- Addio torta, - sospirò Rita, osservando la manovra d'assedio e inghiottendo acquolina.

- Sei proprio fissata, - borbottò Paolo, - ti ho detto che è un'astronave.

- Ma dove hai gli occhi? Guarda, di sotto è tutta di cioccolato. E di sopra è rosa, gialla, verde: una torta millegusti.

- Quelli debbono essere i colori della bandiera marziana.

- Scommettiamo, allora. Io dico che è una torta, tu dici che è un'astronave. Chi vince, prende la paga della settimana di tutti e due.

- Per un mese, - aggiunse Paolo.

- Anche per un anno, se vuoi, - rilanciò Rita.

- Un anno è lungo...

- Vedi che hai paura? Io invece sono pronta a scommettere.

- Accettato, per un anno, - ribatté Paolo, arrossendo. - E adesso andiamo a vedere che cos'è.

Toccò a Rita esitare, stavolta.

- Credi che ci lasceranno passare?

Paolo non rispose. Da qualche momento guardava dalla parte della Magliana, sulla strada deserta, dove un gregge di pecore avanzava passo passo, guidato da due pastori. Era stato al pascolo, sulle gialle colline dell'Agro, tra le cave di sabbia abbandonate. Al tramonto, come ogni sera, tornava verso il Monte Cucco, attraversando la borgata in tutta la sua lunghezza.

"Voglio vedere se cacceranno in cantina anche le pecore, - rise tra sé Paolo. - E il cane".

Ma le forze armate avevano ben altro da pensare. Avevano voltato le spalle al Trullo, e non avevano occhi che per il Monte Cucco e per la "cosa" che lo copriva da un capo all'altro, come un enorme cappello. Le pecore venivano avanti belando, spalla a spalla, muso a muso. Se qualcuna si staccava dalle compagne per brucare un ciuffo d'erba ai bordi della strada, il cane si affrettava a farla rientrare nel gregge, con una piccola corsa. Zorro, che per tutta la giornata se n'era rimasto a sonnecchiare sul balcone, abbaiò per salutare il suo simile, il quale, tutto preso dal lavoro, nemmeno gli rispose.

- Prendi le tue palette, - disse Paolo con un'improvvisa decisione, - quelle che adoperavi l'anno scorso al mare. Io prenderò la pila.

- Che cosa vuoi fare? - domandò Rita, incerta.

- Voglio vincere una scommessa. Ma se hai paura, non venire.

- Certo che vengo, - protestò Rita.

- Allora, sta' attenta: ti ricordi dell'astuto Ulisse?

- Vuoi che non mi ricordi di nostro padre?

- Stupida, parlo di Ulisse, quello vero. Ti ho raccontato la sua storia tante volte. Come fece per uscire dalla grotta di Polifemo?

- Si aggrappò sotto la pancia di una pecora. Oh... e tu pensi che noi?.. Guarda però che io sotto la pancia di una pecora non mi ci metto.

- Non ce ne sarà bisogno. Andiamo.

- Lasciamo un biglietto alla mamma?

La sora Cecilia, bloccata dall'allarme in casa di una malata, prima di scendere in cantina, era riuscita a telefonare ai suoi rampolli, per raccomandare loro di rifugiarsi sotto la protezione di una vicina. Lasciarle un biglietto, era come confessare che non le avevano obbedito.

- Torneremo a casa prima di lei, - disse Paolo. Rita non ne pareva molto convinta, ma seguì il fratello senza discutere. Il capo era lui, adesso. Lanciò un'occhiata a Zorro che continuava ad abbaiare alle pecore, prese le palette e uscì dietro a Paolo sulla scala.

Non c'era nessuno per fermarli, sul portone, nessuno sulla strada per ricacciarli al chiuso.

Paolo lasciò sfilare il gregge e gli si accodò, imitato dalla sorella. Il cane brontolò con sospetto, ma dovette rincorrere un agnello che non stava in fila. I pastori non si voltarono. Camminavano tranquillamente verso la collina, forse non si erano nemmeno accorti che quella non era una sera come le altre, che un reparto di pompieri presidiava il loro sentiero abituale, che in cima al Monte Cucco c'era qualcosa che stava facendo trattenere il respiro al mondo intero.

- Dove andate voi? - gridò ad un tratto un vigile, che aveva sentito alle proprie spalle il pesticciare del gregge.

- Buona sera, sor tenente. Che ci volete fare? Siamo pastori, andiamo dove vanno le pecore.

- Tornate indietro, indietro!

Anche gli altri vigili si erano voltati e scoppiarono a ridere bonariamente. Quello fu il loro errore, come spiegò più tardi Paolo a Rita. Perché le pecore non capivano gli scherzi. Esse capivano soltanto che a venti metri dal loro muso c'era la loro collina, il tranquillo recinto che le attendeva per la notte. Avrebbero obbedito ai pastori. Ma dei due, uno era un ragazzotto un po' tonto, l'altro era un po' sordo: prima che i vigili potessero fargli capire che era proibito salire sulla collina, le pecore, spaventate e testarde insieme, spingendosi, urtandosi, belando disperatamente, si aprirono un varco tra le file degli assedianti, in una nuvola di polvere.

- Presto, - ordinò Paolo a Rita, sottovoce, - fa' come me.

Approfittando della confusione, si gettò carponi nel gregge. Non ebbe altro da fare, perché al resto pensarono le pecore. Esse lo spinsero dall'altra parte della strada, lo spinsero su, su per la scarpata, lui e Rita, che dopo il primo attimo di paura aveva preso confidenza con quel modo di camminare, e si divertiva un mondo a restituire zuccate alle pecore, nei fianchi tiepidi e lanosi.

"Vediamo chi ha la capoccia più dura", pensava arrampicandosi a quattro gambe. I sassi e gli sterpi le graffiavano e pungevano le mani e le ginocchia, e qualche lagrima le scendeva per conto suo lungo le guance, ma essa non sentiva dolore.

- Di qua! - sentì che Paolo la chiamava. C'era, appena più in alto del recinto, il rudere di un muricciolo, e Paolo già vi si era acquattato, come dietro il riparo di una trincea. Quattro sassi appena, ma bastarono a nasconderli entrambi.

- Ora non ci possono più vedere, - disse Paolo. - Saliremo per quel canalone.

Il "canalone" era una crepa nel fianco della collina, scavata dalla pioggia o da una frana.

- Vuoi proprio andarci? - domandò Rita con un sussurro, guardando in su.

Venti metri sopra le loro teste nereggiava l'orlo della "cosa". Ora

che c'era tanto vicina, Rita non aveva più il coraggio di chiamarla dentro di sé la "torta": d'improvviso, era ridiventata un oggetto misterioso, la "Cosa", con una preoccupante maiuscola davanti.

- Se vuoi, aspettami qui.

Paolo era sicuro e deciso come Colombo nel momento di metter piede sul Nuovo Continente. Rita inghiottì la paura:

- Va bene, vengo.

Una breve e silenziosa arrampicata li portò a pochi passi dalla "Cosa". Visto da vicino il suo fianco aveva l'aspetto minaccioso di una inespugnabile muraglia.

- Andrò io per primo, - annunciò Paolo. - Quando ti farò un segnale sali su. Non ti spaventare se sentirai delle grida.

- O Dio, e se mi sparano?

- Su, su, non ti sparerà nessuno.

- Aspetta un momento. Prendi la paletta: se è una torta, ci fai un buco e ci nascondiamo lì dentro.

Paolo prese la paletta di malumore. Gli pareva, prendendola, di rinunciare alle sue convinzioni. Si sentiva anche un po' ridicolo, ad affrontare con una paletta da spiaggia i visitatori provenienti dallo spazio.

"Quelli, - pensava, - avranno come minimo il raggio mortale, il disintegratore, il diavolo a quattro".

Però prese la paletta. E fece bene, perché ad aspettarlo, in cima al Monte Cucco, non c'erano né marziani né venusiani pronti a schiacciarlo come una formica; e non c'era neanche un'astronave, almeno del genere che si poteva figurare Paolo, in base alla sua esperienza di film di fantascienza. C'era una torta, ecco.

Non c'era bisogno di sbatterci il naso per sentirne il profumo: anzi, i profumi, cento e cento e cento profumi diversi e inebrianti. Paolo affondò la paletta nella parete e in un momento ci scavò una nicchia abbastanza larga per accogliere lui e la sorella.

Rita, che tendeva l'orecchio in attesa del richiamo, si sentì invece piovere addosso grossi pezzi di marzapane e di pasta frolla, una cascatella di uvette dolci, un ruscelletto di rosolio. Per non perdere tempo, cominciò ad assaggiare quel che le veniva a tiro. Ed era tanto assorta nella sua merendina che Paolo dovette chiamarla tre volte per ottenere risposta.

- Vengo, vengo, - rispose a bocca piena.

E ben presto si accomodò a sua volta nella nicchia profumata. Paolo si affrettò a murarne l'ingresso con un blocco di cedro candito, lasciando solo una finestrella perché passassero l'aria e la luce.

- Sei convinto, adesso? - domandò Rita, tra un boccone e l'altro.

- Va bene, hai vinto la scommessa. E' una pizza. Ti pagherò.

- Certo, che pagherai. Le scommesse non si fanno mica per sprecare il fiato.

- Va bene, te l'ho detto. Ma adesso lasciami lavorare. Mettiti da questa parte, comincerò a scavare una galleria. Voglio esplorare tutta la torta. Non sono mica venuto fin quassù per mangiare, io.

- Ecco come sei, tu. Abbiamo almeno mezzo metro di cioccolato sotto i piedi, ci troviamo in una grotta di pastafrolla, più al sicuro di Pinocchio nel ventre del pescecane, e tu pensi a esplorare.

- Tu mangia pure con comodo. A scavare penso io.

- Be', - concluse Rita, - ti darò una mano. Per mangiare non mi occorrono tutt'e due.

Sotto i colpi delle palette la torta si apriva docilmente, come la giungla sotto il coltello dell'esploratore. I due fratelli attraversarono senza difficoltà diversi filoni di crema, di panna, di pasta mandorlata. Scavalcarono ruscelli di zabajone, affondarono fino al ginocchio in pozzanghere di sciroppo al ribes, illuminarono con la loro pila piccole grotte scavate nelle viscere della torta da correnti sotterranee di liquore, allo stesso modo che i fiumi del Carso, sprofondando sotto le montagne, ci scavano caverne e acquedotti naturali.

Di quando in quando, ciliege candite più grosse che paracarri sbarravano loro il passo. Paolo, che la furia della scoperta spingeva avanti come un motorino, si contentava di aggirarle: Rita invece se ne riempiva la bocca. Con una mano contribuiva distrattamente al progresso della galleria: con l'altra esplorava le pareti di marrons glacés, si portava alla bocca una noce farcita grossa come una zucca, faceva l'inventario delle strane pietre su cui camminava, che erano per lo più mandorle tostate e noccioline abbrustolite.

- Su, su, lavora, - la esortava di quando in quando Paolo. - No, non di là: scava in questa direzione, dobbiamo seguire il raggio se vogliamo arrivare al centro.

- Peccato. Sento qui a destra un freschetto... Ci dev'essere del gelato, in questa torta.

- Peccato che non abbiamo portato la bussola per orientarci.

- Cos'importa? Qui è torta dappertutto: a nord, a sud, a est e a dovest.

- Si dice ovest, non dovest. Te l'avrò insegnato dieci volte.

- Eh, lo so che sei bravo. Però la scommessa l'ho vinta io. Uhm... in questo punto hanno messo troppo liquore. Senti, non ci ubriacheremo mica? Ahi! Adesso piove... Fammi provare... Volevo ben dire: non è acqua, è marsala. Aiuto, si sprofonda! Ah, no, meno male. Stiamo camminando sui savoiardi. Sotto i piedi, a dire la verità, io preferisco i croccanti: sono più solidi.

Paolo non cessava un attimo di spalare. Senza aprire bocca catalogava mentalmente i materiali che venivano a contatto con la sua paletta: "Marmellata di lamponi... uva sultanina... crema... gelato di pistacchio..."

Improvvisamente si fermò e strinse il braccio a Rita in segno di allarme.

- Spegni la pila, - le ordinò in un soffio.

- Ci si vede lo stesso. Come mai?

- Zitta: guarda anche tu.

Nella parete di avanzamento la paletta aveva aperto un pertugio, dal quale usciva un tenue raggio di luce. Rita guardò... C'era una grotta, di là... E in mezzo alla grotta, seduto per terra, un uomo scriveva febbrilmente su alcuni fogli che teneva appoggiati alle ginocchia, alla luce di una torcia elettrica infilata in un arancio candito.

- Ma quello è Geppetto! - bisbigliò Rita.

- Sì, e tu sei la Fata dai capelli turchini... Non dire sciocchezze. Lasciami riflettere.

Trascorsero un paio di minuti, durante i quali Paolo e Rita si alternarono in osservazione davanti al pertugio.

- Hai pensato?

- Non ancora.

- Dimmi almeno cosa devi pensare, così posso pensare anch'io. Ad aspettare mi annoio tanto.

- Chiamiamolo pure "il signor Geppetto", tanto per dargli un nome, - rispose Paolo. - Ma chi è? Che ci fa qui dentro? Come c'è venuto?

- Non so. Forse ha fatto come noi. E poi, vedi, scrive: sarà uno scrittore. Un giornalista.

- Bene, ora hai qualcosa a cui pensare. Ma sta' zitta, prima che si accorga di noi.

Rita si chetò e cominciò a leccare la parete di gelato. Ma il silenzio scelse proprio quell'attimo per scoppiare come una bomba.

- E' Zorro! - esclamò Rita. - Ha fiutato le nostre tracce e ci ha seguiti.

- E ora ci rovina tutto, - disse Paolo. Anche lui, purtroppo, ad alta voce: l'eccitazione del momento gli aveva fatto dimenticare le regole della prudenza. Mentre Zorro si precipitava tra le loro gambe abbaiando festosamente, Paolo rimise l'occhio al pertugio e fremette: il misterioso "signor Geppetto" era balzato in piedi, allarmato, e tendeva l'orecchio.

- Buono, Zorro, - bisbigliò Paolo.

Il cane si accucciò, scodinzolando.

- Il "signor Geppetto" ci ha sentiti, - informò Paolo. - Fa il giro della sua grotta, orecchiando alle pareti...

- Mi sembra il momento di tagliare la corda.

- Aspetta. Voglio scoprire...

- Sì, così lui scopre noi, e siamo fritti.

- Zitta. E' qui.

Il misterioso abitatore della torta, esplorando le pareti della sua grotta, era giunto presso il pertugio scavato dalla paletta di Paolo qualche minuto prima. Paolo poté studiarselo da vicino. Era un uomo quasi vecchio, quasi calvo, quasi curvo: tutto un po' "quasi", tranne gli occhiali, che non erano "quasi" spessi, ma spessi del tutto, due lenti della grossezza di un dito, dietro le quali scintillavano due occhi neri, mobilissimi. Vestiva una lunga palandrana grigia, qualcosa fra il camice di un magazziniere e il grembiule di un droghiere. Dal colletto sbottonato e ciancicato gli usciva un brandello storto di cravatta.

- Scappiamo, Paolo.

Ma Paolo era come inchiodato al pertugio. Non se ne staccò nemmeno quando il "signor Geppetto" vi incollò a sua volta gli occhiali. Di qui e di là dalla parete (gelato di pistacchio, a quanto sappiamo) quattro occhi curiosi si fissarono nelle rispettive pupille. Paolo si sentì un brivido freddo corrergli la schiena, ma non si mosse. Il misterioso e certamente falso Geppetto non dovette provare nemmeno un briciolo di paura, perché gridò qualcosa con voce irritata: - Squak squok karapak pik!

Questi furono, all'incirca, i suoni che colpirono le orecchie di Paolo e di Rita. E quelle di Zorro che balzò sulle quattro zampe e riprese ad abbaiare.

- Brek brok karabrok puk! - gridava il vecchio. E mentre gridava cacciò le mani nel pertugio per allargarlo. Ne fece in pochi attimi un finestrino e vi si affacciò, continuando a gracidare nella sua lingua incomprensibile.

- Presto, scappiamo! - gridò Paolo. Fece qualche passo all'indietro, senza perdere di vista il volto inquadrato nella parete verdastra, illuminato dalla pila curiosa e tremante di Rita. E allora vide, o gli parve di vedere, la luce di un sorriso disegnarsi dietro, sotto e tutto intorno agli occhiali... Poi, via, a gambe, a quattro gambe, lui e Rita, a quattro zampe e una coda ritta per aria Zorro, via tutti e tre a rompicollo, per la lunga galleria, pesticciando affannosamente nello zabajone, nel rosolio, nelle paludi di marmellata, urtando nelle pareti di panna e di pasta frolla.

Ecco un chiarore, laggiù... E' notte, fuori, ma tutti i riflettori sono accesi e puntati sulla torta... Paolo riflette disperatamente, mentre allarga l'apertura per uscire... Poi getta la pila giù per la scarpata e grida:

- Prendi, Zorro.

Il cane non se lo fa dire: si getta abbaiando all'aperto, si lancia giù per la scarpata, per recuperare la pila, fedele al vecchio gioco cui Paolo e Rita l'hanno addestrato... Tutti i riflettori lo inseguono, sciabolando sulla collina. In basso scoppia una confusione infernale...

Ancora una volta le idee di Paolo hanno funzionato. I due fratelli si gettano giù, nella zona che i fari impazziti hanno lasciato al buio... rotolano tra i piedi dei vigili del fuoco, che non li hanno visti scendere e li ricacciano a urlacci:

- Indietro voi, dove andate?

- ...In salvo!

- O mamma, - esclamò ad un tratto Rita. - Ho perso una scarpa.

- Dove?

- Non so, credo nello scendere. Torno a riprenderla.

- Brava, così ti acchiappano e salta fuori tutta la storia.

- E la torta se la mangiano loro. Hai ragione, è meglio sacrificare la scarpa.

La mamma non era ancora rincasata. Arrivò una mezz'ora più tardi, quando Diomede, visto che i marziani non mostravano cattive intenzioni, permise agli abitanti del Trullo di uscire dalle cantine.

- Siete stati buoni? Avete avuto paura?

- Sì, mamma, - rispose Paolo alla prima domanda.

- No, mamma, - rispose Rita alla seconda.

- Bravi, - disse la sora Cecilia. - Ora vi preparo la cena.

"Aiuto", pensò Rita. Ma non disse nulla.

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