SPERDUTA

10 ottobre 1931
Sahara sud-occidentale

Kitty Mannock aveva la sensazione stranissima di volare a capofitto nel nulla. Era sperduta, completamente e disperatamente sperduta. Per due ore lei e il piccolo, fragile aereo erano stati sballottati nel cielo da una feroce tempesta di sabbia che nascondeva completamente il deserto. Sola in quel cielo vuoto e invisibile, doveva lottare contro strane illusioni che sembravano sbocciare dalla nube bruna e avvolgente.

Kitty inclinò la testa all’indietro e guardò attraverso il parabrezza superiore. Lo splendore arancio del sole era completamente nascosto. Poi, forse per la decima volta in dieci minuti, abbassò il finestrino laterale e sbirciò dall’abitacolo, ma non vide nulla sotto di sé se non l’immensa nube turbinante. L’altimetro indicava 1500 piedi, un’altitudine sufficiente per superare tutti i plateaux dell’Adrar des Iforas, un prolungamento del massiccio dell’Ahaggar nel Sahara.

Si affidava agli strumenti perché impedissero all’aereo di precipitare. Per quattro volte, da quando era entrata nella tempesta accecante, aveva notato una diminuzione dell’altitudine e un cambiamento di direzione, segni sicuri che stava incominciando a scendere in cerchio verso il suolo. Attenta al pericolo, ogni volta aveva riportato l’aero in assetto senza incidenti, virando fino a che l’ago della bussola era ritornato, tremando, a indicare una direzione verso sud di 180 gradi.

Kitty aveva tentato di seguire la pista Transahariana, ma l’aveva perduta di vista poco dopo essere penetrata nella tempesta di sabbia che era arrivata senza preavviso da sud-est. Impossibilitata a vedere il suolo, non aveva idea della deriva dell’aereo e non capiva per quale distanza il vento l’avesse spinta fuori rotta. Virò verso ovest e accentuò la deviazione nel tentativo vano di aggirare la tempesta.

Non poteva far nulla se non proseguire in solitudine attraverso il grande oceano di sabbia minacciosa. Era il tratto che Kitty temeva di più. Calcolava che le restassero ancora quattrocento miglia di volo prima di raggiungere Niamey, la capitale del Niger. Là avrebbe fatto rifornimento di carburante prima di continuare la trasvolata da primato fino a Città del Capo, nel Sud Africa.

Le braccia e le gambe erano intorpidite dalla stanchezza. Il rombo incessante e le vibrazioni del motore incominciavano a far sentire il loro effetto. Kitty era in volo da quasi ventisette ore, dopo il decollo dall’aerodromo di Croydon, un sobborgo di Londra. Era passata dal freddo umido dell’Inghilterra alla fornace del Sahara.

Fra tre ore sarebbe scesa l’oscurità. Il vento sfavorevole della tempesta di sabbia riduceva la velocità a 90 miglia orarie, trenta di meno delle 120 che erano la velocità da crociera del vecchio e affidabile Fairchild FC-2W, un monoplano ad ala alta con l’abitacolo chiuso, azionato da un motore radiale Pratt & Whitney Wasp da 410 cavalli.

L’aereo quadriposto era stato proprietà della Pan American-Grace Airways e aveva fatto servizio postale fra Lima e Santiago. Quando era stato tolto da quella linea per essere sostituito da un modello più avanzato che poteva portare sei passeggeri, Kitty l’aveva acquistato e aveva fatto installare i serbatoi supplementari. Poi era partita per stabilire un primato nel volo da Rio de Janeiro a Madrid verso la fine del 1930, ed era stata la prima donna a trasvolare l’Atlantico meridionale.

Trascorse un’altra ora: Kitty lottava per restare sulla rotta prestabilita nonostante il vento furioso. La sabbia finissima si insinuava nella cabina e le entrava negli occhi e nelle narici. Si strofinò le palpebre, ma riuscì solo ad aggravare il disagio. Peggio ancora, non vedeva più nulla. E se non fosse stata in grado di leggere gli strumenti, sarebbe stata la fine.

Prese da sotto il sedile una borraccia, la stappò e si spruzzò l’acqua sul viso. Ristorata, batté furiosamente gli occhi. La sabbia bagnata le scorse sulle guance e si disseccò in pochi secondi nel caldo torrido. La vista ritornò, ma gli occhi sembravano trafitti da mille sottilissimi aghi.

All’improvviso Kitty percepì qualcosa, un istante infinitesimale nel tempo, forse un suono fuori sequenza, o forse un palpito di silenzio tra il vento e il rombo del motore. Si tese in avanti e studiò gli strumenti. Tutti i quadranti indicavano dati normali. Controllò i regolatori del carburante: ogni valvola era nella posizione corretta. Finì per attribuire l’impressione alla sua mente confusa.

Poi il blip si ripeté. Kitty si tese, come se volesse ascoltare con tutto il corpo. L’alternanza tra anormalità e normalità adesso era più rapida. Con una stretta al cuore riconobbe il rumore che segnalava il funzionamento irregolare di una candela. Poi una dopo l’altra tutte le candele si spensero. Il motore incominciò a tossire mentre l’ago del tachimetro ruotava all’indietro.

Ancora qualche istante, poi il motore si spense e l’elica rimase immobile. Il silenzio improvviso la investì come un’onda d’urto. L’unico suono era la voce lamentosa del vento. Kitty non aveva dubbi. Sapeva con certezza perché il motore s’era bloccato. La sabbia aveva intasato il carburatore.

I primi secondi di stupore e di paura passarono in fretta mentre Kitty prendeva atto delle limitate possibilità che si prospettavano. Se fosse riuscita ad atterrare avrebbe potuto attendere che la tempesta cessasse, e provvedere alle riparazioni. L’aereo incominciò a perdere quota, e Kitty spinse in avanti la leva per planare verso il deserto sottostante. Non sarebbe stato il suo primo atterraggio di fortuna: ne aveva all’attivo almeno sette, e in due occasioni era addirittura precipitata, cavandosela però solo con qualche graffio e qualche livido. Tuttavia non aveva mai tentato un atterraggio a motore spento nella semioscurità d’una tempesta di sabbia. Strinse con una mano la leva, con l’altra mise gli occhialoni, abbassò il finestrino laterale e sporse la testa.

Continuò a scendere senza vedere nulla, cercando disperatamente d’immaginare come poteva essere il terreno. Sapeva che, in prevalenza, il deserto era piatto: ma era certa che ci fossero canaloni nascosti e dune molto alte che attendevano solo di disintegrare il Fairchild e lei. A Kitty sembrò di essere invecchiata d’un tratto di almeno cinque anni, prima che il terreno spoglio apparisse all’improvviso sotto di lei, a poco più di trenta piedi dal carrello.

Il suolo era sabbioso ma pareva abbastanza solido per reggere le ruote. E soprattutto sembrava pianeggiante e non accidentato. I grossi pneumatici del Fairchild toccarono terra, sobbalzarono due, tre volte, poi girarono senza sforzo nella sabbia mentre la velocità si riduceva. Kitty stava per prorompere in un grido di gioia nell’attimo in cui la ruota di coda toccò terra… e, all’improvviso, davanti a lei il terreno franò.

Il Fairchild volò dal ciglio di un’altura piombando come un macigno in un canalone asciutto e profondo. Le ruote urtarono la sabbia e il carrello cedette. L’aereo si trovò lanciato contro la parete opposta del canalone: lo schianto, violentissimo, stritolò le strutture e lacerò la tela. Il motore, spinto all’indietro con forza, fratturò una delle caviglie di Kitty e le storse il ginocchio. L’elica si disintegrò. La donna fu sbalzata in avanti, la cintura di sicurezza, che avrebbe dovuto tenerla eretta, non era ben chiusa e Kitty batté la testa contro l’intelaiatura del parabrezza e precipitò nella tenebra.

La notizia della scomparsa di Kitty Mannock fece il giro del mondo in poche ore dopo che il suo mancato arrivo fu segnalato da Niamey. Una ricerca in grande stile e un’operazione di soccorso erano impossibili. Sarebbero state pressoché inutili, del resto. La regione desertica in cui Kitty era scomparsa era quasi del tutto disabitata, e solo raramente gli esseri umani vi si avventuravano. Non c’era un aereo nel raggio di mille miglia. E, nel 1931, non esisteva nel deserto un esercito di uomini e di materiali.

La mattina successiva una piccola unità meccanizzata della Legione Straniera francese, di stanza in quello che era allora il Sudan francese, nell’oasi di Takaldebey, diede il via alle ricerche. Presumendo che fosse precipitata lungo la pista Transahariana, gli uomini si diressero verso nord, mentre alcuni dipendenti di una società commerciale francese partirono con due macchine da Tessalit per puntare verso sud.

Le due squadre s’incontrarono sulla pista due giorni più tardi; non avevano avvistato nessun relitto, né avevano visto razzi da segnalazione durante la notte. Si sparsero per una ventina di miglia sui lati della pista e ritentarono. Quando, dopo dieci giorni, non ebbero trovato traccia dell’aviatrice scomparsa, il comandante del distaccamento della Legione Straniera abbandonò le speranze. Nessuno, uomo o donna, poteva sopravvivere così a lungo senza cibo né acqua nel deserto arroventato dal sole, disse. Ormai Kitty era morta, non c’erano dubbi.

Nelle città principali si svolsero servizi commemorativi in onore d’una delle beniamine dell’aviazione. Kitty, considerata una delle più grandi aviatrici con Amelia Earhart e Amy Johnson, fu pianta da tutti coloro che si erano esaltati per le sue imprese. Era molto graziosa, con gli occhi d’un azzurro cupo e i fluenti capelli neri, e apparteneva a una ricca famiglia di allevatori di pecore che viveva nei pressi di Canberra, in Australia. Dopo essersi diplomata, aveva preso lezioni di volo; sorprendentemente i genitori l’avevano incoraggiata e le avevano regalato un biplano Avro Avian di seconda mano, con la carlinga aperta e un motore Cirrus da 80 cavalli.

Sei mesi più tardi, sebbene la supplicassero di restare, aveva volato d’isola in isola attraverso il Pacifico fino a raggiungere le Hawaii ed era atterrata fra le acclamazioni dell’enorme folla che l’attendeva ansiosamente. Con la faccia bruciata dal sole, la camicia e i calzoncini kaki sporchi d’olio da motore, Kitty aveva sorriso stancamente e aveva risposto sbracciandosi a quei saluti, sbalordita dall’inattesa accoglienza. Da quel giorno aveva continuato a conquistare le simpatie di milioni di persone ed era diventata famosa per i suoi voli da primato attraverso oceani e continenti.

Quello avrebbe dovuto essere il suo ultimo tentativo sulle lunghe distanze, prima di sposare l’uomo di cui era innamorata fin dall’infanzia, proprietario di un allevamento confinante con quello dei genitori. Aveva conquistato l’aria, ma per lei quelle imprese avevano progressivamente perso interesse e adesso era decisa a sistemarsi e a metter su famiglia. Inoltre, come molti altri pionieri dell’aviazione, aveva scoperto che, anche se per i piloti c’era molta gloria, c’erano pochissimi posti di lavoro retribuiti.

Era stata sul punto di annullare il volo; tuttavia, ostinata come sempre, alla fine aveva deciso di compierlo. Adesso il mondo dell’aviazione attendeva l’annuncio del suo salvataggio ma, con il passare dei giorni, la speranza diventava sempre più vana.


Kitty rimase priva di sensi fino allo spuntare del giorno seguente. Quando si strappò all’abisso di tenebra e fissò lo sguardo sul troncone spezzato dell’elica il sole stava già incominciando a bruciare il deserto. La vista le si offuscò. Cercò di scuotere la testa per scacciare la nebbia e gemette per il dolore che le trafiggeva le tempie. Si toccò la fronte, con cautela. La pelle non era Ulcerata, ma c’era un grosso bernoccolo all’attaccatura dei capelli. Controllò per accertare altre possibili lesioni e scoprì la caviglia fratturata che si era gonfiata all’interno dello stivaletto, e la distorsione al ginocchio.

Sganciò la cintura di sicurezza, spalancò il portello della cabina e scese adagio al suolo. Mosse qualche passo zoppicando, poi si accasciò sulla sabbia e valutò la situazione.

Non era scoppiato un incendio, per sua fortuna, ma il fedele Fairchild non avrebbe più volato. Il motore, con tre cilindri incrinati dall’urto contro il pendio del burrone, era piegato verso l’alto a un angolo assurdo. Le ali erano sorprendentemente intatte, e così pure la fusoliera, ma il carrello era schiacciato e le ruote distorte verso l’esterno.

Era impossibile pensare di riparare l’apparecchio e proseguire il volo. Adesso il problema consisteva nell’accertare la posizione. Non sapeva dove fosse precipitata. Era caduta in quello che in Australia chiamavano billabong, il letto asciutto di un fiume che si riempie stagionalmente… Ma quello, con ogni probabilità, non vedeva una goccia d’acqua da almeno un secolo. La tempesta di sabbia era cessata ma le pareti della piccola gola in cui si trovava erano alte circa sei metri, e non riusciva a scorgere ciò che stava oltre. Ma era meglio così. Il paesaggio era incolore, desolato, deprimente.

La sete l’assalì all’improvviso. Il pensiero dell’acqua le ricordò la borraccia. Tornò al portello della cabina appoggiandosi su una gamba sola, si sporse all’interno e la trovò sotto il sedile. Aveva una capacità di poco più di due litri, ed era piena per due terzi scarsi. Kitty calcolò che avrebbe potuto considerarsi fortunata se l’acqua fosse durata più di due o tre giorni, anche bevendo pochi sorsi per volta.

Decise che doveva tentare di raggiungere un villaggio oppure la pista. Sarebbe stato un suicidio restare nei pressi del relitto. A meno che un aereo l’avesse sorvolato, il Fairchild sarebbe risultato invisibile. Tremando, si stese all’ombra dell’apparecchio e si rassegnò alla situazione.

Kitty scoprì ben presto l’incredibile contrasto delle temperature sahariane. Durante il giorno l’aria saliva a 49 gradi centigradi, e di notte precipitava a 4 gradi. Il freddo della notte era una tortura quanto il caldo del giorno. Dopo aver sofferto per dodici ore il sole bruciante, scavò una tana nella sabbia e vi ci si infilò. Si raggomitolò tremando e dormì un sonno agitato fino all’alba.

La mattina del secondo giorno, prima che il sole cominciasse a picchiare, si sentì abbastanza forte per incominciare i preparativi e abbandonare l’aereo. Improvvisò una gruccia con un supporto delle ali e un ombrello rudimentale con la tela. Si servì degli attrezzi per togliere la bussola dal quadro degli strumenti. Nonostante le lesioni, era decisa a raggiungere la pista. Non c’erano alternative.

Ora che aveva un piano, Kitty si sentiva un po’ meglio. Prese il giornale di bordo e incominciò a scrivere la prima pagina di quello che doveva essere il resoconto del suo tentativo eroico e tenace di sopravvivere nelle peggiori condizioni immaginabili. Incominciò con la descrizione dell’incidente e disegnò il percorso che intendeva seguire verso sud lungo il billabong fino a quando avesse trovato un punto che offriva la possibilità di risalire la sponda senza difficoltà. Una volta all’aperto, contava di puntare verso est, fino a incontrare la pista o una tribù di nomadi. Poi strappò il foglio e lo fissò al quadro dei comandi, in modo che i soccorritori potessero seguire le sue tracce, nell’eventualità improbabile che l’aereo venisse scoperto prima di lei.

Il caldo diventava rapidamente insopportabile. La situazione era peggiorata dalle pareti del canalone che riflettevano e intensificavano i raggi del sole come un crematorio all’aperto. Le era difficile respirare e doveva lottare contro la smania tremenda di bere a grandi sorsi l’acqua preziosa.

C’era ancora una cosa da fare, prima di mettersi in cammino. Si slacciò lo stivale che le copriva la caviglia fratturata e lo tolse. Il dolore le strappò un gemito; dovette lasciare che si placasse prima di fasciare la caviglia con la sciarpa di seta. Poi, con la bussola e la borraccia fissate alla cintura, l’ombrello tenuto alto e la gruccia sotto un braccio, Kitty si avviò sotto il sole feroce del Sahara, zoppicando coraggiosamente sulla sabbia dell’antico letto del fiume.


Le ricerche di Kitty Mannock continuarono a intervalli per anni, ma nessuno vide mai lei o l’aereo. Non furono trovati indizi, nessuna carovana incontrò nel deserto uno scheletro vestito con indumenti da volo in uso negli anni’30, nessun nomade s’imbatté nell’aereo sfasciato. La scomparsa di Kitty diventò uno dei grandi misteri dell’aviazione.

Le voci sulla sua sorte ingigantirono e si diffusero nel corso dei decenni. Alcuni affermavano che era sopravvissuta ma, colpita da amnesia, viveva sotto un altro nome in Sud America; e molti pensavano che fosse stata catturata e ridotta in schiavitù da una tribù di tuareg. Solo il volo di Amelia Earhart nell’ignoto suscitò un maggior numero di ipotesi.

Il deserto conservò il suo segreto. Le sabbie divennero il sudario funebre di Kitty Mannock. L’enigma del suo volo verso il nulla era destinato a restare insoluto per mezzo secolo.

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