un successo folgorante per un bambino cresciuto, come si dice, in un «ambiente difficile».
In realtà, Paul non si interessava a quella scalata. La sua vocazione di poliziotto aveva altre basi, sempre legate al suo senso di colpa. Quindici anni dopo la spedizione al porto di Gennevilliers, egli era ancora ossessionato dal rimorso; il suo cammino era guidato dalla sola volontà di lavare la propria colpa, di ritrovare un’innocenza perduta.
Per dominare le sue angosce, aveva dovuto inventarsi delle tecniche personali, dei metodi di concentrazione segreti. Da quella disciplina aveva tratto la lezione necessaria per diventare un poliziotto inflessibile. Nell’«azienda» egli era odiato, temuto o ammirato, ma mai amato. Perché nessuno capiva che la sua intransigenza, la sua voglia di riuscire erano una ringhiera, un parapetto. Il solo modo di controllare i suoi demoni. Nessuno sapeva che nel cassetto della sua scrivania lui conservava ancora, a destra, un tagliacarte in rame…
Strinse le mani al volante e si concentrò sulla strada.
Come mai stava scavando in tutta quella merda? Forse era l’influenza di quel paesaggio intriso di pioggia? O perché era domenica, giorno di morte tra i vivi?
Da una parte e dall’altra dell’autostrada, non vedeva che i solchi nerastri dei campi. La stessa Enea dell’orizzonte assomigliava a un ultimo solco che si apriva sul nulla del cielo. Il quella regione non poteva avvenire alcunché, se non una lenta immersione nella disperazione.
Lanciò un’occhiata alla carta posata sul sedile del passeggero. Doveva lasciare l’autostrada Al per prendere la statale in direzione di Amiens. Poi avrebbe preso la dipartimentale 235, e dopo dieci chilometri sarebbe arrivato a destinazione.
Per cacciare le idee oscure, focalizzò i suoi pensieri sull’uomo verso il quale si stava dirigendo; sicuramente il solo poliziotto che non avrebbe mai voluto incontrare. Aveva fotocopiato integralmente il suo dossier all’Ispettorato generale dei servizi e avrebbe potuto recitare a memoria il suo curriculum vitae…
Jean-Louis Schiffer, nato nel 1943, a Aulnay-sous-Bois, nel dipartimento Seine-Saint-Denis. In assonanza con la prima o la seconda parte del suo cognome, soprannominato, secondo le circostanze, «il Cifra» o «il Fer». Il Cifra per la sua inclinazione a prelevare percentuali sugli affari che trattava; il Fer per la sua reputazione di sbirro implacabile — e anche per i suoi capelli argentati, che portava lunghi e serici.
Abbandonati gli studi, nel 1959, Schiffer è mobilitato in Algeria, nei monti Aurès. Nel 1960 raggiunge Algeri, dove entra nei servizi segreti, membro attivo dei DOP, i Distaccamenti operativi di protezione.
Nel 1963 ritorna in Francia con il grado di sergente. Entra allora in polizia. Dapprima come agente di quartiere, poi, nel 1966, come investigatore alla Brigata territoriale del sesto arrondissement. Si distingue subito per il suo senso innato della strada e per il gusto dell’infiltrazione. Nel maggio 1968 si getta nella mischia e si confonde con gli studenti. In quel periodo porta la coda di cavallo, fuma hashish e annota, con discrezione, i nomi dei capi politici. Durante gli scontri della rue Gay-Lussac salva persino un poliziotto antisommossa da una pioggia di blocchetti di porfido.
Primo atto di coraggio.
Prima menzione.
Le sue prodezze non si fermano. Reclutato nella Brigata criminale nel 1972, viene promosso ispettore e moltiplica i gesti eroici, senza temere né gli scontri a fuoco né le zuffe. Nel ’75 riceve una medaglia al valore. Tuttavia, nel 1977, dopo un breve passaggio alla Brigata di ricerca e intervento, la celebre «antigang», è brutalmente cambiato. Paul aveva scovato il rapporto dell’epoca, firmato dal commissario Broussard in persona. Il poliziotto aveva annotato sul margine, a penna: «ingestibile.»
Schiffer trova il suo vero territorio di caccia nel decimo arrondissement, alla Prima divisione di polizia giudiziaria. Rifiutando tutte le promozioni e gli spostamenti, per quasi vent’anni si impone come l’uomo del quartiere Ovest, facendo regnare l’ordine e la legge nel perimetro racchiuso tra i grandi boulevard, la Gare de l’Est e la Gare du Nord, coprendo una parte del Sentier, il quartiere turco e altre zone di forte immigrazione.
Durante quegli anni, egli controlla una rete di informatori, limita le attività illegali — gioco, prostituzione, droga — intrattiene rapporti ambigui, ma efficaci, con i capi di ciascuna comunità. Nello stesso tempo raggiunge un tasso record di successi nelle sue inchieste.
Secondo un’opinione consolidata presso le alte sfere, è a lui e solo a lui che si deve la calma relativa in quella parte del decimo arrondissement dal 1978 al 1998. Jean-Louis Schiffer beneficia persino, fatto eccezionale, di un prolungamento del servizio dal 1999 al 2001.
Nel mese d’aprile di quell’ultimo anno, il poliziotto va ufficialmente in pensione. Al suo attivo: cinque decorazioni, tra cui una al merito, duecentotrentanove arresti e quattro persone uccise in scontri a fuoco. A cinquantotto anni, non ha mai avuto altro grado che quello di semplice ispettore. Un uomo da strada, da campo, che ha regnato su un solo, unico territorio. Ecco il lato Fer.
Il lato Cifra inizia nel 1971, quando lo sbirro viene sorpreso a malmenare una prostituta di rue de la Michodière, nel quartiere della Madeleine. L’inchiesta dell’IGS, associata a quella della buoncostume, finisce in fretta. Nessuna lucciola vuole testimoniare contro l’uomo dai capelli d’argento. Nel 1979 si registra una nuova denuncia. Si mormora che Schiffer faccia pagare la sua protezione alle puttane della rue de Jérusalem e della rue Saint-Denis.
Nuova inchiesta, nuovo fallimento. Il Cifra sa guardarsi le spalle.
Gli affari seri cominciano nel 1982. Al commissariato Bonne-Nouvelle si volatilizza uno stock di eroina, frutto dello smantellamento di una rete di trafficanti turchi. Il nome di Schiffer è su tutte le bocche. La polizia lo mette sotto esame. Ma un anno più tardi ne esce pulito. Nessuna prova, nessun testimone.
Nel corso degli anni si sommano altri sospetti. Percentuali estorte nel giro del racket; commissioni prelevate sul gioco e le scommesse clandestine; intrallazzi coi negozianti del quartiere; sfruttamento della prostituzione… È evidente che lo sbirro mangia su tutto, ma nessuno riesce a metterlo in difficoltà. Schiffer controlla il proprio settore, e lo tiene stretto. Persino gli investigatori dell’IGS devono fare i conti con il mutismo dei suoi colleghi poliziotti.
Agli occhi di tutti, il Cifra è prima di tutto il Fer. Un eroe, un campione dell’ordine pubblico dallo stato di servizio prestigioso.
Tuttavia, nell’ottobre 2000, un’ultima sbavatura lo fa cadere. Il corpo di un clandestino turco, Gazil Hemet, viene scoperto sui binari della Gare du Nord. Il giorno prima, Hemet, sospettato di traffico di droga, è stato arrestato dallo stesso Schiffer. Accusato di «violenze volontarie», il poliziotto sostiene di aver liberato il sospetto prima che scadessero i termini della custodia cautelare, fatto decisamente insolito per lui.
Hemet è morto sotto i suoi colpi? L’autopsia non fornisce alcuna risposta chiara — il TGV delle 8 e 10 ha stritolato il cadavere. Ma una controperizia medico-legale chiama in causa delle «lesioni» misteriose sul corpo del turco, lesioni che potrebbero indicare atti di tortura. Questa volta sembrerebbe che per Schiffer debbano aprirsi le porte del carcere.
Invece, nell’aprile 2002, l’accusa rinuncia ancora una volta. Cos’è successo? Di quali appoggi può beneficiare Jean-Louis Schiffer? Paul aveva interrogato gli ufficiali dell’Ispettorato generale dei servizi incaricati dell’inchiesta. Non avevano voluto rispondere: erano semplicemente nauseati. Senza contare che, qualche settimana più tardi, Schiffer li aveva personalmente invitati a un «brindisi di commiato».
Un porco, un marcio.
Ecco la schifezza che Paul si apprestava a incontrare.
La bretella di uscita verso Amiens lo richiamò alla realtà. Lasciò l’autostrada e prese la statale. Fatto qualche chilometro vide apparire il cartello LONGÈRES.
Paul prese la dipartimentale e raggiunse in fretta il paese. Superò il centro senza rallentare, poi scorse una nuova strada che scendeva al fondo di una valle umida. Passando accanto all’erba alta, brillante di pioggia, ebbe una sorta di illuminazione: di colpo capiva perché, sulla strada che lo portava da Schiffer, aveva pensato a suo padre.
A suo modo, il Cifra era il padre di tutti gli sbirri. Mezzo eroe e mezzo demonio, egli incarnava il meglio e il peggio, il rigore e la corruzione, il Bene e il Male. Una figura fondatrice, un universo che Paul, suo malgrado, ammirava, proprio come, dal fondo del proprio odio, aveva ammirato il padre violento e alcolizzato.
Quando Paul scorse l’edificio che cercava, ci mancò poco che scoppiasse a ridere. Con il suo muro di cinta e i suoi due campanili a forma di torrette, la casa di riposo dei funzionari di polizia di Longères sembrava ispirarsi a una prigione.
Dall’altra parte del muro, l’analogia si accentuava ancora. Il cortile era chiuso tra i tre corpi principali disposti a ferro di cavallo, attraversati da gallerie dalle arcate scure. Alcuni uomini che sfidavano la pioggia per giocare a bocce indossavano tute che li facevano assomigliare ai detenuti di qualsiasi prigione del mondo. Non lontano di là, tre agenti in uniforme, che sicuramente facevano visita a un parente, potevano recitare alla perfezione la parte dei secondini.
Paul assaporava l’ironia della situazione. L’ospizio di Longères, finanziato dal fondo pensionistico e assicurativo della polizia, era la più importante casa di riposo per poliziotti. Accoglieva agenti e ufficiali, a condizione che non soffrissero «di alcuna malattia psicosomatica dovuta all’etilismo». Ora scopriva che quella celebre oasi di pace, con i suoi spazi cintati e la sua popolazione tutta maschile, era praticamente un carcere come tanti altri. Pensò: «Ritorno al mittente.»
Paul raggiunse l’entrata dell’edificio principale e spinse una porta a vetri. Un atrio quadrato, molto scuro, si apriva su una scala che prendeva luce da una finestrella di vetro smerigliato. Regnava un calore da serra, soffocante, nel quale stagnavano sentori di medicinale e di urina.
Si diresse verso una porta a due battenti, alla sua sinistra, da dove usciva un forte odore di cibo. Era mezzogiorno. I pensionanti dovevano essere a tavola.
Vide un refettorio dalle pareti gialle e dal pavimento ricoperto di linoleum rosso sangue. C’erano lunghi tavoli in acciaio, allineati; i piatti e le posate erano disposti con cura; i pentoloni di minestra fumavano. Tutto era pronto, ma la sala era deserta.
Dalla stanza vicina veniva del rumore. Paul si diresse verso la fonte del baccano, sentendo le suole che sprofondavano nel pavimento coagulato. Ogni dettaglio contribuiva all’intorpidimento generale; ci si sentiva invecchiare a ogni passo.
Superò la soglia. Una trentina di pensionati, in piedi, con indosso informi tute da ginnastica, gli voltavano la schiena, concentrati su un televisore. «Petit Bonheur ha appena sorpassato Bartók…» Sullo schermo si vedevano cavalli al galoppo.
Paul si avvicinò e scorse, in un’altra stanza alla sua sinistra, un vecchio seduto da solo. Istintivamente tese il collo per osservarlo meglio. Ammosciato, curvo sul suo piatto, l’uomo, con la punta della forchetta, punzecchiava una bistecca.
Paul dovette arrendersi all’evidenza: quel relitto era il suo uomo.
Il Cifra e il Fer.
Il poliziotto dai duecentotrentanove arresti.
Attraversò la nuova sala. Alle sue spalle il telecronista continuava a urlare: «Petit Bonheur, sempre Petit Bonheur…» Rispetto alle ultime foto che Paul aveva potuto vedere, Jean-Louis Schiffer era invecchiato di vent’anni.
I suoi lineamenti regolari erano smagriti, tesi sulle ossa come su un telaio; la pelle, grigia e screpolata, pendeva, soprattutto sul collo, e ricordava le scaglie di un rettile; i suoi occhi, un tempo azzurro cromo, erano appena percepibili sotto le palpebre abbassate. L’ex poliziotto non portava più i capelli lunghi che lo avevano reso celebre, ora erano tagliati praticamente a spazzola; la nobile chioma d’argento aveva lasciato il posto a un cranio di latta.
Il suo corpo, ancora robusto, era inghiottito da una tuta sportiva blu, il cui collo si allargava sulle spalle con due ali ondulate. Accanto al suo piatto, Paul vide una pila di tagliandi delle scommesse sui cavalli. Jean-Louis Schiffer, la leggenda della strada, era diventato il bookmaker di una banda di agenti del traffico in pensione.
Come aveva potuto immaginare di farsi aiutare da una simile carcassa? Ma era troppo tardi per tornare indietro. Paul sistemò la cintura, la pistola e le manette, e si dipinse in volto l’espressione dei momenti importanti — sguardo dritto e mascelle serrate. Nel frattempo, gli occhi di ghiaccio si erano già posati su di lui. Quando egli fu a qualche passo, l’altro, senza preamboli, buttò lì:
«Sei troppo giovane per essere dell’IGS.»
«Capitano Paul Nerteaux, polizia giudiziaria, decimo arrondissement.»
Aveva pronunciato la frase con un tono militare che subito rimpianse, ma il vecchio aggiunse:
«Rue de Nancy?»
«Rue de Nancy.»
La domanda era un complimento indiretto: a quell’indirizzo si trovava il SARIJ, il servizio giudiziario del quartiere. Schiffer aveva riconosciuto in lui l’investigatore, il poliziotto di strada.
Paul prese una sedia, lanciando un’occhiata involontaria agli scommettitori, ancora appostati davanti al televisore. Schiffer seguì il suo sguardo e si lasciò sfuggire una risata:
«Passi una vita a sbattere le canaglie in galera per ottenere cosa alla fine? Di ritrovarti tu stesso al gabbio.»
Portò alla bocca un pezzo di carne. Sotto la pelle le mascelle entrarono in azione, come ingranaggi ben oliati. Paul dovette rivedere il suo giudizio, il Cifra non era poi così spento. Bastava soffiare su quella mummia per spazzarne la polvere.
«Cosa vuoi?» disse l’uomo dopo aver ingoiato il boccone.
Paul utilizzò il suo tono più modesto:
«Sono venuto a chiederle un consiglio.»
«A proposito di cosa?»
«A proposito di questo.»
Tirò fuori dalla tasca del giaccone una busta in carta da pacchi che posò a fianco dei tagliandi delle scommesse. Schiffer spostò il piatto e aprì l’involucro senza fretta. Ne estrasse una decina di fotografie a colori.
Guardò l’altro e chiese:
«Cos’è?»
«Un volto.»
Passò alle immagini successive. Paul commentò:
«Il naso è stato tagliato con un taglierino. O con un rasoio. Le lacerazioni e gli sfregi sulle guance sono state fatte con lo stesso strumento. Il mento è stato limato. Le labbra tagliate con le forbici.»
Schiffer tornò alla prima fotografia, senza dire una parola.
«Prima di tutto quello», continuò Paul, «ci sono state le botte. Secondo il medico legale, le mutilazioni sono state effettuate dopo la morte.»
«Identificata?»
«No, le impronte non hanno dato risultati.»
«Età?»
«Circa venticinque anni.»
«Causa finale del decesso?»
«Abbiamo una vasta scelta. Le botte. Le ferite. Le bruciature. Il corpo era nello stesso stato della faccia. In linea di massima, ha subito più di ventiquattr’ore di torture. Aspetto i dettagli. È in corso l’autopsia.»
Il pensionato alzò le palpebre:
«Perché mi mostri questo?»
«Il cadavere è stato trovato ieri, all’alba, vicino all’ospedale Saint-Lazare.»
«E allora?»
«Era il suo territorio. Lei ha passato più di vent’anni nel decimo arrondissement.»
«Questo non fa di me un medico legale.»
«Io penso che la vittima sia un’operaia turca.»
«Perché turca?»
«In primo luogo per il quartiere. E poi per i denti. Ha delle otturazioni in oro che si fanno solo in Medio Oriente. Vuole sapere i nomi delle leghe?»
Schiffer piazzò nuovamente il piatto davanti a sé e riprese il suo pasto.
«Perché operaia?» chiese dopo aver masticato a lungo.
«Le dita», replicò Paul. «Le estremità sono piene di cicatrici. È tipico di certi lavori di cucito. Ho verificato.»
«La sua segnalazione corrisponde a qualche avviso di scomparsa?»
Il pensionato faceva finta di non capire.
«Nessun avviso di scomparsa», rispose Paul con pazienza. «Nessuna richiesta di ricerca. È una clandestina, Schiffer. È una che in Francia non ha stato civile. Una donna che nessuno verrà mai a cercare. La vittima ideale.»
Il Cifra terminò la sua bistecca lentamente. Poi abbandonò le posate e tornò alle foto. Questa volta, inforcò un paio di occhiali. Guardò ogni immagine per diversi secondi, osservando con attenzione le ferite.
Suo malgrado, Paul abbassò gli occhi verso le fotografie. Vide, al contrario, il foro del naso, appiattito e nero; i tagli che fessuravano il viso; il labbro leporino, violaceo, orrendo.
Schiffer posò il mazzo delle foto e prese uno yogurt. Ne sollevò con precauzione il coperchio prima di immergervi il cucchiaio.
Paul sentiva esaurirsi a gran velocità le sue riserve di calma.
«Ho cominciato il giro», riprese. «I laboratori. I foyer. I bar. Non ho trovato niente. Non è scomparso nessuno. Ed è normale: là nessuno esiste. Sono clandestini. Come identificare una vittima in una comunità invisibile?»
Silenzio di Schiffer; cucchiaiata di yogurt. Paul riprese:
«Nessun turco ha visto niente. O forse non hanno voluto dirmi niente. Per la verità nessuno ha potuto dirmi nulla: per la semplice ragione che nessuno parla francese.»
Il Cifra continuava il suo lavoro con il cucchiaio. Alla fine, si degnò di aggiungere:
«Allora, ti hanno parlato di me.»
«Tutti mi hanno parlato di lei. Beauvanier, Monestier, i luogotenenti. A sentir loro, solo lei può far avanzare questa cazzo di inchiesta.»
Nuovo silenzio. Schiffer si asciugò le labbra con il tovagliolo, poi prese di nuovo il vasetto di plastica.
«Tutto questo è lontano. Io sono in pensione e non ho più la testa per queste cose. Adesso mi dedico alle mie nuove responsabilità», disse indicando i biglietti delle scommesse.
Paul afferrò il bordo della tavola e si sporse:
«L’assassino le ha fatto esplodere i piedi. Le radiografie hanno rivelato più di settanta frammenti ossei conficcati nella carne. Le ha tagliuzzato i seni al punto che le si possono contare le costole attraverso la pelle. Le ha ficcato nella vagina una barra piena di lame di rasoio.»
Sbatté il pugno sul tavolo.
«Non lo lascerò continuare!»
Il vecchio poliziotto inarcò un sopracciglio:
«Continuare?»
Paul si contorse sulla sedia, poi, con un gesto maldestro, tirò fuori i documenti che teneva arrotolati nella tasca interna del suo parka.
A malincuore disse:
«Ce ne sono tre.»
«Tre?»
«La prima è stata scoperta nel novembre scorso. Una seconda in gennaio. E ora questa. Ogni volta nel quartiere turco. Torturate e sfigurate nello stesso modo.»
Schiffer le guardava in silenzio, col cucchiaio sospeso a mezz’aria. Tutt’a un tratto Paul urlò, coprendo il vociare ippico:
«Santo Dio, Schiffer, non capisce? C’è un serial killer nel quartiere turco. Un tipo che se la prende esclusivamente con le clandestine. Donne che non esistono, in una zona che non è nemmeno più Francia!»
Jean-Louis Schiffer posò infine il suo yogurt e rimise i documenti tra le mani di Paul.
«Ce ne hai messo di tempo per venirmi a trovare.»
Fuori era comparso il sole. Le pozzanghere d’argento riaccendevano il grande cortile di ghiaia. Paul andava avanti e indietro davanti alla porta centrale aspettando che Jean-Louis Schiffer avesse finito di prepararsi.
Non c’era altra soluzione; lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Il Cifra non poteva aiutarlo a distanza. Non poteva dargli consigli dal fondo del suo ospizio, né poteva dargli delle risposte per telefono ogni volta che a Paul mancava l’ispirazione. No. L’ex poliziotto doveva interrogare i turchi assieme a lui, doveva sfruttare i suoi contatti, rivoltare quel quartiere che conosceva meglio di chiunque altro.
Paul ebbe un fremito pensando alle conseguenze di quel passo. Nessuno ne era al corrente; né il giudice né i superiori. E non si sguinzagliava così un porco, noto per i suoi metodi brutali e fuori dai limiti: avrebbe dovuto tenerlo ben stretto alla corda.
Con un calcio, lanciò un sasso in una pozza d’acqua, confondendo la sua immagine riflessa. Cercava ancora di convincersi che la sua idea era stata buona. Come era arrivato fin là? Perché si accaniva su quell’inchiesta fino a quel punto? Perché fin dal primo omicidio si comportava come se la sua intera esistenza dipendesse dall’esito di quell’indagine?
Rifletté un istante, contemplando la sua immagine offuscata, poi dovette ammettere che la sua rabbia aveva un’origine lontana.
Tutto era cominciato con Reyna.
25 marzo 1994
Paul era apprezzato all’Ufficio stupefacenti. Otteneva solidi risultati sul campo, conduceva una vita regolare, ripassava le lezioni per il concorso da commissario — e vedeva persino allontanarsi, al fondo della sua coscienza, quei tagli nella finta pelle del sedile. Il suo carapace di sbirro funzionava come un’armatura stagna contro le vecchie angosce.
Quella sera accompagnava alla prefettura di Parigi un trafficante nordafricano che aveva interrogato per più di sei ore nel suo ufficio di Nanterre. Routine. Ma, giunto al quai des Orfèvres, assistette a una vera rivolta; decine di furgoni scaricavano grappoli di adolescenti urlanti e gesticolanti; sul lungofiume i poliziotti correvano in tutte le direzioni, mentre si sentiva l’urlo delle sirene delle ambulanze che intasavano il cortile dell’ospedale dell’Hôtel-Dieu.
Paul si informò. Una manifestazione contro il contratto di inserimento professionale era degenerata. Si diceva che in Place de la Nation ci fossero stati più di cento feriti tra le file della polizia e diverse decine tra i dimostranti; danni materiali per milioni di franchi.
Paul agguantò il suo indiziato e si sbrigò a scendere nei sotterranei. Se non avesse trovato posto nelle celle, sarebbe dovuto andare alla prigione della Santé o chissà dove, sempre con il suo prigioniero ammanettato al polso.
La casa circondariale lo accolse con il solito baccano, ma spinto a mille. Insulti, urla, sputi: i manifestanti si aggrappavano alle griglie, lanciando ingiurie alle quali i poliziotti rispondevano a colpi di manganello. Riuscì a ingabbiare il suo tipo e fece per andarsene in fretta, per sfuggire al casino e agli sputi.
Stava per svignarsela quando la vide.
Lei era seduta per terra, con le braccia intorno alle ginocchia, e sembrava piena di sdegno per il caos che la circondava. Lui si avvicinò. Lei aveva i capelli neri e diritti, un corpo androgino, un’aria cupa come la musica dei Joy Division uscita direttamente dagli anni Ottanta. Aveva persino una di quelle keffiah a quadri blu che solo Arafat osava ancora portare.
Sotto i capelli dal taglio punk, il viso era di una regolarità stupefacente; una precisione da figurina egizia, scolpita nel marmo bianco. Paul pensò alle sculture che aveva visto in una rivista. Forme naturalmente levigate, al tempo stesso dolci e pesanti, da nascondere nel palmo della mano e da tenere diritte su un dito, in perfetto equilibrio. Dei ciottoli magici, firmati da un artista di nome Brancusi.
Paul negoziò con il secondino, verificò che il nome della ragazza non fosse ancora stato scritto sul registro, poi la portò alla Sezione stupefacenti, al terzo piano. Mentre saliva le scale, fece rapidamente il conto dei suoi punti di forza e dei suoi handicap.
Sul versante punti di forza, era un bel ragazzo; o almeno era quello che gli lasciavano intendere le prostitute che gli fischiavano dietro quando passava nei quartieri caldi in cerca di spacciatori. Aveva capelli da indiano, lisci e neri. Lineamenti regolari e occhi color caffè. Un corpo secco e nervoso, non molto alto, ma rialzato dalla grossa suola degli anfibi. Sarebbe stato una specie di damerino se non avesse avuto cura di sfoggiare sempre uno sguardo duro, studiato davanti allo specchio, e una barba di tre giorni che guastava ad arte quella bella faccina.
Sul versante handicap, non ne vedeva che uno, ma bello grosso: era uno sbirro.
Quando controllò la fedina penale della ragazza, capì che l’ostacolo poteva essere insormontabile. Reyna Brendosa, ventiquattro armi, residente al 32 di rue Gabriel-Péri a Sarcelles, era membro attivo della Lega comunista rivoluzionaria, linea dura; affiliata a un gruppo anarco-insurrezionalista italiano; più volte arrestata per vandalismo, turbamento dell’ordine pubblico e percosse. Una vera bomba.
Paul abbandonò il computer e contemplò ancora una volta la creatura che lo fissava dall’altra parte della scrivania. Quei suoi occhi neri, messi in risalto dall’ombretto scuro, lo picchiavano più duramente dei due spacciatori zairesi che lo avevano pestato a Chateau-Rouge, in una sera di disattenzione.
Lui giocò con la sua carta d’identità, come fanno tutti i poliziotti, e chiese:
«Ti diverte spaccare tutto?»
Nessuna risposta.
«Non c’è nessun altro modo di esprimere le proprie idee?»
Nessuna risposta.
«Ti eccita la violenza?»
Nessuna risposta. Poi, all’improvviso, la voce, grave e lenta:
«La sola vera violenza è la proprietà privata. La spogliazione delle masse. L’alienazione delle coscienze. La peggiore di tutte, quella scritta e autorizzata nelle leggi.»
«Queste idee sono tutte tramontate: non ne sei al corrente?»
«Niente e nessuno potrà impedire lo sgretolamento del capitalismo.»
«E nell’attesa tu ti prenderai tre mesi di galera.»
Reyna Brendosa sorrise:
«Tu giochi a fare il soldatino, ma sei solo una pedina. Se ti soffio sopra, tu sparisci.»
Paul sorrise a sua volta. Non aveva mai provato per una donna un tale miscuglio di irritazione e di fascinazione, un desiderio così violento, ma anche così misto al timore.
Dopo la loro prima notte, lui aveva chiesto di rivederla; lei lo aveva trattato da «sporco sbirro». Un mese più tardi, quando ormai lei dormiva a casa sua tutte le sere, lui le aveva proposto di trasferirsi nel suo appartamento; lo aveva mandato a «farsi fottere». Più tardi ancora, lui aveva parlato di sposarla; lei era scoppiata a ridere.
Si erano poi sposati in Portogallo, vicino a Porto, nel villaggio natale di lei. Prima davanti al sindaco comunista, poi in una piccola chiesa. Un sincretismo di fede, di socialismo e di sole. Uno dei più bei ricordi di Paul.
I mesi successivi erano stati i più belli della sua vita. Non cessava di meravigliarsene. Reyna gli sembrava eterea, immateriale, poi, un attimo dopo, un gesto, un’espressione le conferivano una presenza, una sensualità incredibili, quasi animalesche. Lei poteva passare ore a sostenere le sue idee politiche, a descrivere utopie e citare filosofi di cui lui non aveva mai sentito parlare. E poi, con un solo bacio, ricordargli che era un essere rosso, organico, palpitante.
Il suo alito sapeva di sangue perché non la smetteva mai di mordicchiarsi le labbra. In ogni circostanza sembrava captare la respirazione del mondo, sembrava muoversi con gli ingranaggi profondi della natura. Possedeva una sorta di percezione interna dell’universo; qualche cosa di freatico, di sotterraneo, che la legava alle vibrazioni della Terra e agli istinti del vivente.
Lui amava quella sua lentezza che le conferiva una gravità da rintocco funebre. Amava la sua acuta sofferenza di fronte all’ingiustizia, alla miseria, alla deriva dell’umanità. Amava quella via al martirio che lei aveva imboccato e che elevava a tragedia il loro quotidiano. La vita con sua moglie sembrava un’ascesa, la preparazione all’incontro con un oracolo. Un cammino religioso, di trascendenza e di rigore.
Reyna, ovvero la vita come digiuno… Quella sensazione lasciava presagire quello che sarebbe successo. Alla fine dell’estate del 1994, lei gli annunciò di essere incinta. Lui prese la notizia come un tradimento: gli rubavano il suo sogno. Il suo ideale sprofondava nella banalità della fisiologia e della famiglia. Per la verità, sentiva che sarebbe stato privato di lei. In primo luogo fisicamente, ma anche moralmente. La vocazione di Reyna si sarebbe certamente modificata; la sua utopia si sarebbe incarnata nella sua metamorfosi interiore…
Dopo il parto, nell’aprile del 1995, i loro rapporti si raffreddarono definitivamente. L’uno e l’altra stavano intorno alla figlia come due esseri distanti. Malgrado la presenza del neonato, c’era nell’aria un che di funereo, una vibrazione morbosa. Paul capiva di essere diventato per Reyna oggetto di una totale repulsione.
Una notte, non resistendo più, chiese:
«Non mi desideri più?»
«No.»
«Non mi desidererai mai più?»
«No.»
Esitò, poi pose la domanda fatale:
«Mi hai mai desiderato?»
«No, mai.»
Per essere un poliziotto, non aveva avuto molto intuito su quella storia… Il loro incontro, la loro unione, il loro matrimonio, tutto era stato un bidone, un’impostura.
Una macchinazione il cui solo scopo era stata la bambina.
Per il divorzio bastò qualche mese. Di fronte al giudice, Paul crollò letteralmente. Sentiva una voce rauca risuonare nell’ufficio, ed era la sua; sentiva della carta vetrata attaccargli il viso, ed era la sua stessa barba; galleggiava nella stanza come un fantasma, uno spettro allucinato. Aveva detto di sì a tutto, alimenti e affidamento della bambina, non si era battuto su niente. Se ne fotteva, preferiva meditare sulla perfidia del complotto. Era stato vittima di una collettivizzazione di tipo un po’ particolare… Reyna la marxista si era appropriata del suo sperma. Aveva praticato una fecondazione in vivo secondo il sistema comunista.
La cosa più strana era che lui non riusciva a odiarla. Al contrario, ammirava ancora quell’intellettuale estranea al desiderio. Ne era certo: lei non avrebbe mai più avuto rapporti sessuali. Né con un uomo né con una donna. E l’idea di quella creatura idealista che voleva semplicemente dare la vita, senza passare né attraverso il piacere né attraverso la condivisione, lo lasciava inebetito, senza senso e senza idee.
A partire da quel momento aveva cominciato ad andare alla deriva, come un fiume di acque sporche che cerca il suo mare di fango. Sul lavoro andava sempre peggio. Non metteva più piede nel suo ufficio a Nanterre. Passava la sua vita nei quartieri più malfamati, accanto alla peggiore teppaglia, fumava spinelli a raffica, viveva con i trafficanti e gli sballati, spassandosela con i peggiori rifiuti dell’umanità…
Poi, nella primavera del 1998, aveva accettato di vederla.
Si chiamava Céline e aveva tre anni. I primi weekend erano stati mortali. Parco, giostre, zucchero filato: una noia senza fine. Poi, poco a poco, aveva scoperto una presenza inattesa. C’era una trasparenza nei gesti della bambina, nel suo viso, nelle sue espressioni; un flusso morbido, capriccioso e saltellante, di cui conosceva le vie segrete.
La mano girata verso l’esterno, con le dita strette, per sottolineare qualcosa. Un certo modo di sporgersi in avanti e di concludere quel movimento con una smorfia dispettosa. La voce un po’ arrochita, d’una grana affascinante e singolare, che lo faceva rabbrividire come il contatto con certi o con certe scorze. Sotto la bambina palpitava già una donna. Non sua madre, certo non lei, ma una creatura vispa, vivace, unica.
C’era qualcosa di nuovo sulla terra: Céline esisteva.
Paul cambiò radicalmente ed esercitò con passione il suo diritto a vedere la figlia. Gli incontri regolari con lei lo ristabilirono e ripartì alla conquista della stima di sé stesso. Sognò nuovamente di essere un eroe, un superpoliziotto incorruttibile, lavato da tutto il sudiciume.
Un uomo la cui immagine riflessa avrebbe fatto risplendere lo specchio ogni mattina.
Per la propria remissione scelse il solo territorio che conosceva: il crimine. Dimenticò il concorso da commissario e chiese un posto alla Brigata criminale di Parigi. Malgrado il suo periodo dubbio, nel 1999 ottenne un posto da capitano. Divenne un investigatore accanito, incandescente. E si mise ad aspettare il caso che lo avrebbe condotto ai vertici. Il genere di inchiesta che tutti i poliziotti motivati desiderano: una caccia alla belva, un duello solitario con un nemico degno di questo nome.
Fu allora che sentì parlare del primo corpo.
Una donna rossa di capelli torturata, sfigurata, scoperta sotto un portone vicino al boulevard de Strasbourg, il 15 novembre 2001. Nessun sospetto, nessun movente e, per così dire, nessuna vìttima… Il cadavere non corrispondeva ad alcun avviso di scomparsa. Le impronte digitali non erano schedate. Alla criminale il caso era archiviato. Senza dubbio un storia di puttane e di magnaccia: la rue Saint-Denis era a duecento metri appena. Istintivamente, Paul presagì qualcosa di diverso. Si procurò il dossier: verbale del ritrovamento, rapporto del medico legale, foto del cadavere. Durante le feste natalizie, mentre i suoi colleghi erano con la famiglia e Céline era in Portogallo dai nonni, lui studiò a fondo i documenti. Rapidamente capì che non si trattava di un fatto di prostituzione. Né la diversità delle torture né le mutilazioni al viso avvaloravano l’ipotesi di un pappone. Inoltre, se la vittima fosse stata una passeggiatrice, il controllo delle impronte avrebbe dato qualche risultato, dato che tutte le prostitute del decimo erano schedate.
Decise di sorvegliare attentamente quello che succedeva nel quartiere Strasbourg-Saint-Denis. Non dovette attendere a lungo. Il 10 gennaio 2002, nel cortile di un laboratorio turco in rue du Faubourg-Saint-Denis, veniva scoperto un secondo corpo. Stesso tipo di vittima: rossa, non corrispondente ad alcuna segnalazione; stesse tracce di torture; stessi sfregi sul volto.
Paul si impose la calma, ma era certo di avere la «sua» serie. Dal giudice istruttore responsabile del caso, Thierry Bomarzo, ottenne la direzione dell’inchiesta. Sfortunatamente la pista era già fredda. I ragazzi della pubblica sicurezza avevano alterato la scena del delitto e la polizia scientifica non aveva trovato niente.
Paul avvertì oscuramente che doveva spiare l’assassino sul suo stesso terreno, doveva sprofondarsi nel quartiere turco. Si fece spostare alla polizia giudiziaria del decimo arrondissement e si fece degradare a semplice investigatore del SARIJ, il Servizio di accoglienza e di ricerca investigativa giudiziaria della rue de Nancy. Riannodò i legami con la quotidianità del poliziotto di base e raccolse le denunce delle vedove scippate, dei droghieri vittime di furto, dei vicini litigiosi.
Il mese di febbraio passò così. Paul mordeva il freno. Temeva un nuovo cadavere e al tempo stesso lo sperava. Alternava i momenti di eccitazione e le giornate di completo sconforto. Quando toccava veramente il fondo, andava a raccogliersi sulle tombe anonime delle due vittime, alla fossa comune di Thiais, nel Val-de-Marne.
Là, di fronte ai cippi di pietra che recavano solo un numero, giurava alle due donne di vendicarle, di trovare il pazzo che aveva imposto loro il supplizio. Poi, in un angolo della sua testa, faceva una promessa anche a Céline. Sì: avrebbe preso l’assassino. Per lei. Per sé. Perché tutto il mondo sapesse che lui era un grande poliziotto.
Il 16 marzo 2002, all’alba, era spuntato un nuovo cadavere.
I poliziotti di servizio lo avevano chiamato alle cinque del mattino. I netturbini avevano rinvenuto il corpo in un canale di scolo dell’ospedale Saint-Lazare, un edificio in mattoni abbandonato che si trovava, un po’ arretrato, sul boulevard Magenta. Paul ordinò che nessuno si recasse sul posto prima di un’ora. Prese la giacca e si portò velocemente sulla scena del delitto. Trovò il luogo deserto, senza un agente, senza un lampeggiante che disturbasse la sua concentrazione.
Un vero miracolo.
Avrebbe potuto seguire la scia dell’assassino, entrare in contatto con il suo odore, il suo aspetto, la sua follia… Ma fu una nuova delusione. Si era atteso degli indizi materiali, una messa in scena particolare che fungesse da firma. Ma non trovò che un cadavere abbandonato in un tubo di cemento. Un corpo livido, mutilato, con un volto sfigurato sotto i capelli color della cera.
Paul capì di esser preso tra due silenzi. Il silenzio dei morti e il silenzio del quartiere.
Prima ancora che arrivasse il furgone della polizia, se n’era andato abbattuto, sconfortato. Aveva fatto a piedi tutta la rue Saint-Denis e aveva osservato il risveglio della Piccola Turchia. I commercianti che aprivano i loro negozi; gli operai che correvano alle loro fabbriche; i mille e uno turchi che badavano al loro destino… Allora nacque in lui una certezza: quel quartiere di immigrati era la foresta nella quale si nascondeva l’assassino. Una giungla inestricabile dove si era appena eclissato, dove aveva trovato rifugio e sicurezza.
Solo che Paul non aveva alcuna possibilità di stanarlo.
Gli ci voleva una guida. Uno che facesse chiarezza.
In «abiti civili», Jean-Louis Schiffer aveva un aspetto migliore.
Portava un Barbour verde oliva, un paio di pantaloni di velluto a coste, di un verde più tenero, che ricadevano pesantemente su un paio di grosse scarpe stile Church, lucide come due belle castagne.
Quei vestiti gli conferivano una certa eleganza, senza comunque attenuare la brutalità della sua figura. Tarchiato, torace ampio, gambe arcuate: tutto in quell’uomo traspirava potenza, solidità, violenza. Quel poliziotto poteva certamente incassare il rinculo di un revolver regolamentare, un Manhurin calibro 38, senza muoversi di un centimetro. Meglio ancora: la sua postura implicava già quel rinculo, lo incorporava nella sua andatura.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il Cifra alzò le braccia:
«Puoi perquisirmi, piccolo. Non ho preso con me il ferro.»
«Lo spero bene», replicò Paul. «Qui, se lo ricordi bene, c’è un solo poliziotto in attività e quello sono io; e non sono certo il suo “piccolo”.»
Schiffer sbatté i tacchi in una parodia di saluto militare. Paul non abbozzò neppure un sorriso. Gli aprì la portiera, salì a sua volta e partì rapidamente, ricacciando indietro le proprie apprensioni.
Durante il viaggio, il Cifra non disse una parola. Era immerso nel plico di fotocopie del dossier. Di quel dossier, Paul conosceva ogni riga. Sapeva tutto ciò che si poteva sapere sui corpi anonimi che egli stesso aveva battezzato i «Corpus».
Ai confini di Parigi, Schiffer riprese la parola:
«L’analisi della scena del crimine non ha dato risultati?»
«Niente.»
«La scientifica non ha trovato neanche un’impronta, neanche un frammento?»
«Un bel niente.»
«E sui corpi?»
«Ancora meno. Secondo il medico legale, l’omicida li pulisce con un detergente industriale. Disinfetta le ferite, lava loro i capelli, ripulisce le unghie.»
«E le indagini nei dintorni?»
«Gliel’ho già detto. Ho interrogato gli operai, i negozianti, le puttane, gli spazzini di ognuna delle tre zone. Mi sono persino cucinato i barboni. Nessuno ha visto nulla.»
«Il tuo parere?»
«Penso che l’assassino giri in macchina e che abbandoni il corpo appena può, alle prime luci dell’alba. Un’operazione lampo.»
Schiffer girava le pagine. Si fermò sulle fotografie dei cadaveri:
«Per la questione dei volti, ti sei fatto un’idea?»
Paul prese fiato; aveva riflettuto notti intere su quelle mutilazioni:
«Ci sono diverse possibilità. La prima è che l’assassino voglia semplicemente confondere le piste. Quelle donne lo conoscevano e la loro identificazione potrebbe portare a lui.»
«Allora perché non distrugge le dita e i denti?»
«Perché sono delle clandestine e non sono schedate da nessuna parte.»
Il Cifra accettò la spiegazione annuendo con il capo.
«La seconda?»
«Una ragione più… psicologica. Ho letto un sacco di libri sull’argomento. Secondo gli psicologi, quando un omicida distrugge gli organi dell’identificazione è perché conosce le sue vittime e non sopporta il loro sguardo. Allora annienta il loro statuto di esseri umani, le mantiene a distanza trasformandole in puri oggetti.»
Schiffer sfogliò nuovamente il plico.
«Questa roba da strizzacervelli non mi convince molto. Terza possibilità?»
«L’assassino ha problemi con i volti, in generale. C’è qualcosa nei lineamenti di quelle rosse che gli fa paura, che gli ricorda un trauma. Non deve solo ucciderle, deve anche sfigurarle. Secondo me, quelle donne si assomigliano. È il loro viso che fa scattare le sue crisi.»
«Ancora più fumoso.»
«Lei non ha visto i cadaveri», rispose Paul alzando la voce. «Abbiamo a che fare con un malato. Uno psicopatico allo stato puro. Tocca a noi sintonizzarci sulla sua follia.»
«E questo cos’è?»
Aveva aperto un’ultima busta contenente foto di sculture antiche. Teste, maschere, busti. Era stato Paul stesso a ritagliare quelle immagini dai cataloghi dei musei, dalle guide turistiche, da riviste come «Archeologia» o «Il Bollettino del Louvre».
«Un’idea mia», rispose. «Ho notato che i tagli assomigliano a screpolature, a crateri, come fossero dei segni nella pietra. Ci sono i nasi tranciati, le labbra tagliate, le ossa limate, tutte cose che ricordano le tracce dell’usura. Mi sono detto che l’omicida potrebbe ispirarsi a statue antiche.»
«D’accordo, vediamo.»
Paul si sentì arrossire. La sua idea era tirata per i capelli e, malgrado le sue ricerche, non aveva trovato il benché minimo esempio che potesse richiamare, da vicino o da lontano, le ferite dei Corpus. E tuttavia, senza esitazione, disse:
«Forse per l’assassino quelle donne sono delle dee, odiate e rispettate al tempo stesso. Sono sicuro che è turco e che è immerso nella mitologia mediterranea.»
«Tu hai troppa fantasia.»
«Non le è mai capitato di seguire il suo intuito?»
«Non ho mai seguito altro che il mio intuito. Ma credimi: tutte queste storie “psico” è roba troppo soggettiva. Bisogna piuttosto concentrarsi sui problemi tecnici che deve affrontare.»
Paul non era sicuro di capire. Schiffer proseguì:
«Si deve riflettere sul suo modus operandi. Se tu hai ragione, se quelle donne sono davvero delle clandestine, allora sono musulmane. E non delle musulmane di Istanbul, con i tacchi alti. Delle contadine, delle selvagge che camminano rasenti ai muri e non parlano una parola di francese. Per addomesticarle, bisogna conoscerle. E parlare turco. Forse il nostro uomo è il capo di un laboratorio. Un negoziante. O il responsabile di un centro per immigrati. Poi c’è la questione degli orari. Quelle operaie vivono sottoterra, nelle cantine, nei laboratori nascosti. L’assassino le becca quando ritornano in superficie. Quando? Come? Perché queste ragazze selvatiche accettano di seguirlo? È rispondendo a queste domande che risaliremo lungo la sua traccia.»
Paul era d’accordo, ma tutte quelle domande dimostravano soprattutto l’immensità di ciò che ignoravano. Tutto era possibile. Schiffer affrontò un nuovo argomento:
«Suppongo che tu abbia verificato gli omicidi dello stesso genere.»
«Ho consultato il nuovo archivio Chardon. E anche quello dei gendarmi: l’Anacrime. Ho interrogato tutti i ragazzi della Brigata criminale. In Francia non c’è mai stato un affare che ricordasse, neanche da lontano, una paranoia simile. Ho controllato anche in Germania, nella comunità turca. Niente.»
«E in Turchia.»
«Idem. Niente di niente.»
Schiffer prese una nuova direzione. Sembrava condurre un vero sopralluogo:
«Hai aumentato le pattuglie nel quartiere?»
«Ci siamo messi d’accordo con Monestier, il capo del commissariato di rue Louis-Blanc. Le ronde sono state rinforzate. Ma discretamente. Meglio non diffondere il panico nella zona.»
Schiffer scoppiò a ridere:
«Ma cosa credi? I turchi sono già al corrente della cosa, tutti.»
Paul glissò su quella frecciata:
«In ogni caso, fino a questo momento abbiamo evitato i media. È la sola garanzia per continuare da solo. Se si comincia a far rumore intorno alla faccenda, Bomarzo mette altri inquirenti nel caso. Per ora è una storia turca e tutti se ne fottono. Ho mano libera.»
«Perché di una questione del genere non si occupa la criminale?»
«Io vengo dalla criminale. Tengo ancora un piede là dentro. Bomarzo mi dà fiducia.»
«E non hai chiesto degli uomini in più?»
«No.»
«Non hai costituito un gruppo di indagine?»
«No.»
Il Cifra si lasciò scappare un sogghigno:
«La vuoi tutta per te, eh?»
Paul non rispose. Con il dorso della mano Schiffer spazzò via un pelucchio dai suoi pantaloni:
«Le tue motivazioni importano poco. Importano poco anche le mie. Lo becchiamo, vedrai.»
Giunto sulla tangenziale, Paul prese verso ovest, direzione Porte d’Auteuil.
«Non andiamo alla Râpée?» si stupì Schiffer.
«Il corpo è a Garches. All’ospedale Raymond-Poincarré. Laggiù c’è un istituto medico-legale incaricato di fare le autopsie per il tribunale di Versailles e…»
«Lo so. Perché là?»
«Questione di discrezione. Per evitare i giornalisti o i profiler dilettanti che stazionano costantemente all’obitorio di Parigi.»
Schiffer sembrava non ascoltarlo più. Osservava affascinato il movimento delle macchine. Di tanto in tanto strizzava gli occhi, come se si stesse abituando a una luce nuova. Assomigliava a un detenuto in libertà condizionale.
Mezz’ora più tardi, Paul passò il ponte di Suresnes e risalì lungo boulevard Sellier per proseguire sul boulevard de la République. Poi attraversò la cittadina di Saint-Cloud e raggiunse i confini di Garches.
Infine, in cima alla collina, apparve l’ospedale. Sei ettari di costruzioni, di sale operatorie e di camere bianche; una vera città, popolata da medici, infermieri e migliaia di pazienti, vittime, per la maggior parte, di incidenti stradali.
Si diresse verso il padiglione Vésale. Il sole era alto e sfiorava e accarezzava le facciate degli edifici in mattoni. Ogni muro proponeva una nuova sfumatura di rosso, di rosa, di crema, come se fossero stati cotti al forno con cura.
Qua e là, lungo i vialetti, si vedevano gruppi di visitatori con fiori e scatole di pasticcini. Camminavano con una rigidità quasi meccanica, come se fossero stati contaminati dal rigor mortis che regnava in quell’area.
Giunsero nel cortile interno del padiglione. L’edificio grigio e rosa, con la sua pensilina sostenuta da minuscole colonne, ricordava un sanatorio o uno stabilimento termale che nascondesse misteriose sorgenti curative.
Entrarono nell’obitorio e seguirono un corridoio piastrellato in ceramica bianca. Quando Schiffer vide la sala d’attesa, domandò:
«Dove siamo?»
Era una cosa da nulla, ma Paul era contento di stupirlo.
Qualche anno prima, l’istituto medico-legale di Garches era stato ristrutturato in maniera molto originale. La prima sala era tinteggiata in turchese; il colore ricopriva indistintamente il pavimento, i muri e il soffitto e annullava così ogni senso della dimensione, ogni punto di riferimento. Il si era immersi in un mare cristallizzato che distillava una limpidezza vivificante.
«I dottori di Garches hanno chiamato un artista contemporaneo, spiegò Paul. Ora noi non siamo più in un ospedale, siamo dentro un’opera d’arte.»
Comparve un infermiere e indicò una porta sulla destra:
«Il dottor Scarbon vi raggiungerà nella sala.»
Lo seguirono e superarono altre stanze. Anch’esse azzurre, anch’esse vuote, sormontate talvolta da un bordo di luce bianca proiettato a qualche centimetro dal soffitto. Nel corridoio c’erano dei vasi di marmo ordinati secondo l’altezza e secondo un digradare di toni pastello: rosa, pesca, giallo, avorio, bianco… Sembrava che ovunque fosse all’opera una strana volontà di purezza.
L’ultima sala strappò al Cifra un fischio d’ammirazione.
Era un rettangolo senza divisioni, di circa cento metri quadri, assolutamente vergine, abitato solo dall’azzurro. A sinistra della porta d’entrata, tre alte vetrate ritagliavano il chiarore dell’esterno. Di fronte a queste tre figure di luce, nel muro opposto si aprivano tre archi come volte d’una chiesa greca. All’interno c’erano blocchi di marmo allineati, anch’essi turchesi, che sembravano spuntare direttamente dal pavimento.
Su uno di essi, un lenzuolo aderiva alla forma di un corpo.
Schiffer si avvicinò a una giara di marmo bianco sistemata al centro della stanza. Pesante e levigata, piena d’acqua, essa evocava un’acquasantiera dalle linee semplici e antiche. Agitata da un motore, l’acqua gorgogliante diffondeva un profumo di eucalipto destinato ad attenuare la puzza dei morti e l’odore del formolo.
Il poliziotto ci immerse le dita.
«Tutto questo non mi ringiovanisce.»
In quel momento si sentirono i passi del dottor Claude Scarbon. Schiffer si girò. I due uomini si squadrarono. A Paul bastò un’occhiata per capire che i due si conoscevano. Aveva chiamato il medico dall’ospizio senza dirgli del suo nuovo collega.
«Grazie di essere venuto, dottore», disse salutandolo.
Scarbon fece un cenno col capo, senza distogliere lo sguardo dal Cifra. Portava un cappotto di lana scura e aveva ancora indosso i guanti di capretto. Era un vecchio smunto. Sbatteva le palpebre continuamente, come se gli occhiali che aveva in punta al naso non gli fossero di alcuna utilità. Da sotto i suoi grossi baffi gallici usciva una voce trascinata da film d’anteguerra.
Paul fece un gesto verso il suo accompagnatore:
«Vi presento…»
«Ci conosciamo», intervenne Schiffer. «Salve dottore.»
Senza rispondere, Scarbon si tolse il cappotto e infilò una casacca appesa sotto una delle volte, poi infilò le mani in un paio di guanti di lattice il cui colore verde pallido si intonava con l’azzurro che li circondava.
Solo allora spostò il lenzuolo. L’odore della carne in decomposizione si spanse nella stanza, tagliando corto su ogni altra preoccupazione.
Suo malgrado, Paul distolse lo sguardo. Quando ebbe trovato il coraggio di guardare, scorse il corpo pesante e bianco, seminascosto dal lenzuolo ripiegato.
Schiffer si era infilato sotto l’arco e si era messo dei guanti chirurgici. Sul suo viso non si leggeva il minimo turbamento. Dietro di lui si staccavano dal muro due candelabri di ferro nero e una croce di legno. Con una voce neutra mormorò:
«OK dottore, può cominciare.»
«La vittima è di sesso femminile, di razza caucasica. Il suo tono muscolare indica che aveva tra i venti e i trent’anni. Piuttosto abbondante. Settanta chili per un metro e sessanta. Se aggiungiamo che aveva i capelli rossi e la carnagione bianca tipica delle rosse, direi che corrisponde, fisicamente, allo stesso profilo delle prime due. Al nostro uomo piacciono così: sulla trentina, rosse, grassottelle.»
Scarbon parlava con un tono monocorde. Sembrava leggere mentalmente le righe del proprio rapporto, righe scolpite nella sua notte insonne,
Schiffer chiese:
«Nessun segno particolare?»
«Del tipo?»
«Tatuaggi. Fori alle orecchie. Segno della fede al dito. Cose che l’assassino non avrebbe potuto cancellare.»
«No.»
«Nerteaux mi ha detto che le dita indicavano un lavoro di cucitrice. Cosa ne pensate?»
Scarbon confermò con un cenno del capo:
«Sono donne che hanno praticato a lungo dei lavori manuali, è evidente.»
«È d’accordo con il lavoro di cucito?»
«È difficile essere veramente precisi. Ci sono tracce di punture nei solchi delle dita. Ci sono anche dei calli tra il pollice e l’indice. Forse sono dovuti all’uso di una macchina da cucire o di un ferro da stiro.»
Alzò lo sguardo al di sopra delle lenti e riprese:
«Sono ben state ritrovate vicino al quartiere del Sentier, no?»
«E allora?»
«Sono operaie turche.»
Schiffer non colse quel tono di sicurezza, continuava a osservare il torace. Suo malgrado, Paul si avvicinò. Vide le lacerazioni nere che si allungavano sui fianchi, sui seni, sulle spalle e sulle cosce. Molte di esse erano così profonde da mostrare il bianco delle ossa.
«Ci parli di queste», ordinò il Cifra.
Il medico scorse rapidamente alcune pagine pinzate.
«Su questa, ho contato ventisette tagli. Alcuni superficiali, alcuni profondi. Si può immaginare che l’assassino abbia intensificato le torture man mano che il tempo passava. Sulle altre due ce n’erano più o meno lo stesso numero.» Abbassò i fogli per osservare i suoi interlocutori. «In generale, tutto ciò che descrivo qui è valido anche per le precedenti vittime. Le tre donne sono state seviziate nella stessa maniera.»
«Con che arma?»
«Un coltello da combattimento, cromato, dotato di una lama seghettata. In diverse ferite si distingue nettamente l’impronta dei denti. Dopo l’esame dei primi due corpi avevo chiesto una ricerca dell’arma sulla base della dimensione e della distanza tra i denti, ma non ha dato alcun risultato. Materiale militare standard, corrispondente a decine di modelli.»
Il Cifra si sporse su altre ferite che si moltiplicavano sul busto, curiose aureole nere che suggerivano dei morsi o dei baci infuocati. Quando Paul aveva notato quel dettaglio sul primo cadavere, aveva pensato al diavolo. Un essere uscito dalla fornace per dilettarsi di quel corpo innocente.
«E questi?» chiese Schiffer tendendo l’indice. «Cosa sono? Dei morsi?»
«A prima vista si direbbero dei succhiotti. Ma ho trovato una spiegazione razionale a questi segni. Penso che l’omicida si serva di una batteria da auto per infliggere loro delle scosse elettriche. Più precisamente, credo che utilizzi le pinze dentate che si usano di solito per collegare i cavi. I segni delle labbra non sono altro che le impronte di queste pinze. Secondo me, bagna il corpo per accentuare le scariche. Ciò spiegherebbe le stigmate nere. Ce ne sono più di una ventina su questa.»
Brandì i suoi fogli.
«È tutto nel mio rapporto.»
Quelle informazioni Paul le conosceva bene; aveva letto e riletto i due primi verbali d’autopsia. Ma ogni volta sentiva la stessa repulsione, il medesimo rigetto. Non c’era alcun modo di provare empatia per una tale follia.
Schiffer si piazzò all’altezza delle gambe del cadavere; i piedi, nero-blu, erano piegati secondo un angolo impossibile.
«E là?»
Scarbon si avvicinò a sua volta, dall’altra parte del corpo. Sembravano due topografi che studiassero i rilievi di una carta.
«Le radiografie sono spettacolari. Tarsi, metatarsi, falangi: tutto è distrutto. Abbiamo contato circa settanta frammenti d’osso conficcati nei tessuti. Nessuna caduta avrebbe potuto provocare danni simili. L’assassino si è accanito su queste membra con un oggetto contundente. Una barra di ferro o una mazza da baseball. Le altre due hanno subito lo steso trattamento. Mi sono informato: è una tecnica di tortura tipicamente turca. La felaka, o il felika, non so altro.»
Con un accento gutturale, Schiffer sputò:
«Al-Falaqua.»
Paul si ricordò che il Cifra parlava correntemente il turco e l’arabo.
«Così, a memoria», proseguì, «posso citarle almeno dieci paesi che praticano questa tortura.»
«Bene. Siamo in pieno esotismo, vero?»
Schiffer risalì verso l’addome. Prese nuovamente una delle mani. Paul vide le dita annerite e gonfie. L’esperto commentò:
«Le unghie sono state strappate con una tenaglia. Le estremità sono state bruciate con l’acido.»
«Che acido?»
«È impossibile dirlo.»
«Non può essere una tecnica post mortem per distruggere le impronte?»
«Se è così, l’omicida ha fallito. I dermatoglifi sono perfettamente visibili. No, penso piuttosto a una tortura supplementare. L’assassino non è il tipo da sbagliare qualcosa.»
Il Cifra aveva posato la mano. La sua attenzione si focalizzava ora sul sesso aperto. Anche il dottore guardava la ferita. I topografi cominciavano ad assomigliare a degli avvoltoi.
«È stata violentata?»
«Non nel senso sessuale del termine.»
Per la prima volta Scarbon esitò. Paul abbassò gli occhi. Vide l’orifizio spalancato, dilatato, lacerato. Le parti interne, grandi labbra, piccole labbra, clitoride, erano voltate verso l’esterno, in un insostenibile rovesciamento di carne. Il medico si raschiò la gola e disse:
«Le ha infilato una specie di manganello tappezzato di lame da rasoio. Le lacerazioni si vedono bene, qui, all’interno della vulva, e là, lungo le cosce. Un vero macello. Il clitoride è sezionato. Le labbra sono tagliate. Ciò ha provocato un’emorragia interna. La prima vittima mostrava esattamente le stesse ferite. La seconda…»
Esitò di nuovo. Schiffer cercò il suo sguardo:
«Cosa?»
«La seconda era diversa. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.»
«Di vivo?»
«Sì, un roditore. Una bestia di quel genere. Gli organi genitali esterni erano morsicati, lacerati, fino all’utero. Pare che dei torturatori abbiano usato questo metodo in America latina…»
Paul si sentiva la testa in una morsa. Conosceva quei dettagli, ma ognuno di essi lo feriva, ogni parola gli dava il batticuore. Macchinalmente, tuffò le dita nell’acqua profumata e si ricordò che il suo compagno aveva fatto il medesimo gesto qualche minuto prima. Le ritirò subito.
«Continui», ordinò Schiffer con voce roca.
Scarbon non rispose immediatamente; il silenzio riempì la sala turchese. I tre uomini sembravano comprendere che non potevano più tirarsi indietro; dovevano affrontare la faccia.
«È la parte più complessa», riprese infine il dottore inquadrando con gli ìndici il volto sfigurato. «Ci sono diversi stadi nella violenza.»
«Si spieghi.»
«Dapprima le contusioni. Il viso non è che un enorme ematoma. L’assassino ha colpito lungamente, selvaggiamente. Forse con un tirapugni. In ogni caso qualcosa di metallico e di più preciso di una barra o di un manganello. Poi ci sono i tagli e le mutilazioni. Queste ferite non hanno sanguinato. Sono state praticate post mortem.»
Ora erano vicinissimi alla maschera dell’orrore. Vedevano le ferite profonde in tutta la loro ferocia e senza la distanza abituale delle fotografie. Vedevano i tagli che attraversavano il viso, che rigavano la fronte e le tempie, i solchi che foravano le guance. Vedevano le mutilazioni: il naso tranciato, il mento smussato, le labbra tagliate…
«Vedete quanto me ciò che ha tagliato, limato, strappato. Quello che è interessante qui, è quanto si è applicato. Ha rifinito l’opera. È la sua firma. Nerteaux pensa che cerchi di copiare…»
«Lo so cosa pensa. E lei cosa pensa?»
Scarbon si tirò indietro, le mani dietro la schiena:
«L’uccisore è ossessionato da questi volti. Per lui rappresentano al tempo stesso una fonte di fascino e di collera. Li scolpisce, li modella, e insieme distrugge il loro carattere umano.»
Schiffer fece con le spalle un movimento che indicava il suo scetticismo.
«Di cosa è morta alla fine?»
«Gliel’ho detto. Emorragia interna. Provocata dal massacro degli organi genitali. Deve essersi svuotata in terra.»
«E le altre due?»
«La prima, anche lei un’emorragia. A meno che il cuore non l’abbia abbandonata prima. La seconda proprio non so. Forse semplicemente di terrore. Si può riassumere dicendo che queste tre donne sono morte per le sofferenze. Per questa stiamo facendo l’analisi del DNA e l’esame tossicologico, ma non penso che daranno più risultati delle volte precedenti.»
Scarbon tirò su il lenzuolo con un gesto secco, troppo frettoloso. Schiffer fece qualche passo prima di riprendere:
«Può dedurre una cronologia dei fatti?»
«Non mi lancerei in un orario dettagliato, ma si può supporre che questa donna sia stata rapita tre giorni fa, cioè giovedì sera. Senza dubbio stava uscendo dal lavoro.»
«Perché?»
«Aveva la pancia vuota. Come le prime due. Le sorprende quando rientrano a casa.»
«Evitiamo le supposizioni.»
Il medico sbuffò irritato:
«In seguito, ha subito da venti a trenta ore di torture, senza sosta.»
«Come può stabilire questa durata?»
«Sì è divincolata. Le legature le hanno bruciato la pelle e sono penetrate nella carne. Le ferite hanno suppurato. Si può risalire al tempo grazie alle infezioni. Da venti a trenta ore: non dovrei sbagliarmi di molto. In ogni caso, a quel ritmo è il limite della tolleranza umana.»
Continuando a camminare, Schiffer scrutava lo specchio azzurrato del pavimento:
«Ha un indizio che potrebbe darci informazioni sul luogo dell’omicidio?»
«Forse.»
Paul intervenne:
«Cosa?»
Scarbon fece schioccare le labbra come se fosse stato un ciak:
«Lo avevo già notato sulle altre due, ma è evidente sull’ultima. Il sangue della vittima contiene delle bolle d’azoto.»
«E questo cosa vuol dire?»
Paul tirò fuori il suo taccuino.
«È abbastanza strano. Potrebbe significare che il corpo è stato sottoposto, ancora in vita, a una pressione superiore a quella che c’è sulla superficie terrestre. Ad esempio la pressione che si trova in fondo al mare.»
Era la prima volta che il medico richiamava quel particolare.
«Io non sono un sub», riprese, «ma il fenomeno è noto. Man mano che ci si immerge, la pressione aumenta. L’azoto contenuto nel sangue si dissolve. Se si risale troppo velocemente, senza rispettare gli intervalli di decompressione, l’azoto ritorna subito allo stato gassoso e forma delle bolle nel corpo.»
Schiffer sembrava molto interessato.
«È quello che è successo alla vittima?»
«Alle tre vittime. Delle bolle d’azoto sono defluite e sono esplose nel loro organismo, provocando delle lesioni e, ben inteso, nuove sofferenze. Non ne sono certo al cento per cento, ma queste donne potrebbero aver avuto un “incidente di immersione”.»
Paul, annotando tutto, domandò ancora:
«Sarebbero state immerse a gran profondità?»
«Non ho detto questo. Secondo uno dei nostri medici che fa il sub, hanno subito una pressione di almeno quattro bar, equivalente a una profondità di circa quaranta metri. Mi sembra un po’ complicato trovare una tale massa d’acqua a Parigi. Penso piuttosto che siano state piazzate in una camera iperbarica.»
Paul scriveva febbrilmente:
«Dove si può trovare questo genere di arnesi?»
«Bisognerebbe informarsi. Ci sono le camere che usano i sub professionisti per la decompressione, ma dubito che ne esistano nell’Ile-de-France. Poi ci sono le camere iperbariche utilizzate negli ospedali.»
«Negli ospedali?»
«Sì. Per ossigenare i pazienti che soffrono di problemi vascolari. Diabete, eccesso di colesterolo… La sovrapressione permette di diffondere meglio l’ossigeno nell’organismo. Ci devono essere quattro o cinque apparecchi di quel tipo a Parigi. Ma non mi vedo il nostro assassino che entra in un ospedale. Sarebbe meglio orientarsi verso l’industria.»
«In quale settore si usa questa tecnica?»
«Non ne ho idea. Cercate: è il vostro lavoro. E, ve lo ripeto, io non sono sicuro di niente. Quelle bolle possono avere una spiegazione completamente diversa. Nel qual caso, non saprei cosa dire.»
Schiffer riprese la parola:
«Sui tre cadaveri non c’è niente che possa darci indicazioni, fisicamente, sul nostro uomo?»
«Niente. Li lava accuratamente. In ogni modo, sono sicuro che li manipola con i guanti. Non ha rapporti sessuali con loro. Non le accarezza. Non le bacia. Non è roba per lui. Lui è piuttosto sul versante clinico. O su quello robotico. Questo assassino è… disincarnato.»
«La sua follia aumenta con gli omicidi?»
«No. Ogni volta le torture sono inflitte con lo stesso rigore. È ossessionato dal male, ma non perde mai le staffe.»
Ebbe un sorriso amaro.
«Un assassino puntiglioso, come dicono i manuali di criminologia.»
«Secondo lei, cos’è che lo fa godere?»
«La sofferenza. La sofferenza pura. Lui le tortura con applicazione, con cura, fino a che non muoiono. È questo dolore che lo eccita, che nutre il suo godimento. Dietro a tutto c’è un odio viscerale per le donne. Per il loro corpo, il loro viso.»
Schiffer si girò verso Paul e sogghignò:
«Decisamente oggi è la giornata degli psicologi.»
Scarbon diventò rosso in viso:
«La medicina legale è sempre psicologia. Le violenze che passano sotto le dita non sono altro che manifestazioni di menti malate…»
Il poliziotto annuì senza smettere di sorridere. Prese i fogli dattiloscritti che l’altro aveva posato su uno dei blocchi.
«Grazie dottore.»
Si diresse verso una porta che si apriva sotto le tre vetrate. Appena la aprì, entrò nella stanza una violenta sventagliata di sole, come un fiotto di latte lanciato in mezzo al blu.
Paul prese un’altra copia del verbale d’autopsia:
«Posso prenderla?»
Il medico lo fissò senza rispondere, poi:
«I suoi superiori sono al corrente di Schiffer?»
Paul si aprì in un largo sorriso:
«Non si preoccupi. È tutto sotto controllo.»
«Mi preoccupo per lei. È un mostro.»
Paul trasalì. Il dottore dichiarò:
«Ha ucciso Gazil Hemet.»
Il nome riaccese i suoi ricordi. Ottobre 2000: il turco maciullato sotto il treno, Schiffer accusato di omicidio volontario. Aprile 2001: l’accusa abbandona misteriosamente l’inchiesta. Con voce gelida replicò:
«Il corpo era a brandelli. L’autopsia non ha potuto provare niente.»
«Sono io che ho fatto la controperizia. Sul volto c’erano ferite atroci. Gli avevano strappato un occhio. Le tempie erano state perforate con punte da trapano.»
Indicò il lenzuolo.
«Niente da invidiare a questo qui.»
Paul sentì le gambe che vacillavano; non poteva ammettere che sull’uomo col quale stava per lavorare gravasse un simile sospetto:
«Il rapporto menzionava solo delle lesioni e…»
«Hanno fatto sparire i miei commenti. Loro lo coprono.»
«Loro chi?»
«Hanno paura. Hanno tutti paura.»
Paul indietreggiò nella luce dell’esterno. Claude Scarbon, togliendosi i guanti elastici, sussurrò:
«Lei sta facendo squadra con il diavolo.»
«Lo chiamano l’Iskele. Pronuncia bene: “is-ké-lé”.»
«Cosa?»
«Si potrebbe tradurre con “imbarcadero” o “molo di partenza”.»
«Di che cosa parla?»
Paul aveva raggiunto Schiffer nella macchina, ma non era partito. Erano ancora nel cortile del padiglione Vésale, all’ombra delle esili colonne. Il Cifra continuò:
«La principale organizzazione mafiosa che controlla i viaggi dei clandestini turchi in Europa. Si preoccupano anche di trovare loro un lavoro e un posto dove dormire. In genere cercano di formare in ogni laboratorio dei gruppi di gente con le stesse origini. Ci sono certe fabbrichette a Parigi che riproducono esattamente un intero villaggio dell’Anatolia.»
Schiffer si fermò, tamburellò sullo sportello del vano portaoggetti, poi riprese:
«Le tariffe sono variabili. I più ricchi si concedono l’aereo e la complicità dei doganieri. Sbarcano in Francia con un permesso di lavoro finto o con un falso passaporto. I più poveri si sobbarcano il tragitto in cargo, attraverso la Grecia, o in camion, attraverso la Bulgaria. In ogni caso, il costo si aggira sui duecentomila franchi. La famiglia, al paese, fa una colletta e raccoglie più o meno un terzo della somma. Poi l’operaio sgobba dieci anni per rimborsare il resto.»
Paul osservava Schiffer, il suo profilo netto contro il vetro illuminato dal sole. Gli avevano parlato a più riprese di quella rete, ma era la prima volta che ne sentiva una descrizione così precisa.
Il poliziotto dalla testa argentata proseguì:
«Non immagini fino a che punto sono organizzati quei tipi. Hanno un registro dove annotano tutto. Il nome, l’origine, la fabbrica e la situazione dei debiti di ogni clandestino. Comunicano per e-mail con i loro corrispondenti in Turchia che mantengono la pressione sulle famiglie. A Parigi loro si occupano di tutto. Si fanno carico di mandare i soldi a casa e di procurare comunicazioni telefoniche a prezzo ridotto. Si sostituiscono alla posta, alle banche, alle ambasciate. Vuoi mandare un gioco ai tuoi bambini? Ti rivolgi all’Iskele. Cerchi un ginecologo? L’Iskele ti dà il nome di un dottore che non badi troppo al tuo permesso di soggiorno. Hai problemi con la tua fabbrica? È ancora l’Iskele che regola la questione. Nel quartiere turco non c’è avvenimento di cui non siano informati o di cui non ci sia traccia nei loro archivi.»
Paul capì dove il Cifra voleva arrivare:
«Credi che siano al corrente anche degli omicidi?»
«Se queste ragazze sono davvero delle clandestine, i loro padroni si sono rivolti prima di tutto all’Iskele. Primo, per sapere cosa succedeva. Secondo, per rimpiazzare le scomparse. Quelle tipe trucidate sono soprattutto una perdita di grana.»
Nella sua mente si fece strada una speranza:
«Pensi che loro abbiano modo di identificare quelle operaie?»
«Ogni dossier comprende una fotografia dell’immigrato. Il suo indirizzo a Parigi. Il nome e i dati del suo datore di lavoro.»
Paul arrischiò un’altra domanda, ma sapeva già la risposta:
«Conosci quei tipi?»
«Il capo dell’Iskele a Parigi si chiama Marek Cesiuz. Tutti lo chiamano Marius. Ha un locale sul boulevard de Strasbourg. Ho visto nascere uno dei suoi figli.»
Gli strizzò l’occhio:
«Cosa ne diresti di partire?»
Paul guardò ancora Jean-Louis Schiffer. Lei sta facendo squadra con il diavolo. Può darsi che Scarbon avesse ragione, ma per il genere di preda a cui dava la caccia non si poteva desiderare compagno migliore.