«Dove mi trovo?» chiese Ponter con voce tremante, che malgrado ogni sforzo non riusciva a controllare. Era ancora seduto su una strana sedia che si muoveva su delle piccole ruote; meglio così, non era sicuro di riuscire a stare in piedi.
«Calmati, Ponter» disse il Companion «la frequenza cardiaca è…»
«Calmarmi!» scattò, come se Hak avesse detto un'assurdità. «Ti ho chiesto: dove mi trovo?»
«Non lo so. Non riesco a intercettare il segnale dalla torre di controllo. E per di più non riesco a connettermi con la nostra rete di informazioni planetarie, e dall'archivio centrale non risponde nessuno.»
«Sei danneggiato?»
«No.»
«Allora… non siamo sulla Terra, vero? Altrimenti capteresti dei segnali e…»
«Sono sicuro che questa è la Terra» disse Hak. «Hai fatto caso al sole mentre ti trasportavano su quel veicolo bianco?»
«Cosa?»
«Ha la stessa temperatura e posizione astronomica di Sol, rispetto all'orbita terrestre. E poi ho riconosciuto quasi tutte le piante e gli alberi che ho visto sinora. No, questa è proprio la Terra.»
«Ma questa puzza! L'aria è schifosa.»
«Be', per questo mi devo fidare della tua parola.»
«È possibile che… abbiamo viaggiato nel tempo?»
«Mi sembra improbabile» rispose Hak. «Ma se stanotte riuscirò a vedere le costellazioni ti saprò dire se abbiamo viaggiato avanti o indietro nel tempo per un periodo apprezzabile, e se individuo gli altri pianeti e la fase lunare sarò in grado di calcolare la data esatta…»
«Ma come facciamo a tornare a casa? Come…»
«Ponter, devo nuovamente raccomandarti di mantenere la calma. Stai quasi per iperventilare. Inspira profondamente. Così. Adesso espira lentamente. Bene, così. Rilassati. Adesso un altro respiro…»
«Che creature sono quelle?» disse Ponter puntando il dito verso la figura ossuta scura di pelle e senza capelli, e l'altra dalla pelle più chiara e con un pezzo di stoffa arrotolato sulla testa.
«Tiro a indovinare: sono Gliksins.»
«Gliksins!» esclamò Ponter, così forte che i due esseri si voltarono a guardarlo. E in tono più basso aggiunse: «Gliksins? Oh, andiamo…»
«Guarda laggiù quelle radiografie di cranii.» Hak comunicava con Ponter attraverso un paio di impianti cocleari, ma direzionando la voce a destra o a sinistra era in grado di indicare una posizione come se l'avesse puntata con un dito. Ponter si mise in piedi, malfermo sulle gambe, e attraversò la stanza nella direzione opposta a dove si trovavano quegli strani esseri, avvicinandosi a un pannello illuminato simile a quello che i due stavano esaminando, con sopra attaccate le radiografie di alcuni cranii.
«Guarda!» esclamò indicando le figure di quelle ossa sconosciute. «Sembrano proprio Gliksins, no?»
«Direi di si. Nessun altro primate ha l'osso frontale così poco prominente, o quella sporgenza tra la fronte e la mandibola.»
«Gliksins! Ma saranno estinti da… be', da quanto?»
«Almeno da quattrocentomila mesi» rispose Hak.
«Ma questa non può essere la Terra di quel periodo» rifletté Ponter. «Voglio dire, è impossibile che la civiltà che abbiamo visto venendo qui non abbia lasciato tracce fino a noi. I Gliksins al massimo facevano armi rudimentali scheggiando la pietra, vero?»
«Sì.»
Ponter si sforzò di non lasciar trasparire la vena isterica nella sua voce: «E allora te lo chiedo di nuovo: Dove ci troviamo?»
Reuben Montego stentava a credere alle parole del medico del pronto soccorso. «Cosa intende con 'Sembra proprio un Neandertal'?»
«Le caratteristiche anatomiche del cranio sono inequivocabili» rispose Singh. «Mi creda, sono specializzato in craniologia.»
«Ma come è possibile, dottor Singh? La specie dei Neandertal è estinta da milioni di anni.»
«Per la verità solo da ventisettemila anni o giù di lì.»
«Ma allora…»
«Non so cosa dirle.» Singh indicò con la mano le lastre fissate sul pannello illuminato. «Quello che so è che l'insieme delle caratteristiche del cranio che abbiamo davanti ai nostri occhi sono inequivocabili. Una o due di esse potrebbero comparire nel cranio dell'Homo sapiens dei nostri giorni, ma tutte insieme è impossibile.»
«Quali caratteristiche?» chiese Reuben.
«L'osso frontale, ovviamente» rispose Singh. «Faccia caso a come è diverso da quello degli altri primati: ha una doppia arcata, con un solco al centro. Siamo in presenza di un caso di cospicuo prognatismo facciale: osservi la prominenza delle mandibole, l'assenza del mento, la cavità retromolare» aggiunse indicando il rispettivo spazio. «Vede quelle protuberanze triangolari nella cavità nasale? Non si trovano in nessun altro mammifero, tanto meno negli altri primati.» Quindi, tamburellando con le dita sulla parte posteriore del cranio, continuò: «Vede questa sporgenza qui dietro? Si chiama chignon occipitale, ed è un altro tratto distintivo dei Neandertaloidi.»
«Mi sta prendendo in giro?»
«Non mi permetterei mai.»
Reuben si voltò a guardare lo sconosciuto, che nel frattempo si era alzato dalla sedia a rotelle e fissava con aria stupita le lastre di un paio di cranii fissate a un pannello sul muro. Quando il radiologo aveva portato le lastre, lui e Singh non si trovavano nella stanza, quindi qualcuno, per chissà quale motivo, poteva averle sostituite, anche se…
No, quelle erano lastre autentiche, di un essere vivente e non di un fossile: si vedeva chiaramente la cartilagine nasale e il contorno della carne attorno alle ossa. Eppure nella mandibola c'era qualcosa di strano. Alcune parti erano di un grigio più chiaro, levigate e regolari come fossero formate da una materia meno compatta e apparentemente uniforme.
«Si tratta di un'imitazione» disse Reuben indicando la parte anomala della mascella. «Secondo me è un impostore. Si è fatto fare una plastica per sembrare un Neandertal.»
Singh sbirciò appena la lastra. «È vero, questa parte sembra ricostruita, ma solo qui, sotto la mandibola. Il resto del cranio apparentemente è naturale.»
Reuben lanciò un'occhiata allo sconosciuto, che stava ancora osservando le lastre e borbottando qualcosa tra sé. Cercò di immaginarne il cranio: era proprio quello che Singh gli stava mostrando?
«Ha parecchi denti artificiali,» continuò Singh che stava ancora studiando la lastra «tutti fissati alla sezione mandibolare ricostruita. Gli altri sembrano naturali, anche se hanno le radici taurodonti, altro tratto caratteristico dei Neandertaloidi.»
Reuben tornò a osservare la lastra. «Senza cavità» commentò tra sé, distrattamente.
«Giusto» confermò Singh, che esaminò l'immagine ancora per qualche secondo prima di formulare la diagnosi: «Ad ogni modo, la lastra non evidenzia alcuna frattura, né ematomi subdurali. Non vedo nessuna ragione per trattenerlo in ospedale.»
Ancora una volta Reuben studiò lo sconosciuto. Chi diavolo poteva essere? Tutto quel che sapevano era che aveva subito un intervento chirurgico piuttosto serio di ricostruzione mandibolare, e che parlava una lingua ignota. Era forse membro di qualche setta bizzarra? Era quella la ragione per cui aveva fatto irruzione nell'osservatorio? Poteva anche essere, ma…
Ma Singh aveva ragione. Eccezion fatta per la ricostruzione mandibolare, quello era un cranio naturale. Reuben Montego attraversò a passi lenti la stanza, come se fosse molto stanco, come se… Improvvisamente si rese conto che si stava avvicinando allo sconosciuto non come a un essere umano, ma come ci si avvicinerebbe a un animale selvaggio. Eppure, fino a quel momento, i suoi comportamenti erano stati perfettamente civili.
L'uomo sentì arrivare Reuben. Distolse lo sguardo dalle lastre e si voltò a fronteggiarlo.
Il dottore fissò lo sconosciuto. Ne aveva già notato la stranezza del viso. La fronte sfuggente e le orbite ampie e tondeggianti erano la prima cosa che saltava alla vista. I capelli erano divisi esattamente nel mezzo da una riga, cosa che sembrava più una caratteristica naturale che non un'acconciatura. Il naso, diverso da qualsiasi altro avesse mai visto, era enorme ma per niente aquilino, e non aveva ponte.
Reuben sollevò lentamente la mano destra, le dita leggermente aperte, cercando di rendere il gesto il meno minaccioso possibile. «Posso?» disse avvicinando la mano al volto dello sconosciuto.
L'uomo poteva non aver compreso le parole, ma l'intenzione era evidente. Infatti piegò la testa in avanti come per invitare al tocco. Reuben fece scorrere le dita sull'arcata sopraccigliare, sulla fronte, su tutta la superficie del cranio, percependo al tatto nella parte posteriore il — come lo aveva chiamato Singh? — lo chignon occipitale, una protuberanza ossea sotto la pelle. Non c'era il minimo dubbio: era proprio il cranio della lastra.
«Reuben» si presentò il dottor Montego toccandosi il petto. «Roo-ben.» Quindi, con i palmi delle mani alzati, indicò lo sconosciuto.
«Ponter» disse lo straniero con voce sonora e profonda.
Naturalmente, poteva anche aver capito che la parola 'Reuben' si riferisse alla specie umana cui apparteneva Montego, e di conseguenza la parola 'Ponter' nella sua lingua poteva indicare la specie dei Neandertal.
Singh si avvicinò. «Naonihal» disse, svelando il significato della N che Reuben aveva letto sulla targhetta. «Mi chiamo Naonihal.»
«Ponter» ripeté lo straniero. Erano ancora possibili altre interpretazioni, pensò Reuben, ma probabilmente quello era il suo nome.
Reuben annuì al Sikh. «Grazie per l'aiuto.» Quindi si voltò verso Ponter e gli fece segno di seguirlo. «Andiamo.»
L'uomo fece per dirigersi verso la sedia.
«No» disse Reuben. «No, lei sta bene.»
Gli fece di nuovo segno di seguirlo, e stavolta l'uomo capì. Singh staccò le lastre dal pannello e le infilò in una grossa busta. Aprirono una porta di vetro smerigliato, l'attraversarono, girarono l'angolo di una parete e…
I flash delle macchine fotografiche gli esplosero negli occhi.
«È questo l'uomo che ha fatto saltare in aria l'Osservatorio di Sudbury?» gridò una voce maschile.
«Di che cosa è accusato?» chiese una voce femminile.
«È ferito?» gridò un'altra voce maschile.
Ci volle qualche attimo prima che Reuben si rendesse conto della situazione. Riconobbe il corrispondente della stazione locale della CBC, e il giornalista del Sudbury Star che si occupava della miniera. Non conosceva l'altra dozzina di persone che si agitavano intorno, brandendo i microfoni con le sigle della Global Television, della CTV, di Newsworld e delle radio locali. Reuben lanciò un'occhiata a Singh e sospirò, pensando che tutto quello fosse inevitabile.
«Qual è il suo nome?» gridò un altro giornalista.
«Si tratta di un…?»
I fotografi continuavano a scattare, ma Ponter non cercava di coprirsi il volto. In quel momento arrivarono due agenti della polizia militare in uniforme blu scuro. «È questo il terrorista?»
«Terrorista?» si meravigliò Reuben. «Non c'è nessuna prova che si tratti di un terrorista.»
«Lei è il dottore della miniera, vero?» gli chiese uno dei poliziotti.
Reuben annuì. «Reuben Montego. Non credo che quest'uomo sia un terrorista.»
«Ma ha fatto saltare in aria l'osservatorio dei neutrini!» urlò un giornalista.
«Sì, l'osservatorio è stato danneggiato» rispose Reuben «e lui si trovava lì, ma non credo che lo abbia fatto di proposito. Dopo tutto, stava quasi per annegare.»
«Questo non vuol dire niente,» disse il poliziotto «quell'uomo deve seguirci.»
Montego si sentì impotente. Guardò Ponter, i giornalisti, poi Singh. «Lei sa cosa accade in casi del genere» disse sommessamente al Sikh. «Se lo portano via, nessuno lo vedrà più.»
Singh annuì lentamente. «Immagino sia così.»
Reuben si mordicchiò il labbro inferiore, pensando al da farsi. Quindi tirò un grosso respiro e parlò a voce alta. «Non so da dove venga quest'uomo» dichiarò mettendo un braccio sulle ampie spalle di Ponter «e non so come sia giunto fin qui, ma si chiama Ponter, e…»
Si fermò. Singh lo stava guardando. Reuben sapeva che quello era tutto ciò che poteva dire. Sì, adesso sapevano il nome, ma cos'altro avrebbe potuto aggiungere? Se si fermava lì nessuno lo avrebbe preso per pazzo. Ma se avesse continuato…
Se lo avesse fatto, si sarebbero spalancate le porte dell'inferno.
«Può sillabare il nome?» gridò un giornalista. Reuben chiuse gli occhi, cercando di farsi forza. «Solo foneticamente» disse guardando il reporter. «P-O-N-T-E-R. E sono sicuro che chi di voi l'ha scritto per primo è stato anche il primo a rendere questo nome con l'alfabeto inglese.» Si fermò di nuovo, lanciò un'altra occhiata a Singh cercando il suo sostegno, e proseguì: «Sospettiamo che il signore qui presente non appartenga alla specie Homo sapiens sapiens. Potrebbe trattarsi di… be', credo che gli antropologi stiano ancora dibattendo sulla corretta designazione di questo tipo di ominidi, no? Sembra trattarsi del cosiddetto Homo neanderthalensis oppure Homo sapiens neanderthalensis. In ogni caso, sembra proprio un Neandertal.»
«Cosa?» disse uno dei giornalisti.
Un secondo si limitò ad uno sbuffo beffardo.
E un terzo — il giornalista del Sudbury Star che sì occupava della miniera — fece una smorfia. Reuben sapeva che era laureato in geologia; quindi, durante gli studi, aveva certamente seguito un corso o due di paleontologia. «Su quali basi può fare un'affermazione del genere?» gli chiese con voce scettica.
«Ho visto le lastre del suo cranio. Il qui presente dottor Singh ne è sicurissimo.»
«E cosa avrebbe a che fare un Neandertal con la distruzione dell'Osservatorio di neutrini di Sudbury?» domandò un altro giornalista.
Reuben scrollò le spalle, riconoscendo la pertinenza della domanda. «Non lo sappiamo.»
«È uno scherzo» disse l'inviato del Sudbury Star. «Non può essere altrimenti.»
«Se è così, il dottor Singh e io siamo stati tratti in inganno.»
«Dottor Singh,» gridò un reporter «si tratta di… Questa persona qui è un uomo delle caverne?»
«Spiacente, ma posso discutere di un paziente solo con altri medici» rispose Singh.
Reuben lo guardò, smanioso. «Dottor Singh, la prego…»
«No» disse Singh. «È la regola…»
Reuben abbassò un attimo lo sguardo, pensieroso, poi si girò verso Ponter, supplichevole. «Adesso sta a te» gli disse.
Certamente l'uomo non comprese le parole, ma sembrò afferrare la situazione. Per la verità, Reuben pensò anche che Ponter avrebbe avuto buone possibilità di scappare, se avesse voluto. Non particolarmente alto, era però di gran lunga più robusto dei due poliziotti. Ma gli occhi di Ponter ruotarono subito verso Singh, e Reuben, che lo seguiva con lo sguardo, si accorse che stava guardando la busta di manila che Singh stringeva a sé.
Ponter si avvicinò a Singh a grandi passi. Reuben vide uno dei poliziotti mettere la mano sulla fondina; evidentemente pensava che stesse per assalire il dottore. Ma Ponter si fermò subito, proprio di fronte a Singh, tendendogli la mano robusta, i palmi in alto, con un gesto universale.
Singh sembrò esitare, poi cedette la busta. Nella stanza non c'erano pannelli luminosi, ed era quasi buio, ma da una grossa finestra filtrava la luce di un lampione. Ponter si avvicinò alla finestra; forse aveva capito che i poliziotti avrebbero cercato di fermarlo se si fosse diretto verso la porta a vetri dell'ingresso. Prese una lastra — la sezione laterale — e la poggiò sul vetro in modo che fosse visibile a tutti. Le telecamere ripresero la scena, e ci fu un nuovo balenare di flash. Ponter fece segno a Singh di avvicinarsi, e il Sikh obbedì, seguito da Reuben. Poi batté il dito sulla lastra, quindi indicò Singh con la mano. Ripeté la sequenza due o tre volte, aprì e chiuse la mano sinistra con le dita tese, invitando il dottore a 'parlare' con quel gesto inequivocabile.
Il dottor Singh si schiarì la gola, si guardò intorno a esaminare i volti che affollavano la sala, scrollò appena le spalle e attaccò: «Ehm, sembra che il paziente mi abbia autorizzato a parlare delle sue lastre.» Tirò fuori dal taschino del camice una penna e la usò come bacchetta. «Vedete tutti questa protrusione nella parte posteriore del cranio? I paleantropologi la chiamano chignon occipitale…»