PARTE TERZA I SEGRETI DEL DESERTO

30.

18 maggio 1996
Washington, D.C.

Il Concorde dell’Air France atterrò all’aeroporto Dulles e andò ad arrestarsi davanti a un hangar governativo privo di contrassegni, vicino ai terminal delle merci. Il cielo era coperto ma la pista era asciutta e non mostrava segni di pioggia. Gunn continuò a stringere lo zaino come se fosse una parte del suo essere, uscì dall’aereo e scese in fretta la scala mobile per raggiungere la Ford nera guidata da un agente della polizia della capitale. Con le luci lampeggianti e la sirena in funzione, la macchina sfrecciò verso la sede centrale della NUMA.

Gunn si sentiva come un delinquente appena catturato, mentre viaggiava sul sedile posteriore di un’auto della polizia. Nel passare il Rochambeau Memorial Bridge notò che il fiume Potomac sembrava più verde e plumbeo del solito. La folla dei pedoni era troppo abituata alle luci e alle sirene per degnarsi di guardare la Ford che passava sfrecciando.

L’autista non si fermò all’ingresso principale; girò intorno all’angolo occidentale del palazzo con un grande stridore di gomme, e scese la rampa del garage sotterraneo. La Ford si fermò bruscamente. Due guardie si accostarono, aprirono la portiera e scortarono Gunn nell’ascensore, fino al quarto piano. Quando furono nel corridoio, aprirono la porta della sala per le conferenze, grandissima e attrezzata con sofisticati display.

C’erano numerosi uomini e donne seduti intorno al lungo tavolo di mogano, e l’attenzione di tutti era concentrata sul dottor Chapman, intento a tenere una specie di conferenza davanti a uno schermo che mostrava la parte mediana dell’oceano Atlantico lungo l’equatore, al largo dell’Africa occidentale.

Quando Gunn entrò, scese di colpo il silenzio. L’ammiraglio Sandecker si alzò, gli corse incontro e l’accolse come se fosse un fratello sopravvissuto a un trapianto di fegato.

«Grazie a Dio, ce l’ha fatta!» disse con una commozione inconsueta. «Com’è andato il volo da Parigi?»

«Mi sentivo un reietto. Tutto solo a bordo di un Concorde.»

«Non c’erano aerei militari disponibili al momento. Noleggiare un Concorde era l’unico modo per farla arrivare qui al più presto.»

«Buona idea, purché non lo sappiano i contribuenti.»

«Non credo che protesterebbero se sapessero che è in gioco la loro esistenza.»

Quindi Sandecker presentò Gunn. «Credo che conosca già tutti, a parte tre eccezioni.»

Il dottor Chapman e Hiram Yaeger andarono a stringere la mano a Gunn con gioia evidente. Poi fu presentato alla dottoressa Muriel Hoag, direttore della biologia marina della NUMA, e al dottor Evan Holland, l’esperto ambientale dell’agenzia.

Muriel Hoag era altissima e magra quanto una di quelle indossatrici denutrite. I capelli neri erano raccolti in una crocchia e gli occhi castani spiccavano dietro le lenti rotonde. Non era truccata, ed era meglio così, pensò Gunn. Un trattamento completo nel più famoso salone di bellezza di Beverly Hills sarebbe stato del tutto sprecato.

Evan Holland, il chimico ambientalista, sembrava un basset hound intento a contemplare una rana finita nella sua ciotola. Le orecchie erano troppo grandi, e il naso lungo era arrotondato in punta. Gli occhi erano intrisi di malinconia. Ma il suo aspetto era ingannevole: in realtà era uno dei più abili e ingegnosi detective dei problemi dell’inquinamento.

Gunn conosceva già gli altri due, Chip Webster, analista delle comunicazioni via satellite della NUMA, e Keith Hodge, il capo oceanografo.

Si rivolse a Sandecker. «Qualcuno si è preso un gran disturbo per portarmi via dal Mali.»

«Hala Kamil ha dato personalmente l’autorizzazione all’intervento di una squadra tattica dell’ONU.»

«Il comandante dell’operazione, il colonnello Levant, non mi è sembrato molto felice di vedermi.»

«C’è voluto parecchio per persuadere il colonnello Levant e il suo superiore, il generale Bock», ammise Sandecker. «Ma quando si sono resi conto dell’importanza dei suoi dati hanno collaborato senza riserve.»

«Hanno organizzato un’operazione formidabile», disse Gunn. «È incredibile che l’abbiano preparata e realizzata da un giorno all’altro.»

Se Gunn sperava che Sandecker gli fornisse i dettagli, rimase deluso. La faccia dell’ammiraglio era una maschera d’impazienza. C’era un vassoio con caffè e panini dolci, ma Sandecker non li offrì a Gunn. Lo prese invece per un braccio e lo condusse a una sedia, in fondo al tavolo per le conferenze.

«Veniamo al dunque», disse in tono brusco. «Tutti sono ansiosi di conoscere la scoperta del composto che sta causando l’esplosione della marea rossa.»

Gunn sedette, aprì lo zaino e cominciò a estrarne il contenuto. Prese le boccette con i campioni d’acqua e li posò su un panno. Poi mise da parte i dischetti dei dati, e alla fine alzò lo sguardo.

«Ecco i campioni d’acqua e i risultati secondo l’interpretazione degli strumenti e dei computer che avevo a bordo. Con un po’ di fortuna sono riuscito a identificare l’agente stimolante della marea rossa: è un composto organometallico molto insolito, una combinazione fra un aminoacido sintetico e il cobalto. Inoltre ho trovato tracce di radiazioni nell’acqua, ma non credo che abbiano una relazione diretta con l’effetto della sostanza contaminante sulla marea rossa.»

«Tenuto conto delle difficoltà e degli ostacoli che ha incontrato sulla sua strada per colpa degli africani», intervenne Chapman, «è un miracolo che sia riuscito a scoprire la causa.»

«Per fortuna, nessuno dei miei strumenti era rimasto danneggiato nello scontro con la Marina del Benin.»

«Ho ricevuto una richiesta d’informazioni da parte della CIA», intervenne Sandecker sorridendo a denti stretti. «Hanno domandato se sapevamo qualcosa di una stranissima operazione nel Mali, dopo che avete distrutto un elicottero e metà della Marina del Benin»

«Che cosa gli ha risposto?»

«Ho mentito. Continui, prego.»

«Il fuoco d’una cannoniera beniniana, comunque, aveva distrutto il nostro sistema per la trasmissione dei dati», continuò Gunn. «Così è stato impossibile inviare i risultati per telemetria ai computer di Hiram Yaeger.»

«Mi piacerebbe rianalizzare i campioni d’acqua mentre Hiram controlla i dati delle analisi», disse Chapman.

Yaeger si avvicinò a Gunn e prese delicatamente i dischetti. «Non posso dare un grande contributo alla conferenza, quindi noi metterò al lavoro.»

Appena il mago dei computer fu uscito, Gunn fissò Chapman. «Ho controllato tre volte i miei risultati. Sono sicuro che Hiram e il suo laboratorio confermeranno quanto ho scoperto.»

Chapman sembrò rendersi conto della sua tensione. «Mi creda: non metto in discussione le sue procedure o i suoi dati. Lei, Pitt e Giordino avete fatto un lavoro straordinario. Grazie a questi sforzi sappiamo con cosa abbiamo a che fare. E il presidente potrà fare pressioni sul Mali perché blocchi all’origine la produzione della sostanza inquinante. Così avremo il tempo per trovare un modo di neutralizzarne gli effetti e arrestare l’espansione delle maree rosse.»

«Non cominciamo a festeggiare troppo presto», raccomandò Gunn. «Anche se abbiamo scoperto il punto in cui il composto entra nel fiume e ne abbiamo identificato le proprietà, non siamo riusciti a scoprire la posizione della fonte.»

Sandecker tamburellò con le dita sul tavolo. «Pitt mi aveva dato la brutta notizia prima di essere interrotto. Mi scuso se non ho passato l’informazione, ma speravo che i rilevamenti a mezzo satellite fornissero il pezzo mancante.»

Muriel Hoag guardò Gunn negli occhi. «Non capisco come abbiate potuto seguire la sostanza per mille chilometri d’acqua e poi l’abbiate persa sulla terraferma.»

«È stato facile.» Gunn scrollò stancamente le spalle. «Dopo aver superato il punto della massima concentrazione, i dati sulla presenza della sostanza inquinante hanno segnato una brusca caduta, e gli strumenti hanno incominciato a mostrare che l’acqua conteneva soltanto inquinanti del tipo già noto. Abbiamo effettuato diversi passaggi avanti e indietro per confermarlo, e abbiamo fatto molti avvistamenti visuali in tutte le direzioni. Lungo il fiume e nell’entroterra non erano visibili né discariche di rifiuti tossici né magazzini o stabilimenti di produzione di sostanze chimiche. Non c’erano edifici né complessi. Niente di niente. Soltanto il deserto.»

«È possibile che, in passato, una discarica sia stata sepolta?» chiese Holland.

«Non abbiamo visto tracce di scavi», rispose Gunn.

«C’è la possibilità che la tossina sia un prodotto spontaneo della natura?» chiese Chip Webster.

Muriel Hoag sorrise. «Se le analisi confermeranno che si tratta di un aminoacido, si può trattare soltanto di un composto messo a punto da un laboratorio biotecnico, non creato dalla natura. E in qualche posto, chissà come, è stato scartato assieme ad altre sostanze contenenti cobalto. Non sarebbe la prima volta che un’integrazione accidentale di prodotti chimici produce un composto in precedenza sconosciuto.»

«In nome di Dio, com’è possibile che un composto del genere sia apparso all’improvviso in mezzo al Sahara?» chiese Chip Webster.

«E come può aver raggiunto l’oceano, dove agisce come uno steroide sui dinoflagellati?» soggiunse Holland.

Sandecker si rivolse a Keith Hodge. «Qual è l’ultimo rapporto sulla diffusione della marea rossa?»

L’oceanografo aveva passato la sessantina. Gli occhi scuri erano impassibili, il viso magro dagli zigomi alti non cambiava espressione. Se avesse indossato il costume adatto, avrebbe dato l’impressione d’essere appena uscito da un ritratto settecentesco.

«La diffusione è aumentata del trenta per cento negli ultimi quattro giorni. Temo che il tasso di créscita stia superando le nostre più nere previsioni.»

«Ma se il dottor Chapman riuscisse a realizzare una sostanza capace di neutralizzare la contaminazione e se potessimo scoprire e bloccare la fonte di questa, non saremmo in grado di arrestare anche l’espansione della marea?»

«E sarà meglio riuscirci in fretta», incalzò Hodge. «Con il ritmo attuale, fra un mese dovremmo vedere le prove iniziali del fatto che incomincia ad autoalimentarsi senza bisogno della stimolazione arrivata dal Niger.»

«Con tre mesi di anticipo sulle previsioni», disse bruscamente Muriel Hoag.

Hodge alzò le spalle in un gesto d’impotenza. «Quando si ha a che fare con un’incognita, l’unica cosa sicura è l’incertezza.»

Sandecker si girò sulla sedia e guardò la foto del Mali trasmessa dal satellite. «In quale punto la sostanza entra nel fiume?» chiese a Gunn.

Gunn si alzò e si avvicinò all’ingrandimento. Prese una matita grassa e tracciò un cerchio intorno a una piccola area del fiume a monte di Gao. «Più o meno qui. Nei pressi del letto di un vecchio fiume che un tempo si gettava nel Niger.»

Chip Webster premette i tasti di una piccola console posata sul tavolo e ingrandì l’area intorno al segno tracciato da Gunn. «Non ci sono strutture visibili. Non c’è nulla che indichi un abitato. E non vedo né scavi né monticelli artificiali che risulterebbero evidenti, se fosse stata scavata una trincea per seppellire materiali pericolosi.»

«È un vero enigma», mormorò Chapman. «Da dove diavolo può venire quella schifezza?»

«Pitt e Giordino la stanno ancora cercando», gli rammentò Gunn.

«Si sa nulla di loro?» chiese Hodge.

«No, dopo che Pitt ha chiamato dall’houseboat di Yves Massarde», rispose Sandecker.

Hodge alzò gli occhi dal taccuino. «Yves Massarde? Mio Dio, quel porco?»

«Lo conosce?»

Hodge annuì. «Ho avuto a che fare con lui dopo un grave inquinamento chimico nel Mediterraneo al largo della Spagna, quattro anni fa. Una delle sue navi carica di rifiuti cancerogeni conosciuti come PCB e diretta in Algeria ebbe un incidente e affondò durante una tempesta. Personalmente, sono convinto che fosse stata sabotata, un po’ per incassare l’assicurazione e un po’ per far sparire i rifiuti. Alla fine saltò fuori che le autorità algerine non avevano mai avuto l’intenzione di accettare il carico; e Massarde mentì, barò e tentò tutti i trucchi legali conosciuti per sottrarsi alla responsabilità di rimediare al disastro. Se stringete la mano a quell’individuo, poi farete meglio a contarvi le dita.»

Gunn si rivolse a Webster. «Ci sono satelliti in grado di leggere un giornale dallo spazio. Perché non possiamo farne passare uno sopra il deserto a nord di Gao per cercare Pitt e Giordino?»

Webster scosse la testa. «Niente da fare. I miei contatti nell’Ente per la Sicurezza Nazionale tengono impegnati i loro occhi nel cielo per seguire i nuovi lanci di razzi da parte dei cinesi, la guerra civile in Ucraina e gli scontri di frontiera fra Siria e Iraq. Non ci presteranno certo i loro sistemi per cercare due civili spersi nel Sahara. Posso provare con il GeoSat ultimo modello, ma non sono affatto certo che sia capace di distinguere le forme umane sul terreno accidentato di un deserto.»

«Non spiccherebbero contro lo sfondo di una duna?» chiese Chapman.

Webster scosse di nuovo la testa. «Nessuno che attraversasse il Sahara e avesse la testa sulle spalle camminerebbe sulla sabbia soffice delle dune. Persino i nomadi le aggirano. Finire in un mare di dune significa morte certa. Pitt e Giordino sono abbastanza furbi per evitarle come la peste.»

«Tuttavia lei effettuerà una ricerca», insistette Sandecker.

Webster annuì. Era calvo e quasi senza collo, e aveva una pancia abbondante: avrebbe potuto apparire nella pubblicità d’un metodo dimagrante nella parte di quello «prima della cura». «Ho un vecchio amico, capo analista al Pentagono, che è esperto di ricognizione del deserto. Credo di poterlo convincere a esaminare le nostre foto del GeoSat con i suoi computer ultimo tipo.»

«Grazie per la collaborazione», disse sinceramente Sandecker.

«Se i due sono nel deserto, credo sia l’unico che possa individuarli», assicurò Webster.

«Il suo satellite ha visto qualche segno dell’aereo che portava il gruppo di scienziati delle Nazioni Unite?» chiese Muriel.

«Finora no, purtroppo. Durante l’ultimo passaggio sopra il Mali non si è visto altro che una piccola sbavatura di fumo che saliva da un angolo. Durante la prossima orbita possiamo sperare di ottenere immagini più dettagliate. Potrebbe trattarsi semplicemente d’un bivacco di nomadi.»

«In quella parte del Sahara non c’è legna sufficiente per accendere un falò», commentò Sandecker.

Gunn aveva l’aria di non capire. «Di quale gruppo di scienziati state parlando?»

«Ricercatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in missione nel Mali», spiegò Muriel. «Stavano cercando la causa di strane epidemie segnalate nei villaggi dei nomadi del deserto. Il loro aereo è scomparso fra il Mali e il Cairo.»

«C’era anche una donna? Una biochimica?»

«Sì, una certa dottoressa Eva Rojas», rispose Muriel. «Una volta ho lavorato con lei a Haiti.»

«La conosce?» chiese Sandecker a Gunn.

«Io no, ma la conosce Pitt. È uscito con lei, al Cairo.»

«Forse è meglio che Pitt non sappia cos’è successo», commentò Sandecker. «Deve avere già abbastanza guai senza che una brutta notizia gli confonda le idee.»

«Non si ha ancora la conferma dell’incidente», disse Holland in tono speranzoso.

«Forse hanno compiuto un atterraggio forzato nel deserto e sono sopravvissuti», ipotizzò Muriel.

Webster scosse la testa. «Temo che sia un pio desiderio. E sospetto che il generale Zateb Kazim abbia messo le mani in questa sporca faccenda.»

Gunn disse: «Pitt e Giordino hanno parlato per radio con il generale dalla Calliope poco prima che mi tuffassi nel fiume. Ho avuto l’impressione che sia un brutto individuo».

«Spietato come un dittatore mediorientale», confermò Sandecker. «E ancora più difficile da trattare. Non vuole neppure parlare con i nostri diplomatici se non gli consegnano un cospicuo assegno a titolo di ‘aiuti’.»

Muriel soggiunse: «Ignora le Nazioni Unite e rifiuta l’invio di generi alimentari al suo popolo».

Webster annuì. «E se un sostenitore dei diritti umani è così stupido da entrare nel Mali per protestare, sparisce quasi subito.»

«Kazim e Massarde sono amiconi», disse Hodge. «Fra tutti e due hanno saccheggiato il Paese e l’hanno ridotto in condizioni di miseria totale.»

Sandecker si oscurò. «La cosa non ci interessa. Non esisterà più il Mali, l’Africa occidentale o altro, se non fermeremo la marea rossa. In questo momento, tutto il resto non ha importanza.»

Chapman intervenne. «Ora che abbiamo dati concreti, possiamo lavorare insieme per trovare una soluzione.»

«Sì, e in fretta», disse Sandecker socchiudendo gli occhi. «Se non ci sarete riusciti entro trenta giorni, nessuno di noi avrà una seconda possibilità.»

31.

Una brezza energica faceva fremere le fronde lungo le Palisades sopra il fiume Hudson mentre Ismail Yerli scrutava con il binocolo un uccelletto grigiobluastro posato a testa in giù su un tronco d’albero. Si comportava come se concentrasse tutta l’attenzione sull’uccello e non si fosse accorto che un uomo era comparso dietro di lui. In realtà era consapevole della presenza dell’intruso da quasi due minuti.

«Un picchio dal petto bianco», disse lo sconosciuto. Era alto, piuttosto bello e portava una raffinata giacca di pelle color bordeaux. Sedette su una roccia piatta accanto a Yerli. I capelli color stoppa erano lisci, con una netta scriminatura a sinistra. Guardava l’uccello con un’espressione di indifferenza negli occhi celesti.

«Il nero più scuro dietro la testa indica che è una femmina», disse Yerli senza abbassare il binocolo.

«Il maschio probabilmente è vicino. Forse bada al nido.»

«Bravo, Bordeaux», disse Yerli, usando il nome in codice dell’altro. «Non sapevo che fosse un bird watcher.»

«Non lo sono. Cosa posso fare per lei, Pergemon?»

«È stato lei a chiedere questo incontro.»

«Ma non in un bosco e con un vento gelido.»

«Gli incontri nei ristoranti di lusso non rientrano nella mia idea di un lavoro sotto copertura.»

«Non mi sono mai abituato a lavorare nell’ombra e a vivere nelle topaie», ribatté Bordeaux in tono secco.

«Ma è meglio non dare nell’occhio.»

«Il mio compito è proteggere gli interessi di un uomo che, potrei aggiungere, mi paga molto bene. L’FBI non mi metterà sotto sorveglianza a meno che mi sospetti di spionaggio. E dato che la nostra funzione, o almeno la mia, non consiste nel rubare i segreti degli americani, non capisco proprio perché debba confondermi con le masse puzzolenti.»

L’atteggiamento sprezzante di Bordeaux non piaceva a Yerli. Sebbene si conoscessero da anni e avessero lavorato spesso insieme per conto di Yves Massarde, nessuno dei due conosceva il vero nome dell’altro, e non cercava neppure di scoprirlo. Bordeaux era il capo dell’attività spionistica commerciale della Massarde Entreprises degli Stati Uniti. Yerli, che Bordeaux conosceva soltanto come Pergamon, spesso gli passava informazioni vitali per i progetti internazionali di Massarde. Per questo era pagato profumatamente, ricevendo assai più dello stipendio di agente dei servizi segreti della Francia. Era una situazione tollerata dai suoi superiori perché Massarde aveva stretti legami con molti pezzi grossi del governo francese.

«Sta diventando imprudente, amico mio.»

Bordeaux alzò le spalle. «Sono stanco di trattare con questi rozzi americani. New York è un cesso. Il Paese è diviso da contrasti etnici e razziali e si sta disintegrando. Un giorno o l’altro si ripeterà negli Stati Uniti la lotta economica e regionale in atto in Russia e negli Stati del Commonwealth. Non vedo l’ora di tornare in Francia, l’unico Paese civile del mondo.»

«Ho saputo che uno della NUMA è fuggito dal Mali», disse Yerli cambiando argomento.

«Quell’idiota di Kazim se l’è fatto scappare fra le dita», confermò Bordeaux.

«Non aveva passato il mio avvertimento al signor Massarde?»

«Naturalmente. E lui ha informato il generale Kazim. Altri due uomini sono stati catturati dal signor Massarde sulla sua houseboat; ma Kazim, nonostante la sua genialità, non ha cercato il terzo agente, che è fuggito ed è stato portato al sicuro da una squadra tattica dell’ONU.»

«Cosa pensa il signor Massarde della situazione?»

«Non è soddisfatto. Sa che c’è il rischio di un’inchiesta internazionale sul suo progetto di Fort Foureau.»

«Molto male. Una minaccia di smascherare e chiudere Fort Foureau è una minaccia per il programma nucleare francese.»

«Il signor Massarde è consapevole del problema», commentò Bordeaux in tono acido.

«E gli scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità? I giornali del mattino dicono che il loro aereo non è arrivato a destinazione in orario ed è dato per disperso.»

«Una delle migliori idee di Kazim», rispose Bordeaux. «Ha simulato il disastro aereo in una parte alquanto negletta del deserto.»

«Simulato? Avevo avvertito Hala Kamil di quello che immaginavo fosse un autentico attentato dinamitardo per distruggere l’aereo ed eliminare Hopper e il suo team.»

«C’è stato un piccolo cambiamento nel piano, per evitare future ispezioni da parte di scienziati dell’Organizzazione», disse Bordeaux. «L’aereo è precipitato, ma i cadaveri non erano quelli del dottor Hopper e degli altri.»

«Sono ancora vivi?»

«È come se fossero morti. Kazim li ha mandati a Tebezza.»

Yerli annuì. «Sarebbe stato meglio se fossero morti in fretta, anziché nelle miniere di Tebezza, ridotti alla condizione di schiavi.» Yerli tacque pensosamente, poi disse: «Credo che Kazim abbia commesso un errore».

«Il segreto è al sicuro», commentò Bordeaux in tono indifferente. «Nessuno può fuggire da Tebezza. Entrano nelle miniere e non ne escono più.»

Yerli prese un kleenex dalla tasca della giacca e cominciò a lucidare le lenti del binocolo. «Hopper aveva scoperto qualcosa che poteva essere dannoso per Fort Foureau?»

«Abbastanza per destare un nuovo interesse e far promuovere un’indagine più approfondita, se il suo rapporto fosse stato reso pubblico.»

«Cosa si sa dell’agente della NUMA che è riuscito a fuggire?»

«Si chiama Gunn ed è il vicedirettore.»

«Un uomo influente.»

«Appunto.»

«Dov’è adesso?»

«Abbiamo accertato che l’aereo lo ha portato a Parigi, dove si è imbarcato su un Concorde diretto a Washington. Poi è stato condotto direttamente alla sede centrale della NUMA. Le mie fonti mi hanno informato che si trovava ancora lì quaranta minuti fa.»

«Si sa se ha portato via dal Mali informazioni importanti?»

«Qualunque informazione abbia eventualmente attinto dal fiume Niger per noi è un mistero. Ma il signor Massarde è sicuro che non abbiano scoperto nulla che possa mettere in pericolo l’attività di Fort Foureau.»

«Kazim non dovrebbe faticare molto a far parlare gli altri due americani.»

«Ho avuto notizie proprio mentre uscivo per venire a questo appuntamento. Purtroppo sono scappati anche loro.»

Yerli fissò Bordeaux con un’espressione irritata. «Chi ha sbagliato?»

Bordeaux alzò le spalle. «Non fa nessuna differenza. Francamente la cosa non ci riguarda. L’importante è che si trovano ancora nel Mali. Hanno poche speranze di varcare il confine. È solo questione di ore prima che li prendano.»

«Dovrei raggiungere Washington e infiltrarmi nella NUMA. Con qualche mossa giusta potrei scoprire se c’è sotto qualcosa di più di un’indagine sull’inquinamento.»

«Lasciamo stare, per il momento», disse Bordeaux in tono freddo. «Il signor Massarde ha un altro lavoro da affidarle.»

«Si è consultato con i miei superiori della Difesa nazionale?»

«L’autorizzazione ufficiale per il servizio esterno le sarà consegnata entro un’ora.»

Yerli non disse nulla. Riprese a scrutare con il binocolo il picchio ancora appollaiato a testa in giù e impegnatissimo a martellare con il becco la corteccia dell’albero. «Che cos’ha in mente Massarde?»

«Vuole che lei vada in Mali a fungere da collegamento con il generale Kazim.»

Yerli non tradì la minima reazione. Continuò a puntare il binocolo sul picchio. «Qualche anno fa sono stato assegnato nel Sudan per otto mesi. Un posto orribile. Ma la gente era abbastanza amichevole.»

«Uno dei jet della Massarde Entreprises l’aspetterà all’aeroporto La Guardia. Lei s’imbarcherà alle sei di stasera.»

«Dunque dovrò fare da balia a Kazim per impedire che commetta altri sbagli clamorosi.»

Bordeaux annuì. «La posta in gioco è troppo alta per permettere che quel pazzo si scateni.»

Yerli ripose il binocolo nella custodia e l’appese alla spalla. «Una volta ho sognato che morivo nel deserto», disse a voce bassa. «Prego Allah che sia stato soltanto un sogno.»


In una tipica stanza priva di finestre, in una parte poco frequentata del Pentagono, il maggiore dell’Aeronautica militare Tom Greenwald posò il telefono dopo aver comunicato alla moglie che sarebbe rientrato tardi per la cena. Si rilassò per un momento, distogliendo i suoi pensieri dall’analisi delle foto scattate dal satellite che mostravano i combattimenti in corso fra unità dell’esercito cinese e le forze dei ribelli democratici, e si concentrò sul compito che lo attendeva.

La pellicola trasmessa dalle telecamere del GeoSat e inviata per corriere da Chip Webster della NUMA fu caricata nel sofisticato apparecchio per l’ingrandimento. Quando tutto fu pronto, Greenwald sedette nella comoda poltroncina con una console installata su un bracciolo. Aprì una lattina di Diet Pepsi e incominciò a regolare le manopole e a osservare un monitor televisivo che aveva le dimensioni d’un piccolo schermo cinematografico.

Le foto del GeoSat gli ricordavano le vecchie immagini dello «spionaggio dal cielo» di trent’anni prima. Certo, il GeoSat era stato creato esclusivamente per le rilevazioni geologiche e delle correnti marine; ma non si avvicinava neppure all’incredibile definizione e ricchezza nei dettagli dei dati trasmessi dai satelliti più recenti, Pyramider e Houdini, messi in orbita dagli shuttle. Tuttavia c’era un miglioramento immenso rispetto al vecchio LandSat che per più di vent’anni aveva effettuato i rilevamenti terrestri. Il modello nuovo era dotato di telecamere in grado di penetrare nell’oscurità, nelle coltri di nubi e persino nel fumo.

Greenwald regolò i comandi della console via via che ogni foto, con le diverse sezioni del deserto del Mali settentrionale, passava sullo schermo e veniva ingrandita dal computer. Cominciò quasi subito a individuare punti minuscoli che erano aerei in volo e una carovana di dromedari che si snodava nel deserto dalle miniere di sale di Taoudenni, a sud di Timbuctu.

Via via che la scia delle foto si spostava a nord, dal Niger all’Azaouad, una desolata regione di dune che formava una delle tante aree del Sahara, Greenwald trovò che i segni della presenza umana si diradavano velocemente. Riusciva a scorgere ossa di animali, molto probabilmente dromedari, sparse intorno a pozzi isolati; ma anche per sistemi elettronici sofisticati come i suoi era molto difficile individuare un umano in piedi.

Dopo circa un’ora Greenwald si soffregò gli occhi stanchi e si massaggiò le tempie. Non aveva trovato nulla che indicasse la minima traccia dei due uomini che gli avevano chiesto di cercare. Le foto dell’estrema griglia di ricerca a nord, che secondo Webster i due potevano aver raggiunto a piedi, non mostravano nulla.

Greenwald aveva fatto la sua parte, e stava per smettere e andare a casa dalla moglie; poi decise di fare un ultimo tentativo. Gli anni d’esperienza gli avevano insegnato che un bersaglio non era mai dove ci si aspettava di trovarlo. Riprese le foto che mostravano le regioni più interne dell’Azaouad e tornò a esaminarle rapidamente.

La distesa brulla era vuota come il mar Morto.

Per poco non gli sfuggì. Gli sarebbe sfuggito, anzi, se non avesse avuto la sensazione indefinibile che un oggetto minuscolo presente nel paesaggio non si armonizzava con quanto gli stava intorno. Poteva sembrare una roccia o una duna, ma la forma non era irregolare come gli elementi geologici prodotti dalla natura. Le linee erano diritte e ben definite. Mosse la mano su una fila di comandi, e ingrandì l’oggetto.

Greenwald sapeva di aver scoperto qualcosa. Era troppo esperto per ingannarsi. Durante la guerra del Golfo era diventato famoso per la straordinaria capacità di scoprire i bunker, i carri armati e i pezzi d’artiglieria nascosti dagli iracheni.

«Una macchina», mormorò. «Una macchina coperta di sabbia per mimetizzarla.»

Dopo uno studio attento riuscì a distinguere due punti minuscoli a fianco dell’automobile. Era un peccato che le immagini non fossero state trasmesse da un satellite militare: in quel caso sarebbe riuscito a leggere addirittura l’ora sugli orologi. Ma il GeoSat non era stato creato per catturare dettagli così minuziosi. Anche regolando l’ingrandimento al massimo riusciva solo a rendersi conto che erano due esseri umani.

Per un momento rimase immobile ad assaporare la sua scoperta. Poi si alzò, andò alla scrivania e prese il telefono. Attese con pazienza, augurandosi che una voce registrata non lo invitasse a lasciare un messaggio. Al quinto squillo rispose un uomo un po’ affannato.

«Pronto.»

«Chip?»

«Sì. Sei tu, Tom?»

«Stavi facendo jogging?»

«Mia moglie e io eravamo in giardino a chiacchierare con i vicini», spiegò Webster. «Sono corso in casa quando ho sentito il telefono.»

«Ho trovato qualcosa che ti interesserà.»

«I miei due uomini. Li hai rintracciati nelle foto del GeoSat?»

«Sono oltre cento chilometri più a nord di quanto avevi calcolato», disse Greenwald.

Un attimo di silenzio. «Sei sicuro che non siano due nomadi?» chiese Webster. «I miei amici non possono aver percorso una simile distanza a piedi, nel deserto rovente e in quarantotto ore.»

«Non sono a piedi.»

«Vuoi dire che hanno una macchina?» chiese sbalordito Webster.

«È difficile distinguere i particolari. Ho l’impressione che durante il giorno la coprano con la sabbia per nasconderla agli aerei che li stanno cercando. E probabilmente viaggiano di notte. Devono essere i tuoi amici. Chi altro potrebbe giocare a nascondino dove non cresce l’erba?»

«Sai dirmi se sono diretti al confine?»

«No, a meno che abbiano un pessimo senso dell’orientamento. Si trovano al centro del Mali settentrionale. Il confine più vicino è almeno a trecentocinquanta chilometri.»

Webster rimase in silenzio per un lungo attimo. «Devono essere Pitt e Giordino. Ma dove diavolo hanno trovato una macchina?»

«Ho l’impressione che siano tipi molto efficienti.»

«Avrebbero dovuto rinunciare da un pezzo a cercare la fonte della contaminazione. Che cosa gli ha preso?»

Greenwald non era in grado di rispondere alla domanda. «Può darsi che ti diano un colpo di telefono da Fort Foureau», disse, un po’ sul serio e un po’ per scherzo.

«Si stanno dirigendo verso l’impianto francese per lo smaltimento dei rifiuti tossici?»

«Sono arrivati a soli cinquanta chilometri di distanza, e quella è l’unica presenza della civiltà occidentale in tutta la zona.»

«Grazie, Tom», disse Webster. «Ti devo un grosso favore. Posso invitarti a cena con tua moglie?»

«Buona idea. Scegli un ristorante e chiamami.»

Greenwald posò il ricevitore e concentrò di nuovo l’attenzione sull’oggetto indistinto e sulle due figure minuscole che gli stavano accanto.

«Dovete essere proprio matti», commentò.

Poi spense l’apparecchio e andò a casa.

32.

Il sole si alzò e inondò di calore il deserto come lo sportello spalancato d’un forno. Il freddo della notte svanì rapidamente come l’ombra d’una nuvola. Due corvi che volavano nel cielo opprimente scorsero qualcosa che non faceva parte del paesaggio e cominciarono a girare in cerchio nella speranza di scroccare un pasto. Poi si resero conto che un essere umano vivo non offriva nulla di apprezzabile e si diressero lentamente verso nord.

Pitt era sdraiato sul pendio di una bassa duna, semisepolto nella sabbia. Guardò i corvi per qualche istante. Poi rivolse di nuovo l’attenzione all’immensa distesa dell’impianto solare di smaltimento dei rifiuti tossici di Fort Foureau. Era un posto irreale: non era soltanto una creazione tecnologica, ma uno stabilimento produttivo circondato da una terra morta ormai da tempo sotto l’aggressione della siccità e del caldo.

Pitt si girò leggermente nel sentire il movimento della sabbia e vide Giordino che si avvicinava strisciando sullo stomaco come una lucertola.

«Ti godi il panorama?» chiese Giordino.

«Vieni a dare un’occhiata. Ti garantisco che ne resterai impressionato.»

«L’unica cosa che potrebbe impressionarmi in questo momento sarebbe una spiaggia con tante belle onde fresche.»

«Non mostrare i riccioli», lo ammonì Pitt. «Un ciuffo di capelli scuri spicca sulla sabbia giallastra come una puzzola su uno steccato.»

Giordino sorrise e si versò sui capelli una manciata di sabbia. Si affiancò a Pitt e scrutò oltre la cresta della duna. «Ohi, ohi», mormorò sbalordito. «Se non sapessi che non è vero, direi che è una città sulla luna.»

«Il paesaggio desolato c’è», ammise Pitt. «Però manca la cupola di vetro.»

«È grande quasi come Disneyland.»

«Direi una trentina di chilometri quadrati.»

«Sta arrivando un convoglio», disse Giordino, e indicò un lungo treno merci trainato da quattro locomotori diesel. «Sembra che gli affari vadano bene.»

«È il treno della broda tossica di Massarde», mormorò Pitt. «Saranno centoventi vagoni pieni di rifiuti velenosi.»

Giordino indicò un immenso campo coperto da lunghi bacini con le superfici concave che rimandavano i raggi del sole come un mare di specchi. «Sembrano riflettori solari.»

«Concentratori», spiegò Pitt. «Raccolgono le radiazioni solari e le concentrano in enormi intensità di calore e di protoni. L’energia viene poi convogliata in un reattore chimico che distrugge completamente i rifiuti tossici.»

«Ma come sei intelligente», esclamò Giordino. «Quando sei diventato esperto di radiazioni solari?»

«Frequentavo una signora che era ingegnere presso il Solar Energy Institute. E mi ha fatto visitare i loro impianti per le ricerche. È stato diversi anni fa, quando stavano ancora collaudando la tecnologia termica solare per eliminare i rifiuti tossici industriali. Sembra che Massarde abbia sfruttato al meglio quelle tecniche.»

«C’è qualcosa che mi sfugge», disse Giordino.

«E cioè?»

«Questo complesso. Perché addossarsi le spese e il disturbo di costruire una simile cattedrale ecologica in mezzo alla più grande distesa di sabbia del mondo? Io l’avrei costruita più vicina a un grande centro industriale. Deve costare una barca di soldi trasportare questa roba attraverso mezzo oceano e milleseicento chilometri di deserto.»

«È un’osservazione molto acuta», ammise Pitt. «Anch’io sono curioso. Se Fort Foureau è un tale capolavoro di distruzione dei rifiuti tossici, e se gli esperti lo giudicano tanto sicuro, non c’è motivo perché non sia stato costruito in un posto più comodo da raggiungere.»

«Pensi ancora che parta da qui la contaminazione che arriva al Niger?» chiese Giordino.

«Non abbiamo trovato altre fonti.»

«Forse la soluzione sta nel fiume sotterraneo, come ha detto il vecchio cercatore.»

«Ma c’è un problema», disse Pitt.

«Non sei mai stato un tipo fiducioso», si lamentò Giordino.

«La teoria del fiume sotterraneo è credibile. Ma non sono disposto ad accettare l’idea dell’infiltrazione dell’inquinamento.»

«Sono d’accordo.» Giordino annuì. «Cosa c’è che si può infiltrare, se tutta quella roba finisce in cenere?»

«Esattamente.»

«Allora Fort Foureau non è quello che dicono?»

«No, secondo me.»

Giordino si voltò a guardarlo, insospettito. «Spero che non starai pensando di andare laggiù come se fossimo due vicini di casa venuti a fare una visitina.»

«Io pensavo piuttosto ai topi d’appartamento.»

«E come dovremmo entrare? Ci presentiamo all’ingresso e chiediamo un pass?»

Pitt indicò con un cenno i carri merci che avanzavano su un binario di raccordo, parallelo alla banchina di carico all’interno dell’impianto. «Saltiamo sul treno.»

«E per uscire?» chiese Giordino, sempre più sospettoso.

«Dato che la benzina della Voisin è quasi finita, l’ultima delle mie idee è salutare affettuosamente il Mali e allontanarci a piedi nel tramonto. Prenderemo l’espresso in partenza per la Mauritania.»

Giordino si oscurò. «Vorresti farmi viaggiare in carri merci che hanno trasportato tonnellate e tonnellate di materiali tossici? Sono troppo giovane per finire in pappa.»

Pitt alzò le spalle e sorrise. «Dovrai stare attento a non toccare niente.»

Giordino scosse la testa, esasperato. «Hai pensato agli ostacoli?»

«Gli ostacoli sono fatti per essere superati», rispose solennemente Pitt.

«Come la recinzione elettrificata, le guardie con i dobermann, le macchine di ronda con cannoni automatici, i riflettori che illuminano quel posto come uno stadio?»

«Sì, adesso che me l’hai ricordato.»

«È molto strano», mormorò Giordino. «È molto strano che un inceneritore di rifiuti tossici sia sorvegliato come un arsenale di bombe atomiche.»

«Una ragione di più per andare a fare un’ispezione», disse Pitt con molta calma.

«Non cambierai idea e non tornerai a casa, vero?»

«Cercate e troverete.»

Giordino alzò le mani al cielo. «Sei più matto del vecchio cercatore che ha raccontato la storia assurda della corazzata della Confederazione con Abe Lincoln al timone, e sepolta nel deserto.»

«Abbiamo molte cose in comune», fece Pitt in tono noncurante. Si girò sul fianco e indicò una struttura quattro chilometri più a est, a poca distanza dal binario. «Vedi quel vecchio forte abbandonato?»

Giordino annuì. «C’è scritto sopra Beau Geste, Gary Cooper e Legione Straniera. Sì, lo vedo.»

«È da quello che prende il nome Fort Foureau», disse Pitt. «Non più di cento metri lo separano dalla ferrovia. Appena sarà buio lo useremo come copertura, in attesa di poter saltare a bordo di un treno in arrivo.»

«Ho già notato che passa troppo veloce perché sia possibile riuscirci, anche per un vagabondo professionista.»

«Prudenza e pazienza», esortò Pitt. «Le locomotive cominciano a rallentare poco prima di raggiungere il vecchio forte. Poi procedono a passo d’uomo quando arrivano a quella che sembra una stazione di controllo del servizio di sicurezza.»

Giordino studiò la stazione da cui il treno doveva passare prima di entrare nel complesso. «Scommetto qualunque cosa che un esercito di guardie controlla ogni vagone.»

«Non credo che siano troppo zelanti. Esaminare più di cento vagoni pieni di bidoni di rifiuti tossici non è esattamente il tipo di lavoro in cui un uomo sano di mente si butta corpo e anima. E poi, chi può essere tanto stupido da nascondersi in uno di quei carri?»

«L’unico che mi viene in mente sei tu», osservò Giordino in tono asciutto.

«Sono pronto ad ascoltare consigli più pratici per superare la recinzione elettrificata, i dobermann, i riflettori e le auto di ronda.»

Giordino stava per lanciargli uno sguardo esasperato quando si tese e girò la testa verso il cielo, in direzione del rombo di un elicottero che si stava avvicinando.

Anche Pitt alzò gli occhi. Veniva da sud e si dirigeva verso di loro. Non era un apparecchio militare, ma una bella, aerodinamica versione civile, facilmente riconoscibile per il nome «Massarde Entreprises» sulla fusoliera.

«Accidenti!» imprecò Giordino. Si voltò a guardare il mucchio di sabbia che avevano accumulato sulla Voisin. «Se si abbassa ancora un po’, scoprirà la macchina.»

«Solo se ci passerà sopra direttamente», disse Pitt. «Acquattati e non muoverti.»

Un occhio attento avrebbe potuto scorgerli, notare la duna dalla forma sospetta; ma il pilota teneva gli occhi fissi sull’eliporto accanto all’ufficio centrale del complesso e non abbassò lo sguardo verso la sabbia e le due figure appiattite contro la duna. L’unico passeggero dell’elicottero era occupato a studiare una relazione finanziaria e non guardava dal finestrino.

Passò proprio sopra di loro, virò leggermente e scese verso l’eliporto. Rimase librato per qualche secondo, poi si posò sul cemento. Qualche attimo più tardi il rotore si fermò, lo sportello si aprì e ne scese un uomo. Anche a cinquecento metri di distanza e senza binocolo, Pitt indovinò chi era colui che si avviava a passo deciso verso gli uffici.

«Credo che il nostro amico sia tornato a ossessionarci», commentò.

Giordino si riparò gli occhi con le mani e socchiuse le palpebre. «È troppo lontano per esserne sicuri, ma credo che abbia ragione tu. È un peccato che non abbia portato la pianista che era a bordo dell’houseboat.»

«Non riesci a togliertela dalla mente?»

Giordino guardò Pitt con aria offesa. «E perché dovrei?»

«Non sai neppure come si chiama.»

«L’amore vince tutto», rispose malinconicamente Giordino.

«Per il momento è meglio che tu vinca i tuoi pensieri. Riposeremo fino all’imbrunire. Poi dovremo prendere il treno.»


Avevano aggirato il pozzo descritto dal vecchio cercatore perché il letto prosciugato dell’Oued Zarit zigzagava in una direzione diversa. Le bibite analcoliche erano finite, e la scorta d’acqua era ridotta a due litri. Ma la spartirono e la bevvero tutta per evitare la disidratazione, confidando di trovare una sorgente nei pressi del complesso.

Fermarono la Voisin in una piccola gola, un chilometro a sud del forte abbandonato accanto alla ferrovia, poi si seppellirono nella sabbia sotto la macchina per ripararsi dal caldo. Giordino si addormentò subito; Pitt invece era troppo irrequieto.

La notte scende in fretta sul deserto e il crepuscolo è breve. C’era uno strano silenzio, e gli unici suoni erano i ticchettii del motore della Voisin che si stava raffreddando. L’aria secca si ripulì del caldo e della sabbia turbinante e mostrò la grande tempesta di stelle che brillavano in un cielo d’ossidiana. Erano così nitide che Pitt riusciva addirittura a distinguere le stelle rosse da quelle azzurre e verdi. Non aveva mai visto uno spettacolo come quello, neppure in mare aperto.

Coprirono la macchina per l’ultima volta e si avviarono a piedi verso il forte, cancellando le tracce con una fronda di palma. Passarono accanto al vecchio cimitero della Legione e aggirarono le mura alte dieci metri e infine giunsero alla porta principale. I giganteschi battenti di legno, solidi e sbiancati dal sole, erano socchiusi. Entrarono e si trovarono nella piazza d’armi buia e deserta.

Non ci voleva molto perché l’immaginazione suggerisse la presenza di una formazione fantasma di fanti, schierati sull’attenti nelle tuniche blu, i pantaloni bianchi e i chepì, prima di marciare sulle sabbie roventi per combattere contro un’orda di tuareg.

L’avamposto abbandonato era piuttosto piccolo, in confronto alla media dei forti della Legione Straniera. Le mura formavano un quadrato perfetto di trenta metri di lato, e alla base avevano uno spessore di tre metri mentre, alla sommità, i bastioni proteggevano i difensori. Non doveva aver ospitato mai più di cinquanta uomini.

L’interno presentava i tipici segni dell’abbandono. I pochi oggetti dimenticati dalle truppe e i rifiuti lasciati dai vagabondi del deserto che durante le tempeste di sabbia s’erano riparati nel forte erano sparsi nel cortile e nelle camerate. Contro uno dei muri erano ammucchiati i materiali avanzati agli operai durante la costruzione della ferrovia: traversine di cemento, attrezzi, bidoni di gasolio e un sollevatore a forche che sembrava in ottime condizioni.

«Ti piacerebbe essere di stanza in questo posto per un anno?» borbottò Giordino.

«Neppure per una settimana», rispose Pitt continuando a ispezionare il forte.

Il tempo si trascinava con tormentosa lentezza durante l’attesa. Era molto probabile che la sostanza chimica riconosciuta da Gunn quale causa dell’esplosione della marea rossa filtrasse dall’impianto di Fort Foureau. Dopo quanto era accaduto con Massarde, Pitt sapeva che se avessero bussato alla porta chiedendo gentilmente di ispezionare il complesso non sarebbero stati accolti a braccia aperte. Dovevano entrare di nascosto e scoprire prove inconfutabili.

A Fort Foureau stava succedendo qualcosa di molto più sinistro. In apparenza, l’impianto contribuiva alla lotta contro i milioni di tonnellate di rifiuti tossici che si producevano nel mondo. Ma dobbiamo guardare sotto la superficie, pensava Pitt, e vedremo quel che vedremo.

Stava calcolando che le probabilità di passare oltre la stazione del servizio di sicurezza e di uscirne vivi erano minime, quando captò un suono in lontananza. Giordino si svegliò di colpo e lo sentì a sua volta.

Si guardarono in silenzio e si alzarono.

«Un treno in arrivo», disse Giordino.

Pitt studiò le lancette luminose dell’orologio subacqueo. «Le undici e venti. Avremo tutto il tempo di effettuare l’ispezione e di uscire prima che faccia giorno.»

«Purché ci sia un treno in partenza», precisò Giordino.

«Finora sono passati puntualmente ogni tre ore. Come Mussolini, Massarde li fa arrivare in orario.» Pitt si scrollò di dosso la sabbia. «Andiamo. Non voglio restare su un binario vuoto.»

«A me non dispiacerebbe.»

«Stai giù», raccomandò Pitt. «Il deserto riflette la luce delle stelle, e tra il forte e la ferrovia il terreno è scoperto.»

«Volerò nella notte come un pipistrello», promise Giordino. «Ma se un cane con le zanne lunghe o una guardia con un’arma automatica avesse altre idee?»

«Avremo la prova che Fort Foureau non è altro che una facciata», disse con fermezza Pitt. «Uno di noi deve fuggire e mettere in guardia Sandecker, a costo di sacrificare l’altro.»

Giordino lo fissò con aria pensierosa e non disse nulla. Poi risuonò il fischio del primo locomotore diesel che annunciava l’arrivo alla stazione. Indicò il binario. «È meglio che ci sbrighiamo.»

Pitt annuì in silenzio Varcarono la porta del forte e corsero verso la ferrovia.

33.

Un camion Renault abbandonato stava a metà strada tra il forte e le rotaie. Era stato completamente spogliato di tutto ciò che poteva essere rimosso: gomme e ruote, motore, trasmissione e differenziale, persino il parabrezza e le portiere erano stati sottratti e usati come pezzi di ricambio o venduti come rottami dopo essere stati trasportati a Gao e Timbuctu a dorso di dromedario da un mercante intraprendente.

Per Pitt e Giordino, che stavano acquattati dietro il camion per non essere investiti dalla luce dei fari del locomotore, la desolazione di quell’oggetto usato dall’uomo e poi dimenticato era sconvolgente. Ma era la copertura ideale, mentre si avvicinava il lungo convoglio merci.

La luce rotante sopra il locomotore spazzava il deserto e illuminava ogni sasso, ogni filo d’erba per circa un chilometro. Rimasero acquattati fino a che i locomotori passarono oltre rombando, a una velocità di circa cinquanta chilometri l’ora. I macchinisti stavano frenando per entrare nella stazione. Pitt attese con pazienza mentre la velocità si riduceva. Quando gli ultimi vagoni fossero arrivati all’altezza del camion abbandonato, calcolò Pitt, avrebbero dovuto procedere a circa quindici chilometri: e allora avrebbero potuto correre e balzare a bordo.

Lasciarono il riparo del camion sventrato e sfrecciarono verso la banchina scrutando i carri merci a pianale che trasportavano enormi container. Ormai l’ultimo vagone era in vista: non era del solito tipo riservato al personale del convoglio, bensì un carro corazzato con mitragliatrici pesanti, che spuntavano dalle torrette, affidate alle guardie del servizio di sicurezza dell’azienda. Massarde non voleva correre rischi, pensò Pitt. Probabilmente erano mercenari professionisti, pagati più della media abituale.

Perché quelle precauzioni? Quasi tutti i governi giudicavano i rifiuti chimici vere e proprie seccature. Un sabotaggio o un incidente in mezzo al deserto sarebbe passato quasi inosservato per i media internazionali e per gli ambientalisti. Quindi… da chi li proteggevano? Certo non dai banditi e dai terroristi.

Se Pitt avesse analizzato il carattere di Yves Massarde, sarebbe probabilmente giunto alla conclusione che il magnate francese faceva il doppio gioco, e finanziava i ribelli maliani mentre forniva montagne di quattrini a Kazim.

«Puntiamo verso il penultimo container prima del vagone blindato», disse Pitt. «Salire sull’ultimo potrebbe essere rischioso, se una guardia zelante sta osservando.»

Giordino annuì. «Sono d’accordo. I vagoni vicini alle guardie non saranno perquisiti meticolosamente come gli altri più avanti.»

Si alzarono e cominciarono a correre lungo la banchina. Pitt aveva sbagliato nel giudicare. Il treno procedeva a una velocità quasi doppia a quella che potevano raggiungere. Ma non potevano pensare di fermarsi o di rinunciare. Se si fossero allontanati, le guardie li avrebbero avvistati sotto le luci dei riflettori del vagone blindato che ruotavano in semicerchio intorno alle ruote e brillavano sulle rotaie.

S’impegnarono con tutte le loro forze. Pitt era più alto e aveva le braccia più lunghe. Si aggrappò a un gradino, si sentì strattonare in avanti e, sfruttando lo slancio, balzò a bordo.

Giordino tese la mano ma per pochi centimetri non riuscì ad afferrare la scaletta posteriore del carro merci. La banchina era coperta di ghiaia, e correre era difficile. Girò la testa per guardarsi indietro. Gli era rimasta un’ultima speranza: salire sul vagone che precedeva immediatamente quello con le guardie. Era un grosso rischio, ma doveva correrlo.

La scaletta a grappe che andava dal carro a pianale fino alla sommità del container si stava avvicinando a una velocità che a Giordino sembrava supersonica. Abbassò lo sguardo sulle ruote d’acciaio che giravano sul binario, pericolosamente vicine. Era l’ultima occasione. Se avesse mancato la presa sarebbe caduto sotto le ruote, o sotto i colpi delle guardie. Nessuna delle due prospettive lo entusiasmava.

Strinse convulsamente un gradino della scaletta con entrambe le mani mentre gli sfrecciava accanto e fu sollevato di peso dal movimento del treno. Si tenne aggrappato disperatamente e agitò le gambe per poterle puntellare. Lasciò la presa con la mano sinistra e si afferrò a un altro gradino: poi lo strinse anche con la destra, riuscì a piegare le ginocchia, sollevò i piedi e li posò sul gradino più basso.

Pitt s’era soffermato qualche secondo per prendere fiato prima di arrampicarsi sul container. Soltanto quando si voltò vide che Giordino non era dove avrebbe dovuto essere… Non era salito sullo stesso vagone. Abbassò lo sguardo, vide la sagoma scura aggrappata al fianco del carro dietro il suo, scorse la chiazza bianca della faccia contratta del compagno.

Rimase ad assistere impotente, mentre Giordino restava aggrappato per lunghi secondi e il vagone sobbalzava e sussultava. Girò la testa e guardò più avanti. Il primo locomotore era a circa un chilometro dalla stazione. Poi un sesto senso gli suggerì di guardarsi indietro. E si sentì gelare.

Una guardia era in piedi su una piccola piattaforma che sporgeva dalla parte posteriore del vagone blindato. Teneva le mani sulla ringhiera e scrutava il deserto che scorreva sotto i suoi piedi. A Pitt sembrava assorto; forse pensava alla ragazza lontana. Ma sarebbe bastato che si girasse verso il treno perché Giordino fosse spacciato.

L’uomo si raddrizzò, si voltò e rientrò nel vagone.

Giordino non perse tempo; si arrampicò sulla scaletta e raggiunse la sommità del container, si sdraiò e rimase immobile, ansimando. L’aria era ancora calda, mescolata ai fumi dei motori diesel. Giordino si asciugò la fronte sudata e cercò Pitt con lo sguardo.

«Vieni qui!» gli gridò Pitt nel fragore del treno in marcia.

Giordino si mosse cautamente carponi e guardò le traversine di cemento che passavano sfrecciando sotto di lui. Attese un momento per chiamare a raccolta tutto il suo coraggio, poi si alzò, prese una breve rincorsa e balzò in avanti. Atterrò con i piedi sul container con mezzo metro di margine e si lasciò cadere a braccia distese. Ma quando si guardò intorno cercando una mano protesa per aiutarlo, non la trovò.

Pitt, fiducioso nelle doti atletiche dell’amico, stava studiando con calma un condizionatore installato nel container per impedire che i rifiuti chimici altamente combustibili prendessero fuoco durante la traversata del deserto a causa del caldo torrido. Era un modello appositamente creato per combattere le temperature altissime, e il compressore era azionato da un piccolo motore che scoppiettava sommessamente.

Mentre le luci della stazione si avvicinavano, Pitt tornò a riflettere su ciò che dovevano fare per non essere scoperti. Non gli sembrava probabile che le guardie percorressero il convoglio come gli agenti della polizia ferroviaria che, armati di manganelli, ispezionavano i depositi e i treni in caccia dei vagabondi che viaggiavano abusivamente sui treni merci fin dai tempi della depressione degli anni ’30. E gli uomini di Massarde non si sarebbero affidati ai cani. Era impossibile che un segugio dall’olfatto sensibile fiutasse la presenza di un uomo in mezzo agli odori intensi delle sostanze chimiche e dei fumi del gasolio.

Telecamere, pensò Pitt. Il treno passava in mezzo a una serie di telecamere, e all’interno della stazione le guardie controllavano i monitor. Era prevedibile che Yves Massarde ricorresse alla tecnologia moderna.

«Hai qualcosa per girare le viti?» chiese a Giordino senza perdere tempo in convenevoli.

«Mi stai chiedendo un cacciavite?» ribatté incredulo Giordino.

«Voglio togliere le viti da questo pannello del condizionatore.»

Giordino si frugò nelle tasche che erano semivuote dopo la perquisizione effettuata dagli uomini di Massarde a bordo dell’houseboat. Ma trovò due monete, una da dieci e una da cinque cent, e le porse a Pitt. «Sul momento non posso fornirti altro.»

Pitt passò le mani sul pannello del condizionatore e trovò le viti che lo trattenevano. Erano dieci, e per fortuna avevano la testa a intaglio e non a croce. Pitt non era affatto sicuro di riuscire a svitarle in tempo. Una delle due monete era troppo grande, ma l’altra andava alla perfezione. Cominciò a togliere febbrilmente le viti a tutta la velocità di cui era capace.

«Hai scelto un momento strano per riparare un condizionatore d’aria», disse incuriosito Giordino.

«Penso che le guardie si servano di telecamere per ispezionare il treno e scoprire gli eventuali passeggeri clandestini come noi. La nostra unica speranza di evitare che ci prendano è nasconderci dietro il pannello. È abbastanza grande per ripararci tutti e due.»

Il treno avanzava ormai a passo d’uomo, e metà dei vagoni con i container erano già entrati nel deposito del complesso, al di là della stazione. «È meglio che ti sbrighi», disse ansiosamente Giordino.

Il sudore grondava negli occhi di Pitt; scosse la testa per liberarsene mentre girava la moneta. Il vagone si avvicinava implacabilmente alle telecamere. Tre quarti del convoglio erano passati, e Pitt doveva ancora rimuovere tre viti.

Poi ne rimasero due, e infine una sola. Il vagone che li precedeva stava entrando nella stazione. In preda alla disperazione afferrò il pannello con entrambe le mani e lo strappò via assieme all’ultima vite.

«Presto, siedi con la schiena contro il condizionatore», ordinò a Giordino.

Si spinsero nel vano per quanto era possibile, a ridosso del condizionatore, e alzarono il pannello come uno scudo.

«Credi che riusciremo a imbrogliarli?» chiese Giordino in tono dubbioso.

«I monitor televisivi danno un’immagine bidimensionale. Finché puntano direttamente verso di noi, l’illusione reggerà.»

Il vagone entrò lentamente in un tunnel bianco con le telecamere piazzate in modo da inquadrare la parte inferiore, le fiancate e il tetto. Pitt stringeva il pannello con le punte delle dita, anziché agganciarle intorno ai bordi dove la guardia che osservava le immagini avrebbe potuto vederle. La copertura improvvisata non era un capolavoro di finezza, ma si poteva sperare che la guardia fosse annoiata dalla monotonia degli interminabili vagoni che scorrevano sugli schermi. Come se fosse costretta a guardare cento repliche dello stesso programma su dieci schermi diversi, la sua mente sarebbe piombata in uno stato di torpore e avrebbe incominciato a vagare.

Rimasero rannicchiati in attesa di sentire campanelli e sirene, ma l’allarme non suonò. Il vagone uscì sotto il cielo notturno e fu rimorchiato su un binario di raccordo, accanto a una lunga piattaforma di carico dove c’erano grandi gru che si muovevano su binali paralleli.

«Oh, santo cielo.» Giordino si asciugò di nuovo la fronte. «Non mi sorride per niente l’idea di rifare lo stesso scherzo al ritorno.»


Pitt sorrise, diede a Giordino una pacca sulla spalla e si girò verso la coda del treno. «Non lasciarti trascinare dall’entusiasmo. I nostri amici sono ancora con noi.»

Rimasero immobili sul tetto del container, tenendo stretto il pannello del condizionatore mentre il vagone blindato delle guardie veniva staccato e portato via da una piccola motrice elettrica. Anche i quattro locomotori diesel si sganciarono e si avviarono verso un binario morto dove una lunga fila di carri vuoti attendeva di venire trainata nuovamente fino al porto della Mauritania.

Per il momento, Pitt e Giordino, erano al sicuro. Rimasero dov’erano e attesero con calma che succedesse qualcosa. La piattaforma era illuminata da grandi lampade ad arco e sembrava deserta. Sul marciapiedi c’era una lunga fila di veicoli dall’aspetto strano che sembravano scarafaggi. Ognuno aveva quattro ruote prive di pneumatici, pianali per il carico e una piccola unità a forma di cassa che si protendeva anteriormente e conteneva i fari e una lente.

Pitt stava per fissare di nuovo il pannello del condizionatore quando notò un movimento in alto. Per fortuna scorse la telecamera montata su una trave prima che descrivesse un arco completo e li inquadrasse. Si guardò rapidamente intorno e ne vide altre quattro.

«Resta dove sei», ordinò a Giordino. «Hanno apparecchi telecomandati un po’ dappertutto.»

Tornarono a nascondersi dietro il pannello. Stavano ancora cercando di decidere la prossima mossa quando le luci delle gru si accesero e i motori elettrici incominciarono a ronzare. Nessuna aveva una cabina con un operatore: erano azionate tutte da un comando centrale situato in chissà quale punto del complesso. Le gru avanzarono lungo il treno e calarono aste metalliche orizzontali che scivolarono nelle fenditure sugli angoli superiori dei container. Poi, mentre risuonava un colpo di sirena, le gru sollevarono i grossi container dai carri ferroviari, li spostarono e li calarono su uno dei camion. Le sbarre furono rimosse e le gru passarono oltre.

Per qualche minuto i due amici rimasero dietro il pannello. Non si mossero quando la gru più vicina inserì le sbarre e sollevò il container che li nascondeva. Pitt era impressionato nel vedere che l’operazione procedeva alla perfezione senza bisogno di esseri umani. Quando il container fu sistemato sul camion, si sentì un ronzio e il veicolo incominciò a muoversi lungo la piattaforma e quindi a scendere una lunga rampa che portava a un pozzo a spirale.

«Chi è che guida?» mormorò Giordino.

«È un trasporto robotizzato», sussurrò Pitt di rimando. «Viene controllato da un centro di comando che si trova chissà dove.»

Si affrettarono a rimettere a posto il pannello e lo fissarono con un paio di viti. Raggiunsero strisciando lo spigolo anteriore del container e studiarono la scena circostante.

«Devo ammettere», disse Giordino a bassa voce, «di non aver mai visto tanta efficienza.»

Pitt doveva riconoscerlo: era uno spettacolo notevole. La rampa curva era un prodigio d’ingegneria e scendeva giù nelle viscere del deserto. Il trasporto e il suo carico avevano percorso più di cento metri, superando quattro livelli diversi che si addentravano nella terra.

Pitt studiò i grandi cartelli sopra le gallerie. Erano identificati da simboli, oltre che da scritte in francese. I livelli superiori erano destinati ai rifiuti biologici, gli inferiori a quelli chimici. Pitt incominciò a chiedersi cosa c’era nel container con cui stavano viaggiando.

Il mistero s’infittì. Perché mai un reattore che bruciava rifiuti doveva essere sepolto a simili profondità? Secondo ogni logica, avrebbe dovuto trovarsi in superficie, vicino ai concentratori d’energia solare.

Finalmente la rampa si appianò in una caverna immensa che sembrava estendersi all’infinito. Il soffitto era alto almeno quattro piani, e c’erano tunnel laterali scavati nella roccia che procedevano in ogni direzione, come i raggi d’una ruota. Pitt aveva l’impressione che una creazione della natura fosse stata ampliata in uno scavo enorme.

I suoi sensi erano tutti all’erta. Era sempre più sorpreso di non vedere esseri umani, manovali od operatori di macchine. Ogni movimento in quella che sembrava una sterminata grotta-magazzino era automatizzato. Il trasporto elettrico, come una formica, seguì quello che lo precedeva e svoltò in una delle gallerie laterali contrassegnate da un’insegna rossa con uno squarcio diagonale nero. Da un punto imprecisato, molto più avanti, giungevano suoni ed echi.

«Si vede che gli affari vanno bene», disse Giordino, indicando numerosi trasportatori che arrivavano dalla direzione opposta con i container aperti e completamente vuoti.

Dopo aver percorso quasi un chilometro il camion incominciò a rallentare e i rumori divennero più forti. Superò una svolta ed entrò in una grande camera, piena dal pavimento al soffitto di migliaia di container di cemento, tutti dipinti di giallo con contrassegni neri. Una macchina-robot scaricava i barili dei container appena arrivati e li ammonticchiava con un mare di altri che salivano verso il tetto della caverna.

Pitt strinse i denti in preda a uno shock crescente. All’improvviso si augurò di essere altrove, in qualunque altro luogo eccettuato quella specie di camera degli orrori.

I barili portavano il simbolo della radioattività. Lui e Giordino s’erano imbattuti nel segreto di Fort Foureau, una discarica sotterranea di rifiuti nucleari su scala inaudita, colossale.


Massarde diede una lunga occhiata al monitor e scosse la testa. Poi si rivolse al suo assistente, Félix Verenne.

«Quegli uomini sono incredibili», mormorò.

«Come hanno potuto superare lo sbarramento della sicurezza?» chiese pensosamente Verenne.

«Con lo stesso metodo con cui sono fuggiti dalla mia houseboat, hanno rubato la macchina del generale Kazim e hanno attraversato mezzo Sahara. Con l’astuzia e la tenacia.»

«Dobbiamo impedire che fuggano dal magazzino?» chiese Verenne. «Dobbiamo tenerli intrappolati lì dentro fino a quando le radiazioni non li uccideranno?»

Massarde rifletté per un momento, poi scosse la testa. «No, mandi quelli del servizio di sicurezza a prenderli. Li faccia ripulire a dovere per rimuovere la radioattività e li porti qui. Vorrei parlare di nuovo con il signor Pitt prima di toglierlo di mezzo.»

34.

Le guardie del servizio di sicurezza di Massarde li catturarono venti minuti più tardi, dopo che erano risaliti con un camion vuoto fino alla superficie. S’erano lanciati dal tetto dei container e s’erano rifugiati nell’interno vuoto. Una telecamera nascosta li aveva sorpresi mentre stavano per entrare.

La porta si spalancò pochi momenti prima che il container venisse caricato su un carro ferroviario. Non ebbero possibilità di opporre resistenza o di tentare la fuga: l’azione di sorpresa era ben coordinata.

Erano in dieci, contò Pitt: dieci uomini che li circondavano con minacciosa efficienza e puntavano i mitra conto i due disarmati all’interno del container. L’amarezza pungente del fallimento lo trafiggeva come una lama, e sentiva sulla lingua la bile della sconfitta. Farsi intrappolare e catturare una volta da Massarde era un errore di calcolo. Cascarci due volte era da stupidi. Osservava le guardie senza paura: provava soltanto collera, e imprecava contro se stesso perché non era stato più prudente.

Non c’era altro da fare che attendere e sperare di non finire giustiziati prima di avere una nuova possibilità di fuggire. Pitt e Giordino alzarono lentamente le mani e le intrecciarono dietro la testa.

«Spero che perdonerete il disturbo», disse Pitt con calma. «Stavamo cercando il bagno.»

«Non vorrete che ci capiti un incidente», soggiunse Giordino.

«Ancora voi due!» esclamò un ufficiale del servizio di sicurezza che sfoggiava un’uniforme perfettamente stirata e il berretto rosso a visiera dei militari francesi. Parlava inglese in tono freddo e aspro, quasi senza accento. «Mi è stato detto che siete pericolosi. Dimenticate ogni speranza di fuggire. I miei uomini non sono addestrati a ferire i prigionieri che oppongono resistenza.»

«Perché tante storie?» chiese Giordino con aria innocente. «Vi comportate come se avessimo rubato un bidone di diossina usata.»

L’ufficiale non gli badò. «Chi siete?»

Pitt lo fissò. «Io sono Rocky e questo è il mio amico…»

«Bullwinkle», concluse Giordino.

Un sorriso tirato spuntò sulle labbra dell’ufficiale. «Senza dubbio sono nomi più appropriati di Dirk Pitt e Al Giordino.»

«Se lo sapeva già, perché ce l’ha chiesto?» disse Pitt.

«Il signor Massarde vi stava aspettando.»

«L’ultimo posto dove prevedevamo di andare è il cuore del deserto», disse Giordino, parafrasando la frase che Pitt gli aveva detto a Bourem. «Ma abbiamo sbagliato, eh?»

Pitt alzò le spalle. «Io avevo letto un copione diverso.»

«Come avete superato lo sbarramento del nostro servizio di sicurezza?» chiese l’ufficiale.

«Abbiamo preso il treno», rispose Pitt con disinvoltura.

«Le porte dei container vengono chiuse con una combinazione, dopo il carico. Non è possibile che vi siate entrati mentre il treno era in movimento.»

«Dovrebbe dire a chi sorveglia le vostre telecamere di studiare i condizionatori d’aria sul tetto. È molto semplice togliere un pannello e usarlo come scudo.»

«Davvero?» Il capitano Brunone sembrava molto interessato. «Ingegnoso. Farò in modo che il vostro metodo d’entrata venga aggiunto al manuale delle nostre precauzioni.»

«Sono molto lusingato.» Pitt sorrise.

L’ufficiale socchiuse le palpebre. «Non lo sarà per molto tempo, le assicuro.» S’interruppe e parlò in una radio portatile. «Signor Massarde?»

«Sono qui.» La voce di Massarde gracchiò attraverso l’altoparlante.

«Qui è il capitano Charles Brunone, signore, il capo del servizio di sicurezza.»

«Pitt e Giordino?»

«Sono in mano mia.»

«Hanno opposto resistenza?»

«No, signore. Si sono arresi senza far storie.»

«La prego di portarli nel mio ufficio, capitano.»

«Sì, signore. Appena li avremo decontaminati.»

Pitt si rivolse a Brunone: «Servirebbe a qualcosa se ci scusassimo?»

«Sembra che gli americani non rinuncino mai a fare gli spiritosi», commentò freddamente Brunone. «Potreste scusarvi con il signor Massarde ma, dato che avete distrutto il suo elicottero, se fossi in voi non mi aspetterei pietà.»

Yves Massarde non sorrideva spesso e tuttavia, quando Pitt e Giordino vennero introdotti nell’ufficio, si appoggiò alla spalliera della lussuosa poltroncina di pelle, posò i gomiti sui braccioli, intrecciò le dita sotto il mento e sorrise soddisfatto come un imprenditore di pompe funebri dopo un’epidemia di febbre tifoide. Félix Verenne era in piedi accanto a una finestra affacciata sul complesso. Gli occhi erano inespressivi come le lenti di una macchina fotografica, la faccia era cupa, la bocca contratta in una smorfia di disprezzo, in netto contrasto con l’atteggiamento del suo superiore.

«Ottimo lavoro, capitano Brunone», dichiarò Massarde. «Li ha presi indenni.» Squadrò con aria pensierosa i due uomini che gli stavano avanti e indossavano tute immacolate. Notò le facce abbronzate e le eccellenti condizioni fisiche, le espressioni noncuranti, e ricordò di aver notato la stessa indifferenza a bordo della sua houseboat. «Dunque hanno collaborato.»

«Come ragazzini richiamati in classe», disse Brunone. «Hanno fatto quel che gli è stato ordinato.»

«Molto saggio da parte loro», mormorò Massarde in tono d’approvazione. Scostò la poltroncina, girò intorno alla scrivania e si fermò di fronte a Pitt. «Complimenti per la traversata del deserto. Il generale Kazim pensava che non sareste durati due giorni. È stata un’impresa considerevole, arrivare fin qui in un territorio ostile e così in fretta.»

«Il generale Kazim è l’ultimo uomo sul quale farei conto per una predizione», rispose pacatamente Pitt.

«Avete rubato il mio elicottero e l’avete fatto precipitare nel fiume, signor Pitt. Vi costerà caro.»

«Visto che ci aveva trattati male a bordo della sua houseboat, l’abbiamo ricambiata.»

«E la vecchia, preziosa automobile del generale Kazim?»

«Il motore non andava più, e allora l’abbiamo bruciata», mentì Pitt.

«Sembra che abbiate l’abitudine di distruggere le proprietà altrui.»

«Quand’ero piccolo rompevo tutti i miei giocattoli», disse Pitt con disinvoltura. «Mio padre diventava matto.»

«Io posso sempre acquistare un altro elicottero, ma il generale Kazim non potrà rimpiazzare l’Avions Voisin. Godetevi quel po’ di tempo che vi rimane prima che i suoi sadici aiutanti incomincino a lavorare su di voi nelle camere di tortura.»

«Per fortuna sono masochista», commentò Giordino con aria imperturbabile.

Per un secondo Massarde sembrò divertito, poi assunse un’espressione incuriosita. «Che cosa avete pensato ci fosse di tanto interessante da spingervi ad attraversare mezzo Sahara per arrivare a Fort Foureau?»

«Avevamo tanto apprezzato la sua compagnia a bordo dell’houseboat che abbiamo pensato di farle una visitina…»

Massarde scattò fulmineamente e tirò un rabbioso manrovescio a Pitt. L’anello in cui era incastonato un grosso diamante gli graffiò la guancia destra. Pitt girò la testa per il colpo, ma tenne i piedi piantati saldamente sul tappeto. «Mi sta sfidando a duello?» chiese con un sogghigno teso.

«No, significa che la farò calare lentamente in un bidone d’acido nitrico fino a quando non parlerà.»

Pitt scrutò Giordino, guardò di nuovo Massarde e scrollò le spalle. «E va bene, Massarde. C’è una falla.»

Massarde aggrottò la fronte. «Si spieghi.»

«I rifiuti tossici, le sostanze chimiche che lei dovrebbe bruciare, filtrano nell’acqua sotterranea che scorre sotto l’antico letto di un fiume e inquinano tutti i pozzi da qui al Niger. Poi finiscono nell’Atlantico, dove causano un disastro ecologico che annienterà la fauna marina. E questo sarà soltanto l’inizio. Abbiamo risalito il letto del vecchio fiume e abbiamo scoperto che un tempo passava proprio ai piedi di Fort Foureau.»

«Siamo a quasi quattrocento chilometri dal Niger», obiettò Verenne. «È impossibile che l’acqua scorra per una simile distanza sotto la superficie del deserto.»

«Come fa a saperlo?» chiese Pitt. «Fort Foureau è l’unico complesso del Mali che riceva rifiuti chimici e biologici. La sostanza che causa il grave danno può venire solo da qui. È l’unica fonte possibile. Ormai non ho più dubbi, perché so che nascondete i rifiuti anziché bruciarli.»

Una smorfia irritata apparve sulla bocca di Massarde. «Non è esatto, signor Pitt. Noi bruciamo i rifiuti, a Fort Foureau. Ne bruciamo una quantità considerevole. Venga, glielo mostrerò.»

Il capitano Brunone si scostò e accennò a Pitt e Giordino di seguire Massarde.

Attraversarono un corridoio ed entrarono in una stanza dove c’era un modello tridimensionale del complesso di Fort Foureau. Era perfetto, con particolari così meticolosi che sembrava di vedere l’originale da un elicottero.

«È una riproduzione fedele, oppure un’opera di fantasia?» chiese Pitt.

«È esatto in ogni minima parte», gli assicurò Massarde.

«E lei ha intenzione di farci un resoconto pratico del funzionamento.»

«Un resoconto che porterete con voi nella tomba», disse Massarde in tono di rimprovero. Prese una bacchetta d’avorio e indicò un vasto campo sul lato sud del complesso, coperto da enormi moduli piatti inclinati verso il sole. «Siamo autosufficienti in quanto a energia», esordì. «Produciamo elettricità con questo sistema fotovoltaico a griglia di pannelli solari piatti di silicio policristallino, che copre quattro chilometri quadrati. Sa cos’è un sistema fotovoltaico?»

«So che sta diventando rapidamente la fonte d’energia più economica del mondo», rispose Pitt. «A quanto mi risulta è una tecnologia che converte direttamente l’energia solare in energia elettrica.»

«Appunto», annuì Massarde. «Quando la luce del sole, chiamata dagli scienziati energia fotonica solare, colpisce la superficie di queste cellule, dopo un viaggio di centocinquanta milioni di chilometri nel cosmo, produce un flusso di elettricità sufficiente per far funzionare un complesso anche tre volte più grande di questo, se volessimo espanderci.» S’interruppe e indicò una struttura accanto ai moduli. «Questa costruzione ospita i generatori alimentati dall’energia convertita dal campo modulare, nonché il sottosistema di batterie dove l’energia viene immagazzinata per essere usata di notte o nei giorni in cui non splende il sole, piuttosto rari in questa parte del Sahara.»

«Molto efficiente», disse Pitt. «Una centrale elettrica veramente all’avanguardia. Ma i concentratori solari non funzionano con lo stesso grado di efficienza?»

Massarde lo guardò con aria pensierosa e si chiese perché sembrava saperne più di lui. Indicò un campo accanto alle cellule solari: lì c’erano i collettori solari parabolici che Pitt aveva osservato il giorno prima.

«Infatti», rispose in tono gelido. «La mia tecnologia eliotermica per la distruzione dei rifiuti tossici è il programma più avanzato che esista. Il campo dei superconcentratori fornisce concentrazioni d’energia solare superiori, rispetto alla luce normale, di ottantamila soli. L’energia fotonica viene poi convogliata nel primo di due reattori al quarzo.» Massarde s’interruppe per indicare un edificio in miniatura. «Il primo riduce i rifiuti tossici a sostanze chimiche innocue a una temperatura di 950 gradi centigradi. Il secondo reattore, a una temperatura di circa 1200 gradi, incenerisce ogni residuo, per microscopico che sia. La distruzione di ogni sostanza chimica nota all’uomo è totale e completa.»

Pitt lo guardò con un rispetto misto a dubbio. «Mi sembra molto funzionale. Ma se questo impianto è un prodigio della moderna tecnologia, perché nascondete sottoterra milioni di tonnellate di rifiuti?»

«Pochissimi sanno quanto siano numerose le sostanze chimiche diffuse in tutto il mondo. Esistono più di sette milioni di composti artificiali conosciuti. E ogni settimana i chimici ne creano altri diecimila. Con il ritmo attuale, ogni anno si accumulano nel mondo due miliardi di tonnellate di rifiuti. Trecento milioni soltanto negli Stati Uniti, il doppio in Europa e in Russia. Più del doppio, poi, se calcola l’America del Sud, l’Africa, il Giappone e la Cina. Una parte è bruciata negli inceneritori; la quantità maggiore viene buttata in discariche illegali o nell’acqua. Non può finire da nessuna parte. Qui nel Sahara, lontano dalle città affollate e dai terreni coltivati, ho creato un posto sicuro dove le industrie internazionali possono spedire i loro rifiuti tossici. Al momento Fort Foureau può distruggere più di quattrocento milioni di tonnellate di rifiuti tossici ogni anno. Ma non posso distruggerli tutti, fino a quando i miei complessi eliotermici di smaltimento dei rifiuti tossici nel deserto del Gobi e in Australia non saranno stati ultimati e non saranno in grado di distruggere i rifiuti della Cina e delle nazioni dell’Estremo Oriente. E, se le interessa, ho un complesso che fra due settimane entrerà in funzione negli Stati Uniti.»

«Ammirevole. Ma questo non giustifica il fatto che seppellisce ciò che non può distruggere e si fa pagare comunque.»

Massarde annuì. «È questione di costi, signor Pitt. Nascondere i rifiuti tossici costa meno che distruggerli.»

«E segue la stessa logica anche per le scorie nucleari», ribatté Pitt in tono d’accusa.

«I rifiuti sono rifiuti. Per quanto riguarda gli esseri umani, l’unica differenza fondamentale fra nucleare e tossico sta nel fatto che uno uccide con la radioattività, l’altro con il veleno.»

«Quindi tanto vale buttarli da una parte e non pensarci più. E al diavolo le conseguenze.»

Massarde scrollò le spalle con indifferenza. «Devono pur finire in qualche posto. Il mio Paese ha il più grande programma nucleare del mondo dopo quello degli Stati Uniti, considerando il numero dei reattori in funzione per la produzione di elettricità. Due depositi di scorie radioattive sono già in attività: uno a Soulaines, l’altro a La Manche. Purtroppo nessuno dei due è stato progettato per quelle scorie nucleari dotate di un periodo di dimezzamento di ventiquattromila anni. Ci sono altri nuclidi radioattivi che hanno periodi cento volte più lunghi. Nessun sistema di contenimento può durare più di dieci o vent’anni. Come ha scoperto nella ispezione abusiva nel nostro magazzino, qui riceviamo e smaltiamo i rifiuti ad alto livello.»

«Allora, nonostante il suo bel discorso sul modo di eliminare i rifiuti pericolosi, il progetto di eliminazione dei rifiuti tossici è una facciata.»

Massarde sorrise a denti stretti. «In un certo senso, sì. Ma come ho spiegato, ne distruggiamo una grande quantità.»

«Per salvare le apparenze», disse Pitt con voce gelida. «Devo riconoscere che è stato abile, Massarde, a costruire questo finto complesso senza che i servizi segreti internazionali se ne siano accorti. Com’è riuscito a imbrogliare i satelliti-spia mentre scavava le grotte-magazzini?»

«È stato semplice», rispose Massarde in tono arrogante. «Dopo la costruzione della ferrovia per portare gli operai e il materiale, gli scavi sono iniziati sotto il primo edificio. La terra è stata rimossa di nascosto e caricata nei container vuoti che tornavano in Mauritania, dove è stata usata per la realizzazione del porto, un’operazione che, devo aggiungere, è molto redditizia.»

«Davvero furbo. Si fa pagare per i rifiuti che arrivano e per la sabbia e le pietre che partono.»

«Non mi accontento mai di un vantaggio minimo», commentò filosoficamente Massarde.

«Nessuno sa nulla e nessuno si lamenta», disse Pitt. «Nessun organo per la protezione dell’ambiente minaccia di farla chiudere, nessuno protesta perché inquina i corsi d’acqua sotterranei. Nessuno mette in discussione i suoi metodi, soprattutto le aziende che producono i rifiuti e che sono ben contente di pagare per sbarazzarsene.»

Verenne fissò Pitt con il suo sguardo inespressivo. «Ci sono ben pochi santi che mettono in pratica quel che predicano, quando si tratta di salvare l’ambiente», disse. «Tutti sono colpevoli, signor Pitt. Tutti coloro che godono dei benefici delle sostanze chimiche, dalla benzina alla plastica, dai prodotti per la purificazione dell’acqua ai conservanti per gli alimenti. In questo caso, la giuria è segretamente d’accordo con il colpevole. Nessun uomo, nessuna organizzazione possono controllare e distruggere il mostro. È un Frankenstein che si autoriproduce ed è troppo tardi per ucciderlo.»

«Quindi voi peggiorate la situazione sfruttandolo in nome del profitto. Invece di una soluzione, avete creato una truffa.»

«Una truffa?»

«Sì, evitando la spesa per costruire contenitori a lunga durata per i rifiuti e scavare depositi sotterranei alla profondità di diversi chilometri, in formazioni rocciose geologicamente stabili al di sotto delle falde acquifere.» Pitt si girò verso Massarde. «Lei non è altro che un appaltatore disonesto che fa pagare prezzi esorbitanti e costruisce edifici scadenti e pericolosi per le vite umane.»

Massarde arrossì. Ma era un maestro, quando si trattava di dominare la collera. «La minaccia di un’infiltrazione dei rifiuti che fra cinquanta o cento anni potrebbe uccidere qualche nomade del deserto non è molto importante.»

«Per lei è facile dirlo», esclamò Pitt con un’espressione di disprezzo. «Ma l’infiltrazione è in atto oggi, e i nomadi del deserto stanno morendo già in questo momento. E non dimentichiamo che ciò che ha perpetrato qui potrebbe influire su tutti gli esseri viventi della terra.»

L’allusione al pericolo di annientare gli abitanti del mondo non fece la minima impressione su Massarde, tuttavia l’accenno ai nomadi fece scattare qualcosa nella mente del francese. «Allora collabora con il dottor Frank Hopper e il team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità?»

«No, Giordino e io operiamo per conto nostro.»

«Ma sapete cosa stanno facendo.»

Pitt annuì. «Conosco la specialista di biochimica, se questo può farla contento.»

«La dottoressa Eva Rojas», disse Massarde lentamente, per osservare la reazione del suo interlocutore.

Pitt si accorse della trappola, ma non aveva nulla da perdere e quindi non esitò. «Ha indovinato.»

Massarde non aveva fatto certamente fortuna vincendo alla lotteria. Era un maestro dell’intrigo e dell’inganno, ma la sua dote maggiore era l’intuito. «Allora posso indovinare un’altra cosa. È stato lei a salvarla dai sicari del generale Kazim nei pressi del Cairo.»

«Mi trovavo nei dintorni, sicuro. Ha sbagliato mestiere, Massarde. Doveva fare il chiaroveggente.»

L’interesse per il confronto insolito stava scemando, per Massarde. Non era abituato a sentirsi trattare in quel modo. Per un uomo che controllava un immenso impero finanziario, perdere tempo con due intrusi sgraditi era un fastidio da scaricare sui subordinati.

Fece un cenno a Verenne. «Il colloquio è finito. Provveda perché il generale Kazim prenda in custodia questi due uomini.»

La faccia impassibile di Verenne si chiuse in un sogghigno degno d’un pitone. «Con piacere.»

Il capitano Brunone non era della stessa stoffa di Massarde e Verenne. Era legato alle tradizioni militari francesi e, sebbene avesse dato le dimissioni per una paga triplicata, conservava un certo senso dell’onore. «Mi scusi, signor Massarde, ma io non consegnerei neppure un cane idrofobo al generale Kazim. Questi uomini si sono introdotti qui illegalmente, ma non per questo meritano di essere torturati a morte da barbari ignoranti.»

Massarde rifletté per un momento. «Giusto, giusto», concluse in tono stranamente arrendevole. «Non possiamo abbassarci al livello del generale e dei suoi macellai.» Un lampo gli passò negli occhi mentre guardava Pitt e Giordino. «Li faccia portare nelle miniere d’oro di Tebezza. Lui e la dottoressa Rojas potranno farsi compagnia mentre scavano.»

«E Kazim?» chiese Verenne. «Gli dispiacerà non poter far pagare a questi due la distruzione della sua macchina.»

«Non ha importanza», concluse Massarde con assoluta indifferenza. «Quando scoprirà dove sono finiti, saranno già morti.»

35.

Nella Sala Ovale, il presidente guardò Sandecker che stava davanti alla scrivania. «Perché non sono stato informato prima?»

«Mi era stato detto che si trattava di una questione non prioritaria e che quindi non valeva la pena di scombinare l’agenda dei suoi appuntamenti.»

Il presidente girò lo sguardo verso il capo dello staff della Casa Bianca, Earl Willover. «È vero?»

Willover, un uomo sulla cinquantina occhialuto e quasi calvo ma con un paio di vistosi baffi rossi, si agitò sulla sedia, si tese in avanti e guardò Sandecker con aria truce. «Ho fatto studiare la teoria della marea rossa alla nostra commissione scientifica nazionale. Non hanno ritenuto che fosse una minaccia su scala mondiale.»

«Allora come spiegano l’incredibile estensione che si sta sviluppando nell’Atlantico centrale?»

Willover rimase impassibile. «Gli specialisti più stimati pensano che l’espansione sia temporanea e che presto la marea comincerà a dissiparsi come è sempre avvenuto in passato.»

Willover dirigeva il settore esecutivo con lo stesso spirito di Orazio che difendeva il ponte Sublicio contro l’intero esercito etrusco. Erano pochi quelli che riuscivano ad arrivare alla Sala Ovale, e pochissimi sfuggivano alle ire di Willover se si permettevano di trattenersi troppo a lungo o se avevano l’audacia di dichiararsi in disaccordo con il presidente e di discutere le sue scelte. Naturalmente quasi tutti i membri del Congresso lo detestavano dal profondo del cuore.

Il presidente guardò le foto dell’Atlantico riprese dal satellite e sparse sulla scrivania. «Mi sembra evidente che sia un fenomeno da non ignorare.»

«Lasciata a se stessa, in condizioni normali la marea rossa si disperderebbe», spiegò Sandecker. «Ma sulla costa dell’Africa occidentale viene nutrita da un aminoacido sintetico e dal cobalto che ne stimolano la crescita in proporzioni incredibili.»

Il presidente, che era un ex senatore del Montana, aveva l’aria di trovarsi più a suo agio in sella che dietro la scrivania. Era alto e magro, e parlava con voce un po’ strascicata e aveva due fulgidi occhi azzurri. Ogni volta che riusciva a scappare da Washington si rifugiava nel suo ranch, situato poco lontano dal campo di battaglia di Custer, sul fiume Yellowstone. «Se il guaio è serio come lei dice, è in pericolo il mondo intero.»

«È addirittura probabile che abbiamo sottovalutato il rischio», incalzò Sandecker. «I nostri esperti hanno ricalcolato il ritmo dell’espansione. Se non arrestiamo questa marea rossa, tutte le forme viventi della terra si estingueranno per la mancanza di ossigeno nell’atmosfera entro la fine del prossimo anno o anche prima. Entro la primavera, gli oceani moriranno.»

«È ridicolo», sbuffò Willover. «Mi scusi, ammiraglio, ma lei sta raccontando che il cielo ci cade sulla testa.»

Sandecker gli lanciò un’occhiata folgorante.

«Non è una favola, e il pericolo è reale. Non stiamo parlando dei rischi potenziali del buco nell’ozono e dei casi di cancro della pelle che potrebbero verificarsi fra due secoli, o di un sovvertimento geologico, di un’epidemia sconosciuta, di una catastrofe nucleare seguita dalla tenebra, di una meteora che piomba sul nostro pianeta. Se non la si arresta in fretta, la marea rossa succhierà l’ossigeno dell’atmosfera e causerà la fine di tutti gli esseri viventi.»

«È un quadro molto tetro, signore», disse il presidente. «Mi è quasi impossibile immaginarlo.»

«Mi consenta di esprimermi così, signor presidente. Se lei sarà rieletto, molto probabilmente non sarà vivo al termine del mandato. E non avrà un successore perché non resterà nessuno che potrà votarlo.»

Willover era incredulo. «Andiamo, ammiraglio, perché non si avvolge in un lenzuolo e non va in giro con un cartello per annunciare che il mondo finirà a mezzanotte? È un’esagerazione pensare che assisteremo all’estinzione totale dell’umanità entro un anno a causa della riproduzione frenetica di organismi microscopici.»

«I fatti parlano da soli», obiettò pazientemente Sandecker.

«I tempi da lei indicati non sono altro che mosse tattiche per incutere paura», disse Willover. «Anche se avesse ragione, i nostri scienziati avrebbero tutto il tempo per inventare una soluzione.»

«Non abbiamo tempo. Mi permetta di darle un esempio in parole povere. Immagini che la marea rossa possa raddoppiare in estensione ogni settimana. Se lasciamo che si diffonda indisturbata, in cento settimane coprirà ogni chilometro quadrato degli oceani. Se le cose andranno come sono sempre andate, i governi del mondo decideranno di accantonare il problema fino a quando gli oceani saranno invasi per metà. Allora istituiranno un programma urgente per eliminare la marea rossa. Ed ecco una domanda per lei, signor presidente, e anche per lei, signor Willover: in quale settimana gli oceani saranno coperti dalla marea, e quanto tempo resterà per scongiurare il disastro?»

Il presidente scambiò un’occhiata confusa con Willover. «Non ne ho idea.»

«Neppure io», disse Willover.

«La risposta è questa: gli oceani saranno coperti per metà fra novantanove settimane, e allora resterà una sola settimana per agire.»

Il presidente prese atto della tremenda possibilità con rinnovato rispetto. «Credo di capire, ammiraglio.»

«La marea rossa non dà segno di estinguersi», continuò Sandecker. «Ora ne conosciamo la causa, ed è un passo nella direzione giusta. La prossima mossa consiste nello stroncare la contaminazione alla fonte, e quindi cercare un altro composto che arresti la crescita o almeno la ostacoli.»

«Mi scusi, signor presidente, ma dobbiamo chiudere questo colloquio. Lei deve partecipare al pranzo con i leader della maggioranza e della minoranza del Senato.»

«Li lasci aspettare», sbottò irritato il presidente. «Sappiamo da dove viene quella robaccia, ammiraglio?»

Sandecker scosse la testa. «Non ancora. Ma sospettiamo che arrivi attraverso un fiume sotterraneo, affluente del Niger, e che provenga dall’impianto francese di eliminazione dei rifiuti tossici nel Sahara.»

«Come possiamo averne la certezza?»

«In questo momento il mio direttore dei Progetti Speciali e il suo braccio destro si trovano all’interno di Fort Foureau.»

«È in contatto con loro?»

Sandecker esitò. «No, non esattamente.»

«Allora come sa tutte queste cose?» insistette Willover.

«Le foto trasmesse dai satelliti li hanno identificati mentre penetravano nel complesso a bordo di un treno carico di materiale tossico.»

«Il direttore dei Progetti Speciali sarebbe Dirk Pitt?» chiese il presidente.

«Sì, e con lui c’è Al Giordino.»

Il presidente guardò nel vuoto per un momento e sorrise. «È stato Pitt a salvarci dal pericolo della bomba nucleare di Kaiten.»

«Appunto.»

«Per caso è stato lui a distruggere metà Marina del Benin sul fiume Niger?» chiese Willover.

«Sì, ma la colpa è mia», disse Sandecker. «Siccome i miei avvertimenti restavano inascoltati e non riuscivo a ottenere la collaborazione del suo staff e del Pentagono, ho mandato Pitt e due dei migliori uomini della NUMA sul Niger a scoprire la provenienza della sostanza inquinante.»

«Ha ordinato un’operazione non autorizzata in un Paese straniero?» esplose Willover.

«E ho anche convinto Hala Kamil a prestarmi una squadra tattica dell’ONU che è andata nel Mali e ha portato fuori del Paese il mio vice e i dati da lui scoperti.»

«Poteva mettere in pericolo la nostra politica africana!»

«Non sapevo che ne aveste una», ribatté Sandecker con un lampo di animosità negli occhi.

«Ha oltrepassato i limiti della sua competenza, ammiraglio. E questo può avere gravi conseguenze per la sua carriera.»

Sandecker non era il tipo da tirarsi indietro. «Io ho doveri precisi verso Dio, il mio Paese e il mio presidente, Willover. Lei e la mia carriera vengono all’ottantaseiesimo posto in ordine d’importanza.»

«Signori, signori!» intervenne il presidente. Il suo cipiglio era solo apparente: in realtà, si divertiva ad assistere agli scontri verbali tra i suoi collaboratori. «Non voglio altri attriti fra voi. Sono convinto che ci troviamo di fronte a un rischio gravissimo ed è meglio che collaboriamo per trovare una soluzione.»

Willover sospirò, esasperato. «Naturalmente seguirò le sue istruzioni.»

«Purché non sia più costretto a urlare per farmi sentire», puntualizzò Sandecker, «e possa ottenere l’appoggio necessario per fermare il disastro, non le causerò problemi.»

«Cosa ci consiglia di fare?» chiese il presidente.

«I miei scienziati stanno già lavorando senza sosta per trovare una sostanza chimica capace di neutralizzare o di sterminare la marea rossa senza sconvolgere l’equilibrio dell’ecologia marina. Se Pitt proverà che la contaminazione ha effettivamente origine a Fort Foureau, toccherà a lei, signor presidente, usare i mezzi in suo potere per chiudere l’impianto.»

Vi fu un momento di silenzio. Poi Willover disse: «Nonostante le prospettive tremende, sempre ammettendo che l’ammiraglio abbia ragione, non sarà semplice chiudere unilateralmente un’installazione da molti milioni di dollari di proprietà francese e in uno Stato come il Mali».

«Dovremo dare molte spiegazioni», ammise il presidente, «se io ordinassi alla forze aeree di radere al suolo il complesso.»

«È meglio essere cauti, signor presidente», consigliò Willover. «Non vedo altro che sabbie mobili, in questa faccenda, per la sua amministrazione.»

Il presidente si rivolse a Sandecker. «E gli scienziati degli altri Paesi? Sono al corrente del problema?»

«Non lo conoscono in tutta la sua estensione», rispose l’ammiraglio. «Almeno per ora.»

«Che cosa vi ha messi sulla pista giusta?»

«Appena dodici giorni fa uno dei nostri esperti di correnti oceaniche ha notato l’area abnorme della marea rossa nelle foto scattate dal SeaSat e ha cominciato a calcolarne la crescita. È rimasto sbalordito dalla rapidità incredibile con cui si moltiplicava e me l’ha segnalata. Dopo un attento studio ho deciso di non dare la notizia al pubblico fino a quando avremo riportato sotto controllo la situazione.»

«Non aveva il diritto di arrogarsi questa responsabilità», scattò Willover.

Sandecker alzò le spalle. «Gli ambienti ufficiali di Washington non hanno ascoltato i miei avvertimenti. Non mi restava altro che agire di mia iniziativa.»

«Quali misure propone per un’azione immediata?» chiese il presidente.

«Per il momento possiamo far poco, se non continuare a raccogliere dati. Hala Kamil, il segretario generale dell’ONU, ha acconsentito a indire una conferenza dei massimi oceanografi del mondo nel Palazzo di Vetro. Mi ha invitato perché io illustri la situazione e istituisca un comitato internazionale di scienziati marini che coordinino gli sforzi e mettano in comune i dati alla ricerca della soluzione.»

«Le do carta bianca, ammiraglio. La prego di aggiornarmi sui nuovi sviluppi, a qualunque ora del giorno e della notte.» Poi il presidente si rivolse a Willover. «Avverta Doug Oates del Dipartimento di Stato e il mio Ente per la Sicurezza Nazionale. Se il responsabile è Fort Foureau e se le nazioni interessate non faranno nulla, dovremo intervenire e cancellarlo noi stessi dalla faccia della terra.»

Willover si alzò. «Signor presidente, consiglio di dar prova della massima prudenza. Sono convinto che questo inquinamento marino, o comunque lo si voglia chiamare, finirà per esaurirsi, come pensano gli scienziati per me più attendibili.»

«Io mi fido del parere dell’ammiraglio Sandecker», affermò il presidente fissando Willover. «Sono a Washington da molti anni, e non l’ho mai sentito lanciare allarmi a vuoto.»

«La ringrazio, signor presidente», disse Sandecker. «C’è un’altra cosa che richiede la nostra attenzione.»

«Sì?»

«Come ho detto, Pitt e il suo braccio destro, Al Giordino, sono entrati a Fort Foureau. Se venissero catturati dai maliani o dai servizi di sicurezza francesi, sarebbe indispensabile portarli in salvo per essere informati su quanto hanno scoperto.»

«La prego, signor presidente», insistette Willover. «Potrebbero esserci ripercussioni politiche molto sgradevoli se mandassimo le forze speciali o una squadra Delta nel deserto in una missione di salvataggio, e se fallisse e i mass media ne venissero a conoscenza…»

Il presidente annuì pensosamente. «In questo sono d’accordo con Earl. Mi rincresce, ammiraglio, ma per salvare i suoi dovrà trovare un’altra soluzione.»

«Ha detto che una squadra dell’ONU ha portato in salvo il suo vice che aveva raccolto i dati sulla contaminazione del fiume Niger?» chiese Willover.

«Hala Kamil ci è stata molto utile. Ha ordinato alla squadra tattica delle Nazioni Unite di compiere la missione.»

«Allora dovrà chiederle un secondo intervento, se Pitt e Giordino saranno catturati.»

«Lo sa Dio», intervenne il presidente, «come mi metterebbero in croce se mandassi una squadra di americani a riempire il deserto di cadaveri francesi.»

L’espressione di Sandecker rispecchiava una profonda delusione. «Non credo di poterla convincere a mandare la squadra nel deserto per la seconda volta.»

«Presenterò io stesso la richiesta», promise il presidente.

Willover intervenne bruscamente. «Non può averle tutte vinte, ammiraglio.»

Sandecker sospirò. Non era riuscito a chiarire a quell’uomo le conseguenze orribili del dilagare della marea rossa. La sua missione diventava sempre più angosciosa e frustrante con il passare delle ore. Si alzò e squadrò il presidente e Willover. La sua voce assunse un tono gelido.

«Preparatevi al peggio, allora, perché se non riusciremo a fermare la marea rossa prima che raggiunga l’Atlantico settentrionale e si diffonda nel Pacifico e nell’oceano Indiano, la nostra estinzione diventerà inevitabile.»

Poi girò sui tacchi e uscì senza aggiungere altro.


Nel suo ufficio, Tom Greenwald stava ingrandendo con il computer le immagini ricevute da un satellite-spia Pyramider. Per mezzo dei comandi a terra aveva modificato leggermente l’orbita in modo che passasse sopra la sezione del Sahara dove aveva riconosciuto la macchina e le figure di Pitt e Giordino nelle foto del GeoSat. Nessuno dei suoi superiori gli aveva dato il permesso, ma, dato che poteva riportare il satellite sopra l’Ucraina dilaniata dalla guerra civile in un paio di passaggi, nessuno avrebbe saputo nulla. Comunque i combattimenti s’erano ridotti a poche imboscate dei ribelli e solo il vicepresidente mostrava interesse per quelle immagini. L’Ente per la Sicurezza Nazionale aveva altro cui pensare, per esempio l’aumento del numero delle armi nucleari segrete del Giappone.

Greenwald agiva contrariamente agli ordini per pura curiosità. Voleva esaminare immagini più nitide dei due uomini che aveva scoperto mentre salivano sul treno per entrare nel complesso. Con l’aiuto del Pyramider ora poteva effettuare un’identificazione certa. E la sua analisi rivelava una tragica inversione degli avvenimenti.

Le immagini dei due uomini condotti sotto scorta a un elicottero erano sorprendenti. Greenwald poteva confrontarle con le foto che Chip Webster gli aveva passato e che provenivano dagli archivi della NUMA. Quelle scattate dallo spazio mostravano chiaramente la cattura di Pitt e Giordino.

Lasciò il monitor, andò alla scrivania e prese il telefono. Dopo due squilli, Chip Webster rispose dal suo ufficio alla NUMA.

«Pronto.»

«Chip? Sono Tom Greenwald.»

«Hai qualche novità per me, Tom?»

«Pessime notizie. I tuoi sono stati catturati.»

«Non era quello che volevo sentire», disse Webster. «Accidenti!»

«Ho qui le immagini chiarissime che li mostrano mentre vengono caricati in catene a bordo di un elicottero. Sono circondati da una dozzina di guardie armate.»

«Hai accertato la direzione presa dall’elicottero?» domandò Webster.

«Il mio satellite è passato oltre un minuto dopo il decollo. Secondo me, puntava verso nord-est.»

«All’interno del deserto?»

«A quanto pare», rispose Greenwald. «Può darsi che il pilota abbia descritto un ampio arco e sia andato in una direzione diversa, ma non ho modo di saperlo.»

«L’ammiraglio Sandecker non sarà molto felice.»

«Continuerò a cercare», promise Greenwald. «Se scoprirò qualcosa di nuovo ti chiamerò immediatamente.»

«Grazie, Tom. Ti devo un grosso favore.»

Greenwald riattaccò e fissò l’immagine sul monitor. «Poveri diavoli», mormorò. «Non vorrei essere al loro posto.»

36.

Il comitato di benvenuto di Tebezza non si scomodò. Evidentemente Pitt e Giordino non erano considerati degni di essere ricevuti dai dignitari locali. Due tuareg armati di fucili automatici li accolsero mentre un terzo fissava i ceppi di ferro intorno ai loro polsi e alle loro caviglie. Le catene erano così logore da dare l’impressione di essere state usate molte volte.

Pitt e Giordino furono caricati su un camioncino Renault. Uno dei tuareg guidava mentre gli altri due erano saliti dietro e, con i fucili appoggiati sulle cosce, sorvegliavano i prigionieri con gli occhi che spuntavano dai copricapo color indaco.

Pitt li degnò appena della sua attenzione mentre il camion si allontanava dal campo d’atterraggio. L’elicottero che li aveva portati da Fort Foureau si sollevò subito nell’aria rovente per iniziare il volo di ritorno. Pitt stava già valutando le possibilità di fuga e studiava il paesaggio circostante. Non c’erano recinzioni né posti di guardia che spiccassero sulla sabbia. Non erano necessari: infatti, era impensabile che qualcuno tentasse di attraversare ammanettato quattrocento chilometri di deserto. La fuga appariva impossibile: ma Pitt accantonò ogni idea di rassegnazione. Le prospettive di evasione erano poche, ma non inesistenti.

Era un deserto allo stato puro, e non vi cresceva nulla. Le basse dune marrone, simili a verruche, si estendevano a perdita d’occhio, separate da piccoli avvallamenti di sabbia bianca e brillante. Verso ovest un plateau roccioso si ergeva sopra il fondo del deserto. Era una zona infida, e tuttavia aveva una sua bellezza indescrivibile. A Pitt ricordava lo scenario di un vecchio film, Il giardino di Allah.

Mentre stava seduto con la schiena appoggiata alla fiancata del camioncino, inclinò la testa per guardare avanti. La strada (ammesso che la si potesse considerare tale) non era altro che una pista tracciata dai pneumatici e puntava verso il plateau. Non c’erano edifici in vista, né macchinari o veicoli. Non c’era traccia di scorie di minerali. Pitt cominciò a chiedersi se le attività minerarie di Tebezza fossero un mito.

Dopo venti minuti il camioncino rallentò e s’infilò in una stretta gola che penetrava nel plateau. La sabbia era così soffice che prigionieri e guardie dovettero scendere per spingere il veicolo sul terreno più solido. Dopo circa un chilometro, il guidatore svoltò in una grotta abbastanza ampia per lasciar passare il camion. Poi entrarono in una lunga galleria scavata nella roccia.

L’autista frenò davanti a un tunnel illuminato a giorno, e le guardie balzarono a terra. Pitt e Giordino obbedirono ai cenni fatti con le canne dei fucili e scesero goffamente dal camion. Le guardie indicarono di avviarsi nel tunnel e i due obbedirono di nuovo, lieti di ritrovarsi al riparo dal sole, in una fresca atmosfera sotterranea.

La galleria divenne un corridoio con le pareti inclinate e il pavimento rivestito di piastrelle. Passarono davanti a una serie di archi nella roccia, chiusi da antiche porte scolpite. Le guardie si fermarono davanti a due battenti in fondo al corridoio, li aprirono e li spinsero verso l’interno. Per entrambi fu una sorpresa trovarsi su una moquette blu, in un ufficio lussuoso quanto quelli d’un dirigente di una grande società a New York, sulla Quinta Strada. Le pareti erano dipinte di celeste in armonia con la moquette e ornate di sensazionali fotografie di aurore e tramonti del deserto. L’illuminazione era fornita da alte lampade cromate con i paralumi grigi.

Al centro troneggiava una scrivania d’acacia e, lì accanto, c’erano un divano e poltrone in pelle grigia. Negli angoli in fondo, come se sorvegliassero l’ingresso del sancta sanctorum, stavano due statue bronzee raffiguranti un uomo e una donna tuareg in pose fiere. L’aria era fresca, ma non umida, e Pitt sentiva un leggero profumo di fiori d’arancio.

Dietro la scrivania era seduta una donna piuttosto bella, con gli occhi grigiovioletti e lunghi capelli neri che ricadevano dietro la spalliera. I lineamenti del viso erano mediterranei, anche se Pitt non riusciva a identificarne con esattezza l’origine. Alzò gli occhi e studiò per un momento i due con indifferenza, come se stesse classificando due commessi viaggiatori. Poi si alzò, rivelando una figura a clessidra avvolta in un indumento drappeggiato come un sari indiano, aprì la porta fra le statue e indicò ai due di entrare.

Era una grande stanza con il soffitto a cupola e le quattro pareti occupate da librerie incassate nella roccia. L’intero ambiente era una sorta di gigantesca scultura ottenuta, evidentemente, nel medesimo tempo in cui era stata scavata la stanza. Un’enorme scrivania a ferro di cavallo sorgeva dal pavimento come se ne facesse parte, ed era coperta da diagrammi e fogli. Di fronte c’erano due lunghe panchine di pietra separate da un tavolino scolpito. A parte i libri e gli oggetti sulla scrivania, la sola cosa che non fosse di roccia era il modello in legno di una galleria di miniera puntellata da travi che spiccava in un angolo della strana stanza.

Nell’angolo in fondo c’era un uomo altissimo, assorto nella lettura di un libro preso da uno scaffale. Indossava la veste violacea dei nomadi, e un litham bianco gli copriva la testa. Sotto la veste spuntava incongruamente un paio di stivali da cowboy in pelle di serpente. Pitt e Giordino attesero per qualche istante, prima che l’uomo si voltasse e prendesse atto della loro presenza con un’occhiata. Poi tornò a guardare il libro come se i visitatori se ne fossero andati.

«Proprio un bel posto», esclamò Giordino con una voce alta che echeggiava fra le pareti di pietra. «Dev’essere costato parecchio.»

«Ci vorrebbe qualche finestra», commentò Pitt mentre osservava le librerie. Poi alzò lo sguardo. «E un lucernario a vetri colorati potrebbe ravvivarlo un po’.»

O’Bannion ripose il libro fra due volumi e li squadrò incuriosito. «Bisognerebbe scavare centoventi metri di roccia per raggiungere la superficie e la luce del sole. Non varrebbe la spesa. Ho progetti più pratici per i miei operai.»

«Non vorrà dire schiavi, per caso?» chiese Pitt.

O’Bannion alzò le spalle. «Operai, schiavi, prigionieri, a Tebezza sono la stessa cosa.» Lasciò lo scaffale e si avvicinò.

Pitt non s’era mai trovato tanto vicino a qualcuno che fosse di quasi due teste più alto di lui. Doveva inclinarsi all’indietro per guardarlo negli occhi.

«E noi siamo l’ultima aggiunta al suo esercito di schiavi.»

«Come senza dubbio vi avrà informato il signor Massarde, scavare nelle miniere è meglio che essere torturati dagli aguzzini del generale Kazim. Dovreste essere contenti.»

«Immagino che non ci sia speranza di ottenere la libertà sulla parola, signor…»

«Mi chiamo Selig O’Bannion, e dirigo la miniera. No, niente libertà sulla parola. Quando si scende nelle gallerie, non se ne esce più.»

«Neppure per essere sepolti?» chiese tranquillamente Giordino.

«Abbiamo una cripta sotterranea per quelli che soccombono», rispose O’Bannion.

«È un assassino come Kazim», disse Pitt. «Forse addirittura peggio di lui.»

«Ho letto delle sue imprese subacque, signor Pitt», riprese O’Bannion senza raccogliere l’insulto. «Sarà molto piacevole avere a che fare con qualcuno il cui intelletto è al livello del mio. I suoi rapporti sulle miniere marine mi sono sembrati molto interessanti. Dovrà cenare con me, ogni tanto, e parlarmi delle sue attività tecniche sottomarine.»

Il viso di Pitt divenne gelido. «Privilegi subito dopo la cattura? No, grazie, preferirei mangiare con un dromedario.»

O’Bannion incurvò le labbra verso il basso. «Come vuole, signor Pitt. Forse cambierà idea dopo aver lavorato per qualche giorno agli ordini di Melika.»

«Chi?»

«La mia sovrintendente. È eccezionalmente crudele. Voi due siete in buone condizioni fisiche. Immagino che, quando vi rivedremo, vi avrà trasformato in due vermi tremanti.»

«Una donna?» chiese incuriosito Giordino.

«Diversa da tutte le donne che potrete incontrare.»

Pitt non disse nulla. Tutto il mondo conosceva le famigerate miniere di sale del Sahara: erano diventate una specie di topos. Ma una miniera d’oro virtualmente sconosciuta in cui lavoravano gli schiavi era una novità. Senza dubbio il generale Kazim intascava una grossa fetta di profitti; ma doveva trattarsi di un’altra iniziativa di Yves Massarde. Il complesso «quasi-solare» per lo smaltimento dei rifiuti tossici, la miniera d’oro, e chissà che altro. Era un grosso gioco, un gioco che si estendeva in tutte le direzioni come i tentacoli di una piovra, un gioco internazionale che parlava non soltanto di denaro, ma anche di un potere incalcolabile.

O’Bannion si accostò alla scrivania e premette un pulsante. La porta si aprì; le due guardie entrarono e si piazzarono alle spalle dei prigionieri. Giordino lanciò un’occhiata a Pitt in attesa di un segnale, un cenno o un movimento degli occhi che lo invitasse a un attacco coordinato contro le guardie. Giordino avrebbe caricato senza esitare come un rinoceronte infuriato se Pitt gli avesse dato il via. Ma Pitt stava immobile e rigido come se il peso delle catene ai polsi e alle caviglie avesse ottenebrato il suo istinto di sopravvivenza. Doveva soprattutto concentrarsi per far arrivare nelle mani di Sandecker il segreto di Fort Foureau… o morire nel tentativo.

«Mi piacerebbe sapere per chi lavoro», disse Pitt.

«Non lo sa?» chiese O’Bannion in tono asciutto.

«Massarde e il suo amico Kazim?»

«Due su tre. Niente male.»

«Chi è il terzo?»

«Io, naturalmente», l’informò O’Bannion. «È un accordo molto soddisfacente. La Massarde Entreprises fornisce l’equipaggiamento e provvede a vendere l’oro, Kazim manda la manodopera e io dirigo l’estrazione del minerale, il che è giusto, dato che sono stato io a scoprire il filone d’oro.»

«Che percentuale spetta al popolo del Mali?»

«Niente», rispose impassibile O’Bannion. «Cosa se ne farebbe una nazione di mendicanti di una simile ricchezza? La sperpererebbe, oppure si farebbe tosare da astuti uomini d’affari stranieri che conoscono ogni trucco per approfittare dei popoli miserabili. No, signor Pitt, è meglio che i poveri restino poveri.»

«Li ha informati della sua filosofia?»

O’Bannion aveva un’espressione tediata. «Il mondo sarebbe noioso se tutti fossero ricchi.»

Pitt non desistette. «Quanti uomini muoiono qui in un anno?»

«Dipende. A volte duecento, a volte trecento, secondo le malattie e gli incidenti. Per la verità, non tengo il conto.»

«Mi sorprende che gli operai non scioperino», commentò Giordino.

«Se non lavorano, non mangiano.» O’Bannion alzò le spalle. «E di solito Melika li fa sgobbare togliendo a frustate la pelle ai caporioni.»

«Con il piccone e il badile io sono un disastro», chiarì Giordino.

«Diventerà un esperto in fretta. Altrimenti, se causerà fastidi, sarà trasferito alla sezione estrazione.» O’Bannion s’interruppe e guardò l’orologio. «Avete ancora tempo per fare un turno di quindici ore.»

«Non mangiamo da ieri», protestò Pitt.

«Non mangerete neppure oggi.» O’Bannion fece un cenno alle guardie e si voltò di nuovo verso gli scaffali. «Portateli via.»

Le guardie li spinsero. A parte la segretaria e due uomini che portavano tute nocciola ed elmetti con le lampade da minatori, e parlavano francese mentre esaminavano un frammento di minerale con una lente d’ingrandimento, non videro nessuno fino a quando non arrivarono a un ascensore con il pavimento di moquette e le pareti cromate. Le porte si aprirono e l’addetto, un tuareg, accennò loro di entrare. Poi le porte si richiusero e il ronzio dei macchinari riverberò nel pozzo durante la discesa.

L’ascensore scendeva in fretta ma sembrava non arrivare mai a destinazione. Passavano fra caverne nere, con le aperture circolari che segnavano l’ingresso delle gallerie superiori. Pitt calcolò che erano scesi per più di un chilometro quando l’ascensore cominciò a rallentare e, finalmente, si fermò. L’operatore aprì la porta e rivelò uno stretto pozzo orizzontale che si addentrava nella roccia. Le due guardie li scortarono a una massiccia porta di ferro; una prese da sotto la veste un portachiavi, scelse una chiave e la girò. Pitt e Giordino furono spinti contro la porta, e il loro peso la fece aprire. C’era un pozzo molto più ampio, con un binario sul pavimento. Le guardie chiusero la porta e li lasciarono soli.

Istintivamente, Giordino controllò la porta. Era spessa almeno cinque centimetri e all’interno non c’era una maniglia, ma solo la toppa di una serratura. «Di qui non potremo uscire se non ruberemo una chiave.»

«Il personale non può usarla», disse Pitt. «È riservata a O’Bannion e ai suoi amici.»

«Allora dovremo trovare un’altra strada. È evidente che portano via il minerale attraverso un altro pozzo verticale.»

Pitt fissò la porta con aria pensierosa. «No, non posso accettarlo. O l’ascensore per i dirigenti, o niente.»

Prima che Giordino potesse replicare, dal fondo del pozzo giunsero il ronzio di un motore elettrico e lo sferragliare delle ruote sui binari. Una piccola motrice che trainava un lungo convoglio di carrelli vuoti si avvicinò e si fermò. Una negra scese dal sedile di guida e fronteggiò i due uomini.

Pitt non aveva mai visto una donna come quella, quasi più larga che lunga. Era, pensò, la femmina più brutta che avesse mai incontrato; sarebbe stata adatta come ornamento per un doccione d’una cattedrale medievale. Una pesante cinghia di cuoio le spuntava dalla mano come se fosse un’escrescenza naturale. Si avvicinò a Pitt.

«Io sono Melika, sovrintendente delle miniere. Esigo obbedienza indiscussa. Hai capito?»

Pitt sorrise. «È un’esperienza nuova, prendere ordini da qualcuno che sembra un rospo con problemi di obesità.»

Vide la cinghia saettare nell’aria, ma era troppo tardi per schivarla. Il colpo arrivò alla faccia, e Pitt vide le stelle mentre indietreggiava barcollando contro una trave. L’impatto fu così forte che per poco non lo fece svenire.

«Sembra che oggi tutti ce l’abbiamo con me», disse Pitt a denti stretti.

«Una piccola lezione di disciplina», sibilò Melika. Poi, con un movimento fulmineo, incredibile per una donna così massiccia, fece vibrare la cinghia verso la testa di Giordino. Ma non fu abbastanza svelta. Diversamente da Pitt, Giordino sapeva che cosa aspettarsi. Le afferrò il polso in una stretta ferrea e bloccò la cinghia a mezz’aria. Le due braccia tremarono mentre i muscoli esercitavano tutta la loro forza nello scontro.

Melika aveva la potenza di un bue. Non aveva mai immaginato che un uomo riuscisse a bloccarla. Negli occhi sgranati apparve un’espressione di sorpresa, poi di incredulità e infine di collera. Con l’altra mano Giordino le strappò la cinghia, come se togliesse un bastoncino a un cane ringhiante, e la gettò su un carrello.

«Lurido delinquente», sibilò ancora Melika. «La pagherai.»

Giordino sporse le labbra e le mandò un bacio. «I rapporti amore-odio sono sempre i più belli.»

Quella bravata gli costò cara. Non notò il guizzo degli occhi della donna, il piede che si sollevava da terra mentre il ginocchio si piegava e lo colpiva all’inguine. Lui lasciò la presa, cadde in ginocchio e si rovesciò sul fianco contorcendosi in silenzio.

Melika sfoggiò un sorriso satanico. «Voi due stupidi vi siete condannati a un inferno che neppure immaginate.» Non perse altro tempo. Riprese la cinghia e indicò un carrello vuoto. «Dentro.»

Cinque minuti più tardi il convoglio si fermò ed entrò a marcia indietro in un pozzo. Le lampade appese alle travi si perdevano nelle ombre. Sembrava una galleria aperta da poco. C’erano voci d’uomini che echeggiavano nonostante il rumore del convoglio. Un attimo dopo la luce delle lampade dei loro caschi apparve oltre una curva. Erano sorvegliati da guardie tuareg armate di fruste e fucili, e cantilenavano con voci rauche e stanche. Erano tutti africani, alcuni delle tribù del Sud, altri del deserto. Gli zombie dei vecchi film dell’orrore, al confronto, erano in condizioni migliori di quei poveracci. Si muovevano lentamente e trascinavano i piedi. Quasi tutti indossavano soltanto calzoncini laceri, e il sudore scorreva sui loro corpi velati dalla polvere di roccia. L’espressione vitrea degli occhi e le costole che spiccavano vistosamente tradivano una dieta da fame. Tutti erano sfregiati dalle frustate, e molti avevano perso qualche dito; alcuni portavano bende sudicie intorno ai moncherini. La cantilena si perse quando la luce delle lampade svanì oltre la curva.

Il binario finiva davanti a un mucchio di rocce fatto esplodere dalla squadra che avevano incontrato nel pozzo. Melika sganciò la motrice. «Fuori!» ordinò.

Pitt aiutò Giordino a uscire dal carrello e lo sostenne mentre fissavano ferocemente la donna.

Le labbra enormi di Melika si atteggiarono in un sogghigno velenoso. «Presto sarete ridotti anche voi come quella feccia.»

«Dovreste distribuire vitamine e guanti d’acciaio», disse Giordino mentre si raddrizzava, con la faccia sbiancata dalla sofferenza.

Melika alzò la cinghia e lo colpì al petto. Giordino non trasalì, non batté ciglio. Non erano ancora abbastanza intimoriti, pensò la donna. Era solo questione di giorni, e poi li avrebbe ridotti alla condizione di animali. «La squadra addetta alle esplosioni ha spesso incidenti», disse in tono sbrigativo. «È normale perdere qualche arto.»

«Ricordami di non offrirmi volontario», mormorò Pitt.

«Caricate la roccia nei carrelli. Quando avrete finito, potrete mangiare e dormire. Una guardia farà il giro a intervalli irregolari: se vi sorprenderà a dormire, farete turni in più.»

Pitt esitò. Aveva una domanda sulla punta della lingua. Ma tacque. Era il momento di starsene quieti. Lui e Giordino fissarono le tonnellate di minerale ammucchiato in fondo al pozzo, poi si scambiarono un’occhiata. Era un lavoro impossibile: due uomini ammanettati non avrebbero potuto portarlo a termine in meno di quarantotto ore.

Melika salì sulla motrice elettrica e indicò la telecamera montata su una trave. «Non sprecate tempo pensando di fuggire. Sarete sorvegliati di continuo. Solo due uomini ce l’hanno fatta a evadere dalle miniere. I nomadi hanno trovato le loro ossa.»

Sghignazzò come una strega e si allontanò. La seguirono con lo sguardo fino a quando sparì e i suoni si smorzarono. Poi Giordino alzò le mani e le lasciò ricadere lungo i fianchi. «Credo che ci abbiano fregati», borbottò mentre contava tristemente trentacinque carrelli vuoti.

Pitt sollevò la catena che andava dalla mano alla caviglia e si avviò zoppicando verso una catasta di travi che dovevano servire a puntellare la galleria via via che veniva scavata. Misurò a passi una trave e fece altrettanto con un carrello. Poi annuì.

«Dovremmo finire in sei ore.»

Giordino gli lanciò un’occhiata acida. «Se lo credi davvero, è meglio che ti iscriva a un corso di fisica elementare.»

«C’è un trucchetto che ho imparato quando raccoglievo i lamponi, un’estate, mentre studiavo alle superiori», disse laconicamente Pitt.

«Spero che basti a ingannare la telecamera», gemette Giordino.

Pitt sorrise subdolamente. «Aspetta e vedrai.»

37.

Le guardie arrivavano a intervalli irregolari come aveva promesso Melika. Si fermavano raramente più di un minuto per assicurarsi che i due prigionieri stessero caricando febbrilmente i carrelli, come se cercassero di stabilire un primato. Dopo sei ore e mezzo tutti i trentacinque carrelli erano pieni di minerale.

Giordino si sistemò a sedere con la schiena contro una trave. «Ci siamo dimenticati di discutere l’entità della nostra paga…» ironizzò.

«Comunque non credo che questo lavoro offra prospettive di carriera», concluse Pitt.

«Dunque è così che raccoglievi i lamponi.»

Pitt gli sedette accanto e sorrise. «Durante un viaggio per gli Stati Uniti, un’estate, assieme a un compagno di scuola, mi fermai in una fattoria dell’Oregon che aveva messo un’inserzione per cercare raccoglitori di lamponi. Pensammo che potevamo guadagnare facilmente i soldi per la benzina e ci presentammo. Pagavano cinque cent per ogni cassetta che, se non ricordo male, conteneva otto cestelli. Ma non sapevamo che i lamponi sono molto più piccoli e molli delle fragole. Anche se li coglievamo in fretta, ci voleva un’eternità per riempire una cassetta.»

«Perciò riempivate il fondo con la terra e sopra mettevate uno strato di lamponi.»

Pitt rise. «Ma anche così, in media guadagnavamo soltanto trentasei cent all’ora.»

«Cosa pensi che succederà quando la vecchia strega si accorgerà che abbiamo messo le travi come falso fondo nei carrelli e abbiamo aggiunto pochi pezzi di minerale per far sembrare che fossero pieni?»

«Non sarà molto felice.»

«È stata una bella idea, gettare una manciata di polvere sulla lente della telecamera per confondere le nostre immagini. Le guardie non l’hanno notato.»

«Almeno con questo imbroglio abbiamo guadagnato un po’ di tempo senza dar fondo alle nostre riserve.»

«Ho tanta sete che berrei la polvere.»

«Se non ci danno acqua al più presto, non saremo in condizioni di tentare la fuga.»

Giordino guardò le sue catene e poi il binario. «Chissà se possiamo spezzarle posandole sulle rotaie e passandoci sopra un carrello.»

«Ci avevo pensato cinque ore fa», disse Pitt. «Le catene sono troppo spesse. Per spezzare gli anelli ci vorrebbe un locomotore diesel dell’Union Pacific.»

«Non mi piacciono i guastafeste», borbottò Giordino.

Pitt raccolse un pezzo di minerale e lo studiò sotto le lampade. «Non sono un geologo, ma direi che questo è quarzo aurifero. A giudicare dai granelli e dalle scaglie presenti nella roccia» proviene da una vena piuttosto ricca.»

«E Massarde deve investire la sua parte per espandere ancora il sordido impero che fa capo a lui.»

Pitt scosse la testa. «No, non credo che lo espanderebbe con il rischio d’incorrere in guai fiscali. Scommetto che non lo converte in contanti e che nasconde i lingotti in qualche posto. Dato che è francese, propendo per una delle Iles de la Société.»

«Tahiti?»

«Oppure Bora Bora o Moorea. Soltanto Massarde e il suo luogotenente Verenne lo sapranno con certezza.»

«Forse quando usciremo di qui potremo cominciare una caccia al tesoro nei mari del Sud…»

All’improvviso Pitt si sollevò a sedere e si portò l’indice alle labbra. «Sta arrivando un’altra guardia», annunciò.

Giordino tese l’orecchio e scrutò il pozzo. Ma la guardia non si vedeva ancora. «Hai fatto bene a spargere la ghiaia al di là della curva. Così sentiamo lo scricchiolio dei passi prima che compaiano.»

«Diamoci da fare.»

Balzarono in piedi e finsero di ammucchiare altro minerale su quello che già riempiva i carrelli. Un tuareg apparve e rimase a osservarli per un minuto. Mentre stava per andarsene e continuare la ronda, Pitt gridò:

«Ehi, amico, abbiamo finito. Visto? Li abbiamo caricati tutti. È ora di smontare.»

«Mangiare e bere», intervenne Giordino.

Gli occhi della guardia girarono da Pitt alla fila dei carrelli. Si avviò insospettito lungo il convoglio da un’estremità all’altra e tornò indietro. Guardò il mucchio di minerale che restava in fondo al pozzo e si grattò la testa attraverso il litham. Poi alzò le spalle e, con l’arma automatica, indicò a Pitt e Giordino d’incamminarsi verso l’entrata del pozzo.

«Qui non si chiacchiera né tanto né poco», borbottò Giordino.

«Così è più difficile corromperli.»

Quando furono nel tunnel principale seguirono il binario a scartamento ridotto per un lungo pendio scavato nelle viscere del plateau. Un convoglio guidato da una guardia apparve rombando, e dovettero accostarsi con la schiena alla parete per lasciarlo transitare. Poco più oltre incontrarono una caverna dove i binari che provenivano da altri pozzi laterali convergevano verso un grande montacarichi che poteva contenere quattro carrelli per volta.

«Dove portano il minerale?» chiese Giordino.

«Credo che vada a uno dei livelli superiori, dove viene ridotto in polvere. Lì recuperano l’oro e lo raffinano.»

Le guardie li condussero a una massiccia porta di ferro montata su cardini altrettanto massicci che doveva pesare circa mezza tonnellata. Era stata installata per tener rinchiusi ben altro che semplici polli. Oltre la porta attendevano altri due tuareg che usarono tutta la forza dei loro muscoli per aprire, quindi indicarono a Pitt e Giordino di entrare. Uno dei due porse loro un paio di sudicie tazze di latta semipiene d’acqua salmastra.

Pitt fissò la propria, poi guardò il tuareg. «Che fantasia! Cocktail di acqua e vomito di pipistrello.»

La guardia non comprese le parole ma non faticò a interpretare l’espressione di Pitt. Riprese la tazza, buttò l’acqua per terra e spinse Pitt nella camera con un calcio.

«Così impari a guardare in bocca a caval donato», disse Giordino con un gran sorriso, e rovesciò anche la sua tazza.

La nuova residenza era larga dieci metri e lunga trenta, illuminata da quattro minuscole lampadine. Lungo le due pareti più lunghe c’erano letti a castello a quattro file. La segreta non aveva apparecchi di ventilazione e il letto era in condizioni indicibili. Gli unici impianti igienici erano diverse buche scavate lungo la parete di fondo, e al centro c’erano due lunghi tavoli con rudimentali panche di legno. Pitt calcolò che dovevano esserci più di trecento esseri umani affollati in quello spazio puzzolente.

Le persone che giacevano sulle brande più vicine sembravano in stato comatoso. Le facce erano inespressive. Venti uomini stavano raccolti intorno al tavolo e si servivano delle mani per pescare il cibo da una pentola comune come vermi affamati. Nessuno appariva spaventato o preoccupato: ormai non erano più in grado di avere o mostrare emozioni normali. Erano smagriti e stravolti dalla mancanza di cibo e dallo sfinimento. Si muovevano meccanicamente come cadaveri viventi, e i loro occhi erano offuscati dalla sconfitta e dalla sottomissione. Nessuno di loro degnò di un’occhiata Pitt e Giordino mentre avanzavano in mezzo a quel mare di miseria umana.

«Non è esattamente un’atmosfera da luna park», borbottò Giordino.

«Da queste parti i princìpi umanitari non contano molto», disse Pitt in tono disgustato. «È peggio di quanto avessi immaginato.»

«Molto peggio», riconobbe Giordino mentre si copriva il naso con una mano nel tentativo vano di proteggersi dal fetore. «Il Buco Nero di Calcutta non ha niente da invidiare a questa tana.»

«Ti va di mangiare?»

Giordino rabbrividì e guardò gli avanzi della sbobba che incrostava la pentola. «Il mio appetito ha presentato istanza di fallimento.»

L’aria quasi irrespirabile e l’assenza di ventilazione facevano aumentare il caldo e l’umidità irradiati dai corpi ammassati e li portavano a livelli insopportabili. Ma all’improvviso Pitt si sentì agghiacciare come se avesse messo piede su un iceberg. Per un momento la baldanza e la collera l’abbandonarono, l’orrore e la sofferenza si dissolsero nel riconoscere una figura china su una cuccetta contro la parete destra della grotta. Accorse e s’inginocchiò accanto a una donna che assisteva una bimba ammalata.

«Eva», chiamò dolcemente.

La donna era sfinita per la fatica e la denutrizione, aveva il viso pallidissimo e pieno di lividi, ma si voltò a guardarlo con occhi in cui brillava il coraggio.

«Cosa vuole?»

«Eva, sono Dirk.»

Lei non comprese. «Mi lasci in pace», mormorò. «Questa bambina sta malissimo.»

Pitt le prese la mano e si chinò. «Guardami. Sono Dirk Pitt.»

Eva lo riconobbe e sgranò gli occhi. «Oh, Dirk, sei davvero tu?»

Pitt la baciò, sfiorandole delicatamente i lividi sul viso. «Se non lo sono, qualcuno ci sta facendo un brutto scherzo.»

Giordino si avvicinò. «Una tua amica?»

«La dottoressa Eva Rojas. L’ho conosciuta al Cairo.»

«E com’è finita qui?» esclamò Giordino, sorpreso.

«Come sei finita qui?» le chiese Pitt.

«Il generale Kazim ha dirottato il nostro aereo e ci ha mandati a lavorare nelle miniere.»

«Ma perché?» insistette Pitt. «Che minaccia rappresentavate per lui?»

«Il nostro team, sotto la supervisione del dottor Frank Hopper, stava per identificare una sostanza tossica che uccideva gli abitanti dei villaggi in tutto il deserto. Stavamo tornando al Cairo con i campioni biologici da analizzare.»

Pitt guardò Giordino. «Massarde ci ha chiesto se collaboravamo con il dottor Hopper e il suo gruppo.»

Giordino annuì. «Lo ricordo. Doveva sapere che Kazim li aveva imprigionati qui.»

Eva passò un fazzoletto bagnato sulla fronte della bambina, poi appoggiò la testa alla spalla di Pitt e singhiozzò. «Perché sei venuto nel Mali? Morirai come tutti noi.»

«Avevamo un appuntamento, ricordi?»

Pitt, intento a consolare Eva, non vide i tre uomini che si muovevano cautamente fra le brande e li circondavano. Il primo era grande e grosso, con la faccia rossa e la barba folta, gli altri due erano sparuti ed esausti, e tutti avevano segni di frustate sulla schiena e sul petto. Le espressioni minacciose strapparono un sorriso a Giordino quando si voltò a guardarli. Erano in condizioni fisiche così disastrate che avrebbe potuto stenderli tutti e tre senza fatica.

«Ti danno fastidio?» chiese a Eva l’uomo dalla faccia rossa.

«No, no», mormorò lei. «Questo è Dirk Pitt, e mi ha salvato la vita in Egitto.»

«L’uomo della NUMA?»

«Proprio lui», rispose Pitt. Poi: «E questo è il mio amico Al Giordino».

«Io sono Frank Hopper, e l’individuo alla mia sinistra è Warren Grimes.»

«Eva mi ha parlato di lei al Cairo.»

«Mi dispiace che ci siamo incontrati in circostanze tanto sgradevoli.» Hopper guardò i tagli sul viso di Pitt e si toccò la lunga cicatrice sulla guancia. «A quanto pare, tutti e due abbiamo fatto infuriare Melika.»

«Solo lo sfregio a sinistra. Quello a destra ha un’origine diversa.»

Il terzo uomo si fece avanti. «Maggiore Ian Fairweather», disse presentandosi.

Pitt strinse la mano che l’altro gli tendeva. «Inglese?»

Fairweather annuì. «Liverpool.»

«Perché l’hanno portata qui?»

«Guidavo i safari turistici attraverso il Sahara fino a quando i componenti di un gruppo sono stati massacrati dagli abitanti di un villaggio, impazziti a causa dell’epidemia. Mi sono salvato a stento e dopo una marcia nel deserto ho incontrato alcuni soccorritori che mi hanno portato all’ospedale di Gao. Il generale Zateb Kazim mi ha fatto arrestare perché non rivelassi ciò che avevo visto e mi ha mandato a Tebezza.»

«Abbiamo effettuato studi patologici sugli abitanti del villaggio di cui parla il maggiore», spiegò Hopper. «Erano tutti morti a causa d’un composto chimico misterioso.»

«Aminoacido sintetico e cobalto», annunciò Pitt.

Hopper e Grimes lo fissarono sbalorditi. «Che cosa? Che cosa ha detto?» chièse Grimes.

«La contaminazione tossica che causa malattie e morte in tutto il Mali è un composto organometallico, una combinazione fra un aminoacido sintetico alterato e il cobalto.»

«E come fa a saperlo?» chiese Hopper.

«Mentre il suo team cercava nel deserto, il mio faceva altrettanto risalendo il Niger.»

«E avete identificato la sostanza responsabile del contagio», constatò Hopper in tono inaspettatamente ottimista.

Pitt parlò in fretta dell’esplosione della marea rossa, della spedizione sul fiume e della fuga di Rudi Gunn.

«Grazie a Dio, siete riusciti a portar fuori del Mali i risultati», mormorò Hopper.

«Dove si trova la fonte?» chiese Grimes.

«È a Fort Foureau», rispose Giordino.

«Non è possibile.» Grimes era sbigottito. «Fort Foureau e i luoghi contaminati sono lontani centinaia di chilometri.»

«La sostanza tossica è trasportata dalle acque sotterranee», spiegò Pitt. «Al e io abbiamo dato un’occhiata al complesso prima di essere catturati. Ci sono valanghe di scorie nucleari e un quantitativo di rifiuti tossici dieci volte superiore a quello che viene bruciato, e tutto questo è sepolto in caverne dalle quali poi filtra nelle falde acquifere.»

«È necessario informare le organizzazioni ambientaliste mondiali», esclamò Grimes. «I danni che può causare un deposito di sostanze tossiche grande quanto Fort Foureau sono incalcolabili.»

«Finiamola di parlare», disse Hopper. «Il tempo è prezioso. Dobbiamo preparare un piano di fuga per questi uomini.»

«E voi?»

«Non siamo in condizioni di attraversare il deserto. Abbiamo perduto le forze a causa del lavoro nelle miniere, il riposo insufficiente, la scarsità di cibo e acqua. Non potremmo mai riuscirci. Però abbiamo fatto il possibile. Abbiamo nascosto un po’ di provviste e pregato perché arrivasse qualcuno come voi, in buone condizioni fisiche.»

Pitt guardò Eva. «Non posso abbandonarla.»

«Allora resti a morire con tutti noi», ribatté bruscamente Grimes. «Siete l’unica speranza che abbiamo.»

Eva strinse convulsamente la mano di Pitt. «Devi andare, e al più presto», implorò. «Prima che sia troppo tardi.»

«Le dia retta», soggiunse Fairweather. «Quarantotto ore nei pozzi vi distruggerebbero. Ci guardi. Siamo esausti. Nessuno di noi sarebbe in grado di attraversare cinque chilometri di deserto senza crollare.»

Pitt fissò il pavimento. «Fin dove pensate che potremmo arrivare Al e io, senz’acqua? Venti, forse trenta chilometri più lontano di voi?»

«Abbiamo messo da parte quanto basta per un uomo solo», disse Hopper. «Lasceremo decidere a voi chi dovrà fare il tentativo e chi resterà.»

Pitt scosse la testa. «Al e io andremo insieme.»

«In due non arriverete abbastanza lontano per salvarvi.»

«Di che distanze stiamo parlando?» chiese Giordino.

«La pista Transahariana è circa quattrocento chilometri a est, al di là del confine, in Algeria», rispose Fairweather. «Dopo trecento chilometri, dovrete affidarvi alla fortuna. Ma quando arriverete alla pista, potrete farvi prendere a bordo da un mezzo di passaggio.»

Pitt inclinò la testa come se non avesse capito bene. «Mi è sfuggito qualcosa. Non ha spiegato come faremo a percorrere i primi trecento chilometri.»

«Ruberete uno dei camion di O’Bannion quando arriverete in superficie. Dovrebbe riuscire a percorrere quella distanza.»

«Non siamo un po’ troppo ottimisti?» osservò Pitt. «E se il serbatoio fosse vuoto?»

«Nessuno tiene mai un serbatoio vuoto nel deserto», rispose Fairweather con fermezza.

«Usciamo di qui, premiamo il bottone d’un ascensore, arriviamo in superficie, rubiamo un camion e partiamo allegramente.» Giordino fece una smorfia. «Sicuro.»

Hopper sorrise. «Ha un piano migliore?»

«Per essere sincero», rispose Pitt con una risata, «non abbiamo neppure una vaga idea.»

«Dovremmo affrettarci», avvertì Fairweather. «Entro un’ora, Melika trascinerà di nuovo tutti nelle miniere.»

Pitt si guardò intorno. «Tutti voi fate scoppiare le cariche e portate via il minerale?»

«I prigionieri politici, noi inclusi», rispose Grimes, «scavano e caricano il minerale che le esplosioni staccano dalla roccia. I criminali comuni lavorano ai livelli dei frantoi e del recupero. Inoltre formano le squadre addette alle esplosioni. Poveri diavoli, nessuno di loro vive a lungo. Se non rimangono uccisi negli scoppi, muoiono avvelenati dal mercurio e dal cianuro usati per amalgamare e raffinare l’oro.»

«Quanti stranieri ci sono?»

«Noi eravamo sei, ma siamo rimasti in cinque. Una è stata uccisa da Melika. L’ha ammazzata di botte.»

«Una donna?»

Hopper annuì. «La dottoressa Marie Victor, una donna energica e uno dei migliori fisiologi d’Europa.» L’espressione gioviale di Hopper era sparita. «È stata la terza a morire, dopo il nostro arrivo. Melika ha assassinato anche le mogli di due degli ingegneri francesi di Fort Foureau.» S’interruppe e guardò mestamente la bambina stesa sulla branda. «I loro figli sono quelli che soffrono di più, e non possiamo far niente.»

Fairweather indicò un gruppo di persone raccolte intorno a tre letti a castello. C’erano quattro donne e otto uomini. Una delle donne teneva stretto a sé un bambino sui tre anni.

«Mio Dio!» mormorò Pitt. «Ma certo, è logico! Massarde non poteva permettere che gli ingegneri che hanno costruito il complesso tornassero in Francia e rivelassero la verità.»

«Quante donne e quanti bambini in tutto ci sono qui?» chiese Giordino con un’espressione di collera sul volto.

«Al momento, nove donne e quattro bambini», rispose Fairweather.

«Non capisci?» disse Eva a voce bassa. «Prima fuggirete e cercherete aiuto, e più gente salverete.»

Pitt non aveva bisogno di altri argomenti. Si rivolse a Hopper e Fairweather. «D’accordo, sentiamo il vostro piano.»

38.

Era un piano lacunoso, ideato da uomini disperati, quasi del tutto privi di risorse, incredibilmente semplificato, ma abbastanza assurdo per poter funzionare.

Un’ora dopo, Melika e le sue guardie attraversarono la caverna e costrinsero i prigionieri a radunarsi nella camera principale, dove furono divisi in squadre di lavoro prima di andare nelle miniere. Pitt aveva la sensazione che la donna si divertisse a colpire a destra e a sinistra con la cinghia quel mare di carne umana indifesa, a imprecare e a picchiare uomini e donne che sembravano più morti che vivi.

«La strega non si stanca mai di aggiungere cicatrici a quei poveretti», sibilò Hopper.

«Melika vuol dire regina, il nome che si è scelto», spiegò Grimes a Pitt e Giordino. «Ma noi la chiamiamo la Strega dell’Ovest perché era la capoguardiana in un carcere femminile negli Stati Uniti.»

«Se pensate che sia feroce adesso», mormorò Pitt, «aspettate che trovi i carrelli truccati riempiti da me e da Al.»

Giordino e Hopper rimasero accanto a Pitt mentre quest’ultimo cingeva con un braccio Eva conducendola fuori. Melika lo vide, si avvicinò, si fermò e fissò minacciosamente Eva. Sogghignò: aveva capito che poteva esasperarlo picchiando la donna anziché lui.

Alzò la cinghia per colpire, ma Giordino si mise in mezzo. La cinghia produsse un rumore secco quando rimbalzò sul bicipite flesso.

A parte il vistoso segno rosso che si formò e cominciò a stillare sangue, Giordino non mostrò di risentire minimamente di un colpo che avrebbe spinto un uomo normale a stringersi il braccio gemendo di dolore. Giordino la fissò freddamente e chiese: «È tutto quello che sai fare?»

Tutti ammutolirono, si fermarono e trattennero il respiro in attesa della tempesta. Trascorsero cinque lunghissimi secondi: sembrava che il tempo si fosse arrestato. Melika era stordita dall’inaspettata dimostrazione di audacia. Poi avvampò di rabbia. Reagì come se non fosse in grado di sopportare il ridicolo. Ringhiò come un orso ferito e sferrò un altro colpo con la cinghia.

«Ferma!» ordinò una voce imperiosa.

Melika si girò di scatto. Selig O’Bannion era appena oltre la porta della segreta, e torreggiava in tutta la sua statura. La donna tenne la cinghia sollevata in aria per qualche istante prima di riabbassarla. Fissò O’Bannion con gli occhi accesi di risentimento come il bullo del quartiere umiliato davanti alle sue vittime dal poliziotto di ronda.

«Non toccare Pitt e Giordino», ordinò O’Bannion. «Voglio che vivano più a lungo di tutti per portare gli altri nel sepolcro.»

«E dove sarebbe il divertimento?» chiese Pitt.

O’Bannion rise e fece un cenno a Melika. «Distruggere fisicamente Pitt non sarebbe un grande piacere. Ma distruggere la sua mente sarà per entrambi un’esperienza alquanto piacevole. Dagli un carico di lavoro leggero per i prossimi dieci turni.»

Melika chinò la testa in segno di assenso mentre O’Bannion saliva su una motrice per fare un giro d’ispezione. «Fuori, fetenti», ringhiò Melika, roteando la cinghia macchiata di sangue sopra la testa grottesca.

Eva barcollò, incapace di reggersi, e Pitt l’aiutò a raggiungere il punto dove si radunavano gli schiavi. «Al e io ce la faremo», le promise. «Ma tu devi resistere fino a quando torneremo con un contingente armato per salvarvi tutti.»

«Ora ho una ragione per vivere», mormorò Eva. «Ti aspetterò.»

Pitt le baciò delicatamente le labbra e i lividi sul volto. Poi si rivolse a Hopper, Grimes e Fairweather, che stavano intorno a loro per proteggerli. «Abbiate cura di lei.»

«Promesso.» Hopper annuì.

«Vorrei che non vi scostaste dal nostro piano», disse Fairweather. «Nascondervi in uno dei carrelli che vanno al frantoio è più sicuro della vostra idea.»

Pitt scosse la testa. «Dovremmo attraversare il livello dei frantoi, e passare dai reparti di raffinazione e recupero senza farci scoprire prima di raggiungere la superficie. Non avremmo molte probabilità. È meglio salire direttamente con l’ascensore dei dirigenti e passare dagli uffici.»

«Se si può scegliere fra l’uscita dalla porta di servizio e quella dell’ingresso principale», dichiarò Giordino in tono di protesta, «lui preferisce fare le cose alla grande.»

«Ha un’idea di quante sono le guardie armate?» Pitt si rivolse a Fairweather che si trovava nelle miniere da più tempo di Hopper e dei suoi compagni.

«Un’idea?» Fairweather rifletté un momento. «Fra venti e venticinque. Anche gli ingegneri sono armati. Ne ho contati sei, oltre a O’Bannion.»

Grimes passò due piccole taniche a Giordino che le nascose sotto la camicia lacera. «È tutta l’acqua che abbiamo messo da parte. Ognuno ha contribuito con una parte della sua razione. È un po’ meno di due litri. Purtroppo non c’è altro.»

Giordino gli posò le mani sulle spalle, visibilmente commosso da quel sacrificio. «So quanto vi è costato. Grazie.»

«La dinamite?» chiese Pitt a Fairweather.

«L’ho io», rispose Hopper, e consegnò a Pitt un candelotto di esplosivo con il detonatore. «Uno della squadra addetta alle cariche l’ha portato fuori nascondendolo in una scarpa.»

«Ancora due cose», disse Fairweather. «Una lima per tagliare le catene. Grimes l’ha rubata nella cassetta degli utensili di una motrice. E un diagramma dei pozzi, che mostra anche le telecamere della sorveglianza. Dietro ho disegnato una mappa approssimativa del territorio che dovrete attraversare prima di arrivare alla pista Transahariana.»

«Ian conosce il deserto», precisò Hopper.

«Grazie», disse Pitt. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Faremo del nostro meglio per portarvi aiuto.»

Hopper gli passò un braccio intorno alle spalle. «Le nostre preghiere e i nostri cuori vi accompagnano.»

Fairweather strinse la mano a Pitt. «Ricordate di aggirare le dune. Non attraversatele. Restereste bloccati e morireste.»

«Buona fortuna», disse semplicemente Grimes.

Una guardia si avvicinò e, con il calcio del fucile, sospinse Pitt e Giordino per allontanarli dagli altri. Pitt l’ignorò e si chinò a baciare Eva un’ultima volta.

«Non dimenticare», disse. «Tu e io e la baia di Monterey.»

«Metterò il mio vestito più trasparente», rispose lei con un sorriso coraggioso.

La guardia lo allontanò prima che Pitt potesse rispondere a Eva. Quando arrivò al tunnel dell’uscita, si voltò per salutare, ma la donna e gli altri non si vedevano più, perduti nella massa dei forzati e dei guardiani.


La guardia condusse Pitt e Giordino nel pozzo dove avevano caricato il minerale qualche ora prima e li lasciò soli. Un altro convoglio di carrelli vuoti attendeva sul binario accanto a un mucchio di rocce frantumate.

«Mi comporterò come se gareggiassi per il titolo di operaio del mese mentre tu lavori sulle tue catene fuori della portata della telecamera», disse Pitt. Incominciò a lanciare i pezzi di roccia nei carrelli mentre Giordino attaccava le catene con la lima fornita da Grimes.

Per fortuna il ferro era vecchio e di qualità scadente. La lima affondò rapidamente negli anelli e Giordino sfilò la catena e si liberò le mani e i piedi. «Tocca a te», sollecitò l’amico.

Pitt appoggiò la catena sul bordo di un carrello e tranciò un anello in meno di dieci minuti. «Più tardi dovremo sbarazzarci delle manette; ma adesso, almeno, possiamo ballare e tirar pugni.»

Giordino fece roteare la sua catena come un’elica. «Chi sistema la guardia? Tu o io?»

«Tu», rispose Pitt, mentre tornava a infilare nelle manette la catena tranciata. «Io l’imbroglierò.»

Mezz’ora dopo, quando lo scricchiolio sulla ghiaia annunciò l’avvicinarsi della guardia, Pitt strappò il cavo di alimentazione delle telecamera. Questa volta comparvero due tuareg che avanzarono lungo i lati opposti delle rotaie, con le armi spianate e pronte a sparare. Gli occhi, appena visibili attraverso le fenditure dei litham, avevano un’espressione di gelida implacabilità.

«Sono due», mormorò Giordino. «E non hanno l’aria di voler fare una chiacchieratina amichevole.»

La guardia sulla destra si avvicinò e premette la canna del fucile contro le costole di Pitt, che si limitò a inarcare un sopracciglio con fare sorpreso, indietreggiò e sfoggiò un sorriso disarmante.

«È un piacere vedervi.»

Era indispensabile muoversi in modo fulmineo prima che le guardie si rendessero conto dell’attacco imminente. Pitt aveva appena finito di parlare quando afferrò l’arma con la sinistra, la torse, e lanciò un sasso con mira infallibile. Il sasso centrò la fronte della guardia, che si piegò all’indietro come un arco teso e stramazzò sul binario.

Per due secondi, anche se sembrarono molti di più, l’altra guardia rimase a fissare il compagno caduto con aria incredula. Nessuno di loro, a Tebezza, era stato mai aggredito da uno schiavo, e lo sbalordimento per un attimo la stordì. Poi si rese conto del rischio che correva e si scosse. Alzò l’arma per sparare.

Pitt roteò su se stesso e si buttò da un lato, cercando disperatamente di afferrare l’arma della guardia caduta. Intravide una catena lanciata sopra la testa del tuareg: poi Giordino tirò le estremità e le attorcigliò come una garrotta. Con la sua forza immensa, sollevò da terra la guardia che scalciava. Il fucile mitragliatore cadde rumorosamente sulle rotaie: il tuareg aveva lasciato la presa per cercare di liberarsi dalla catena che gli stringeva la gola.

Quando la resistenza si ridusse a un debole sussulto, Giordino allentò la catena e lasciò che la guardia cadesse a terra accanto al compagno privo di sensi. Poi raccolse l’arma e l’imbracciò, puntandola verso l’estremità del pozzo.

«Siamo molto generosi a non ucciderli», borbottò.

«È solo un rinvio», disse Pitt. «Quando Melika avrà finito con loro perché ci hanno lasciati scappare, si troveranno a lavorare a fianco di quelli che hanno picchiato e tormentato.»

«Non possiamo lasciarli qui in piena vista.»

«Buttali in uno dei carrelli e coprili con i pezzi di roccia. Non rinverranno per due ore almeno, un tempo più che sufficiente perché ci allontaniamo d’un buon tratto nel deserto.»

«Purché non arrivi di corsa qualcuno a riparare la telecamera.»

Mentre Giordino sistemava i due tuareg, Pitt consultò il diagramma della miniera disegnato da Fairweather. Non poteva tornare all’ascensore degli ingegneri affidandosi alla memoria: c’era un labirinto di gallerie che si estendevano in tutte le direzioni; e senza una bussola era quasi impossibile scegliere il percorso giusto.

Giordino aveva terminato. Prese i fucili automatici e li esaminò. «Sono modelli militari d’ordinanza francesi di plastica e fibra di vetro, cinque-cinque-sei millimetri. Molto belli.»

«Non dobbiamo sparare, se possiamo evitarlo», disse Pitt. «Comportiamoci con circospezione fino a che Melika scoprirà che siamo spariti.»


Quando uscirono dal loro pozzo attraversarono la galleria e si addentrarono nell’apertura di fronte. Cinquanta metri più avanti, dopo aver evitato le telecamere segnate nella mappa di Fairweather, raggiunsero un’altra caverna senza vedere nessuno. Nessuno li fermò o li aggredì. Erano soli, in quella prima parte della fuga.

Seguirono il binario che li aveva portati alle miniere dell’ascensore, e si fermarono agli incroci perché Pitt potesse consultare la mappa. Quei secondi preziosi sprecati sembravano anni.

«Hai idea di dove siamo?» chiese sottovoce Giordino.

«Rimpiango di non aver sparso le briciole di pane quando siamo entrati», mormorò Pitt, accostando la mappa a una lampadina velata di polvere. All’improvviso risuonò nel tunnel, a una certa distanza, l’eco metallica e stridente di un convoglio che si avvicinava.

«Un merci in arrivo», esclamò Giordino.

Pitt indicò una spaccatura nella roccia a dieci metri di distanza, dall’altro lato delle rotaie. «Lì dentro.»

Si rifugiarono nella fenditura e si fermarono. Dal varco giungeva un lezzo terribile: un fetore putrido e nauseante. Cautamente, avanzarono fino a quando la spaccatura si aprì in una camera. Pitt ebbe la sensazione di entrare in una catacomba. La camera era completamente buia, ma quando passò una mano lungo la parete incontrò un interruttore. Lo fece scattare, e una luce spettrale illuminò una vasta caverna.

Era effettivamente una catacomba, un cimitero sotterraneo. Erano entrati per caso nella grotta delle sepolture dove O’Bannion e Melika conservavano i cadaveri degli schiavi uccisi dagli stenti, dalla fatica e dalle percosse. L’aria era piuttosto secca e i morti presentavano pochi segni di decomposizione. Li avevano scaricati lì senza cerimonie. I corpi irrigiditi erano accatastati come tronchi, una trentina per mucchio, in uno spettacolo orribile e doloroso.

«Mio Dio», mormorò Giordino. «Devono essere più di mille.»

«È molto pratico», disse Pitt mentre si sentiva ardere da una collera incandescente. «O’Bannion e Melika non devono prendersi il disturbo di far scavare le tombe.»

Una visione agghiacciante passò davanti agli occhi di Pitt: la visione di Eva, il dottor Hopper e gli altri ammucchiati con gli altri cadaveri, gli occhi ciechi rivolti al soffitto di roccia. Abbassò le palpebre ma non riuscì a scacciare l’immagine.

Solo quando il convoglio passò sferragliando davanti all’imboccatura della cripta, Pitt si scosse. Poi parlò e la sua voce era un bisbiglio rauco, irriconoscibile.

«Saliamo in superficie.»

Il suono del convoglio si perse in lontananza mentre i due amici sbirciavano dalla spaccatura nella roccia per assicurarsi che non ci fossero guardie nelle vicinanze. Il tunnel era sgombro; corsero in un pozzo laterale che, secondo la mappa di Fairweather, era una scorciatoia per raggiungere l’ascensore degli ingegneri. Poi ebbero un incredibile colpo di fortuna. Nel pozzo l’acqua sgocciolava, e sul pavimento c’erano assi di legno.

Pitt sollevò una delle assi e guardò la pozza d’acqua. «Ci è andata bene», disse. «Bevi a sazietà; così potremo risparmiare la scorta che ci ha dato Hopper.»

«Non c’è bisogno di dirmelo», rispose Giordino. S’inginocchiò e cominciò a raccogliere l’acqua con le mani.

Avevano appena finito di bere e stavano per rimettere a posto l’asse quando sentirono un suono di voci in fondo al passaggio, seguito quasi subito dal tintinnio delle catene.

«C’è una squadra che sta arrivando dietro di noi», bisbigliò Giordino.

Si affrettarono a proseguire, ristorati e incoraggiati. Dopo un minuto arrivarono alla porta di ferro che conduceva all’ascensore. Si fermarono. Giordino inserì il candelotto di dinamite nella toppa della serratura e innestò il detonatore. Poi indietreggiarono; Pitt prese un sasso e lo lanciò contro la capsula. Ma sbagliò la mira.

«Fai finta di cercare di far cadere una bella ragazza nella vasca al luna park», suggerì Giordino.

«Speriamo che lo scoppio non svegli le guardie e non metta in allarme l’operatore dell’ascensore», disse Pitt mentre raccoglieva un altro sasso.

«Penseranno che sia un’eco delle esplosioni nelle gallerie.»

Questa volta il lancio riuscì, e la capsula fece deflagrare la dinamite. Con uno schianto netto, la serratura saltò. I due amici corsero a spalancare la porta di ferro e si precipitarono nel breve passaggio che conduceva all’ascensore.

«E se ci fosse un codice per chiamarlo?» chiese Giordino.

«È un po’ tardi per pensarci», sibilò Pitt. «Useremo il nostro codice.»

Si accostò all’ascensore, rifletté per un momento, quindi premette il pulsante accanto alla porta, una volta, due, tre, quindi indugiò un momento e lo premette altre due volte.

Attraverso le porte chiuse sentirono gli interruttori che scattavano e i motori elettrici che entravano in funzione mentre l’ascensore cominciava a scendere da un livello superiore.

«Devi aver trovato la chiave giusta», commentò Giordino con un sorriso.

«Mi sono affidato alla fortuna, e ho pensato che qualunque combinazione potesse andar bene, purché non fosse un’unica pressione prolungata.»

Dopo mezzo minuto il ronzio s’interruppe e le porte si aprirono. L’operatore guardò fuori, ma non vide nessuno. Incuriosito, si sporse e fu messo fuori combattimento da Pitt con una botta sferrata alla nuca con il calcio del fucile. Giordino lo trascinò a bordo mentre Pitt chiudeva le porte.

«Corsa diretta per gli uffici della direzione», annunciò Pitt, premendo il pulsante più in alto.

«Niente visita al frantoio o al recupero del cianuro?»

«Solo se insisti.»

«Ci rinuncio», borbottò Giordino mentre l’ascensore incominciava la salita.

Rimasero a fianco a fianco nella piccola cabina e guardarono le spie luminose che lampeggiavano sull’indicatore. Si chiesero se sarebbero stati accolti da un esercito di guardie tuareg pronte a crivellarli di colpi. Il ronzio cessò e l’ascensore si fermò dolcemente.

Pitt imbracciò il fucile e fece un cenno a Giordino. «Preparati.»

La porta si aprì e nessuno li crivellò di proiettili. Nel corridoio c’erano un ingegnere e una guardia che camminavano, ma erano intenti a parlare e si stavano allontanando con le spalle all’ascensore.

«Si direbbe proprio che vogliano farci scappare», bisbigliò Giordino.

«Non indurre in tentazione gli dei», ribatté Pitt. «Non siamo ancora usciti.»

Non c’era un posto per nascondere l’operatore, e quindi Pitt premette il pulsante del livello più basso e lo fece partire. Seguirono la guardia e l’ingegnere tenendosi fuori di vista, fino a quando i due entrarono in un ufficio dietro una delle antiche porte intagliate.

Il corridoio era vuoto come quando le guardie li avevano scortati, meno di ventiquattr’ore prima. Con i fucili imbracciati, corsero rasente alle pareti fino al tunnel che portava alla galleria dei camion. Un tuareg, seduto su uno sgabello pieghevole, sorvegliava l’entrata. Non immaginava che potessero arrivare guai dagli uffici e dagli alloggi alle sue spalle, perciò fumava tranquillamente la pipa e leggeva il Corano.

I due amici si fermarono per riprendere fiato e si voltarono a guardare. Dietro di loro non era comparso nessuno; rivolsero l’attenzione all’ultimo ostacolo. C’era un tratto aperto d’una cinquantina di metri senza segni visibili di telecamere a circuito chiuso.

«Io corro più svelto di te», mormorò Pitt mentre porgeva il suo fucile al compagno. «Se mi piomba addosso prima che lo abbia raggiunto, fallo fuori con colpo preciso.»

«Basta che non ti metta sulla linea di tiro», lo avvertì Giordino.

Pitt si tolse le scarpe, si piazzò in posa come uno scattista, piantò saldamente i piedi sul pavimento, si stese e si lanciò accelerando. Sapeva, con una certezza agghiacciante, di essere tremendamente esposto. Anche se faceva pochissimo rumore, il tunnel scavato nella roccia aveva un’acustica perfetta. Aveva coperto una quarantina di metri quando la guardia, incuriosita dal suono dei passi precipitosi, si voltò e fissò senza capire lo schiavo che si avventava nella sua direzione. Ma reagì troppo lentamente. Stava incominciando ad alzare la canna del mitra quando Pitt, con un balzo, gli fu addosso.

Gli occhi della guardia rivelarono lo shock e poi una sofferenza folgorante quando urtò con la testa contro la parete di roccia e si accasciò sotto il peso dell’avversario. Pitt rotolò via e respirò a pieni polmoni per riprendere fiato. Rimase steso a terra, ansimando, mentre Giordino si avvicinava.

«Niente male per uno vicino ai quarant’anni», disse Giordino, tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi.

«Non tenterò più. Mai più.» Pitt scosse la testa, deciso. Poi esaminò la lunga galleria sotterranea. Due camion Renault erano parcheggiati a fianco a fianco accanto allo stretto tunnel che sfociava all’aperto, nella gola. Poi guardò il tuareg esanime. «Tu, che sei così forte», disse a Giordino. «Portalo al camion più vicino e buttalo sul pianale. Lo condurremo con noi. Se qualcuno passerà di qui, penserà che si annoiava e ha lasciato il suo posto per andare a fare un giretto.»

Giordino si issò la guardia sulla spalla e la sollevò oltre la sponda del primo camion, mentre Pitt si arrampicava nella cabina e studiava gli strumenti. Non c’era la chiave per l’accensione, ma un interruttore che la sostituiva. E, come aveva previsto Fairweather, l’indicatore segnalava che il serbatoio era pieno. Girò l’interruttore e premette il pulsante dell’avviamento. Il motore si accese al primo colpo.

«C’è l’orologio sul cruscotto?» chiese Giordino.

Pitt scosse la testa. «È un modello economico senza optional. Perché vuoi saperlo?»

«Quei luridi tuareg mi hanno rubato l’orologio. Ho perso la nozione del tempo.»

Pitt si sfilò uno scarpone e recuperò il Doxa subacqueo che aveva nascosto sotto la suola. Lo rimise al polso e lo mostrò a Giordino. «La una e venti della notte.»

«Alzarsi presto fa bene alla salute.»

Pitt inserì la prima e mollò la frizione. Il camion avanzò nel tunnel muovendosi lentissimamente perché il rombo non echeggiasse arrivando a orecchie sospettose.

Le pareti erano così vicine che quasi toccavano le fiancate del camion. Pitt non aveva certo paura di graffiare la carrozzeria, ma temeva che il rumore dell’urto attirasse l’attenzione. Appena furono all’aperto, nella stretta gola, cambiò marcia, premette l’acceleratore a tavoletta e accese i fari. Il Renault si avventò nel burrone sobbalzando all’impazzata e sollevando una nube turbinante di polvere.

Pitt ricordava i tratti in cui la sabbia era più soffice, i punti in cui avevano dovuto scendere per spingere il camion all’andata. Adesso lanciava il camion attraverso la stretta spaccatura nel plateau con disinvoltura, e superava i tratti infidi grazie all’alta velocità del mezzo.

Non badava al profumo della libertà, alla fredda aria notturna del deserto, non degnava d’uno sguardo le stelle. Ogni chilometro che mettevano tra loro e gli inseguitori era tutto d’oro, ogni minuto era prezioso. Guidava come un demone e spingeva il camion alla massima velocità.

Giordino non si lamentava, non gli chiedeva di rallentare. Si fidava di lui; teneva i piedi puntellati e stringeva il sedile digrignando i denti a ogni sobbalzo mentre teneva gli occhi fissi sulle tracce appena visibili dei pneumatici che apparivano nell’oscurità sotto le pareti ripide del canyon.

All’improvviso i fari mostrarono una piana vuota, davanti a loro. Erano usciti nel deserto. Soltanto allora Pitt alzò gli occhi al cielo, individuò la Stella Polare e puntò verso ovest il fregio del radiatore.

Avevano superato il punto di non ritorno in un tentativo suicida, le cui probabilità contrarie erano così elevate che il fallimento appariva inevitabile. Ma a Pitt stava bene così. Non potevano fermarsi prima di aver trovato l’acqua o la salvezza.

Davanti a loro si estendevano quattrocento chilometri di deserto, invitanti, minacciosi e mortali. La corsa per la sopravvivenza era incominciata.

39.

Per le cinque ore di buio che ancora restavano, Pitt lanciò il camion attraverso la desolata distesa di sabbia in cui il tempo non aveva molto senso. Era una terra priva di compromessi, che agghiacciava con i mattini freddi, soffocava con la sabbia finissima e arrostiva con un sole che sembrava ingrandito dall’atmosfera cristallina. Aveva la sensazione di essere entrato in un mondo non appartenente al suo universo.

Stavano attraversando la parte del Sahara chiamata Tanezrouft, un territorio tremendo e vastissimo di circa duecentomila chilometri quadrati, squallido e grottesco, rotto soltanto da poche scarpate e da qualche mare di dune che si spostavano continuamente come orde di fantasmi velati.

Era il deserto più primitivo, senza un filo d’erba in vista.

Eppure la vita c’era. Le falene svolazzavano intorno ai fari. Un paio di corvi del servizio di pulizia del deserto presero il volo, disturbati dall’avvicinarsi del camion, e gracchiarono infastiditi. Grossi scarabei neri correvano sulla sabbia per sfuggire alle ruote, e ogni tanto facevano altrettanto qualche scorpione e qualche piccola lucertola verde.

Pitt si sentiva intimidire dal vuoto che lo circondava, dalle centinaia di chilometri che dovevano ancora percorrere, dalla fame, dalla sete, dalle privazioni che dovevano ancora sopportare. L’unica consolazione era il rombo costante del motore del Renault: non aveva perso un colpo da quando avevano lasciato le miniere, e le quattro ruote motrici funzionavano alla perfezione, superando anche i tratti troppo soffici dove c’era pericolo che sprofondassero. In quattro occasioni era stato costretto a procedere in gole strette e profonde dalle ripide rive di ghiaia e a risalire in prima sulla sponda opposta. Spesso non aveva la possibilità di schivare improvvisi affossamenti e macigni e doveva affrontare barriere in apparenza impossibili… Eppure, in un modo o nell’altro, il robusto Renault ce la faceva sempre.

Non sostavano mai per scendere e sgranchirsi le gambe. Avrebbero dovuto camminare anche troppo, più tardi, dopo aver abbandonato il camion. Anzi, arrivavano addirittura a urinare senza fermarsi.

«Quanta strada abbiamo fatto?» chiese Giordino.

Pitt diede un’occhiata al contachilometri. «Centodue chilometri, finora.»

Giordino lo guardò in faccia. «Hai preso una scorciatoia o stiamo girando in cerchio? A quest’ora avremmo dovuto coprire quasi duecento chilometri. Ci siamo persi?»

«No, siamo in rotta», rispose Pitt in tono sicuro. «La colpa è delle indicazioni di Fairweather: ci ha dato le distanze a volo d’uccello, ma nessun uccello che non fosse completamente stupido volerebbe nel deserto se potesse sfidare uno spaventapasseri in un campo di granturco dell’Iowa. È impossibile procedere in linea retta quando abbiamo già dovuto fare una deviazione di quaranta chilometri per evitare due burroni profondi e un’orda di dune.»

Giordino si agitò, irrequieto. «Ho la spiacevole sensazione che dovremo farci a piedi ben più di cento chilometri attraverso questa terra di nessuno.»

«Non è un pensiero molto allegro», commentò Pitt.

«Presto farà chiaro. E non potremo più orientarci con le stelle.»

«Non ci servono. Ho ricordato come si fabbrica una bussola fai-da-te. C’è nel Manuale pratico dell’esercito.»

«Felice di saperlo.» Giordino sbadigliò. «Quanto carburante ci resta?»

«Un po’ più di mezzo serbatoio.»

Giordino si voltò a guardare il tuareg che avevano legato sul pianale. «Il nostro amico ha la stessa aria soddisfatta d’un marinaio imbarcato a forza.»

«Ancora non lo sa, ma è la nostra garanzia per sfuggire all’inseguimento», disse Pitt.

«Ecco la tua mente subdola di nuovo in funzione. Non smette mai di lavorare, eh?»

Pitt lanciò un’occhiata alla falce di luna. Avrebbe preferito che fosse piena, ma era già qualcosa poter contare su un po’ di luce mentre guidava il camion su un terreno che sembrava un paesaggio lunare. Cambiò marcia e socchiuse le palpebre per scrutare meglio il suolo irregolare rischiarato dai fari. All’improvviso il deserto si spianò e cominciò a scintillare come una serie di fuochi d’artificio.

Il Renault avanzò su un enorme lago prosciugato: i depositi cristallini riflettevano i fasci gemelli dei fari come prismi iridescenti. Pitt innestò la marcia alta e si sentì esilarato dalla corsa su una superficie piana e solida a una velocità di circa novanta chilometri orari.

Il fondo del deserto sembrava estendersi all’infinito. Le stelle del mattino calavano oltre l’orizzonte come se l’orlo di un mondo piatto piombasse all’improvviso nello spazio. Il cielo sembrava chiudersi intorno a loro come le pareti e il soffitto d’una piccola stanza. D’un tratto Pitt si sentì disorientato. Eppure seguiva più o meno lo stesso parallelo dell’Avana, a Cuba, quindi l’Orsa Maggiore era ancora sopra l’orizzonte. Continuava a servirsi della Stella Polare come punto di riferimento per scegliere una stella a est e procedere in quella direzione.

Le ore passarono monotone e il lago di cristalli lasciò il posto a colline basse, cosparse di macigni. Pitt non ricordava di aver mai incontrato una simile monotonia. L’unica interruzione era una piccola vetta sulla sinistra, verso il nord, che sorgeva come un’isola in mezzo a un immenso mare sterile.

Giordino lo sostituì al volante mentre il sole, come se fosse stato sparato da un cannone, saliva all’orizzonte. E lassù sembrava restare fisso per tutto il giorno fino a che, all’improvviso, precipitava come un masso poco prima del tramonto. Le ombre erano lunghissime o non esistevano: non c’erano mezze misure.

Un’ora dopo lo spuntare del giorno, Pitt fermò il camion e frugò sul pianale fino a che non trovò un tubo lungo un metro. Smontò e piantò verticalmente il tubo nella sabbia; quindi rac colse due pietre e ne mise una all’estremità dell’ombra.

«È questa la tua bussola per poveri diavoli?» chiese Giordino, che studiava i movimenti di Pitt restando all’ombra del camion.

«Osserva il maestro al lavoro.» Pitt raggiunse l’amico e attese una dozzina di minuti, poi segnò con l’altra pietra la distanza coperta dall’ombra. Tracciò una linea retta dalla prima pietra alla seconda e la prolungò per circa mezzo metro. Si piazzò con la punta del piede sinistro accanto al primo sasso, la punta del destro dove terminava la linea. Alzò il braccio sinistro, indicò davanti a sé e disse: «Quello è il nord». Poi tese lateralmente il braccio destro. «E a est c’è la pista Transahariana.»

Giordino guardò a sua volta. «In quella direzione vedo una duna che possiamo usare come punto di riferimento.»

Proseguirono e ripeterono il procedimento a ogni ora. Verso le nove il vento cominciò a soffiare da sud-est, sollevando vortici di polvere che riducevano la visibilità a meno di duecento metri. Alle dieci il vento caldo era diventato più forte e si insinuava nella cabina nonostante i finestrini chiusi. La sabbia, alzata da piccoli vortici, formava continui mulinelli.

Il mercurio del termometro saliva e scendeva come una molla. In tre ore, la temperatura passò da 15 a 35 gradi e nella parte più calda del pomeriggio arrivò a 46. Pitt e Giordino avevano la sensazione di viaggiare in una fornace. L’aria calda e secca bruciava le narici a ogni respiro. L’unico sollievo era dato dalla brezza prodotta dalla velocità della corsa su quel terreno desolato.

L’ago dell’indicatore della temperatura tremolava a un millimetro dal rosso, ma il radiatore non perdeva vapore. Ormai si fermavano ogni mezz’ora; Pitt si orientava con quel po’ di sole che si intravedeva attraverso le nubi di polvere e permetteva al tubo di gettare un’ombra.

Aprì una delle taniche d’acqua e la offrì a Giordino. «È l’ora dei rinfreschi.»

«Quanto ne è rimasto?» chiese Giordino.

«Facciamo a metà. Così berremo mezzo litro a testa, con uno di riserva per domani.»

Giordino guidò con le ginocchia, misurò la sua razione d’acqua e bevve. Restituì la tanica a Pitt. «A quest’ora O’Bannion avrà lanciato i cani sulle nostre tracce.»

«Con i camion dello stesso tipo non ridurranno la distanza, se non hanno al volante un campione di Formula Uno. L’unico vantaggio è che hanno a bordo il carburante di riserva per continuare la caccia quando noi saremo rimasti a secco.»

«Perché non abbiamo caricato una scorta?»

«Non c’erano bidoni nel parcheggio. Ho guardato. Devono tenerli in qualche altro posto, e non avevamo il tempo di cercarli.»

«O’Bannion potrebbe chiamare un elicottero», disse Giordino mentre innestava la prima per superare una duna.

«Fort Foureau e i militari maliani sono i soli che possano fornirglielo. E secondo me le ultime persone cui chiederà aiuto sono Kazim e Massarde. Sa bene che non sarebbero felici di sapere che si è lasciato scappare i nemici pubblici numero uno e numero due poche ore dopo che erano stati affidati alle sue tenere cure.»

«Non pensi che la muta di O’Bannion possa prenderci prima che entriamo in Algeria?»

«Non possono seguirci in una tempesta di sabbia, come una guardia a cavallo canadese non può rintracciare un evaso in una tormenta di neve.» Pitt indicò con il pollice alle loro spalle. «Non ci sono tracce.»

Giordino guardò lo specchietto retrovisore e si accorse che il vento spazzava la sabbia sulle impronte delle gomme: era come se il camion fosse una barchetta su un mare sconfinato che si richiudeva sulla sua scia. Si rilassò sul sedile. «Non sai come sia piacevole viaggiare in compagnia di un ottimista irriducibile.»

«Non pensare che siamo ormai al sicuro da O’Bannion. Se arriveranno alla Transahariana prima di noi e faranno la spola avanti e indietro fino al nostro arrivo, lo spettacolo sarà concluso.»

Pitt finì di bere e gettò la tanica sul pianale, accanto al tuareg che aveva ripreso i sensi e, seduto con la schiena contro la sponda, guardava minacciosamente i due nella cabina.

«Come stiamo a carburante?» chiese Pitt.

«È quasi finito.»

«È il momento di mettere fuori strada i nostri inseguitori. Gira il camion a marcia indietro, verso ovest. Poi fermati.»

Giordino obbedì, girò il volante e frenò. «Adesso proseguiamo a piedi?»

«Sicuro. Ma prima porta la guardia qui davanti e controlla se a bordo c’è qualcosa che può essere utile, come pezzi di stoffa per avvolgerci la testa e prevenire un colpo di sole.»

Uno strano miscuglio di paura e di minaccia ardeva negli occhi del tuareg quando lo piazzarono sul sedile, gli strapparono strisce di stoffa dalla veste e dal copricapo e lo legarono strettamente in modo che non potesse toccare con le mani il volante e con i piedi la pedaliera.

Frugarono nel camion: trovarono qualche straccio unto e due asciugamani che adattarono a turbanti. Abbandonarono i fucili dopo averli sepolti nella sabbia. Poi Pitt legò il volante in modo che non girasse, innestò la seconda e balzò a terra. Il Renault ripartì con il passeggero legato e si avviò sobbalzando verso Tebezza. Dopo un po’ sparì nei turbini di sabbia.

«Gli hai dato più possibilità di vivere di quanta lui ne avrebbe data a noi», protestò Giordino.

«Forse sì e forse no», disse tranquillamente Pitt.

«Per quanto pensi che dovremo scarpinare?»

«Circa centottanta chilometri», rispose Pitt come se fosse una passeggiatala.

«Circa centottanta chilometri con un litro d’acqua che non andrebbe bene neppure per innaffiare i cactus?» disse Giordino. Guardò con aria critica i vortici di sabbia sollevati dal vento. «Adesso sono sicuro che le mie povere, vecchie ossa stanche imbiancheranno nel deserto.»

«Cerca di vedere gli aspetti positivi», disse Pitt mentre si assestava il turbante improvvisato. «Possiamo respirare aria pura, goderci il silenzio, vivere in simbiosi con la natura. Niente smog, niente traffico, niente ressa. Può esserci qualcosa che rinvigorisca l’anima più di questo?»

«Una bottiglia di birra in ghiaccio, un hamburger e un bel bagno», sospirò Giordino.

Pitt alzò quattro dita. «Fra quattro giorni il tuo desiderio si realizzerà.»

«Come te la cavi in quanto a sopravvivenza nel deserto?» chiese Giordino in tono speranzoso.

«Quando avevo dodici anni ho partecipato a un campeggio di tre giorni con i boy scout nel deserto di Mojave.»

Giordino scosse mestamente la testa. «Questo mi tranquillizza molto.»

Pitt si fermò per effettuare un’altra misurazione. Poi strinse il tubo come fosse un bastone, chinò la testa controvento e si incamminò nella direzione che aveva calcolato fosse l’est. Giordino lo afferrò per la cintura per non perderlo in un’improvvisa tormenta di sabbia e lo seguì.

40.

La riunione a porte chiuse alla sede dell’ONU incominciò alle dieci del mattino e durò fin dopo la mezzanotte. Venticinque dei più illustri specialisti mondiali in fatto di oceanografia e di condizioni atmosferiche, trenta biologi, tossicologi ed esperti d’inquinamento ascoltarono attentissimi mentre Hala Kamil faceva una breve introduzione prima di dare la parola all’ammiraglio Sandecker, che esordì esponendo la portata dell’imminente disastro ecologico.

Poi l’ammiraglio presentò il dottor Darcy Chapman, e questi spiegò ai presenti la struttura chimica delle prolifiche maree rosse. Poi toccò a Rudi Gunn, che fece un aggiornamento sui dati della contaminazione. Infine Hiram Yaeger mostrò le foto scattate dal satellite che rivelavano l’espansione della marea e fornì le statistiche della crescita prevista.

La parte informativa della riunione durò fino alle due del pomeriggio. Quando Yaeger sedette e Sandecker tornò sul podio, c’era uno strano silenzio al posto delle abituali proteste degli scienziati che di solito non erano mai d’accordo con le teorie e le rivelazioni dei colleghi. Per fortuna, dodici dei presenti erano già a conoscenza della diffusione eccezionale delle maree e avevano effettuato studi di loro iniziativa. Elessero un portavoce; e questi annunciò le conclusioni degli scienziati: suffragavano in tutto e per tutto i risultati raggiunti dagli uomini della NUMA. I pochi che avevano rifiutato di accettare la prospettiva di una catastrofe si convertirono in fretta e accreditarono le lugubri previsioni dell’ammiraglio.

Il punto conclusivo dell’ordine del giorno prevedeva la costituzione di commissioni e gruppi di ricerca che avrebbero messo in comune le loro risorse e le informazioni, allo scopo di scongiurare l’estinzione della specie umana.

Sebbene sapesse che era inutile, Hala Kamil riprese la parola e implorò gli scienziati di non parlare con i media fino a che la situazione non fosse apparsa almeno in parte sotto controllo. L’ultima cosa che voleva, spiegò, era un mondo in preda al panico.

Hala concluse la riunione preannunciando una nuova conferenza per rendere note le informazioni scoperte nel frattempo e riferire sui progressi in vista di una soluzione. Quando finì di parlare, non vi furono neppure applausi di circostanza. Gli scienziati si avviarono in gruppi, parlando a voce bassa e gesticolando mentre si scambiavano punti di vista sui rispettivi campi di competenza.

Sandecker si lasciò cadere su una sedia del podio. Il viso era stanco e tirato ma conservava un’espressione ferma e volitiva. Si rendeva conto di avere finalmente superato una svolta e di non essere più costretto a perorare la causa di fronte ad ascoltatori sordi e ostili.

«Ha fatto un’esposizione magnifica», disse Hala Kamil.

Sandecker accennò ad alzarsi dalla sedia quando lei gli sedette accanto. «Spero di essere stato convincente.»

Hal annuì con un sorriso. «Ha ispirato i migliori intelletti delle scienze oceaniche e ambientaliste a scoprire una soluzione prima che sia troppo tardi.»

«Li ho informati, sì. Ma non li ho ispirati.»

Il segretario generale dell’ONU scosse la testa. «No, ammiraglio. Tutti si sono resi conto dell’urgenza. Avevano scritto in faccia la smania di affrontare il pericolo.»

«Tutto questo non sarebbe accaduto se non ci fosse stata lei. C’è voluta l’intuizione di una donna per comprendere la gravità della minaccia.»

«Quello che a me sembrava ovvio, ad altri appariva assurdo», disse Hala a voce bassa.

«Mi sento meglio, adesso che il dibattito è concluso e possiamo impegnarci per scongiurare il disastro.»

«Ora il nostro problema è mantenere il segreto. Sicuramente la cosa sarà di dominio pubblico entro quarantotto ore.»

«È quasi inevitabile l’invasione di un esercito di giornalisti», convenne Sandecker. «Gli scienziati non hanno certo fama di tenere la bocca chiusa.»

Hala girò lo sguardo sulla sala vuota. Lo spirito di collaborazione che aveva avuto modo di osservare per l’occasione era molto superiore a quello che si riscontrava di solito all’Assemblea Generale. Forse, dopotutto, c’era ancora speranza per un mondo diviso da tante culture e da tante lingue diverse.

«E ora quali sono i suoi piani?»

Sandecker alzò le spalle. «Far uscire Pitt e Giordino dal Mali.»

«Quanto tempo è passato da quando li hanno arrestati nell’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici?»

«Quattro giorni.»

«Si sa qualcosa di loro?»

«No, purtroppo. I nostri servizi segreti non sono presenti in forza in quella parte del mondo e non sappiamo dove li abbiamo portati.»

«Se sono caduti nelle mani di Kazim, temo il peggio.»

Sandecker non riusciva a rassegnarsi all’idea di perdere Pitt e Giordino. Cambiò argomento. «Gli investigatori hanno trovato prove che sia stata compiuta un’azione criminosa riguardo alla morte degli scienziati dell’OMS?»

«Stanno ancora esaminando i rottami dell’aereo», disse Hala. «Ma secondo i rapporti preliminari nulla prova che l’incidente sia stato causato da una bomba. Finora è un mistero.»

«Non c’erano superstiti?»

«No. Il dottor Hopper e tutti i colleghi sono morti assieme all’equipaggio.»

«È difficile credere che non ci sia sotto Kazim.»

«È un uomo malvagio», confermò Hala rabbuiandosi. «Anch’io lo ritengo responsabile. Il dottor Hopper doveva aver scoperto qualcosa sull’epidemia che ha colpito il Mali, qualcosa che Kazim non poteva lasciar trapelare. Sarebbe stato imbarazzante soprattutto rispetto ai governi stranieri che gli forniscono gli aiuti.»

«Possiamo sperare che Pitt e Giordino abbiano trovato una spiegazione.»

Hala guardò Sandecker con un’espressione di simpatia negli occhi. «Deve rendersene conto: è possibile che siano già morti, uccisi per ordine di Kazim.»

L’espressione esausta abbandonò di colpo Sandecker e un sorriso tenace gli sfiorò le labbra. «No», disse. «Non accetterò mai l’idea che Pitt sia morto se prima non avrò identificato personalmente il suo cadavere. Non sarebbe certo la prima volta che riappare sano e salvo dopo che l’avevano dato per morto. Anzi, è una sorpresa che ci ha fatto spesso.»

Hala gli prese le mani. «Preghiamo perché possa farcela anche ora.»


Félix Verenne era in attesa all’aeroporto di Gao quando Ismail Yerli scese la scaletta. «Bentornato nel Mali», disse tendendogli la mano. «Ho saputo che era già stato qui qualche anno fa.»

Yerli non sorrise mentre ricambiava il saluto. «Mi dispiace arrivare in ritardo ma l’aereo della Massarde Entreprises che ha mandato a prendermi a Parigi ha avuto problemi meccanici.»

«L’ho saputo. Avrei mandato un altro aereo, ma lei era già partito con un volo dell’Air Afrique.»

«Avevo l’impressione che il signor Massarde mi volesse qui al più presto possibile.»

Verenne annuì. «Bordeaux l’ha informata del suo incarico?»

«Sono al corrente delle sfortunate indagini dell’ONU e della NUMA, è ovvio, ma Bordeaux mi ha lasciato capire soltanto che il mio compito sarà quello di stabilire buoni rapporti con il generale Kazim e impedirgli di interferire nelle attività del signor Massarde.»

«L’idiota ha combinato un guaio tremendo con la storia dell’ispezione sul contagio. È un miracolo che i media internazionali non l’abbiamo ancora scoperto.»

«Hopper e i suoi colleghi sono morti?»

«È come se lo fossero. Lavorano come schiavi in un miniera d’oro segreta del signor Massarde nell’interno del Sahara.»

«E gli intrusi della NUMA?»

«Anche loro sono stati catturati e mandati alle miniere.»

«Allora lei e il signor Massarde tenete la situazione sotto controllo.»

«Perciò il signor Massarde l’ha fatta chiamare. Per evitare altri fiaschi dovuti a Kazim.»

«Dove debbo andare?» chiese Yerli.

«A Fourt Foureau, con istruzioni personali di Massarde. Le farà conoscere Kazim e a lui parlerà molto bene dei risultati che lei ha ottenuto nel campo dei servizi segreti. Kazim adora i romanzi di spionaggio, e sarà felice di contare sulla sua collaborazione senza sapere che lei riferirà al signor Massarde tutto ciò che farà.»

«Fort Foureau è molto lontano?»

«Due ore d’elicottero. Venga, ritiriamo il suo bagaglio. Ripartiremo subito dopo.»

Come i giapponesi che facevano affari senza acquistare i prodotti delle nazioni loro clienti, Massarde assumeva soltanto ingegneri e operai francesi, e si serviva esclusivamente di equipaggiamento e di mezzi di trasporto fabbricati in Francia. L’elicottero era un Ecureuil, come quello che Pitt aveva fatto affondare nel Niger. Verenne incaricò il secondo pilota di ritirare i bagagli di Yerli e caricarli a bordo.

Mentre prendeva posto su una comoda poltroncina di pelle a fianco dell’impassibile turco, uno steward venne a servire hors d’œuvre e champagne.

«Che lusso», commentò Yerli. «Stendete sempre il tappeto rosso per i comuni visitatori?»

«Ordini del signor Massarde», rispose Verenne. «Detesta l’abitudine americana di offrire bibite analcoliche, birra e noccioline. Sostiene che noi francesi dobbiamo dimostrare di possedere un gusto raffinato, in armonia con la nostra cultura, indipendentemente dall’importanza degli ospiti.»

Yerli alzò il bicchiere. «A Yves Massarde, e speriamo che non smetta mai d’essere generoso.»

«Al nostro capo», disse Verenne. «E che non smetta mai d’essere generoso con chi gli è fedele.»

Yerli vuotò il bicchiere, scrollò le spalle e lo tese per farlo riempire di nuovo. «C’è qualche reazione dei gruppi ambientalisti alla vostra attività di Fort Foureau?»

«Non proprio. Sono piuttosto incerti. Applaudono l’idea di un impianto autosufficiente a energia solare, ma hanno una paura tremenda delle conseguenze che la combustione delle scorie tossiche potrebbe avere per l’atmosfera del deserto.»

Yerli studiò le bollicine del suo champagne. «È certo che il segreto di Fort Foureau sia ben protetto? E se i governi europei e americani cominciassero a sospettare la verità?»

Verenne rise. «Sta scherzando? Quasi tutti i governi del mondo industrializzato sono ben felici di potersi sbarazzare dei rifiuti pericolosi senza che l’opinione pubblica venga a saperlo. In privato gli alti burocrati e i dirigenti delle industrie chimiche e nucleari di tutto il mondo ci hanno dato la loro benedizione.»

«Sanno la verità?» chiese sbalordito Yerli.

Verenne lo fissò con un sorriso divertito. «Chi crede che siano i clienti di Massarde?»

41.

Dopo aver abbandonato il camion, Pitt e Giordino camminarono nel caldo tremendo del pomeriggio e nel freddo della notte, per arrivare il più lontano possibile finché erano ancora abbastanza in forze. Quando si fermarono finalmente per riposare, era l’alba. Scavarono buche e si coprirono con la sabbia durante le ore più calde, per ripararsi dal sole feroce e ridurre la perdita d’acqua. Inoltre, la pressione della sabbia dava sollievo ai muscoli stanchi.

Durante il primo tratto percorsero quarantotto chilometri in direzione della loro meta. In realtà avevano camminato più a lungo, aggirandosi nelle valli tortuose fra le dune. La seconda sera si misero in cammino prima del tramonto, in modo che Pitt potesse piantare in terra il tubo e fissare una rotta prima che spuntassero le stelle. Al levar del sole dell’indomani mattina, la pista Transahariana era più vicina di altri quarantadue chilometri. Prima di infilarsi sotto la coltre di sabbia, vuotarono le ultime gocce contenute nella tanica. Da quel momento, a meno che trovassero altra acqua, i loro organismi avrebbero cominciato a disidratarsi e a morire.

La terza notte dovettero attraversare una barriera di dune che si estendeva a perdita d’occhio sulla destra e sulla sinistra. Le dune, per quanto minacciose, erano bellissime: le superfici delicate erano scolpite dal vento irrequieto in fragili increspature sempre mutevoli. Pitt aveva imparato in fretta i loro segreti. Dopo un declivio dolce di solito scendevano bruscamente dall’altra parte. Quando era possibile, procedevano sulle creste aguzze per non essere costretti a scendere e a salire sulla sabbia cedevole. Se era troppo difficile, zigzagavano negli avvallamenti dove la sabbia era più compatta.

Il quarto giorno le dune si abbassarono a poco a poco e si persero in un’immensa piana di sabbia, squallida e priva d’acqua. Durante le ore più calde della giornata, il sole batteva su quella distesa come il maglio d’un fabbro sul ferro rovente. Anche se era un sollievo essere arrivati a una superficie pianeggiante, camminare rimaneva difficile. Il suolo era coperto da due tipi diversi d’increspature. Le prime erano piccole creste poco profonde e non presentavano problemi. Ma le altre, più ampie e spaziate, avevano esattamente la lunghezza dei passi dei due amici, e avanzare era faticoso, un po’ come camminare sulle traversine di una ferrovia.

Le marce diventavano sempre più brevi, le soste più lunghe e frequenti. Continuavano a camminare in silenzio, a testa bassa: parlare inaridiva ancora di più la bocca. Erano prigionieri della sabbia, rinchiusi in una gabbia che si misurava soltanto con la distanza. C’erano pochi punti precisi di riferimento, a parte le vette accidentate di una bassa catena rocciosa che a Pitt ricordava le vertebre di un mostro preistorico. Era una terra dove ogni chilometro era esattamente identico all’altro e il tempo scorreva senza un significato, come se girasse su una ruota per scoiattoli.

Dopo venti chilometri, la pianura incontrava un plateau. Il nuovo sole stava per sorgere quando decisero di salire la ripida scarpata e arrivare in cima prima di riposare per l’intera giornata. Quattro ore più tardi, quando finalmente giunsero alla sommità, il sole era già alto sull’orizzonte. La fatica aveva tolto loro le forze: i cuori battevano all’impazzata dopo lo sforzo dell’ascesa, i muscoli delle gambe bruciavano dolorosamente, i polmoni invocavano l’aria.

Pitt era esausto e non voleva sedersi, temendo di non rialzarsi più. Rimase ritto a barcollare sulla sporgenza e si guardò intorno come un comandante sul ponte della nave. Se la pianura sottostante era una distesa uniforme, la superficie del plateau era un grottesco incubo bruciato dal sole. Un mare disordinato di ammassi di rocce nere e rosse, inframmezzati da sporgenze rugginose di minerale di ferro, si estendeva verso est. Era come guardare una città distrutta secoli prima da un’esplosione nucleare.

«Che parte dell’inferno è?» gracchiò Giordino.

Pitt prese la mappa di Fairweather, che ormai era tutta grinze e cominciava ad andare in pezzi, e la spianò sul ginocchio. «L’ha indicata sulla carta, ma non ha scritto il nome.»

«Allora, da questo momento, si chiamerà la Gobba di Giordino.»

Le labbra screpolate di Pitt si schiusero in un sorriso. «Se vuoi registrare il nome, non devi far altro che presentare la domanda all’Istituto Geologico Internazionale.»

Giordino si lasciò cadere a terra e girò uno sguardo vacuo sul plateau. «Quanta strada abbiamo fatto?»

«Circa centoventi chilometri.»

«Dobbiamo farne altri sessanta per raggiungere la pista.»

«Ma ci troviamo di fronte a una dimostrazione della legge di Pitt.»

«Che legge sarebbe?»

«Chi segue la mappa di un altro sbaglia sempre di venti chilometri.»

«Perciò quanto manca ancora?»

«Un’ottantina di chilometri, credo.»

Giordino guardò l’amico con gli occhi arrossati dalla stanchezza e parlò muovendo a stento le labbra gonfie e screpolate. «Altre cinquanta miglia, dunque. E abbiamo coperto le ultime settanta senza una goccia d’acqua.»

«A me sembrano mille», disse Pitt con voce rauca.

«Be’», borbottò Giordino. «Devo ammettere che il risultato finale è incerto. Non credo che ce la farò.»

Pitt alzò gli occhi dalla mappa. «Non avrei mai pensato di sentirti parlare così.»

«Non ho mai provato una sete così forte e tormentosa. Ricordo quando era una sensazione quotidiana. Adesso è diventata più un’ossessione che un desiderio.»

«Ancora due notti e balleremo sulla pista.»

Giordino scosse la testa. «È un sogno. Non abbiamo l’energia per camminare per altre cinquanta miglia senz’acqua con questo caldo. Siamo troppo disidratati.»

Pitt era perseguitato dalla visione di Eva che lavorava come una schiava nelle miniere e veniva percossa da Melika. «Morir ranno tutti se non ce la faremo.»

«Non puoi spremere sangue da una rapa», disse Giordino. «È un miracolo che siamo arrivati fin qui…» Si sollevò a sedere e si schermò gli occhi. Poi indicò una massa di rocce enormi. «Là in mezzo… non sembra l’entrata di una grotta?»

Pitt guardò. In effetti c’era un’apertura nera fra le rocce. Prese la mano di Giordino e lo fece alzare. «Vedi, abbiamo avuto fortuna. Non c’è niente di meglio di una bella grotta fresca per far passare le ore più calde della giornata.»

Il calore era già soffocante, come se si riflettesse sulle rocce rossobrune e sugli affioramenti ferrosi. Era come camminare sulle ceneri di un barbecue. Non avevano occhiali da sole, e quindi tenevano le palpebre socchiuse e si riparavano con la stoffa dei turbanti improvvisati, e riuscivano a vedere il terreno solo per qualche metro davanti a loro.

Dovettero salire un mucchio di massi per arrivare all’ingresso della grotta, evitando di toccarli con le mani nude per non scottarsi. Una piccola muraglia di sabbia aveva ostruito parzialmente l’imboccatura; s’inginocchiarono e la rimossero. Pitt dovette curvarsi per entrare, mentre Giordino avanzava nella sabbia restando eretto.

Non dovettero attendere che i loro occhi si abituassero alla luce fioca: non c’era una zona buia. La caverna non era stata scavata dal vento o dall’acqua penetrata nel calcare. Una massa di macigni, ammonticchiati l’uno sull’altro durante un grande sommovimento geologico del Paleozoico, aveva formato una grotta poco profonda. Il centro era illuminato dai raggi del sole che passavano attraverso le aperture in alto.

Mentre Pitt si addentrava, due grandi figure umane parvero balzargli incontro dall’ombra. Indietreggiò d’istinto e urtò Giordino.

«Mi hai pestato il piede», borbottò questi.

«Scusa.» Pitt indicò una parete liscia dove una figura umana stava per scagliare una lancia contro un bufalo. «Non immaginavo che avessimo compagnia.»

Giordino sbirciò al di sopra della spalla dell’amico la figura umana, sbalordito all’idea di trovarsi di fronte a un’opera d’arte nella zona più desolata e spopolata del mondo. Si guardò intorno e vide una vera galleria di arte preistorica e antica che mostrava secoli di stili artistici, adottati dalle varie culture che si erano succedute.

«È tutto vero?» mormorò.

Pitt si avvicinò ai misteriosi dipinti rupestri ed esaminò una figura alta tre metri con una maschera carica di fiori. La sete e la stanchezza l’abbandonarono mentre l’osservava, stupito. «È un’opera d’arte, sicuro. Vorrei essere un archeologo e poter interpretare i vari stili e le culture. I dipinti più antichi incominciano in fondo alla grotta, e le varie culture avanzano cronologicamente verso tempi più recenti.»

«Come l’hai capito?»

«Dieci o dodicimila anni or sono il Sahara aveva ancora un clima umido e tropicale. La vegetazione abbondava. Era molto più ospitale.» Pitt indicò un gruppo di figure che scagliavano lance contro un gigantesco bufalo ferito dalle corna enormi. «Deve essere il dipinto più antico perché mostra i cacciatori che uccidono un bufalo grosso poco meno di un elefante, d’una specie estinta ormai da molto tempo.»

Pitt passò a un altro dipinto che copriva diversi metri quadrati. «E qui ci sono mandriani con il bestiame», disse indicando le immagini. «Dovremmo essere intorno al 5000 avanti Cristo. Questa scena mostra una composizione più creativa, e una maggiore attenzione al dettaglio.»

«Un ippopotamo», esclamò Giordino mentre osservava un disegno colossale che copriva un intero lato d’una roccia piatta. «Questa parte del Sahara non deve vederne da molto tempo.»

«No, almeno negli ultimi tremila anni. È difficile immaginare che un tempo quest’area fosse una sconfinata prateria dove vivevano animali come gli struzzi, le antilopi e le giraffe.»

Mentre proseguivano e sulla roccia si snodava il trascorrere del tempo nel Sahara, Giordino commentò: «A questo punto si direbbe che gli artisti locali abbiano smesso di ritrarre il bestiame e la vegetazione».

«Le piogge cessarono e la terra cominciò a inaridirsi», spiegò Pitt, che ricordava le nozioni acquisite durante un corso di storia antica. «Dopo quattromila anni di pascolo incontrollato la vegetazione sparì e il deserto cominciò ad avere la meglio.»

Giordino procedette verso l’entrata, e si fermò davanti a un altro dipinto. «Questa è una corsa di carri.»

«I popoli venuti dal Mediterraneo introdussero i cavalli e i carri prima del 1000 avanti Cristo», spiegò Pitt. «Ma non immaginavo che fossero penetrati nel deserto.»

«E poi che cosa viene, professore?»

«Il periodo del dromedario», rispose Pitt, che era davanti alla lunga scena di una carovana che mostrava una sessantina di dromedari in una fila serpeggiante. «Furono introdotti in Egitto dopo la conquista persiana del 525 avanti Cristo. Con i dromedari, le carovane romane attraversavano il deserto dalla costa a Timbuctu; e da allora i dromedari sono sempre rimasti grazie alla loro incredibile resistenza.»

In un periodo più recente i dipinti con i dromedari diventavano più rozzi e rudimentali delle opere precedenti. Pitt si fermò davanti a un’altra serie di scene e studiò una battaglia che era stata incisa e poi dipinta d’un magnifico rosso ocra. I guerrieri dalle barbe quadrate, che brandivano lance e scudi e stavano a coppie su carri a due ruote trainate da quattro cavalli, attaccavano un esercito di arcieri negri le cui frecce piovevano dal cielo.

«Bene, signor Sotutto», disse Giordino. «Spiegami un po’ questa.»

Pitt si avvicinò. Per qualche secondo fissò sconcertato il dipinto. L’immagine era tracciata in uno stile lineare, infantile. Una imbarcazione avanzava sul fiume che brulicava di pesci e coccodrilli. Era difficile immaginare che l’inferno circostante fosse stato un tempo una regione fertile dove, in fiumi ora prosciugati, nuotavano i coccodrilli.

Si avvicinò di più, con un lampo d’incredulità negli occhi. Non erano i coccodrilli o i pesci ad attirare la sua attenzione: era il vascello a galla fra i ghirigori che rappresentavano la corrente d’un fiume. Avrebbe dovuto essere un’imbarcazione di tipo egiziano, invece era completamente diversa, molto più moderna. La sagoma che emergeva dall’acqua era una piramide tronca, una piramide con il vertice tranciato e parallelo alla base. Dalle fiancate sporgevano tubi rotondi e numerose figure minuscole stavano sul ponte in varie pose, sotto quella che sembrava una bandiera tesa dal vento. La nave si estendeva per circa quattro metri sulla superficie scabra della roccia.

«Una corazzata», esclamò Pitt, sbigottito. «Una corazzata della Confederazione.»

«Non è possibile», disse Giordino, completamente frastornato.

«Invece lo è», ribatté bruscamente Pitt. «Deve essere quella di cui ci ha parlato il vecchio cercatore.»

«Allora non è un mito.»

«Gli artisti locali non avrebbero potuto raffigurare qualcosa che non avevano mai visto. Ha persino la bandiera da combattimento confederata che fu adottata verso la fine della guerra di secessione.»

«Forse l’ha dipinta un ufficiale della Marina dei ribelli, capitato nel deserto dopo la fine del conflitto.»

«Non avrebbe imitato lo stile locale», disse pensosamente Pitt. «In questa scena non c’è niente che faccia pensare a un’influenza occidentale.»

«E cosa ne dici delle due figure in piedi sulla casamatta?» chiese Giordino.

«Uno è senza dubbio un ufficiale. Forse il comandante.»

«E l’altro?» mormorò Giordino con una smorfia d’incredulità.

Pitt esaminò dalla testa ai piedi la figura accanto al comandante. «Chi credi che sia?»

«Non mi fido dei miei occhi. Sono bruciati dal sole. Speravo che me lo dicessi tu.»

Pitt cercava di far mente locale su tutta una serie di eventi che gli sfuggivano completamente. «Chiunque sia stato l’artista», mormorò, affascinato, «ha dipinto un ritratto molto somigliante di Abraham Lincoln.»

42.

Il riposo nella frescura della grotta ritemprò Pitt e Giordino al punto che si sentirono in grado di tentare la traversata del territorio ostile che li separava dalla pista Transahariana. Accantonarono per il momento tutti i pensieri e le congetture sulla leggendaria corazzata nel deserto e si prepararono mentalmente a tentare un’impresa quasi impossibile.

Verso la fine del pomeriggio Pitt uscì dalla grotta sotto il fuoco implacabile del sole per piantare in terra il tubo che usava come bussola. Dopo pochi minuti in quell’atmosfera da forno ebbe la sensazione di struggersi come una candela di cera. Scelse una grande roccia che spuntava all’orizzonte, all’incirca cinque chilometri più a est, come meta per la prima ora di cammino.

Quando tornò nella grotta non ebbe bisogno di sentire lo sfinimento e la sofferenza per capire quanto era diventato debole. Tutta la sua angoscia si specchiava negli occhi scavati di Giordino, negli indumenti sudici e nei capelli impastati di sabbia, ma soprattutto nell’espressione dell’uomo che si sente arrivato alla fine della propria strada.

Avevano affrontato insieme innumerevoli pericoli, ma Pitt non aveva mai visto quell’aria sconfitta nell’amico. Lo stress psicologico vinceva la resistenza fisica. Giordino era un individuo pratico. Fronteggiava gli insuccessi e le difficoltà con tenacia e li aggrediva a testa bassa. Diversamente da Pitt, non riusciva a usare la forza dell’immaginazione per scacciare la tortura della sete e i dolori strazianti di un organismo che, sconvolto dalla mancanza di cibo e d’acqua, desiderava solo l’oblio. Non riusciva a sprofondare in un mondo di sogno in cui il tormento e la disperazione erano sostituiti da piscine, bibite tropicali e tavoli da buffet carichi di piatti appetitosi.

Pitt si rendeva conto che quella era l’ultima notte. Per sconfiggere il deserto nel suo gioco mortale, avrebbero dovuto raddoppiare la loro volontà di sopravvivere. Altre ventiquattr’ore senz’acqua li avrebbero finiti. Non avrebbero più avuto la forza per andare avanti. Si rendeva conto che la pista Transahariana era d’una cinquantina di chilometri troppo lontana.

Lasciò che Giordino riposasse per un’altra ora, poi lo scosse per destarlo da un sonno profondo. «Dobbiamo muoverci subito se vogliamo coprire una certa distanza prima del prossimo levar del sole.»

Giordino socchiuse a stento le palpebre e si sollevò faticosamente a sedere. «Perché non restiamo ancora un giorno a prendercela comoda?»

«Troppe persone, uomini, donne e bambini, contano su di noi perché ci salviamo e possiamo tornare a salvarli. Ogni ora è importante.»

Il pensiero delle donne e dei bambini sofferenti e spaventati rinchiusi nelle miniere d’oro di Tebezza bastò a strappare Giordino dalle nebbie del sonno e a farlo alzare in piedi. Per qualche minuto, seguendo il suggerimento di Pitt, fecero esercizi di stretching per sciogliere i muscoli doloranti e le giunture indurite. Diedero un’ultima occhiata agli straordinari dipinti rupestri, indugiando sull’immagine della corazzata ribelle; poi si avviarono attraverso il grande plateau. Pitt procedeva verso la roccia che aveva individuato a est.

Era inevitabile. A parte le brevi soste per riposare dovevano continuare fino a quando avessero raggiunto la pista e fossero stati trovati da un automobilista di passaggio, preferibilmente provvisto di un’abbondante scorta d’acqua. Qualunque cosa accadesse, nonostante il caldo atroce, la sabbia che, sollevata dal vento, abradeva la pelle, e il terreno accidentato, dovevano continuare la marcia fino a quando fossero crollati o avessero incontrato la salvezza.

Dopo aver causato la sua razione di danni per quel giorno, il sole tramontò e una mezza luna gonfia prese il suo posto. Neppure un alito di vento smuoveva la sabbia e sul deserto regnava un silenzio profondo. Il paesaggio desolato pareva estendersi all’infinito e le rocce che sporgevano dal plateau come ossa di dinosauro irradiavano ancora ondate di calore. Non si muoveva nulla, tranne le ombre che si allungavano dietro le rocce come fantasmi evocati dalle ultime luci della sera.

Camminarono per sette ore. La guglia di roccia scelta come punto di riferimento si avvicinò e sparì mentre la notte diventava più fredda. Debolissimi e sfiniti, i due cominciarono a tremare irrefrenabilmente. Gli sbalzi estremi della temperatura davano a Pitt la sensazione di vivere, nell’arco di una giornata, tutti i cambiamenti stagionali: le ore più calde del giorno erano l’estate, la sera era l’autunno, mezzanotte l’inverno e la mattina era la primavera.

Il terreno cambiò gradualmente e Pitt non si accorse che le rocce e gli affioramenti ferrosi erano diventati via via più piccoli ed erano completamente spariti. Solo quando si fermò e alzò gli occhi verso le stelle per orientarsi e poi guardò davanti a sé, si rese conto che erano scesi dal pendio del plateau ed erano giunti in una pianura tagliata da una serie di uadi, o fiumi prosciugati, scavati da corsi d’acqua spariti da molto tempo.

La stanchezza fece rallentare la loro avanzata che si ridusse a un movimento vacillante. Lo sfinimento era come un peso che dovevano portare sulle spalle. Camminavano e camminavano, sempre più sofferenti e disperati. Tuttavia avanzavano lentamente verso est con quella poca forza che restava loro. Erano così deboli che dopo le soste faticavano ad alzarsi in piedi e a riprendere la battaglia.

Pitt evocava le immagini del trattamento inflitto da O’Bannion e da Melika alle donne e ai bambini nella miniera infernale. Vedeva la cinghia di Melika che colpiva rabbiosamente le vittime impotenti, disfatte dalle privazioni e dalle fatiche. Quanti erano morti dal giorno della loro fuga? Eva era stata forse portata nella camera sotterranea dei cadaveri? Avrebbe potuto scacciare quei pensieri orribili; ma lasciava che indugiassero perché servivano a spronarlo, lo spingevano a ignorare le sofferenze e a continuare con la disumana forza d’una macchina.

Era strano, pensò, non ricordare quando aveva sputato per l’ultima volta. Anche se succhiava i sassolini per alleviare la sete implacabile, non rammentava neppure quando aveva sentito la saliva nella bocca. La lingua s’era gonfiata come una spugna e sembrava cosparsa di allume. Tuttavia riusciva ancora a deglutire.

Avevano ridotto la traspirazione camminando di notte e tenendo addosso le camicie durante il giorno per limitare l’evaporazione del sudore senza perderne gli effetti rinfrescanti; ma si rendeva conto che i loro organismi avevano perduto troppo sale e che questo contribuiva a indebolirli ancora di più.

Pitt faceva ricorso a tutti i trucchi che riusciva a ripescare nella memoria e che potevano essere utili per sopravvivere nel deserto: per esempio, respirava con il naso per evitare la perdita dell’acqua e parlava pochissimo, solo quando si fermavano per riposare.

Giunsero a uno stretto fiume di sabbia che attraversava una valle fra colline cosparse di macigni, e seguirono l’uadi fino a quando deviò verso nord; allora salirono sulla riva e proseguirono lungo la rotta prestabilita. Stava spuntando un altro giorno, e Pitt si soffermò per controllare la mappa di Fairweather. Alzò il foglio sbrindellato nella direzione opposta alla luce che spuntava a oriente. Il rozzo disegno mostrava un grande lago prosciugato che si stendeva quasi ininterrottamente fino alla pista Transahariana. Anche se il terreno pianeggiante permetteva di camminare con maggiore facilità, Pitt vedeva intorno a sé un ambiente esiziale in cui non esisteva l’ombra.

Non era possibile riposare durante le ore più calde del giorno. Il terreno ghiaioso era troppo compatto per scavarsi una buca. Dovevano continuare a marciare e sopportare il caldo che aveva la violenza delle fiamme. Il sole stava già irrompendo nel cielo e annunciava un’altra giornata di orribili torture.

La sofferenza continuò. Poi apparvero alcune nubi che nascosero il sole e accordarono ai due uomini quasi due ore di sollievo. Poi le nubi passarono oltre, si dispersero, e il sole tornò ancora più caldo. A mezzogiorno il legame di Pitt e Giordino con la vita si fece ancora più debole. Se il caldo del giorno non fosse riuscito a sconfiggere i loro organismi tormentati, ci sarebbe riuscita senza dubbio la lunga notte di freddo intenso.

Poi giunsero a un burrone dai fianchi scoscesi che scendeva per sette metri sotto la superficie del lago prosciugato e lo fendeva quasi come un canale artificiale. Pitt, che guardava il suolo, per poco non piombò oltre l’orlo. Si fermò barcollando e fissò disperato la barriera inaspettata. Non aveva più la forza per scendere sul fondo della gola e risalire dalla parte opposta. Giordino lo raggiunse vacillando e si accasciò inerte, con la testa e le braccia che penzolavano dal ciglio del precipizio.

Pitt guardava l’immenso vuoto che si estendeva al di là della spaccatura e sentiva che la loro lotta epica era giunta alla fine. Avevano percorso soltanto trenta chilometri e ne restavano ancora cinquanta.

Giordino girò la testa e guardò Pitt che era ancora in piedi ma barcollava esausto, scrutando l’orizzonte orientale, come se vedesse la meta irraggiungibile.

Per quanto fosse esausto, Pitt aveva ancora un aspetto magnifico. Il volto severo, la statura imponente, i penetranti occhi opalini, il naso imperioso come il rostro di un rapace, la testa avvolta in un asciugamani bianco impolverato da cui spuntavano le ciocche dei capelli neri non gli davano l’aspetto di un uomo sconfitto di fronte alla morte certa.

Il suo sguardo scrutò il fondo della gola in entrambe le direzioni, e si arrestò mentre un’espressione perplessa spuntava negli occhi che brillavano attraverso la stretta apertura nel turbante. «Ho perso la ragione», bisbigliò.

Giordino rialzò la testa. «Io l’ho persa già da una ventina di chilometri.»

«Giuro che vedo…» Pitt scosse la testa e si soffregò gli occhi. «Dev’essere un miraggio.»

Giordino guardò l’immensa fornace deserta. C’erano specchi d’acqua che tremolavano in lontananza sotto le onde di calore. La visione immaginaria di ciò che desiderava con tanta disperazione era insopportabile. Si voltò.

«L’hai visto?» chiese Pitt.

«Con gli occhi chiusi», disse Giordino con voce stridente, «vedo un saloon con tante ballerine che mi offrono enormi boccali di birra ghiacciata.»

«Io parlo sul serio.»

«Anch’io. Ma se ti riferisci al falso lago su quella piana, lascia perdere.»

«No», disse Pitt. «Mi riferisco all’aeroplano che è nella gola.»

In un primo momento Giordino pensò che l’amico fosse impazzito; ma poi si girò di nuovo sullo stomaco e guardò nella stessa direzione.

Nel deserto, ciò che è costruito dall’uomo non si disintegra e non imputridisce. Il peggio che può accadere è che il metallo venga smerigliato dalle tempeste di sabbia. E contro una banchina del corso d’acqua prosciugato, come un’aberrazione aliena, senza ombra di ruggine, quasi privo di erosione e di veli di polvere, c’era un aeroplano precipitato. Sembrava un vecchio monoplano ad ala alta, rimasto immobilizzato nella solitudine per diversi decenni.

«Lo vedi?» ripeté Pitt. «Oppure sono impazzito?»

«No, se non sono impazzito anch’io», disse Giordino, allibito. «Sembra proprio un aereo.»

«Allora deve essere vero.»

Pitt aiutò l’amico a rialzarsi. Avanzarono incespicando lungo il ciglio della gola fino a quando arrivarono direttamente sopra il relitto. La stoffa che rivestiva la fusoliera e le ali era intatta, i numeri d’identificazione erano leggibili. L’elica d’alluminio s’era spezzata nel contatto con il terreno e il motore radiale con i cilindri scoperti era rientrato parzialmente nell’abitacolo e s’era inclinato verso l’alto sui supporti spezzati. Ma a parte questo e il carrello schiantato, sembrava aver subito pochi danni. Erano ancora visibili i solchi scavati nel terreno quando l’aereo l’aveva toccato prima di precipitare oltre l’orlo e finire nel letto asciutto dell’antico fiumicello.

«Da quanto credi che sia qui?» gracchiò Giordino.

«Almeno cinquant’anni, forse sessanta», rispose Pitt.

«Il pilota deve essere sopravvissuto. Si sarà allontanato a piedi.»

«Non è sopravvissuto», disse Pitt. «Sotto l’ala di tribordo spuntano le gambe.»

Giordino girò lo sguardo. Dall’ombra dell’ala spuntavano uno stivale antiquato con i lacci e una parte di un pantalone color kaki. «Credi che gli dispiacerà se gli facciamo compagnia? Si è accaparrato l’unica ombra della zona.»

«Giusto.» Pitt scese, si lasciò scivolare sul dorso lungo il pendio ripido, e sollevò le ginocchia per usare i piedi come freni.

Giordino lo imitò. Piombarono nell’uadi sollevando zampilli di ghiaia e polvere. Come era avvenuto quando avevano scoperto la grotta con i dipinti rupestri, dimenticarono temporaneamente la sete quando si rialzarono e si avvicinarono al pilota morto da tanto tempo.

La sabbia aveva coperto la parte inferiore della figura che giaceva con la schiena appoggiata alla fusoliera. Una gruccia rudimentale ricavata da un supporto delle ali era a terra, accanto a un piede nudo. La bussola di bordo era semisepolta nella sabbia.

Il corpo del pilota era sorprendentemente ben conservato. Il caldo secco e il freddo intenso avevano cooperato per mummificarlo, e la pelle era scura e levigata come cuoio. C’era un’espressione di serenità e di soddisfazione sul viso; e le mani, irrigidite da più di sessant’anni d’immobilità, erano intrecciate sullo stomaco. Su una gamba era posato un vecchio casco da aviatore con gli occhialoni. I capelli neri, rinsecchiti e pieni di polvere, scendevano oltre le spalle.

«Mio Dio», mormorò sbalordito Giordino. «È una donna.»

«Doveva avere poco più di trent’anni», osservò Pitt. «Ed era molto carina.»

«Chissà chi era», ansimò Giordino, incuriosito.

Pitt girò intorno al corpo e slegò un pacchetto avvolto nella tela cerata e fissato alla maniglia dello sportello. L’aprì con cura e trovò un diario di bordo. Aprì la copertina e lesse la prima pagina.

«Kitty Mannock», disse.

«Chi?»

«Kitty Mannock, un’aviatrice famosa. Australiana, se non ricordo male. La sua scomparsa fu uno dei grandi misteri dell’aviazione, secondo solo al caso di Amelia Earhart.»

«E come mai è finita qui?» chiese Giordino che non riusciva a staccare lo sguardo dal corpo.

«Stava cercando di stabilire un primato con un volo da Londra a Città del Capo. Dopo la sua scomparsa, i militari francesi la cercarono sistematicamente ma non trovarono traccia di lei e dell’aereo.»

«Purtroppo era finita nell’unica gola che esiste in un raggio di cento chilometri. Sarebbe stata ben visibile dall’alto, se fosse atterrata sulla superficie del lago prosciugato.»

Pitt sfogliò le pagine del diario. «È precipitata il 10 ottobre 1931. L’ultima annotazione porta la data del 20 ottobre.»

«È sopravvissuta per dieci giorni», mormorò Giordino in tono ammirato. «Kitty Mannock doveva essere una donna forte e coraggiosa.» Si stese all’ombra dell’ala ed esalò un sospiro stanco fra le labbra gonfie e screpolate. «Dopo tanto tempo, avrà finalmente compagnia.»

Pitt non l’ascoltava. Aveva concentrato l’attenzione su un pensiero audace. Infilò il diario di bordo nella tasca e cominciò a esaminare ciò che restava dell’aereo. Non badò al motore: controllò invece il carrello. Anche se i supporti erano appiattiti dall’impatto, le gomme non erano rovinate, e anche quella piccola della coda era in buone condizioni.

Poi studiò le ali. Quella di tribordo aveva subito qualche danno, e sembrava che Kitty ne avesse ritagliato un grosso pezzo di stoffa; ma l’altra era pressoché intatta. La stoffa che copriva i supporti e le centine era indurita e piena di crepe, ma non s’era spaccata nonostante le condizioni estreme di caldo e di freddo. Assorto nei suoi pensieri, Pitt appoggiò la mano sul pannello metallico davanti all’abitacolo e la ritirò di colpo. Il metallo scottava come una padella sul fuoco. Nella fusoliera trovò una cassetta per gli attrezzi che includeva una piccola sega e il necessario per riparare le gomme, inclusa una pompa a mano.

Rimase assorto, ignaro del caldo feroce del sole. Aveva il viso scavato, era disidratato e denutrito. Avrebbe dovuto trovarsi in un letto d’ospedale dove avrebbero cercato di reidratarlo. Il vecchio con la falce stava per toccargli la spalla con la mano ossuta. Ma la mente di Pitt funzionava ancora alla perfezione e valutava i pro e i contro. E in quel momento decise che non sarebbe morto.

Girò intorno all’estremità dell’ala destra e si avvicinò a Giordino. «Hai mai letto Il volo della Fenice di Elleston Trevor?» chiese.

Giordino lo guardò socchiudendo gli occhi. «No, ma ho visto il film con Jimmy Stewart. Perché? Hai bisogno d’una revisione alle rotelle, se credi che possiamo far volare di nuovo questo relitto.»

«Non voglio farlo volare», rispose Pitt con calma. «Ho esaminato l’aereo e credo che possiamo utilizzarne varie parti per costruire un veliero da terraferma.»

«Un veliero da terraferma», ripeté Giordino, esasperato. «Sicuro, e ci metteremo un bar e una sala da pranzo…»

«Qualcosa di simile alle slitte a vela che usano sui ghiacci, ma con le ruote al posto dei pattini», continuò Pitt senza far caso a quel sarcasmo.

«E cosa intendi usare come vela?»

«Un’ala dell’aereo. In sostanza è una vela ellittica. Basta fissarla con la punta in alto.»

«Non ne avremo la forza», protestò Giordino. «Ci vorrebbero giorni, per un lavoro del genere.»

«No. Poche ore. L’ala di babordo è in buone condizioni, la stoffa che la riveste è ancora intatta. Possiamo usare come scafo la sezione centrale della fusoliera fra l’abitacolo e la coda. E con i supporti possiamo fabbricare i sostegni a estensione, e con le due ruote del carrello e quella piccola della coda possiamo realizzare una specie di triciclo. Abbiamo a disposizione cavi a sufficienza per regolare la vela e improvvisare una specie di timone.»

«Con quali utensili?»

«C’è una cassetta a bordo. Non sono dei migliori, ma dovrebbero servire.»

Giordino scosse la testa lentamente, pieno di stupore. Sarebbe stata la cosa più facile del mondo considerare la proposta di Pitt come un’allucinazione, sdraiarsi di nuovo al suolo e lasciare che la morte lo trasportasse pacificamente nell’oblio. La tentazione era foltissima. Ma nel suo petto batteva un cuore che non voleva arrendersi, e la sua mente si rifiutava di cedere senza combattere. Con lo sforzo di un malato che solleva un grosso peso, si rimise in piedi e parlò con voce impastata dalla fatica e dall’eccessiva esposizione al caldo.

«È inutile stare qui a compiangerci. Tu stacca l’intelaiatura dell’ala mentre io smonto le ruote.»

43.

All’ombra di un’ala Pitt spiegò la sua idea per la costruzione di un veicolo a vela usando i pezzi del vecchio aereo. Era un piano d’una semplicità incredibile, nato in una cripta del deserto dalla mente di due uomini che erano ormai a un passo dalla morte ma rifiutavano di rassegnarsi. Per costruire quel mezzo avrebbero dovuto attingere ancora più profondamente in loro stessi per trovare le forze che credevano di avere ormai perduto.

La navigazione a vela sulla terraferma non era una novità. I cinesi già l’usavano duemila anni or sono. L’adottarono anche gli olandesi, che montavano le vele sui carri pesanti per trasportare piccoli eserciti. Gli americani costruivano spesso carrelli a vela che viaggiavano sui binari attraverso le praterie. Gli europei, all’inizio del ventesimo secolo, ne avevano fatto uno sport e lo praticavano sulle spiagge delle località di villeggiatura; poi era stata solo questione di tempo prima che i maniaci della velocità sud-californiana, che correvano con macchine potenziate sui laghi prosciugati del deserto di Mojave, si appropriassero dell’idea e arrivassero a organizzare gare che attiravano partecipanti da ogni parte del mondo e facevano registrare velocità prossime ai centocinquanta chilometri orari.

Con l’ausilio degli utensili trovati nell’abitacolo, Pitt e Giordino affrontarono i compiti più agevoli durante il pomeriggio rovente e quelli più pesanti quando venne il fresco della sera. E dato che il loro passatempo preferito era restaurare automobili e aerei d’epoca, lavoravano con efficienza e senza movimenti inutili nel tentativo di conservare quel po’ d’energia che gli restava.

Non badavano affatto a risparmiarsi mentre s’impegnavano per raggiungere uno scopo; lavoravano senza riposare mai e parlando pochissimo perché le bocche aride e le lingue gonfie lo rendevano difficile. La luna illuminava le loro fatiche e disegnava ombre in movimento sulla parete della gola.

Lasciarono rispettosamente intoccato il corpo di Kitty Mannock; lavoravano intorno a lei senza manifestare emozione e a volte le rivolgevano la parola come se fosse viva, quando le loro menti sopraffatte dalla sete sconfinavano in un limbo.

Giordino rimosse le due grandi ruote del carrello e la piccola ruota di coda, ripulì gli ingranaggi dalla sabbia e li lubrificò con il contenuto del filtro dell’olio del motore. Le vecchie gomme erano screpolate e indurite dal sole; conservavano ancora la forma ma non c’era speranza che tenessero l’aria; perciò Giordino tolse i tubolari interni, riempì di sabbia i copertoni e li rimontò sulle ruote.

Poi costruì i supporti per reggere le ruote utilizzando le centine dell’ala danneggiata. Quando ebbe finito, tagliò con la sega i sostegni che fissavano il centro della fusoliera alla paratia dietro l’abitacolo. Poi ripeté l’operazione con la sezione di coda. Dopo aver liberato la parte centrale incominciò a unire l’estremità più larga dell’abitacolo alle estensioni, per sostenere le due ruote principali, che adesso erano distanziate di due metri e mezzo dal fondo della fusoliera nella parte più larga. L’estremità opposta, che si affusolava verso la coda, era diventata la parte anteriore del mezzo a vela e gli dava un primitivo aspetto aerodinamico. L’ultimo tocco a quello che doveva diventare lo scafo fu la costruzione di un prolungamento fissato alla ruota di coda, che si estendeva in avanti per tre metri. Il risultato quasi completo ricordava uno di quei veicoli che, negli anni ’30, i ragazzi ricavavano dalle vecchie casse.

Mentre Giordino montava lo scafo, Pitt si concentrava sulla vela. Dopo aver staccato l’ala dalla fusoliera, irrigidì gli alettoni e prolungò il supporto più pesante all’interno del bordo anteriore, per formare una specie di albero. Con l’aiuto di Giordino mise l’ala in posizione verticale, montò l’albero al centro dello scafo, un lavoro reso più facile dalla leggerezza del legno stagionato dall’aria del deserto e della stoffa che ricopriva la vecchia ala. Il risultato era una vela rotante. Poi Pitt usò i cavi di controllo per fissare le estensioni laterali installate da Giordino e la prua all’albero. Quindi costruì un apparato timoniere che andava dall’interno dello scafo alla ruota anteriore, sempre servendosi dei cavi e, per ultimo, un sistema di scotte per regolare la vela.

Gli ultimi tocchi furono la rimozione dei sedili e il loro trasferimento nell’abitacolo del veliero di terraferma. Infine Pitt tolse la bussola dal quadro dei comandi, la montò accanto al timone e legò all’albero, come portafortuna, il tubo che aveva usato per orientarsi fino a quel momento.

Terminarono il lavoro alle tre del mattino e crollarono stremati sulla sabbia. Rimasero distesi a rabbrividire nel freddo intenso e a guardare il loro capolavoro.

«Non volerà mai», mormorò esausto Giordino.

«Basta che ci trasporti attraverso la pianura.»

«Hai pensato a come faremo a uscire dalla gola?»

«Cinquanta metri più avanti il declivio della riva orientale diventa abbastanza graduale perché possiamo trainarlo fino alla superficie del lago prosciugato.»

«Sarebbe già tanto se riuscissimo a fare quel tratto a piedi senza dover tirare questo aggeggio su per un pendio. E niente ci garantisce che poi funzionerà.»

«Ci basta un vento leggero», disse Pitt con una voce che si sentiva appena. «E se gli ultimi sei giorni offrono un indizio valido, non dovremmo preoccuparci.»

«È bello inseguire un sogno impossibile.»

«Funzionerà», affermò Pitt, deciso.

«Quanto credi che pesi?»

«Più o meno centosessanta chili.»

«Come lo chiameremo?» chiese Giordino.

«Cosa?»

«Deve avere un nome, no?»

Pitt indicò Kitty con un cenno. «Se ce la faremo a uscire da questa pentola a pressione, lo dovremo a lei. Ti piace Kitty Mannock?»

«Ottima scelta.»

Continuarono a scambiarsi qualche parola ogni tanto con voci che si perdevano nel grande vuoto dello spazio morto, fino a quando si assopirono.

Il sole bruciante sondava il fondo della gola quando, finalmente, si svegliarono. Alzarsi in piedi richiese un immane sforzo di volontà. Salutarono in silenzio Kitty e si avviarono barcollando verso il muso della loro unica, improvvisata speranza di sopravvivere. Pitt legò due pezzi di cavo alla parte anteriore del veicolo e ne porse uno a Giordino. «Te la senti?»

«Diavolo, no», sibilò Giordino, faticosamente.

Pitt sorrise, sebbene le labbra screpolate e sanguinanti dolessero. Guardò Giordino negli occhi, alla ricerca di quella luce che avrebbe garantito la salvezza. La luce c’era, ma fioca. «Facciamo a chi arriva primo in cima.»

Giordino barcollò come un ubriaco in una tempesta, ma strizzò l’occhio e disse in tono coraggioso: «Ti farò mangiare la polvere, fesso». Si issò il cavo sulla spalla, si inclinò in avanti e cadde subito bocconi.

L’imbarcazione a ruote rotolò come un carrello della spesa sul pavimento di un supermercato e per poco non lo travolse.

Giordino guardò Pitt con gli occhi arrossati e un’espressione di stupore sulla faccia bruciata dal sole. «Per Dio, è leggera come una piuma.»

«Naturale. L’hanno costruita due meccanici di prim’ordine.»

Senza parlare, trascinarono il veicolo al centro dell’uadi fino a quando raggiunsero un pendio di trenta gradi che arrivava alla superficie del lago prosciugato.

Era una salita di sette metri appena, ma per due uomini che appena diciotto ore prima s’erano creduti sull’orlo della tomba la sommità dell’erta sembrava la vetta dell’Everest. Non avevano immaginato di sopravvivere a un’altra notte; ma adesso erano di fronte a quello che immaginavano fosse l’ultimo ostacolo fra la salvezza e la morte.

Pitt fece il primo tentativo mentre Giordino riposava. Si fissò intorno alla vita uno dei due cavi da rimorchio e cominciò a inerpicarsi per il declivio come una formica ubriaca, pochi centimetri alla volta. Il suo corpo era una macchina esausta, al servizio d’una mente che solo a fatica riusciva ad aggrapparsi alla realtà. I muscoli doloranti protestavano, lanciando fitte atroci. Le braccia e le gambe cedettero ben presto, ma Pitt s’impose di continuare. Gli occhi iniettati di sangue erano semichiusi per la stanchezza, la faccia era scavata dalla sofferenza, i polmoni aspiravano l’aria in rantoli tormentati, il cuore batteva come un martello pneumatico sotto lo sforzo disumano.

Pitt non poteva fermarsi. Se lui e Giordino fossero morti, sarebbero morti anche gli infelici schiavi delle miniere di Tebezza, e il resto del mondo avrebbe ignorato il loro destino. Non poteva arrendersi, stramazzare e spirare… Non poteva farlo proprio ora che stava per sconfiggere il vecchio con la falce. Strinse i denti e riprese a salire.

Giordino tentò di gridargli qualche parola d’incoraggiamento, ma riuscì soltanto a emettere un bisbiglio gracchiante.

E finalmente le mani di Pitt superarono brancolando il ciglio del pendio. Chiamò a raccolta tutte le sue forze e tutta la sua volontà per trascinarsi sulla superficie del lago prosciugato. Rimase a terra, sull’orlo dell’incoscienza, consapevole soltanto del proprio respiro rantolante e dei battiti del cuore che minacciava di sfondare le costole.

Non seppe mai per quanto tempo rimase immobile sotto il sole: ma finalmente il respiro e il cuore rallentarono fino a una parvenza di regolarità. Si sollevò sulle mani e sulle ginocchia e guardò ai piedi del pendio. Giordino, seduto all’ombra della vela, agitò stancamente una mano.

«Sei pronto a salire?» chiese Pitt.

Giordino annuì fiaccamente, afferrò il cavo da rimorchio e incominciò a issarsi a poco a poco. Pitt si passò sulla spalla la sua estremità del cavo e fece leva con il suo peso inclinandosi in avanti, cercando di non sprecare energia. Quattro minuti più tardi, un po’ trascinandosi e un po’ lasciandosi trainare da Pitt, Giordino rotolò sul terreno piatto come un pesce tirato in secco dopo una lunga lotta contro l’amo e la lenza.

«Adesso viene il bello», mormorò Pitt.

«Non me la sento», ansimò Giordino.

Pitt lo guardò e vide che sembrava già morto. Aveva gli occhi chiusi, la faccia e la barba lunga erano coperte di polvere bianca. Se non fosse stato in grado di aiutarlo a rimorchiare il veicolo a vela fuori della gola, sarebbero morti entrambi prima di sera.

Pitt s’inginocchiò e lo schiaffeggiò bruscamente. «Non puoi abbandonarmi», sibilò. «Come puoi sperare di conquistare la bella pianista di Massarde se non ti decidi a muoverti?»

Giordino aprì gli occhi e si passò una mano sulla guancia impolverata. Con un supremo sforzo di volontà si alzò e barcollò come un ubriaco. Fissò Pitt senza rancore e, nonostante la sofferenza, riuscì a sorridere. «Mi vergogno d’essere tanto prevedibile.»

«Eppure è meglio così.»

Come due muli emaciati, afferrarono i cavi da rimorchio e si mossero. Erano troppo deboli per fare più di qualche passo mentre il loro peso trascinava lentamente il veicolo su per il declivio. Tenevano la testa china, la schiena curva, e le loro menti erano smarrite nel delirio della sete. L’avanzata era di una lentezza straziante.

Quasi subito caddero in ginocchio e avanzarono carponi. Giordino vide il sangue che colava dalle mani di Pitt, dove il cavo aveva spellato le palme: ma sembrava che neppure se ne accorgesse. Poi i cavi si allentarono e il veicolo a vela superò il ciglio della gola e li urtò. Per fortuna, Pitt aveva preso la precauzione di legare i cavi della vela, in modo che questa adesso puntava controvento e non generava la minima forza motrice.

Pitt sganciò i cavi da rimorchio, aiutò Giordino a salire a bordo e lo vide crollare come un sacco di patate su uno dei sedili. Poi alzò gli occhi verso la striscia di stoffa che aveva legato al sartiame perché servisse come anemometro e gettò in aria una manciata di sabbia per accertare la direzione del vento: soffiava da nord-ovest.

Era giunto il momento della verità. Guardò Giordino che fece un gesto apatico con la mano e bisbigliò: «Puoi partire».

Pitt si appoggiò alla parte posteriore della fusoliera e spinse il veicolo fino a quando incominciò a muoversi lentamente sulla sabbia. Dopo qualche passo malfermo si lasciò cadere sul sedile posteriore. Il vento soffiava dietro la sua spalla sinistra. Allentò la scotta e regolò il timone per iniziare a bordeggiare sottovento. Poi tirò leggermente la scotta quando il vento investì la vela e la Kitty Mannock incominciò a muoversi da sola, e aumentò rapidamente la velocità quando Pitt tirò un po’ più la scotta.

Guardò la bussola dell’aereo e regolò la rotta mentre lo sfinimento e l’euforia si mescolavano nel battito del suo cuore. Regolò la vela quando si fletté nel vento; e ben presto il veicolo sfrecciò sul lago prosciugato sollevando con le ruote scie di polvere in uno splendido silenzio, a poco meno di sessanta chilometri orari.

L’euforia cedette il posto a qualcosa di molto simile al panico quando Pitt eccedette nel correggere la rotta e all’improvviso notò che la luce del giorno spuntava sotto la ruota nella direzione del vento, e questa si era sollevata nella condizione che gli specialisti chiamano hiking. Aveva spostato troppo la vela e aumentato la potenza. Ora doveva compiere una manovra correttiva per evitare che l’imbarcazione si capovolgesse… e sarebbe stato il disastro perché lui e Giordino non avrebbero mai avuto la forza di raddrizzarla.

Era quasi al punto di non ritorno quando allentò le scotte e girò dolcemente il timone per mandare il veicolo incontro al vento. Rimase in rotta, e lo sbilanciamento si ridusse fino a quando la ruota toccò di nuovo il suolo.

Pitt aveva navigato con piccole barche a vela quand’era ragazzo, a Newport Beach, in California: mai, però, a simili velocità. Quando puntò a un angolo di 45 gradi rispetto al vento, incominciò a regolare l’enorme ala con le scotte e con piccole, continue correzioni. Un’occhiata alla bussola gli disse che era venuto il momento di deviare per procedere su una nuova rotta a zigzag verso est.

Ora che incominciava a sentirsi più sicuro, doveva trattenersi dallo sfruttare al massimo la velocità, fino alla linea sottile che divide il pieno controllo di un mezzo dal rischio di un incidente. Non intendeva tirarsi indietro proprio ora, ma il buon senso gli rammentava che la Kitty Mannock non era il più stabile dei veicoli del suo genere, ed era tenuto insieme da cavi metallici e cime ultrasessantenni.

Continuò a tener d’occhio i mulinelli di polvere che sfrecciavano sul lago desolato. Sarebbe bastato un improvviso colpo di vento perché si rovesciassero e non potessero proseguire. Pitt sapeva che dovevano affidarsi alla fortuna. Un altro burrone, invisibile fino a quando fosse stato troppo tardi, un macigno che poteva spezzare un sostegno, o un’altra catastrofe ancora potevano assalirli da un momento all’altro.

La Kitty Mannock slittava e sbandava ma continuava a correre sul lago prosciugato a velocità che Pitt non avrebbe creduto possibili. Lo spostamento d’aria causato dal movimento incominciò a buttargli la sabbia in faccia. Il vento soffiava sempre più forte alle loro spalle, e ormai dovevano raggiungere gli ottantacinque chilometri orari. Dopo aver camminato faticosamente per giorni nel deserto, aveva la sensazione di sorvolare il terreno a bordo di un jet. E contro ogni speranza, continuava a sperare che la Kitty Mannock non si sfasciasse.

Dopo mezz’ora, scrutò con gli occhi doloranti il paesaggio invariato in cerca di un segno rivelatore. Aveva una preoccupazione nuova: temeva di attraversare la pista Transahariana senza riconoscerla. Sarebbe stato facile, dato che era soltanto una vaga traccia nella sabbia, in direzione nord-sud. Se l’avessero mancata, sarebbero penetrati nell’immensità del deserto popolato soltanto da miraggi e non avrebbero potuto tornare indietro.

Non si vedevano tracce di veicoli, e il terreno era di nuovo corrugato dalle dune. Pitt si chiese se avevano varcato il confine ed erano entrati in Algeria. Era impossibile capirlo. Le grandi carovane che un tempo avevano fatto la spola fra la valle del Niger e il Mediterraneo con i carichi d’oro, avorio e schiavi erano svanite senza lasciare tracce del loro passaggio. Al loro posto c’erano poche macchine di turisti, camion che trasportavano provviste e pezzi di ricambio e qualche veicolo militare in servizio di pattuglia: niente altro si muoveva nel deserto ignorato da Dio.

Se Pitt avesse saputo che in realtà la netta linea rossa che indicava la pista sulle mappe non esisteva ed era il frutto dell’immaginazione dei cartografi, sarebbe stato sopraffatto dalla disperazione. Le uniche vere indicazioni, se avesse avuto la fortuna di avvistarle, erano ossa di animali, qualche veicolo abbandonato e spogliato, tracce di pneumatici non ancora coperte dalla sabbia portata dal vento e una fila di vecchi bidoni di petrolio a intervalli di quattro chilometri… purché non li avessero portati via i nomadi di passaggio per usarli o per rivenderli a Gao.

Poi, sulla destra e vicino all’orizzonte, vide un oggetto artificiale, un punto scuro nel tremolio delle onde di calore. Anche Giordino lo vide e lo indicò: era la prima volta che dava segno di vita dopo la partenza. L’aria era limpida e trasparente come vetro. Erano usciti dal lago prosciugato e dal suolo non si alzava più polvere. Adesso potevano distinguere l’oggetto: era la carcassa di un autobus Volkswagen, spogliato di tutto ciò che era stato possibile asportare. Restava soltanto l’involucro, e c’era uno slogan sarcastico tracciato sulla fiancata con lo spray: «Dov’è Lawrence d’Arabia quando c’è bisogno di lui?»

Convinto di aver raggiunto la pista, Pitt iniziò una nuova rotta e puntò verso nord. Il terreno era diventato sabbioso, con ampie distese di ghiaia. Ogni tanto incappavano in un tratto più soffice, ma il veicolo a vela era troppo leggero per sprofondare e continuava la corsa rallentando appena.

Dopo una decina di minuti, Pitt vide un bidone che spiccava all’orizzonte. Ormai era sicuro di viaggiare sulla pista, e incominciò una serie di puntate di due chilometri verso nord, in territorio algerino.

Giordino non si muoveva più. Pitt lo scrollò per la spalla, ma vide che la testa si inclinava lentamente da un lato prima di ricadere in avanti con il mento sul petto. Aveva perduto i sensi e stava per spegnersi. Pitt tentò di gridare, di scuoterlo bruscamente… ma non ne trovò la forza. Vedeva la tenebra che si addensava al limite della visuale e sapeva che sarebbe svenuto entro pochi minuti.

Sentì qualcosa che gli sembrava il rombo di un motore lontano. Ma non vide nulla davanti a sé, e pensò che fosse uno scherzo del delirio. Il suono divenne più forte. Lo riconobbe: era un motore diesel, accompagnato dal borbottio dello scappamento. Ma non si vedeva ancora ciò che lo produceva. Ormai era certo che l’oblio stava per travolgerlo.

Poi sentì lo strombettare di un clacson, e allora girò stancamente la testa in quella direzione. Un grosso Bedford di fabbricazione britannica s’era affiancato a loro e il camionista arabo guardava i due a bordo del veicolo a vela con un’espressione curiosa e un gran sorriso. All’insaputa di Pitt, il camion li aveva raggiunti da dietro.

Il camionista si sporse dal finestrino, si portò una mano alla bocca e gridò: «Serve aiuto?»

Pitt trovò a stento la forza di annuire.

Non aveva pensato a un sistema per fermare il suo veicolo a vela. Tentò stancamente di tirare la scotta e di girare la vela controvento, ma riuscì soltanto a far descrivere un semicerchio all’imbarcazione. I suoi sensi non funzionavano nel modo dovuto e sbagliò nel valutare una raffica improvvisa di vento. Lasciò la scotta ma era troppo tardi. Il vento e la forza di gravità gli strapparono il controllo del veicolo che si rovesciò; i supporti delle ruote e la vela si spezzarono, e Pitt e Giordino furono sbalzati sulla sabbia come pupazzi in una nuvola di polvere e di rottami.

L’arabo si accostò e fermò il camion. Balzò dalla cabina e corse a chinarsi sui due privi di sensi. Riconobbe subito i segni della disidratazione, tornò al camion e prese quattro bottiglie di plastica piene d’acqua.

Pitt riemerse dall’abisso di tenebra non appena sentì il liquido che gli scorreva sulla faccia e nella bocca semiaperta. La trasformazione fu miracolosa. Un attimo prima stava per morire: ma dopo aver ingurgitato quasi nove litri d’acqua ridiventò un essere umano quasi efficiente.

Anche Giordino era tornato alla vita. Sembrava incredibile che fossero riusciti a riprendersi tanto in fretta solo grazie a una robusta dose di liquidi.

Il camionista offrì loro qualche tavoletta di sale e un po’ di datteri secchi. Aveva una faccia scura e intelligente, e portava un berretto da baseball senza contrassegni. Rimase accosciato ad assistere incuriosito al miracolo.

«Siete venuti da Gao con la macchina a vela?» chiese.

Pitt scosse la testa. «Fort Foureau», mentì. Non era ancora certo di trovarsi in Algeria, e temeva che il camionista li consegnasse alla polizia se avesse saputo che erano evasi da Tebezza. «Dove siamo, esattamente?»

«In mezzo al deserto di Tanezrouft.»

«In quale nazione?»

«In Algeria, naturalmente. Dove credevate di essere?»

«Qualunque posto va bene, purché non sia il Mali.»

L’arabo fece una smorfia. «In Mali c’è gente cattiva. Un pessimo governo. Ammazzano tanti innocenti.»

«Dov’è il telefono più vicino?» chiese Pitt.

«Adrar è trecentocinquanta chilometri a nord. Là hanno sistemi di comunicazione.»

«È un villaggio?»

«No, è una città grande. Progredita. Hanno un aeroporto e un regolare servizio passeggeri per Algeri.»

«È là che sta andando?»

«Sì. Ho portato un carico di scatolame a Gao, e sto tornando ad Algeri.»

«Può darci un passaggio fino ad Adrar?»

«Sarà un onore.»

Pitt guardò il camionista e sorrise. «Come si chiama, amico mio?»

«Ben Hadi.»

Pitt gli strinse calorosamente la mano. «Ben Hadi», disse, «lei non lo sa, ma salvando la vita a noi l’ha salvata ad altre cento persone.»

PARTE QUARTA ECHI DI ALAMO


44.

26 maggio 1996
Washington, D.C.

«Sono usciti!» gridò Hiram Yaeger piombando nell’ufficio di Sandecker con Rudi Gunn alle calcagna.

Sandecker, che era tutto preso dal preventivo di un progetto sottomarino, alzò gli occhi senza capire. «Usciti?»

«Dirk e Al. Hanno attraversato il confine e sono in Algeria.»

Di colpo, Sandecker assunse l’espressione di un bambino al quale è stato annunciato l’imminente arrivo di Babbo Natale. «Come l’avete saputo?»

«Hanno telefonato dall’aeroporto di una città del deserto che si chiama Adrar», rispose Gunn. «La comunicazione era pessima, ma abbiamo capito che stavano partendo per Algeri con un volo commerciale. Appena arriveranno, si rimetteranno in contatto tramite la nostra ambasciata.»

«Hanno detto altro?»

Gunn si rivolse a Yaeger. «Tu hai parlato con Dirk prima che arrivassi.»

«La voce di Pitt si sentiva malissimo», disse Yaeger. «Il sistema telefonico del deserto algerino è poco più avanzato del metodo dei due barattoli collegati da uno spago cerato. Se non ho capito male, ha insistito perché lei chieda che una squadra delle Forze Speciali torni con lui in Mali.»

«Ha spiegato perché?» chiese incuriosito Sandecker.

«La voce era troppo confusa, la linea era disturbata. Quel poco che ho capito mi è sembrato pazzesco.»

«Pazzesco in che senso?» chiese Sandecker.

«Ha accennato alla necessità di salvare donne e bambini prigionieri in una miniera d’oro. Aveva un tono che faceva pensare alla massima urgenza.»

«È inspiegabile, davvero», disse Gunn.

Sandecker fissò Yaeger. «Dirk ha chiarito come sono fuggiti dal Mali?»

Yaeger sembrava sperso in un labirinto. «Non lo ripeta in gito citandomi come fonte, ammiraglio, ma giurerei che abbia detto che hanno attraversato il deserto su una barca a vela con una donna che si chiama Kitty Manning o Manncock.»

Sandecker tornò a sedersi e sorrise con fare rassegnato. «Conosco abbastanza Pitt e Giordino per sapere che sono capaci di averlo fatto davvero.» Poi socchiuse gli occhi e assunse un’espressione interrogativa. «È possibile che il nome fosse Kitty Mannock?»

«Non si capiva bene, ma, sì, credo di sì.»

«Kitty Mannock era un’aviatrice famosa degli anni ’20», spiegò Sandecker. «Stabilì numerosi primati di velocità sulle lunghe distanze in mezzo mondo prima di scomparire nel Sahara. Mi pare che accadesse nel 1931.»

«E cosa potrebbe avere a che fare con Pitt e Giordino?» chiese Yaeger.

«Non ne ho la più pallida idea», ammise Sandecker.

Gunn consultò l’orologio. «Ho controllato la distanza fra Adrar e Algeri: sono poco più di milleduecento chilometri. Se in questo momento sono in volo, dovrebbero farsi vivi all’incirca fra un’ora e mezzo.»

«Dia l’ordine al dipartimento Comunicazioni di aprire una linea diretta con la nostra ambasciata ad Algeri», disse l’ammiraglio. «E raccomandi che sia al sicuro dalle intercettazioni. Se Pitt e Giordino hanno scoperto qualche dato d’importanza vitale sulla contaminazione che provoca la marea rossa, non voglio che vengano a saperlo i mass media.»


Quando la chiamata di Pitt arrivò alla rete di comunicazioni della NUMA, Sandecker e gli altri, incluso il dottor Chapman, erano raccolti intorno a una console che registrava la conversazione e amplificava la voce di Pitt tramite un sistema di altoparlanti, in modo che potessero parlare con lui senza bisogno di microfoni e ricevitori.

Quasi tutte le domande che si erano accumulate durante gli ultimi novanta minuti trovarono risposta nel meticoloso rapporto di Pitt, che durò un’ora. Tutti ascoltavano attentamente e prendevano appunti, mentre il loro interlocutore riferiva gli avvenimenti tremendi e la lotta epica che lui e Giordino avevano sostenuto dopo essersi separati da Gunn nel fiume Niger. Descrisse nei particolari la scoperta delle attività fraudolente di Fort Foureau, e scandalizzò tutti quando rivelò che il dottor Hopper e gli scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità erano vivi, tenuti in schiavitù nelle miniere di Tebezza assieme agli ingegneri francesi di Massarde e alle loro mogli e ai loro figli, oltre a una ventina di stranieri sequestrati e di avversali politici del generale Kazim. Concluse il rapporto parlando del fortunato ritrovamento di Kitty Mannock e del suo aereo mentre attraversavano a piedi il deserto. Gli ascoltatori non seppero trattenere un sorriso quando raccontò della costruzione del veicolo a vela.

Adesso gli uomini riuniti intorno alla console capivano perché Pitt aveva chiesto di tornare nel Mali con un contingente armato. Le rivelazioni sulle miniere d’oro di Tebezza e sulle condizioni disumane che vi regnavano li avevano sgomentati. Ma erano ancora più sorpresi nel sentir parlare dei depositi sotterranei dei rifiuti nucleari e tossici a Fort Foureau. La scoperta che il modernissimo impianto solare era una frode fece apparire sui loro volti smorfie di preoccupazione, e ognuno di loro incominciò a domandarsi quanti altri impianti dello stesso genere, sparsi in tutto il mondo, erano in realtà soltanto coperture.

Poi Pitt chiarì i rapporti criminosi fra Yves Massarde e Zateb Kazim. Ripeté in ogni dettaglio ciò che aveva sentito durante i suoi incontri con Massarde e O’Bannion.

Poi vennero le domande. Il primo fu Chapman. «È arrivato alla conclusione che Fort Foureau sia l’origine della contaminazione che causa la marea rossa?» chiese.

«Giordino e io non siamo esperti di idrologia delle acque sotterranee», rispose Pitt. «Ma siamo certi che i rifiuti tossici nascosti sotto il deserto filtrino e raggiungano direttamente le falde acquifere che scorrono sotto l’antico letto di un fiume sino a gettarsi nel Niger.»

«Com’è possibile che siano stati effettuati grandi scavi sotterranei senza che gli ispettori degli organismi ambientalisti internazionali si siano accorti della cosa?» domandò Yaeger.

«E senza che risultasse dalle foto scattate dai satelliti?» soggiunse Gunn.

«La chiave sta nella ferrovia e nei container», rispose Pitt. «Gli scavi sono iniziati durante la costruzione del reattore solare, degli impianti fotovoltaici e delle file di concentratori. Solo dopo che è stato costruito un grande edificio per nascondere l’operazione, i treni che arrivavano con i rifiuti nucleari e tossici hanno incominciato a tornare in Mauritania carichi di terriccio e roccia estratti dagli scavi e usati per un terrapieno. A quanto abbiamo potuto osservare Al e io, Massarde ha sfruttato le caverne calcaree già esistenti.»

Tutti rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Chapman disse: «Quando la cosa si risaprà, lo scandalo e le indagini non finiranno più».

«Avete le prove documentarie?» chiese Gunn.

«Possiamo solo dirvi ciò che abbiamo visto e ciò che abbiamo saputo da Massarde. Purtroppo non possiamo offrirvi altro.»

«Avete fatto un lavoro incredibile», lo lodò Chapman. «Grazie a voi la fonte della sostanza contaminante non è più sconosciuta, e adesso sarà possibile fare piani per interrompere l’infiltrazione nelle acque sotterranee.»

«È più facile dirlo che farlo», interruppe Sandecker. «Dirk e Al ci hanno consegnato un gigantesco nido di vipere.»

«L’ammiraglio ha ragione», confermò Gunn. «Non possiamo presentarci a Fort Foureau e chiuderlo. Yves Massarde è un uomo potente e ricchissimo, ben ammanigliato con il generale Kazim e le più alte cariche del governo francese…»

«E con molti altri potenti uomini d’affari e altri governi», aggiunse Gunn.

«Massarde è un problema secondario», intervenne Pitt. «La prima cosa da fare è salvare quei poveretti di Tebezza prima che muoiano tutti.»

«C’è qualche americano?» chiese Sandecker.

«La dottoressa Eva Rojas è cittadina degli Stati Uniti.»

«È l’unica?»

«Sì, per quel che ne so.»

«Se nessun presidente ha mai preso a calci il Libano per liberare i nostri ostaggi, è da escludere che il presidente attuale mandi una squadra delle Forze Speciali per salvare una sola americana.»

«Si può sempre chiederlo», suggerì Pitt.

«Il presidente mi ha già risposto di no quando gli ho chiesto di salvare lei e Al.»

«Hala Kamil ha già messo a disposizione la squadra tattica dell’ONU», disse Gunn. «Sono certo che autorizzerà una missione per salvare i suoi scienziati.»

«Hala Kamil è una donna dai nobili princìpi», affermò Sandecker in tono convinto. «Più idealista di tanti uomini di mia conoscenza. Credo che possiamo contare su di lei perché convinca il generale Bock a inviare di nuovo nel Mali il colonnello Levant e i suoi.»

«In quelle miniere la gente muore come mosche», disse Pitt in tono amaro. «Dio solo sa quanti sono stati assassinati dopo che siamo evasi Al e io. Ogni minuto è decisivo.»

«Mi metterò in contatto con il segretario generale e l’informerò», promise Sandecker. «Se Levant si muove con la stessa rapidità con cui ha recuperato Rudi, credo che potrete spiegargli la situazione a faccia a faccia prima dell’ora di colazione.»

Novanta minuti dopo che Sandecker ebbe chiamato Hala Kamil e il generale Bock, il colonnello Levant, i suoi uomini e l’equipaggiamento erano in volo sopra l’Atlantico, diretti verso una base dell’Aeronautica militare francese nei pressi di Algeri.


Il generale Hugo Bock allineò sulla scrivania le mappe e le foto dei satelliti e prese un’antica lente d’ingrandimento che gli aveva regalato il nonno quando, da ragazzino, faceva collezione di francobolli. Era una lente ben levigata e senza difetti, e ingrandiva l’immagine su cui era puntata senza produrre distorsioni al margine. Bock l’aveva sempre portata con sé durante la carriera, come un talismano.

Il generale bevve un sorso di caffè e incominciò a esaminare l’area all’interno dei cerchietti che aveva tracciato su mappe e foto e che indicavano la posizione approssimativa di Tebezza. Anche se la descrizione della miniera fatta da Pitt e trasmessa via fax dall’ammiraglio Sandecker rappresentava una stima imprecisa, lo sguardo del generale puntò quasi subito sulla pista di atterraggio e sulla strada che si insinuava nella stretta gola all’interno dell’alto plateau roccioso.

Quel Pitt, pensò, aveva un grande spirito d’osservazione.

Sicuramente s’era impresso nella memoria quei pochi punti di riferimento che aveva visto durante l’epica marcia nel deserto per raggiungere l’Algeria e li aveva seguiti a ritroso con gli occhi della mente fino a ritrovare le miniere.

Bock incominciò a studiare il deserto circostante, e non si sentì per nulla soddisfatto di ciò che vide. La missione per recuperare Gunn all’aeroporto di Gao era stata relativamente semplice. Il contingente dell’ONU, partito da una base militare egiziana nei pressi del Cairo, non aveva dovuto far altro che intervenire, occupare l’aeroporto, prendere a bordo Gunn e ripartire. Tebezza era un osso molto più duro.

La squadra di Levant avrebbe dovuto atterrare sulla pista nel deserto, percorrere quasi venti chilometri per raggiungere l’ingresso delle miniere, espugnare un labirinto di tunnel e caverne, trasportare chissà quanti prigionieri fino alla pista, caricarli tutti a bordo e decollare.

Il problema critico stava nel fatto che avrebbero dovuto restare a terra per troppo tempo. L’aereo da trasporto, un bersaglio immobile, avrebbe richiamato in un lampo le forze aeree di Kazim. Era necessario un viaggio di andata e ritorno di quaranta chilometri su una strada primitiva in pieno deserto, e questo accresceva in misura considerevole il rischio di un insuccesso.

L’attacco non avrebbe potuto affidarsi esclusivamente al tempismo. C’erano troppe incognite. Era indispensabile impedire le comunicazioni con l’esterno. Bock non vedeva come fosse possibile che l’operazione venisse compiuta in meno di un’ora e mezzo. Ma due ore avrebbero potuto comportare il disastro.

Batté con violenza il pugno sulla scrivania. «Maledizione!» sibilò rabbiosamente. «Non c’è tempo per i preparativi e per fare i piani. Una missione d’emergenza per salvare vite umane… Diavolo, è probabile che ne perdiamo più di quante riusciremo a salvarne.»

Dopo aver considerato l’operazione da ogni punto di vista, Bock sospirò e fece una telefonata. Il capo della segreteria di Hala Kamil gli passò subito la comunicazione.

«Sì, generale?» disse Hala. «Non mi aspettavo che si facesse vivo così presto. C’è qualche problema per la missione di salvataggio?»

«Ce ne sono parecchi, purtroppo, signora segretario. Siamo troppo pochi. Il colonnello Levant avrà bisogno di aiuto.»

«Autorizzerò l’invio di tutte le forze dell’ONU che lei riterrà necessarie.»

«Non ne abbiamo», spiegò Bock. «Le forze che mi restano sono in servizio sul confine fra Siria e Israele o svolgono operazioni umanitarie in India, in seguito ai disordini. L’aiuto per il colonnello Levant dovrà venire dall’esterno dell’ONU.»

Vi fu un momento di silenzio mentre Hala rifletteva. «È molto difficile», disse poi. «Non so a chi potrei rivolgermi.»

«E gli americani?»

«Diversamente dai suoi predecessori, il nuovo presidente è riluttante a intervenire nei problemi del Terzo Mondo. Per la precisione è stato lui a chiedermi di autorizzarla a salvare i due uomini della NUMA.»

«Perché non sono stato informato?» chiese Bock.

«L’ammiraglio Sandecker non era in grado di fornirci dati sulla loro ubicazione. Mentre attendevano le indicazioni, i due sono fuggiti senza l’aiuto di nessuno e hanno reso superfluo il tentativo di salvataggio.»

«Tebezza non sarà un’operazione rapida e sicura», profetizzò Bock in tono cupo.

«Può garantire il successo?» chiese Hala.

«Ho piena fiducia nelle capacità dei miei uomini ma non posso dare garanzie. Anzi, temo che il prezzo da pagare sarà alto in termini di morti e feriti.»

«Non possiamo restare indifferenti», disse solennemente Hala. «Il dottor Hopper e i suoi scienziati sono al servizio dell’ONU. Abbiamo il dovere di salvare i nostri.»

«Sono d’accordo», approvò Bock. «Ma mi sentirei più sicuro se potessi contare sui rinforzi, nel caso che il colonnello Levant venisse intrappolato dai militari maliani.»

«Forse i britannici o i francesi saranno disposti…»

«Gli americani possono organizzare una reazione più rapida», l’interruppe Bock. «Se potessi fare a modo mio, chiederei l’intervento della loro Delta Force.»

Hala tacque. Esitava a fare concessioni perché sapeva che il presidente degli Stati Uniti si sarebbe ostinato a non sbilanciarsi. «Parlerò con il presidente ed esporrò il caso», disse in tono rassegnato. «Non posso fare di più.»

«Allora informerò il colonnello Levant che non ci sono margini d’errore, e che non può attendersi alcun aiuto.»

«Forse sarà la fortuna ad aiutarlo.»

Bock trasse un respiro profondo mentre un brivido di apprensione gli scorreva lungo la spina dorsale. «Ogni volta che mi sono affidato alla fortuna, signora segretario, è sempre andato storto qualcosa.»


St. Julien Perlmutter era nella sua immensa biblioteca che custodiva migliaia di volumi disposti con ordine sugli scaffali di mogano. Ma almeno duecento libri erano ammucchiati a caso e sparsi sul tappeto persiano, o accatastati su una vecchissima scrivania. Perlmutter era in pantofole; teneva i piedi sul piano disordinato della scrivania e leggeva un manoscritto seicentesco. Come al solito, indossava un pigiama di seta e una vestaglia a disegni minuti.

Perlmutter era un famoso esperto di storia marittima. La sua collezione di documenti e di opere specializzate sulle navi e sul mare era considerata la migliore del mondo. I curatori dei musei avrebbero dato volentieri un occhio, o un assegno in bianco, pur di poter acquisire la sua biblioteca. Ma il denaro contava ben poco per un domo che aveva ereditato cinquanta milioni di dollari: se ne serviva soltanto per acquistare altre opere sul mare che ancora non possedeva. Se c’era al mondo una persona capace di tenere una conferenza appassionata di un’ora su un naufragio mai registrato dalla storia, era St. Julien Perlmutter. Tutti i cacciatori di tesori e tutti i professionisti del recupero dei relitti, in Europa e in America, venivano prima o poi a chiedergli consiglio.

Era un uomo dall’aspetto incredibile: i suoi centottanta chili di peso erano il risultato della passione per i cibi e i vini raffinati nonché del fatto che tutti i suoi sforzi fisici consistevano nello scegliere un libro e nello sfogliarlo. Inoltre aveva due allegri occhi celesti e una faccia rossa sepolta in un’enorme barba grigia.

Quando squillò il telefono, scostò diversi libri per prenderlo. «Perlmutter», biascicò.

«Julien, sono Dirk Pitt.»

«Dirk, ragazzo mio», esclamò Perlmutter. «È da molto tempo che non sentivo la tua voce.»

«Tre settimane al massimo.»

«Cosa contano le ore quando si è sulle tracce di un relitto?» rise Perlmutter.

«Niente, almeno per te e per me.»

«Perché non fai un salto qui ad assaggiare le mie famose crêpes Perlmutter?»

«Temo che diventerebbero fredde prima del mio arrivo», rispose Pitt.

«Dove sei?»

«Ad Algeri.»

Perlmutter sbuffò. «E cosa ci fai in quel posto orrendo?»

«Fra le altre cose, mi interesso di un relitto.»

«Nel Mediterraneo, al largo dell’Africa settentrionale?»

«No. Nel Sahara.»

Perlmutter conosceva troppo bene Pitt per sospettare che stesse scherzando. «Conosco la leggenda di una nave del deserto della California sopra il mare di Cortéz, ma non sapevo che ce ne fosse una anche nel Sahara.»

«Ho trovato tre indizi diversi», spiegò Pitt. «Una fonte è un vecchio ratto del deserto, un americano che cercava una corazzata confederata, la Texas. Ha giurato che aveva risalito un fiume oggi prosciugato e si era perduta fra le sabbie. Secondo lui trasportava l’oro dei confederati.»

«Dove l’hai incontrato?» rise Perlmutter. «E che razza d’erba fumava?»

«Mi ha anche detto che a bordo c’era Lincoln.»

«Adesso stai passando dal ridicolo all’assurdità pura.»

«Per quanto possa sembrare strano, gli ho creduto. Poi ho trovato altre due fonti della leggenda. Una è un vecchio dipinto rupestre in una grotta… Mostrava qualcosa che doveva essere una corazzata della Confederazione. L’altra è l’accenno a un avvistamento, nel giornale di bordo che ho trovato nell’aereo di Kitty Mannock.»

«Aspetta un momento», disse Perlmutter in tono scettico. «Di chi sarebbe l’aereo?»

«Di Kitty Mannock.»

«L’hai trovata? Mio Dio, sparì più di sessant’anni fa. Hai scoperto davvero il posto dove precipitò?»

«Al Giordino e io abbiamo trovato il suo corpo e l’aereo sfasciato in una gola nascosta mentre attraversavamo il deserto.»

«Congratulazioni!» tuonò Perlmutter. «Avete risolto uno dei più famosi misteri dell’aviazione.»

«È stato un colpo di fortuna», si schermì Pitt.

«Chi paga questa telefonata?»

«L’ambasciata americana ad Algeri.»

«Allora resta in linea. Torno subito.» Perlmutter si alzò e andò a uno scaffale, ne esaminò il contenuto per qualche secondo, trovò il libro che cercava, lo prese, tornò alla scrivania e lo sfogliò. Poi riprese il ricevitore. «Hai detto che la nave si chiamava Texas

«Sì.»

«Era una corazzata», recitò Perlmutter. «Fu costruita nel cantiere navale Rocketts di Richmond e varata nel marzo 1865, appena un mese prima della fine della guerra. Era lunga 190 piedi e aveva una larghezza massima di 40. Due macchine a vapore, eliche gemelle, pescaggio 11 piedi, corazza da 6 pollici. La batteria era formata da Blakely da 200 libbre e due cannoni da 9 pollici e 64 libbre. Velocità, 14 nodi.» Perlmutter s’interruppe. «Hai capito tutto?»

«Doveva essere una nave piuttosto potente per i suoi tempi.»

«Infatti. E aveva una velocità che era circa il doppio degli altri vascelli corazzati, sia dell’Unione che della Confederazione.»

«La sua storia?»

«Fu molto breve», rispose Perlmutter. «La sua unica partecipazione a un combattimento fu l’epica fuga lungo il fiume James, quando passò attraverso un’intera flotta unionista e doppiò i forti di Hampton Roads. Per quanto fosse danneggiata gravemente, riuscì ad allontanarsi nell’Atlantico e nessuno la rivide più.»

«Allora è vero che scomparve», disse Pitt.

«Sì, ma non si può dire che fosse un fenomeno straordinario. Dato che le corazzate della Confederazione erano state costruite esclusivamente per prestar servizio sui fiumi e nei porti, non erano adatte a navigare nell’oceano. L’opinione generale fu che fosse affondata durante una tempesta.»

«Ritieni possibile che abbia invece attraversato l’Atlantico, abbia raggiunto l’Africa occidentale e abbia risalito il fiume Niger?»

«A quanto ricordo, l’Atlanta fu l’unica altra corazzata della Confederazione che tentò di avventurarsi in acque aperte. Fu catturata in uno scontro con due monitori unionisti nel Wassaw Sound, in Georgia. Circa un anno dopo fu venduta alla Marina del sovrano di Haiti. Lasciò la baia di Chesapeake per i Caraibi e scomparve. Gli uomini che avevano prestato servizio in precedenza a bordo dell’Atlanta dichiaravano che imbarcava acqua persino con il mare calmo.»

«Eppure il vecchio cercatore ha giurato che gli indigeni e i coloni francesi hanno tramandato la storia di un mostro di ferro privo di vele che aveva risalito il Niger.»

«Vuoi che controlli?»

«Potresti farlo?»

«Mi interessa moltissimo», disse Perlmutter. «Vedo qui un altro piccolo enigma che rende la Texas ancora più affascinante.»

«E cioè?» chiese Pitt.

«Sto esaminando la bibbia delle Marine della guerra di secessione», mormorò Perlmutter. «E per tutte elenca numerosi altri testi per ulteriori ricerche. Ma non ci sono riferimenti per la povera Texas. Si direbbe che qualcuno abbia voluto che fosse dimenticata.»

45.

Pitt e Giordino lasciarono prudentemente l’ambasciata americana passando dall’ingresso dell’ufficio passaporti, uscirono per la strada e presero un tassi. Pitt consegnò al tassista le istruzioni scritte in francese da un impiegato dell’ambasciata e la macchina si avviò attraverso la piazza principale, passando davanti alle moschee più pittoresche e ai minareti svettanti. Il tassista assegnato dalla sorte ai due amici era un tipo che suonava di continuo il clacson e inveiva contro i pedoni e gli automobilisti indaffaratissimi a passare con il rosso sotto il naso dei poliziotti che non si curavano di far rispettare il codice stradale.

Nella strada principale, parallela al lungomare affollato, il tassista voltò verso sud e raggiunse la periferia, dove si fermò in un vicolo tortuoso secondo le indicazioni ricevute. Pitt lo pagò e attese che il tassi si allontanasse. Meno di un minuto dopo arrivò una macchina dell’Aeronautica militare francese, una Peugeot 605 diesel. L’autista in uniforme non disse una parola, mentre i due salivano a bordo, e ripartì prima ancora che Giordino avesse chiuso la portiera posteriore.

Dopo dieci chilometri, la macchina si fermò al cancello di un aeroporto militare che ostentava il tricolore sulla guardiola. La sentinella diede un’occhiata alla Peugeot, accennò di passare e scattò sull’attenti. All’inizio della pista l’autista si fermò per inserire l’asta di una bandierina a scacchi sul parafango anteriore sinistro.

«Non mi dire», mormorò Giordino. «Voglio indovinare da solo. Siamo due marescialli in una parata.»

Pitt rise. «Hai dimenticato quando eri in aviazione? Tutti i veicoli che attraversano la linea di volo devono avere la bandierina che li autorizza a farlo.»

La Peugeot passò davanti a una lunga fila di Mirage 2000 con ali a delta mentre le squadre a terra provvedevano ai rifornimenti. A un’estremità della pista c’era una squadriglia di elicotteri AS-332 Super Puma che sembravano progettati da un Buck Rogers miope. Erano costruiti per portare missili aria-terra, e non avevano l’aspetto feroce della maggior parte degli elicotteri di combattimento.

L’autista proseguì sino in fondo a una pista secondaria deserta e si fermò. Rimasero ad attendere. Giordino si assopì subito nel fresco piacevole dell’aria condizionata, mentre Pitt leggeva distrattamente il Wall Street Journal che aveva preso all’ambasciata.

Dopo un quarto d’ora un grosso airbus apparve a occidente e atterrò. Pitt e Giordino non si accorsero di nulla fino a che non sentirono lo stridore delle ruote sulla pista di cemento. Giordino si svegliò e Pitt ripiegò il giornale mentre l’aereo frenava e si girava lentamente su una ruota fino a spostarsi di 180 gradi. Appena le gomme enormi si arrestarono, l’autista della Peugeot ripartì e andò a fermarsi a meno di cinque metri dalla coda dell’airbus.

Pitt notò che tutto l’aereo era dipinto di nocciola chiaro, e che i segni di riconoscimento erano stati coperti con la vernice. Una donna in tenuta da combattimento con una mostrina sulla manica che ostentava il simbolo dell’ONU attraversato da una spada, balzò a terra da una botola accanto al carrello, raggiunse la macchina e spalancò la portiera posteriore.

«Seguitemi, prego», disse in un inglese dal forte accento spagnolo. Mentre la macchina si allontanava, la donna li condusse sotto la fusoliera e fece loro cenno di salire. Entrarono nella stiva inferiore dell’airbus e si avviarono verso una stretta scala che portava alla cabina principale.

Giordino si fermò e guardò i tre mezzi blindati per il trasporto truppe che stavano in fila: erano tozzi e alti non più di due metri. Poi fissò affascinato la dune buggy pesantemente armata che era stata usata nell’operazione per recuperare Gunn a Gao.

«Se ti iscrivi con quella a una gara per fuoristrada», disse in tono d’ammirazione, «nessun concorrente si azzarderà a superarti.»

«Sì, fa abbastanza paura», ammise Pitt.

Un ufficiale li stava aspettando quando arrivarono nella cabina principale. «Capitano Pembroke-Smythe», disse presentandosi. «Siete stati molto gentili a venire. Il colonnello Levant vi aspetta in sala piani.»

«Lei è inglese, senza dubbio», disse Giordino.

«Sì, il nostro è un vasto assortimento», disse allegramente Pembroke-Smythe indicando con un frustino le tre dozzine di uomini e le tre donne intenti a pulire e a montare armi ed equipaggiamento. «Uno spirito inventivo ha pensato che l’ONU dovesse avere una sua unità tattica da mandare dove i governi internazionali non osano avventurarsi, per così dire. A volte ci chiamano ‘i guerrieri segreti’. Ognuno è stato addestrato nelle forze speciali del suo Paese. Siamo tutti volontari. Alcuni sono in servizio permanente effettivo, altri fanno semplicemente un turno di un anno.»

Erano il gruppo più solido e rude che Pitt avesse mai visto. Induriti dalle fatiche e dall’addestramento, erano professionisti taciturni e decisi, dotati delle capacità e dell’intelligenza necessarie per le operazioni clandestine. Pitt non avrebbe voluto incontrare uno di loro in un vicolo buio… incluse le donne.

Pembroke-Smythe li fece entrare in un compartimento che era il centro di comando dell’aereo, un ambiente spazioso e pieno di apparecchiature elettroniche. Un operatore sorvegliava le comunicazioni, mentre un altro programmava in un computer i dati per l’imminente missione a Tebezza.

Il colonnello Levant girò intorno alla scrivania e andò incontro a Pitt e Giordino. Non sapeva che cosa aspettarsi esattamente. Aveva letto i dossier sui due, forniti dal servizio di sicurezza delle Nazioni Unite, ed era impressionato. Aveva letto anche un breve rapporto sulle loro avventure nel deserto dopo la fuga da Tebezza, e ammirava la loro tenacia.

In precedenza Levant aveva espresso molte riserve sull’opportunità di portare con sé Pitt e Giordino, ma poi s’era reso conto che senza la loro guida all’interno delle miniere l’operazione avrebbe potuto essere ancora più rischiosa. Erano smagriti e mostravano i segni di una lunga esposizione al sole, ma sembravano in ottime condizioni.

«Dopo aver studiato le vostre imprese, signori, ero ansioso di conoscervi. Sono il colonnello Marcel Levant.»

«Dirk Pitt, e il mio amico è Al Giordino.»

«Avendo letto un rapporto sulla vostra fuga mi aspettavo che vi portassero a bordo in barella. Mi fa piacere constatare che siete in forma perfetta.»

«Liquidi, vitamine e molto esercizio», disse Pitt con un sorriso.

«E non bisogna dimenticare gli svaghi al sole», borbottò Giordino.

Levant non reagì a quelle battute e guardò Pembroke-Smythe. «Capitano, avverta gli uomini e dica al primo pilota di prepararsi a un decollo immediato.» Poi si rivolse di nuovo ai due ospiti. «Se quanto avete detto è esatto, il tempo si misura in vite umane. Potremo esaminare i dettagli della missione durante il volo.»

Pitt annuì. «Approvo il suo senso pratico.»

Levant consultò l’orologio. «Il volo durerà poco più di quattro ore. Il tempo a disposizione è molto limitato. Non possiamo tardare se vogliamo effettuare l’assalto durante il periodo di riposo dei prigionieri. Se agissimo troppo presto o troppo tardi, sarebbero sparsi nei pozzi con le squadre addette all’estrazione e non riusciremmo a trovarli e a radunarli tutti prima di ripartire.»

«Fra quattro ore arriveremo a Tebezza, e allora sarà già notte.»

«Alle venti, con un possibile scarto di cinque minuti.»

«Ha intenzione di scendere con le luci per l’atterraggio?» chiese incredulo Pitt. «Tanto varrebbe che aggiungesse anche i fuochi d’artificio per avvertire della nostra presenza.»

Levant si arricciò un baffo, un gesto che Pitt avrebbe avuto occasione di rivedere spesso nelle dieci ore successive. «Atterreremo al buio. Ma prima che lo spieghi, è meglio che vi sediate e allacciate le cinture di sicurezza.»

Le sue parole furono sottolineate dal ruggito stranamente smorzato dei motori. Il grosso airbus incominciò ad accelerare sulla pista con un rombo moderato.

Giordino, che giudicava Levant un po’ troppo impettito e arrogante per i suoi gusti, si comportava con educata indifferenza. Pitt, invece, sapeva riconoscere un tipo esperto ed efficiente quando lo vedeva. E sentiva che il colonnello li rispettava profondamente, sebbene questo aspetto sfuggisse a Giordino.

Durante il decollo, Pitt fece un commento sulla insolita silenziosità dei motori: non c’era il fragore tipico di un aereo lanciato alla massima potenza.

«Le turbine sono dotate di silenziatori appositamente modificati», spiegò Levant.

«Funzionano benissimo», disse Pitt in tono d’ammirazione. «Quando siete atterrati, vi abbiamo sentiti solo nel momento in cui le ruote hanno toccato la pista.»

«È un fattore necessario per gli atterraggi clandestini nei luoghi in cui non siamo graditi.»

«E atterrate senza luci?»

Levant annuì. «Senza luci.»

«Il pilota è equipaggiato con speciali apparecchi per la visione notturna?»

«No, signor Pitt. Quattro dei miei uomini si lanceranno con il paracadute, occuperanno la pista di Tebezza, quindi piazzeranno una serie di luci infrarosse per guidare il nostro pilota.»

«Ma quando saremo atterrati», obiettò Pitt, «non sarà facile percorrere al buio la distanza fra la pista e l’ingresso della miniera.»

«Questo», disse Levant stringendo i denti, «è il problema minore.»

L’aereo stava salendo gradualmente e virava verso sud quando Levant sganciò la cintura e si accostò a un tavolo dove c’era l’ingrandimento di una foto scattata dal satellite, che mostrava il plateau sopra le miniere. Prese una matita e indicò.

«Sarebbe stato molto più semplice atterrare con gli elicotteri sul pianoro e scendere fino all’entrata della miniera. Ci avrebbe assicurato un fattore sorpresa più consistente. Purtroppo, si è dovuto tener conto di altri elementi.»

«Capisco il suo dilemma», disse Pitt. «Un volo di andata e ritorno da Tebezza non rientra nell’autonomia degli elicotteri. E piazzare nel deserto depositi di carburante avrebbe comportato un ulteriore ritardo.»

«Trentadue ore, secondo le nostre stime. Avevamo pensato di usare i nostri elicotteri, uno per portare il carburante, l’altro per gli uomini e il materiale. Ma abbiamo incontrato complicazioni anche con questo piano.»

«Troppo complesso e troppo lento», osservò Giordino.

«Anche il fattore velocità ha fatto cadere la scelta su questo airbus», disse Levant. «E uno dei vantaggi, quando si usa un aereo anziché una flotta di elicotteri, è che si possono portare i veicoli da usare a terra. Inoltre, a bordo abbiamo spazio per l’assistenza medica per tutti coloro che, secondo il rapporto, hanno estremo bisogno di cure.»

«Da quanti elementi è formato il gruppo d’assalto?» chiese Pitt.

«Trentotto combattenti e due infermieri», rispose Levant. «Dopo che saremo atterrati, quattro resteranno a guardia dell’aereo. I due infermieri accompagneranno gli altri per assistere i prigionieri.»

«Nei veicoli per il trasporto truppe non resterà molto spazio.»

«Se alcuni dei miei viaggiano sui tetti o aggrappati alle fiancate, potremo evacuare quaranta persone.»

«Non so se ne troveremo tante ancora vive», mormorò Pitt.

«Faremo del nostro meglio», promise Levant.

«E i maliani?» chiese Pitt. «I dissidenti politici, i nemici del generale Kazim? Che ne sarà di loro?»

«Dovranno restare.» Levant alzò le spalle. «Metteremo a loro disposizione tutte le scorte di viveri delle miniere e potranno prendere le armi delle guardie. A parte questo, possiamo fare ben poco. Dovranno arrangiarsi.»

«Kazim è abbastanza sadico per ordinare di sterminarli, quando saprà che i prigionieri più importanti hanno preso il volo.»

«Ho ricevuto ordini precisi», rispose Levant. «E non includono il salvataggio dei criminali indigeni.»

Pitt guardò la foto ingrandita del deserto intorno al plateau di Tebezza. «Dunque intende atterrare con l’airbus nel cuore della notte su una pista deserta, procedere con i veicoli su una strada che è già difficile vedere alla luce del giorno, assaltare la miniera, portar via i detenuti stranieri, tornare in fretta alla pista e ripartire per Algeri. Può darsi che per noi sia un boccone troppo grosso, con le risorse limitate di cui dispone.»

Non c’era disapprovazione né sarcasmo nel tono di Pitt, e Levant lo capiva. «Come dicono al suo Paese, signor Pitt, ciò che vede è ciò che può avere.»

«Non dubito delle capacità dei suoi uomini, colonnello. Ma mi aspettavo un contingente più numeroso e meglio equipaggiato.»

«Purtroppo l’ONU non ci fornisce uomini e mezzi ultrasofisticati come li hanno certe forze speciali. Abbiamo stanziamenti limitati e dobbiamo operare entro i nostri limiti.»

«Perché hanno mandato una squadra dell’UNICRATT?» chiese incuriosito Pitt. «Perché non un’unità di commando britannica o della Legione Straniera o di una delle forze speciali americane?»

«Perché nessuna nazione, inclusa la sua, vuole correre il rischio di sporcarsi le mani in questa missione», spiegò Levant. «È stato il segretario generale Kamil a offrire la nostra collaborazione.»

Quel nome rievocò nella mente di Pitt il piacevole ricordo di un interludio trascorso con Hala Kamil a bordo di una nave nello stretto di Magellano. Era accaduto cinque anni prima, durante la ricerca dei tesori della Biblioteca di Alessandria.

Levant notò quello sguardo assorto e Giordino sorrise con aria saputa. Pitt se ne accorse e concentrò di nuovo l’attenzione sulla foto. «C’è un inconveniente.»

«Ce ne sono parecchi», disse Levant con calma. «Ma si possono superare tutti.»

«Tranne due.»

«Quali?»

«Non sappiamo dove siano il centro comunicazioni e i monitor di O’Bannion. Se mettiamo in allarme il servizio di sicurezza di Kazim prima che si riesca a fermarlo, non avremo una sola possibilità di tornare all’airbus e di ripartire per l’Algeria con un buon vantaggio per evitare che una squadriglia di caccia maliana venga a inchiodarsi alla porta del fienile.»

«In tal caso, dovremo entrare nella miniera e uscirne in quaranta minuti», disse Levant. «Non è impossibile, se la maggioranza dei prigionieri ce la farà ad arrivare in superficie senza aiuto. Se invece sarà necessario trasportarli, perderemo troppo tempo prezioso.»

In quel momento il capitano Pembroke-Smythe arrivò con un vassoio di caffè e sandwich. «È roba nutriente, anche se non è raffinata», annunciò in tono allegro. «Si può scegliere: insalata di pollo oppure tonno.»

Pitt guardò Levant e sorrise: «Dunque non scherzava, quando ha detto che dispone di un bilancio molto modesto».


Mentre l’airbus volava nel deserto nero come il mare, Pitt e Giordino tracciavano diagrammi dei livelli delle miniere così come li ricordavano. Levant era sorpreso dalla loro precisione. Nessuno dei due pretendeva di avere una memoria fotografica; ma rammentavano una grande quantità di particolari, tenendo conto del pochissimo tempo che avevano trascorso prigionieri.

Levant e altri due ufficiali interrogarono in modo approfondito gli uomini della NUMA; spesso ripetevano tre o quattro volte una domanda nella speranza di venire a conoscenza di dettagli trascurati. La pista che conduceva nel canyon, la pianta della miniera, le armi delle guardie… ogni particolare veniva esaminato e riesaminato.

I dati venivano registrati a voce sul computer; gli schizzi della miniera furono programmati in tre dimensioni. Non si trascurava nulla: le previsioni meteorologiche per le prossime ore, il tempo che i caccia a reazione di Kazim avrebbero impiegato per arrivare da Gao, i percorsi alternativi di fuga nell’eventualità che l’airbus venisse distrutto al suolo. Per ogni eventualità fu stabilito un piano.

Un’ora prima di atterrare a Tebezza, Levant radunò la sua squadra nella cabina principale. Pitt aprì il briefing descrivendo le guardie, il loro numero e le armi, e segnalò che, a forza di vivere e lavorare sotto terra, gli uomini erano diventati pigri e ottusi.

Poi toccò a Giordino, che mostrò i livelli delle miniere con l’aiuto di grandi schizzi fissati a un cavalletto.

Pembroke-Smythe divise in quattro unità la squadra tattica dell’ONU che doveva compiere l’assalto e distribuì le mappe dei tunnel sotterranei stampate dal computer. Levant concluse il briefing spiegando i rispettivi compiti.

«Devo scusarmi per la scarsità di informazioni», esordì. «Non abbiamo mai tentato una missione tanto pericolosa con così pochi dati. Le carte che vi sono state consegnate mostrano con ogni probabilità meno del venti per cento delle gallerie e dei pozzi esistenti. Dobbiamo colpire duramente e in fretta, occupando gli uffici e gli alloggi delle guardie. Quando avremo eliminato ogni resistenza, raduneremo i prigionieri e incominceremo la ritirata. Il rendez-vous finale sarà nella caverna d’ingresso, esattamente quaranta minuti dopo che saremo entrati. Qualche domanda?»

Un uomo alzò la mano e parlò con un forte accento slavo. «Perché quaranta minuti, colonnello?»

«Se ci tratterremo di più, caporale Wadilinski, un caccia maliano partito dalla base aerea più vicina potrà raggiungerci e abbatterci prima che siamo tornati in Algeria. Spero che quasi tutti i prigionieri siano in grado di farcela ad arrivare senza aiuto ai nostri veicoli. Se sarà necessario trasportarne molti a braccia o con le barelle, ci sarà un ritardo.»

Un altro alzò la mano. «E se ci perdessimo nelle miniere e non facessimo in tempo a raggiungere il luogo del rendez-vous prima della ritirata?»

«Saremo costretti ad abbandonarvi», rispose Levant con la massima calma. «C’è altro?»

«Possiamo tenere l’oro che troveremo?»

La domanda, lanciata da un tipo muscoloso, suscitò molte risate.

«Vi perquisiremo al termine della missione», rispose giovialmente Pembroke-Smythe. «E tutto l’oro che vi troveremo addosso finirà in Svizzera nel mio conto personale.»

«Perquisirete anche le signore?» chiese una delle tre donne.

Pembroke-Smythe le lanciò un sorriso malizioso. «Soprattutto loro.»

Pur non abbandonando l’espressione seria, Levant era sollevato nel constatare che quelle battute spiritose alleggerivano l’atmosfera tesa. «Ora che sappiamo dove andrà il bottino», disse, «possiamo concludere. Io comanderò la prima unità, e il signor Pitt sarà la nostra guida. Sgombreremo gli uffici al livello più alto prima di scendere nelle miniere a liberare i prigionieri. L’unità due, al comando del capitano Pembroke-Smythe e guidata dal signor Giordino, scenderà con l’ascensore e occuperà gli alloggi delle guardie. Il tenente Steinholm comanderà la terza unità che dovrà seguirci e piazzarsi in posizione difensiva ai pozzi laterali del tunnel principale per prevenire un aggiramento. L’unità quattro, comandata dal tenente Morrison, occuperà i livelli in cui viene recuperato il minerale aurifero. A parte gli infermieri, gli altri resteranno di guardia alla pista. Se avete altre domande, dovete rivolgerle ai comandanti delle unità.»

Levant s’interruppe e girò intorno lo sguardo. «Mi rincresce che abbiamo avuto così poco tempo per preparare l’operazione, ma non dovrebbe essere un’impresa impossibile per una squadra che ha compiuto con successo le ultime sei missioni senza perdere un solo elemento. Se vi trovaste di fronte all’imprevisto, improvvisate. Dobbiamo entrare, liberare i prigionieri e uscire in fretta prima di venire inseguiti dall’aviazione del Mali. Fine del discorso. Buona fortuna a tutti.» Poi si voltò e tornò nella cabina di comando.

46.

I dati dei sistemi dei satelliti venivano trasmessi al computer che comunicava la rotta al pilota automatico. In questo modo l’airbus dell’ONU arrivò esattamente sopra il plateau di Tebezza. Dopo una leggera correzione verso una nuova coordinata, incominciò a volare in cerchio sulla pista che appariva come una striscia nel deserto sul monitor del sistema sonar-radar.

I portelloni della stiva si spalancarono e quattro uomini di Levant si schierarono sull’orlo del vuoto. Dopo venti secondi suonò un cicalino. I quattro si lanciarono e sparirono nella notte. I portelloni si chiusero e il pilota volò in cerchio verso nord per dodici minuti prima di virare per iniziare l’atterraggio.

Il pilota scrutava con gli occhiali da visione notturna mentre il copilota osservava il deserto con speciali lenti bifocali che gli permettevano di scorgere le luci infrarosse piazzate dai paracadutisti. Ogni tanto lanciava occhiate agli strumenti.

«Via libera», annunciò il pilota.

Il copilota scosse la testa nello scorgere quattro luci che lampeggiavano sul lato di babordo. «È una pista corta per aerei leggeri. Quella principale è mezzo chilometro più in là.»

«Bene, l’ho vista. Giù il carrello.»

Il copilota azionò la leva e il carrello si abbassò. «Carrello giù e bloccato.»

«Come fanno i piloti degli elicotteri Apache a evitare di sbattere per terra?» sospirò il pilota. «Sembra di guardare attraverso due rotoli di carta igienica pieni di nebbia verde.»

Il copilota non aveva tempo di sorridere o di rispondere. Era troppo occupato a controllare la velocità dell’aria, l’altitudine e le correzioni di rotta.

Le grandi ruote toccarono la sabbia e la ghiaia e sollevarono una nube di polvere che cancellò le stelle. I reattori frenanti erano straordinariamente silenziosi. Poi i freni entrarono in funzione e l’airbus si fermò a meno di cento metri dal termine della pista.

La polvere turbinava ancora nell’aria quando la rampa posteriore si abbassò, e i veicoli uscirono e si fermarono in convoglio, con la dune buggy in testa. I sei uomini che dovevano restare a sorvegliare l’aereo scesero e si sparsero tutto intorno. Poi toccò al grosso del contingente, che salì in fretta sui veicoli. Il leader dei quattro paracadutisti andò incontro al colonnello Levant e salutò.

«L’aerea è deserta, signore. Non c’è segno di guardie o di sistemi di sicurezza elettronici.»

«C’è altro?» chiese Levant.

«Solo una piccola costruzione di mattoni che contiene attrezzi e bidoni di gasolio e carburante per i jet. Dobbiamo distruggerla?»

«Aspettate che siamo tornati dalla miniera.» Levant fece un cenno. «Signor Pitt?»

«Colonnello.»

«Il signor Giordino mi ha detto che lei ha partecipato a corse per fuoristrada.»

«Infatti.»

Levant gli accennò di mettersi al volante della dune buggy e gli porse un paio di occhialoni per la visione notturna. «Conosce il percorso per la miniera. Ci faccia da guida, per favore.» Poi si voltò verso un’altra figura che era apparsa nell’oscurità. «Capitano Pembroke-Smythe.»

«Signore?»

«Andiamo. Salga sull’ultimo trasporto e ci guardi le spalle. Tenga d’occhio soprattutto il cielo. Non voglio che un aereo si avvicini inosservato alla colonna.»

«Starò attento», assicurò Pembroke-Smythe.

Se l’UNICRATT operava in base a un bilancio minimo, Pitt non poteva evitare di chiedersi quanto doveva essere straordinario l’equipaggiamento delle Forze Speciali degli Stati Uniti, che disponevano di fondi illimitati. Tutti coloro che adesso erano agli ordini dei Levant, inclusi Pitt e Giordino, indossavano tute mimetiche grigie e nere per il combattimento notturno, resistenti alle fiamme, con i giubbotti antiproiettile, gli occhiali protettivi, i mitra MP5 Heckler & Joch, e gli elmetti che comprendevano impianti radio miniaturizzati.

Pitt fece un cenno a Giordino che stava salendo a fianco dell’autista sull’ultimo trasporto truppe e si assestò sullo stretto sedile, con la testa china sotto la mitragliatrice Vulcan a sei canne. Mise gli occhialoni e dovette attendere qualche attimo perché i suoi occhi si abituassero all’improvviso potenziamento della luce che faceva apparire il deserto, per un raggio di duecento metri, come la superficie verde d’un pianeta alieno. Tese il braccio verso nord-ovest. «La pista che conduce alla miniera incomincia una trentina di metri più avanti, sulla nostra destra.»

Levant annuì, poi si voltò per assicurarsi che la squadra tattica fosse pronta a muoversi. Diede il segnale di procedere e batté la mano sulla spalla di Pitt. «Il tempo corre. Vada, per favore.»

Pitt accelerò scalando in fretta le cinque marce della dune buggy. Il veicolo sfrecciò via, seguito dai tre trasporti truppe. Il terreno prese a scorrere rapidamente sotto le ruote a battistrada largo, e le particelle di sabbia si sollevarono nella scia, costringendo i tre trasporti truppe a procedere in una formazione scaglionata a V per evitare le fitte nubi di polvere. Dopo pochissimo tempo, i veicoli e i passeggeri furono ricoperti da uno strato grigiobrunastro quasi impalpabile.

«Che velocità può raggiungere?» chiese Pitt a Levant.

«Anche duecentodieci chilometri su una superficie piana.»

«Niente male, considerando che non ha una sagoma aerodinamica e pesa un accidente», commentò Pitt.

«Sono stati i SEAL della vostra Marina ad avere l’idea di servirsene durante la guerra contro l’Iraq.»

«Dica ai suoi autisti che devieremo verso est di trenta gradi e poi continueremo in linea retta per circa otto chilometri.»

Levant riferì via radio le istruzioni. Dopo un momento i trasporti truppe sterzarono senza rompere la formazione e seguirono la dune buggy.

Si scorgevano pochi punti di riferimento sulla pista appena visibile che andava dall’aeroporto al canyon nel plateau. Pitt si affidava in parte alla memoria e in parte alla vista. Correre nel deserto nel cuore della notte era già abbastanza sconvolgente, anche con gli occhialoni per la visione notturna. Era impossibile sapere cosa c’era al di là di un dosso, e poteva darsi che fosse finito fuori rotta e stesse guidando il convoglio verso un precipizio. Solo qualche rara traccia di pneumatici che non era stata coperta dalla sabbia gli assicurava che era sulla strada giusta.

Lanciò un’occhiata a Levant. Il colonnello era rilassato, composto. Se la corsa folle di Pitt lo spaventava, non lo lasciava capire. Assumeva un’espressione preoccupata solo quando si voltava per controllare che i tre trasporti truppe li seguissero.

Il plateau stava davanti a loro, e con la sua massa nascondeva la parte inferiore del firmamento, verso ovest. Quattro minuti più tardi un’ondata di sollievo avvolse Pitt. Aveva trovato ciò che cercava. L’apertura del canyon tortuoso spaccava la mole nera del plateau come un colpo d’accetta. Rallentò e si fermò.

«La caverna d’entrata che porta alla grotta dov’è parcheggiato l’equipaggiamento è a un chilometro da qui», spiegò a Levant. «Vuole mandare qualcuno a piedi in avanscoperta?»

Levant scosse la testa. «Prosegua lentamente, per favore. A rischio di rivelare la nostra presenza, andremo con i veicoli per risparmiare tempo. Non le sembra logico?»

«Perché no? Non ci stanno aspettando. Se le guardie di O’Bannion ci avvistano, probabilmente penseranno che siamo un nuovo gruppo di prigionieri mandati da Kazim e Massarde.»

Pitt rimise in moto la dune buggy e i trasporti truppe si accodarono in colonna. Toccava l’acceleratore solo quando incominciava a perdere la trazione sulla sabbia. Viaggiava in terza, con il motore che girava a una velocità alquanto limitata. La colonna avanzava alla base delle pareti scoscese, definite dalle nette ombre nere. Le marmitte speciali dei veicoli non riuscivano a soffocare completamente il rumore, e l’eco dei motori martellava sulle superila dure della roccia come il rombo lontano di un aereo a pistoni. L’aria della notte era fresca e c’era un alito di vento, ma le pareti del canyon irradiavano ancora il calore assorbito durante il giorno.

L’entrata della grotta si spalancò all’improvviso nell’oscurità, e Pitt guidò la dune buggy fra le pareti rocciose, addentrandosi nella galleria principale come se fosse la cosa più naturale del mondo. L’interno era rischiarato soltanto dalle luci che provenivano dal tunnel degli uffici; ed era vuoto, se si escludevano un camion Renault e l’immancabile guardia.

Il tuareg guardava i veicoli che si avvicinavano, con un’espressione più curiosa che diffidente. Solo quando la dune buggy gli arrivò a pochi metri spalancò gli occhi. Imbracciò la machine pistol: non l’aveva ancora spianata quando Levant gli sparò in mezzo agli occhi un colpo della Beretta automatica con silenziatore.

«Complimenti. Bel colpo», commentò Pitt in tono asciutto mentre frenava.

Levant controllò l’orologio. «Grazie, signor Pitt. Ci ha fatti arrivare a destinazione con dodici minuti di anticipo sul previsto.»

«Cerco sempre di rendermi utile.»

Il colonnello balzò dalla dune buggy e fece una serie di segnali con le mani. Senza far rumore, i componenti della squadra tattica dell’ONU smontarono, formarono quattro unità e cominciarono ad addentrarsi nella galleria. Quando furono nel corridoio con il pavimento di piastrelle, irruppero nei locali e presero a rastrellare gli sbalorditi tecnici di O’Bannion mentre Giordino guidava le altre tre unità tattiche verso il montacarichi principale indicato sulla mappa di Fairweather, il montacarichi che scendeva fino ai livelli più bassi.

Quattro degli ingegneri minerari di O’Bannion furono catturati mentre giocavano a poker. Prima che potessero reagire all’apparizione inattesa degli uomini armati in tuta mimetica che li circondavano puntandogli le armi alla testa, si ritrovarono legati e imbavagliati. Furono rinchiusi in un magazzino.

In silenzio, usando una pressione leggerissima, Levant aprì la porta indicata come l’ingresso del centro di controllo del servizio di sicurezza. L’interno era rischiarato solo dalla luce irradiata da una serie di monitor che mostravano diverse zone delle miniere. Un europeo era seduto su una poltroncina girevole e voltava le spalle alla porta. Indossava una camicia firmata e calzoncini bermuda, e fumava con tranquilla indifferenza un sigaro sottile mentre osservava i monitor le cui telecamere inquadravano i pozzi.

A tradirli fu il riflesso su un monitor con lo schermo spento. Allarmato dalle immagini degli uomini che entravano alle sue spalle, il guardiano si spostò un po’ sulla sinistra mentre tendeva adagio le dita verso una console con una fila di interruttori rossi. Levant si avventò su di lui con un attimo di ritardo, brandendo l’Heckler & Koch in un colpo rabbioso dall’alto in basso. L’uomo si accasciò sulla poltroncina, quindi stramazzò privo di sensi sulla console, ma non prima che l’allarme, violento come la sirena di un’ambulanza, incominciasse a echeggiare in tutta la miniera.

«Maledizione!» imprecò Levant. «Abbiamo perso il vantaggio della sorpresa.» Spinse via la guardia e sparò dieci colpi contro la console. Scintille e fumo eruppero dagli interruttori frantumati e l’ululato cessò bruscamente.

Pitt si avviò in fretta nel corridoio e spalancò una porta dopo l’altra fino a quando trovò quella della sala comunicazioni. L’operatore, una donna graziosa dai tipici lineamenti dei mori, per nulla intimidita dall’intrusione, non alzò gli occhi quando Pitt si avvicinò. Era stata messa in allarme dalla sirena e gridava qualcosa in francese nel microfono della cuffia. Pitt si accostò fulmineamente e la colpì con un pugno alla nuca. Ma come era accaduto a Levant, arrivò troppo tardi. Prima che la donna stramazzasse sul pavimento di pietra, l’allarme era stato trasmesso alle forze del servizio di sicurezza del generale Kazim.

«Non ho fatto in tempo», disse Pitt mentre Levant entrava correndo. «Ha trasmesso un messaggio prima che potessi fermarla.»

Levant valutò la situazione con una rapida occhiata. Poi si voltò e chiamò a gran voce: «Sergente Chauvel!»

«Signore!» Il sergente era così infagottato nella tuta da combattimento che era quasi impossibile capire che era una donna.

«Si metta alla radio», le ordinò Levant in francese, «dica ai maliani che l’allarme è stato causato da un corto circuito. Spieghi che non è un’emergenza. E, per amor di Dio, li dissuada dall’intraprendere un’azione di risposta.»

«Sì, signore», disse il sergente prima di sbarazzare la sedia con un calcio e di mettersi alla radio.

«L’ufficio di O’Bannion è in fondo al corridoio», spiegò Pitt. Passò accanto a Levant e si avviò. Non si fermò prima di dare una spallata alla porta e di piombare nell’anticamera.

L’impiegata dagli occhi grigiovioletti e dai lunghissimi capelli era alla scrivania e stringeva con entrambe le mani una pistola automatica. Lo slancio trascinò Pitt attraverso la stanza e contro la scrivania. Urtò la donna e finì con lei sul pavimento coperto dalla moquette blu: ma l’impiegata ebbe il tempo di sparargli due colpi nel giubbotto antiproiettile.

Pitt ebbe la sensazione di essere stato centrato per due volte al petto da un maglio. Rimase senza fiato ma non si fermò. La donna cercò di districarsi mentre urlava in una lingua incomprensibile frasi che, Pitt ne era sicuro, dovevano essere oscenità. Sparò un altro colpo che gli sfiorò la spalla, rimbalzando contro il soffitto di roccia, e si piantò in un quadro prima che Pitt riuscisse a impadronirsi dell’arma. Poi rimise in piedi la donna con uno strattone e la scagliò su un divano.

Si voltò, passò fra le statue bronzee dei tuareg e provò ad azionare la maniglia dell’ufficio di O’Bannion. La porta era chiusa a chiave. Alzò la pistola sottratta all’impiegata, l’appoggiò alla serratura e premette tre volte il grilletto. Lo sparo echeggiò, assordante: ma ormai non era più necessario agire furtivamente. Si accostò alla parete e sospinse la porta con un piede.

O’Bannion era appoggiato alla scrivania, con le mani tese sulla superficie. Sembrava in attesa di ricevere il dirigente di una società rivale. Gli occhi che brillavano attraverso il litham avevano un’espressione altezzosa e senza traccia di paura, ma tradirono lo sbalordimento quando Pitt entrò e si tolse l’elmetto.

«Spero di non essere in ritardo per la cena, O’Bannion. Se non ricordo male, mi aveva invitato.»

«Lei!» sibilò O’Bannion. La parte del volto visibile intorno agli occhi impallidì di colpo.

«Sono tornato», disse Pitt con un mezzo sorriso. «E ho portato alcuni amici che nutrono scarsissima simpatia per i sadici che schiavizzano e uccidono le donne e i bambini.»

«Dovrebbe essere morto. Nessuno avrebbe potuto sopravvivere attraversando il deserto senza una provvista d’acqua.»

«Giordino e io non siamo morti.»

«Uno degli aerei del generale Kazim ha trovato il camion rovesciato in un uadi a ovest della pista Transahariana. Non è possibile che l’abbiate raggiunta a piedi.»

«E la guardia che avevamo legato al volante?»

«Era viva. Ma l’abbiamo uccisa perché vi aveva permesso di fuggire.»

«La vita umana non ha molto valore da queste parti.»

Gli occhi di O’Bannion non avevano più un’espressione sbalordita, ma non tradivano ancora la paura. «Siete venuti per salvare i vostri? O per rubare l’oro?»

Pitt lo fissò. «La prima ipotesi è quella esatta. E abbiamo intenzione di mettere definitivamente fuori gioco lei e i suoi complici.»

«Avete invaso uno Stato sovrano. Non avete alcun diritto nel Mali, e non avete giurisdizione su di me e sulla miniera.»

«Mio Dio! Mi sta facendo una predica sulla giurisdizione? E i diritti di tutti coloro che ha schiavizzato e assassinato?»

O’Bannion alzò le spalle. «Il generale Kazim li avrebbe fatti giustiziare comunque.»

«Che cosa le vietava di trattarli umanamente?» chiese Pitt.

«Tebezza non è una località di villeggiatura o un centro termale. Siamo qui per estrarre l’oro.»

«Per l’interesse suo, di Massarde e di Kazim.»

«Sì.» O’Bannion annuì. «Abbiamo finalità mercenarie. E con questo?»

L’atteggiamento freddo e spietato aprì una diga nell’animo di Pitt e scatenò le immagini mentali delle sofferenze subite da innumerevoli uomini, donne e bambini, le immagini dei cadaveri accatastati nella cripta, di Melika che percuoteva le vittime con la cinghia insanguinata, il pensiero che tre uomini dominati dall’avidità erano responsabili di massacri indicibili. Si avvicinò a O’Bannion e colpì con il calcio del mitra la parte del litham color indaco che gli copriva la bocca.

Per un lungo momento rimase a guardare l’ingegnere irlandese vestito come un nomade del deserto che giaceva sulla moquette mentre il sangue filtrava dalla stoffa del copricapo. Imprecò furiosamente, quindi se lo issò sulla spalla. Nel corridoio incontrò Levant.

«È O’Bannion?» chiese il colonnello.

Pitt annuì. «Ha avuto un incidente.»

«Si vede.»

«Com’è la situazione?»

«L’unità quattro ha occupato i livelli di recupero del minerale; la due e la tre incontrano poca resistenza da parte delle guardie. Sembra che siano abituati a picchiare la gente indifesa più che a combattere i professionisti.»

«L’ascensore dei VIP per raggiungere i livelli della miniera è da questa parte», disse Pitt, avviandosi nel corridoio.

L’ascensore cromato era stato abbandonato dall’operatore; Pitt, Levant e i membri dell’unità uno che sorvegliavano gli ingegneri e gli impiegati scesero al livello principale. Uscirono e si avvicinarono alla porta di ferro che pendeva dai cardini con la serratura sfondata dall’esplosione della dinamite.

«Qualcuno ci ha preceduti», mormorò Levant.

«L’abbiamo fatta saltare Giordino e io quando siamo fuggiti», spiegò Pitt.

«Sembra che non abbiano provveduto a ripararla.»

Nel pozzo riverberavano i rumori di colpi d’arma da fuoco che provenivano dalle viscere della miniera. Pitt caricò O’Bannion, ancora privo di sensi, sulla spalla di un robusto commando e si lanciò in direzione della caverna dove erano tenuti i prigionieri.

Raggiunsero la camera centrale senza trovare resistenza e s’incontrarono con alcuni membri dell’unità due che stavano disarmando un gruppo di guardie di O’Bannion, con le mani intrecciate dietro la nuca e l’aria impaurita. Giordino e due uomini della squadra avevano fatto saltare la serratura e si appoggiavano contro la grande porta di ferro della segreta. Pembroke-Smythe vide Levant e accorse a fare rapporto.

«Abbiamo catturato sedici guardie, colonnello. Un paio sono scappate nel pozzo. Sette hanno commesso l’errore di resistere e sono morte. Noi abbiamo due feriti, ma non sono gravi.»

«Dobbiamo affrettarci», disse Levant. «Ho paura che abbiano fatto in tempo a dare l’allarme prima che interrompessimo la comunicazione.»

Pitt si affiancò a Giordino e lo aiutò a spingere la porta. Giordino si voltò a guardarlo.

«Ti sei deciso a comparire, eh?»

«Mi ero fermato a far due chiacchiere con O’Bannion.»

«E adesso ha bisogno di un medico o di un impresario delle pompe funebri?»

«Di un dentista», rispose Pitt.

«Hai visto Melika?»

«Non era negli uffici degli ingegneri.»

«La troverò», promise Giordino rabbiosamente. «Quella spetta a me.»

La porta si spalancò e la squadra entrò nella caverna. Pitt e Giorduio sapevano per esperienza ciò che li attendeva, ma lo spettacolo li sconvolse comunque. I loro compagni impallidirono nel sentire il lezzo e nel vedere le sofferenze incredibili che si offrivano al loro sguardo. Persino Levant e Pembroke-Smythe rimasero immobili per un momento, inorriditi, prima di entrare.

«Mio Dio», mormorò il capitano. «Mi sembra Auschwitz o Dachau.»

Pitt corse tra i prigionieri storditi che la disperazione e la fame avevano ridotto a scheletri ambulanti. Trovò il dottor Hopper seduto su una cuccetta, a occhi sbarrati, con gli indumenti sudici che pendevano sul corpo devastato dalla fatica e dalla denutrizione. Sorrise, si alzò con uno sforzo e abbracciò Pitt.

«Grazie a Dio, ce l’avete fatta. È un miracolo.»

«Mi dispiace di averci messo tanto tempo», disse Pitt.

«Eva ha sempre avuto fiducia in lei», rispose Hopper a n voce soffocata. «Sapeva che sarebbe venuto.»

Pitt si guardò intorno. «Dov’è?»

Hopper indicò una cuccetta. «È arrivato appena in tempo. Eva è ridotta piuttosto male.»

Pitt andò a inginocchiarsi accanto alla figura immobile stesa sulla cuccetta. Il suo volto tradiva una grande tristezza: non riusciva a credere che si fosse tanto consunta in una settimana. La prese gentilmente per le spalle e la scosse. «Eva, sono tornato.»

Eva si mosse, aprì gli occhi, lo guardò con occhi velati. «Lasciami dormire ancora un poco», mormorò.

«Sei salva. Ti porterò via da qui.»

Lei lo riconobbe, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Sapevo che saresti tornato per me… per tutti noi.»

«È stato un miracolo se ci siamo riusciti.»

Lei lo guardò negli occhi e sorrise. «Non ne ho mai dubitato.»

Pitt la baciò a lungo e teneramente.


Gli infermieri si misero subito al lavoro per assistere i prigionieri mentre le unità da combattimento incominciavano a condurre in superficie quelli che erano in grado di camminare e li facevano salire sui veicoli per il trasporto truppe. I timori iniziali trovarono conferma: l’operazione procedeva lentamente perché molti erano troppo deboli per muoversi e dovevano essere portati via di peso.

Quando si fu assicurato che Eva, le altre donne e i bambini avessero l’assistenza necessaria e venissero condotti in superficie, Pitt si fece consegnare da uno degli uomini di Levant un sacchetto di esplosivo plastico e tornò da O’Bannion, che aveva ripreso i sensi e stava seduto accanto a un carrello per minerali sotto la sorveglianza attenta di una donna del commando.

«Venga, O’Bannion», gli ordinò. «Andiamo a fare una passeggiata.»

Il litham di O’Bannion era caduto e lasciava scoperta la faccia sfigurata dall’esplosione di una carica di dinamite, avvenuta molti anni prima in Brasile. Perdeva sangue dalla bocca e il colpo sferrato da Pitt con il calcio del mitra gli aveva fatto saltare due denti.

«Dove?» chiese muovendo a stento le labbra gonfie.

«A rendere omaggio ai morti.»

Pitt fece alzare bruscamente l’ingegnere e lo spinse lungo il binario, in direzione della cripta. Camminavano in silenzio, aggirando i corpi dei tuareg che avevano commesso lo sbaglio di opporre resistenza. Quando giunsero nella caverna dei morti, O’Bannion esitò ma Pitt lo sospinse freddamente all’interno.

O’Bannion si voltò a guardarlo con un’espressione sprezzante. «Mi ha portato qui per farmi una predica sulla mia crudeltà verso i miei simili, prima di ammazzarmi?»

«No», rispose Pitt. «La lezione è ovvia senza bisogno di prediche. E non l’ammazzerò. Sarebbe troppo comodo, troppo rapido. Un attimo di sofferenza e poi la tenebra. No, penso che lei meriti una fine più appropriata.»

Per la prima volta un lampo di paura passò negli occhi di O’Bannion. «Che cosa ha in mente?»

Pitt indicò i mucchi dei cadaveri con la canna del mitra. «Le darò il tempo di meditare sulla sua brutalità e sulla sua avidità.»

O’Bannion lo fissò, confuso. «Perché? Si sbaglia, se pensa che invocherò perdono e chiederò clemenza.»

Pitt fissò il corpo fragile e gli occhi sbarrati di una bambina che non poteva avere più di dieci anni. La collera divampò in lui, e dovette compiere uno sforzo disperato per dominarsi.

«Morirà, O’Bannion, ma morirà lentamente, e soffrirà i tormenti della fame e della sete che ha imposto a questi sventurati. Prima che i suoi amici Kazim e Massarde la trovino, ammesso che si degnino di cercarla, avrà raggiunto il resto delle sue vittime.»

«Mi spari! Mi uccida subito!» gridò O’Bannion.

Pitt gli rivolse un sorriso gelido e non disse nulla. Costrinse O’Bannion a indietreggiare sul fondo della caverna, poi tornò nel tunnel di accesso, piazzò l’esplosivo plastico a vari intervalli, e regolò i timer. Rivolse un ultimo cenno di commiato a O’Bannion, poi corse nel pozzo e si nascose dietro un convoglio di carrelli.

Quattro detonazioni fragorose, una dopo l’altra, scagliarono nel pozzo principale polvere e frammenti di travi di sostegno. Le esplosioni echeggiarono nelle miniere per lunghi istanti, poi sopravvenne uno strano silenzio. Pitt si chiese se aveva piazzato le cariche in posizioni sbagliate. Ma poi sentì un suono fioco che divenne un rombo quando la volta del tunnel crollò sotto il peso di centinaia di tonnellate di roccia e sigillò l’ingresso della camera sepolcrale.

Attese che la polvere cominciasse a ricadere prima di mettere il mitra in spalla e di avviarsi verso l’area dell’evacuazione, lungo il binario, fischiettando.


Giordino sentì un rumore e scorse un movimento in un pozzo laterale, sulla sinistra. Avanzò lungo le rotaie e arrivò a un carrello vuoto. Continuò a procedere rasente alla parete, cercando di non smuovere le pietre, e si accostò. Poi, con l’agilità di un gatto, scavalcò il binario e puntò la canna dell’arma all’interno del carrello.

«Butta fuori il mitra», ordinò.

Colto di sorpresa, il tuareg si alzò tenendo il mitra sopra la testa. Non conosceva l’inglese e non capiva il comando di Giordino: ma si rendeva conto della situazione. Fissò la canna dell’arma che lo minacciava, comprese e lasciò cadere a terra il mitra.

«Melika?» gridò Giordino.

La guardia scosse la testa, ma Giordino riconobbe l’espressione atterrita. Premette la canna contro la bocca della guardia e contrasse il dito sul grilletto.

«Melika!» mormorò la guardia mentre la canna d’acciaio le si piantava in gola. Poi annuì, freneticamente.

Giordino tirò indietro l’arma. «Dov’è Melika?» chiese in tono minaccioso.

Il tuareg sembrava aver paura di Melika non meno che di Giordino. Sgranò gli occhi e, in silenzio, indicò il pozzo. Giordino gli accennò di uscire dal corridoio trasversale. Poi tese il braccio.

«Torna alla caverna grande. Capito?»

Il tuareg s’inchinò, con le mani sopra la testa, si mosse a ritroso, inciampò e cadde sulla rotaia nella fretta di obbedire. Giordino gli voltò le spalle e continuò nel tunnel buio che si estendeva davanti a lui. Si aspettava una raffica a ogni passo.

C’era un silenzio di morte, rotto soltanto dal suono dei suoi stivali sulle traversine. Si soffermò due volte, conscio del pericolo. Raggiunse una curva netta del pozzo e si fermò. C’era un barlume di luce che proveniva dall’altra parte; e c’erano anche un’ombra e il suono della pietra contro la pietra. Prese uno specchietto per segnalazioni da una delle molte tasche della tuta e lo tese piano piano oltre una trave.

Melika lavorava febbrilmente: ammucchiava pietre in fondo al pozzo per nascondersi dietro una falsa parete. Voltava la schiena a Giordino, ma era ancora a una decina di metri, e teneva un mitra appoggiato alla roccia, a portata di mano. Lavorava senza prendere altre precauzioni: evidentemente pensava che il tuareg l’avrebbe avvertita dell’approssimarsi di un pericolo. Non sapeva che era stato disarmato. Giordino avrebbe potuto mettersi al centro del pozzo e spararle prima che si accorgesse della sua presenza. Ma non intendeva ucciderla subito.

Superò furtivamente la curva; il suono dei suoi movimenti era coperto dal rumore delle rocce spostate da Melika. Quando fu abbastanza vicino, afferrò l’arma della donna e la gettò lontana, alle sue spalle.

Melika si voltò di scatto, si rese fulmineamente conto della situazione e si avventò, facendo sibilare nell’aria la terribile cinghia. Ma non riuscì a cogliere di sorpresa Giordino: la sua faccia era una maschera fredda e implacabile quando premette il grilletto e le sparò alle ginocchia.

Lo spirito di vendetta lo dominava completamente. Melika era feroce e pericolosa come un toro imbizzarrito. Aveva torturato e ucciso per il gusto di farlo. Persino adesso, mentre giaceva sulle pietre con le gambe grottescamente contorte, lo fissava con i denti snudati e gli occhi feroci. Il sadismo, in lei, era più forte della sofferenza. Ringhiò come una belva ferita e cercò di colpire Giordino con la cinghia mentre lo insultava.

Giordino indietreggiò agilmente di fronte all’inutile attacco. «Il mondo è violento e spietato», mormorò. «Ma lo sarà un po’ meno quando non ci sarai più.»

«Piccolo bastardo», ringhiò Melika. «Cosa ne sai, tu, della violenza del mondo? Non sei mai vissuto nel sudiciume e non hai mai sofferto come me.»

L’espressione di Giordino era dura come la roccia. «Questo non ti autorizzava a far soffrire gli altri. Come giudice e boia, i problemi della tua vita non m’interessano. Forse avevi le tue ragioni per diventare quello che sei. Ma, secondo me, sei malata dalla nascita. Ti sei lasciata alle spalle una scia di vittime innocenti. Non hai un motivo per vivere.»

Melika non implorò. Un torrente di odio velenoso le uscì dalla bocca in forma di maledizioni. Con calcolata efficienza, Giordino le sparò allo stomaco, due volte. Gli occhi lampeggianti videro solo l’espressione indifferente dell’uomo, poi divennero vitrei e il corpo massiccio parve rattrappirsi sul pavimento roccioso.

Giordino la fissò per lunghi istanti, e finalmente parlò al cadavere.

«Ecco fatto», mormorò. «La Strega è morta.»

47.

«Venticinque in tutto», riferì Pembroke-Smythe a Levant. «Quattordici uomini, otto donne e tre bambini. Tutti più morti che vivi.»

«Una donna e un bambino in meno di quando ce ne siamo andati Giordino e io», commentò irosamente Pitt.

Levant guardò i prigionieri liberati che salivano sui veicoli e consultò l’orologio. «Abbiamo un ritardo di sedici minuti», disse, impaziente. «Cerchi di sbrigarsi, capitano. Dobbiamo metterci in viaggio.»

«Saremo pronti a partire fra un attimo», annunciò allegramente Pembroke-Smythe mentre correva intorno ai veicoli ed esortava i suoi ad affrettarsi.

«Dov’è il suo amico Giordino?» chiese Levant a Pitt. «Se non arriverà presto, dovremo lasciarlo qui.»

«Aveva qualcosa da fare.»

«Potrà considerarsi fortunato se riuscirà ad attraversare i livelli inferiori. Dopo che i prigionieri hanno fatto irruzione nei magazzini dei viveri e dell’acqua, hanno cominciato a vendicarsi delle guardie. L’ultima squadra che è risalita in superficie ha riferito che è in corso un massacro.»

«Non si può dare loro torto, dopo quello che hanno passato», rifletté Pitt.

«Mi rincresce abbandonarli», ammise Levant. «Ma se non ce ne andiamo al più presto, saliranno con gli ascensori e dovremo combattere per evitare che s’impadroniscano dei veicoli.»

Giordino arrivò a passo svelto dal corridoio degli uffici, dove sei uomini montavano la guardia all’entrata della caverna dell’equipaggiamento. Aveva un’espressione soddisfatta; sorrise a Pitt e a Levant. «Mi fa piacere che non abbiate cominciato lo spettacolo senza di me.»

Levant non aveva voglia di scherzare. «Non è per lei che ci siamo trattenuti.»

«Melika?» chiese Pitt.

Giordino mostrò la cinghia che aveva preso come souvenir. «Sta firmando il registro degli ospiti all’inferno. E O’Bannion?»

«Sta facendo la guardia all’obitorio.»

«Pronti per partire», gridò Pembroke-Smythe che era salito a bordo d’un trasporto.

Levant annuì. «Signor Pitt, ci riporti alla pista di atterraggio.»

Pitt andò a controllare come stava Eva, e si stupì nel vedere che si stava riprendendo in fretta dopo aver bevuto quasi cinque litri d’acqua e aver divorato un pasto fornito dagli infermieri. Anche Hopper, Grimes e Fairweather sembravano risuscitati. Pitt tornò correndo alla dune buggy e si mise al volante.

Con un margine di pochi secondi, la retroguardia corse verso l’ultimo veicolo in partenza e fu issata a bordo mentre i prigionieri uscivano correndo dalle miniere, attraversavano gli uffici e si precipitavano nella caverna dell’equipaggiamento. Ma arrivarono tardi e rimasero a guardare, in preda a un’atroce delusione, mentre la forza speciale che li aveva salvati da una morte orribile spariva nella notte e li abbandonava a un destino incerto.


Pitt non vedeva alcun motivo di essere prudente mentre accelerava nel canyon. Accese i fari della dune buggy e continuò a tenere il piede sull’acceleratore. Come gli aveva chiesto il colonnello Levant, s’era lasciato indietro gli altri veicoli per precederli tutti e andare a sovrintendere ai preparativi per un rapido decollo. Giordino guidava il primo trasporto truppe e seguiva senza difficoltà le tracce dei pneumatici dopo che la nuvola di polvere sollevata dal mezzo di Pitt era sparita in lontananza.

Durante il tragitto di ritorno, Levant non nascose il nervosismo. Controllava l’orologio a intervalli brevissimi: era preoccupato perché ormai avevano ventidue minuti di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Cominciò a tranquillizzarsi quando rimasero appena cinque chilometri da percorrere. Il cielo era sereno e non si vedevano aerei. Adesso Levant stava per diventare ottimista. Poteva darsi che il servizio di sicurezza di Kazim si fosse lasciato ingannare quando il sergente Chauvel aveva inventato una spiegazione per il segnale d’allarme.

Ma molto presto fu disilluso.

All’improvviso sentirono, più forte del rombo smorzato della dune buggy, il suono inconfondibile del motore a reazione e scorsero le luci che sfrecciavano nel cielo buio. Levant incominciò immediatamente a dare all’equipaggio e all’unità del servizio di sicurezza l’ordine di allontanarsi dall’airbus e di mettersi al riparo.

Pitt frenò e fece deviare bruscamente la dune buggy fermandosi poi, in un turbine di polvere, dietro una piccola duna. Staccò le mani dal volante e alzò gli occhi verso l’aereo. «Probabilmente siamo oggetto di attenzioni alquanto sgradite.»

«Kazim deve aver mandato un aereo da ricognizione per accertare se l’allarme si riferiva a un attacco.» La voce di Levant era decisa, ma il suo viso rispecchiava un’apprensione profonda.

«Secondo me, il pilota non sospetta niente, altrimenti non volerebbe tranquillo, con tutte le luci che lampeggiano.»

Levant fissò cupamente la sagoma del caccia che volava in cerchio sopra l’airbus, in fondo alla pista. «Temo che stia segnalando la presenza di un aereo non identificato e chieda istruzioni per attaccare.»

L’attesa non durò a lungo. Il caccia, che adesso era riconoscibile per un Mirage di fabbricazione francese, virò all’improvviso e scese in picchiata verso la pista, puntando i mirini laser sull’airbus che stava immobile e impotente come una vacca addormentata davanti a un cannone.

«Sta per attaccare!» gridò Pitt.

«Apri il fuoco!» urlò Levant all’uomo che era seduto dietro di loro, chino sulla mitragliatrice Vulcan multicanne. «Abbattilo!»

Il mitragliere seguì il caccia maliano sul mirino computerizzato e nell’istante in cui ebbe stabilito l’angolo e la distanza attivò il sistema di sparo. Come le mitragliere Gatling del secolo scorso, le sei canne della Vulcan ruotarono rapidamente, e migliaia di proiettili da 20 millimetri fendettero il cielo nero. I colpi arrivarono a segno e incominciarono a squarciare il Mirage nello stesso istante in cui il pilota lanciava due missili contro l’airbus immobile sulla pista.

Il deserto divenne un ribollire di fragore e di fiamme quando i due aerei esplosero simultaneamente. Il caccia, trasformato in una sfera di fuoco arancio, continuò a scendere nell’angolo di attacco come se fosse tirato da uno spago, fino a quando piombò a terra e scagliò tutto intorno, nel deserto indifferente, mille frammenti incendiati. L’airbus non era più un aereo, ma solo una grande massa di fiamma che lambiva una nube di fumo oleoso, una colonna immensa protesa nel cielo a oscurare le stelle.

Pitt rimase ipnotizzato a guardare il punto dove fino a pochi secondi prima c’erano due aerei intatti: adesso vedeva soltanto fuoco e distruzione. Seguito da Levant, scese a terra e rimase immobile. Nel bagliore del fuoco, notò l’espressione amara e sconfitta sul volto del colonnello.

«Maledizione», imprecò Levant. «È successo quel che temevo. Ora siamo in trappola, senza speranza di salvezza.»

«Kazim sospetterà che un contingente straniero abbia invaso nuovamente il suo territorio», soggiunse Pitt. «Manderà a Tebezza tutte le sue forze aeree. Allora i vostri elicotteri d’appoggio finiranno a pezzi prima di poter arrivare al rendez-vous.»

«Non possiamo far altro che dirigerci verso il confine», ammise Levant.

«Non ce la faremmo mai. Anche se gli aerei di Kazim non riuscissero a usarci per il tiro al bersaglio e se le sue forze del servizio di sicurezza non ci tagliassero la strada e non ci attaccassero a ogni passo, i nostri veicoli esaurirebbero il carburante prima dell’arrivo dei soccorsi. I suoi commando potrebbero farcela, ma i poveretti che abbiamo liberato dalle miniere moriranno nel deserto. Lo so. Ci sono passato.»

«Lei era costretto a dirigersi verso est, verso la Transahariana», ribatté Levant. «Un tratto di circa quattrocento chilometri. Se puntiamo verso nord, dovremo coprire solo duecentoquaranta chilometri prima di entrare in Algeria e di incontrare il contingente partito da Algeri per soccorrerci. Il carburante basterà.»

«Dimentica che per Kazim e Massarde le miniere di Tebezza sono troppo importanti», obiettò Pitt, voltandosi a guardarlo. «Faranno di tutto per evitare che venga scoperto il segreto delle loro atrocità.»

«Pensa che ci attaccherebbero anche in Algeria?»

«L’operazione di salvataggio li ha messi con le spalle al muro», disse Pitt. «Non sarà una sciocchezza come un confine nazionale a trattenerli dall’ordinare attacchi aerei in un settore desolato del territorio algerino. Quando il contingente dei soccorsi sarà ridotto al minimo e l’aereo distrutto o costretto alla fuga, manderanno all’assalto tutte le loro forze per annientarci. Non possono permettere che qualcuno sopravviva e smascheri le loro attività disumane.»

Levant voltò le spalle alla distruzione, con il viso illuminato dalle fiamme, e fissò Pitt. «Non approva i miei piani per questa evenienza?»

«Non amo essere prevedibile.»

«Sta facendo il misterioso, signor Pitt? O il modesto?»

«Sono semplicemente pratico», rispose Pitt. «Ho tutte le ragioni per credere che Kazim non si fermerà al confine.»

«E cosa propone di fare?» chiese Levant in tono paziente.

«Dirigerci a sud fino a quando incontreremo la ferrovia di Fort Foureau», spiegò Pitt. «E impadronirci di un treno diretto in Mauritania. Se giocheremo bene le nostre carte, Kazim non sospetterà nulla fino a quando non saremo arrivati a Port Etienne e al mare.»

«Nella tana del leone», borbottò Levant. «A sentirla, sembra tutto semplice e assurdo.»

«Il territorio fra qui e l’impianto di smaltimento di Fort Foureau è quasi tutto deserto piatto, con qualche tratto di dune. Se manterremo una velocità media di cinquanta chilometri orari, potremo arrivare alla ferrovia prima del levar del sole e senza finire il carburante.»

«E poi? Saremo esposti da ogni lato.»

«Ci nasconderemo in un vecchio forte della Legione Straniera fino a quando sarà buio. Poi fermeremo un treno in partenza e caricheremo tutti a bordo.»

«Il primo Fort Foureau. Fu abbandonato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’ho visitato, una volta.»

«È proprio quello.»

«Sarebbe un suicidio, senza qualcuno che ci guidi attraverso le dune», osservò Levant.

«Uno dei prigionieri liberati è una guida turistica di professione e conosce il deserto maliano come i nomadi.»

Levant tornò a fissare per lunghi istanti l’airbus che bruciava, riflettendo sui pro e i contro della proposta di Pitt. Se fosse stato al posto di Kazim, avrebbe pensato che i fuggiaschi puntassero a nord verso il confine più vicino. E avrebbe impegnato le sue forze nel tentativo di fermarli. Pitt aveva ragione, pensò. Non c’erano speranze di arrivare vivi in Algeria. Kazim non avrebbe rinunciato alla caccia fino a che non fossero morti tutti. Se si fossero avviati nella direzione opposta avrebbero potuto indurre il generale e Massarde a un inseguimento inutile fino a quando la squadra tattica avesse potuto mettersi al sicuro.

«Non gliel’avevo detto, vero, signor Pitt? Quando ero nella Legione Straniera, ho passato otto anni nel deserto.»

«No, colonnello, non me l’aveva detto.»

«I nomadi raccontano la leggenda di un leone trafitto dalla lancia d’un cacciatore che risali a nord dalla giungla e attraversò a nuoto il Niger per poter morire sulla sabbia calda del deserto.»

«È una leggenda con una morale?» chiese Pitt.

«Non proprio.»

«E allora che significa?»

Levant si voltò verso i veicoli che stavano arrivando e si fermavano accanto alla dune buggy. Poi guardò di nuovo Pitt e sorrise. «Significa che mi fiderò della sua intuizione. Andremo a sud, verso la ferrovia.»

48.

Kazim entrò nell’ufficio di Massarde alle undici di sera. Si versò un gin on the rocks e sedette in poltrona prima che Massarde si degnasse di alzare gli occhi e di prendere atto della sua presenza.

«Sono stato informato della tua visita inattesa, Zateb», disse Massarde. «Come mai sei venuto a Fort Foureau a quest’ora?»

Kazim fissò il bicchiere e fece roteare i cubetti di ghiaccio. «Ho pensato che fosse meglio dirtelo personalmente.»

«Che cosa?» domandò spazientito Massarde.

«C’è stata un’incursione a Tebezza.»

Massarde aggrottò la fronte. «Di cosa stai parlando?»

«Verso le nove, il mio servizio comunicazioni ha ricevuto un allarme dal sistema di sicurezza delle miniere», spiegò Kazim. «Pochi minuti più tardi, l’operatore radio di Tebezza ha dichiarato che era tutto a posto e che l’allarme era dovuto a un circuito elettrico difettoso.»

«Mi sembra credibile.»

«Solo in apparenza. Non mi fido delle situazioni apparentemente credibili. Ho ordinato a uno dei miei caccia di fare un volo di ricognizione sulla zona. Il pilota ha comunicato che un jet di trasporto non identificato era atterrato sulla pista di Tebezza. Era lo stesso tipo di airbus francese che ha preso a bordo l’americano all’aeroporto di Gao.»

Massarde si oscurò. «Il pilota ne era certo?»

Kazim annuì. «Dato che nessun aereo può atterrare a Tebezza senza la mia autorizzazione, gli ho ordinato di distruggerlo. Il pilota ha dato il ricevuto e ha attaccato. Ha segnalato di aver colpito il bersaglio e subito dopo la sua radio ha smesso di funzionare.»

«Mio Dio, poteva essere un aereo di linea commerciale costretto a un atterraggio di fortuna!»

«Gli aerei di linea commerciali non volano senza contrassegni.»

«Secondo me, hai reagito in modo eccessivo.»

«Allora spiegami perché il pilota non è rientrato alla base.»

«Un guasto meccanico?» Massarde alzò le spalle. «Potrebbe aver avuto chissà quali problemi.»

«Preferisco credere che sia stato abbattuto dal contingente che ha assaltato le miniere.»

«Questo non puoi saperlo con certezza.»

«Comunque ho ordinato a una squadriglia di caccia di portarsi sull’area e ho mandato gli elicotteri del servizio di sicurezza a controllare la situazione.»

«E O’Bannion?» chiese Massarde. «Non si è messo in contatto con te?»

«Non risponde. Quaranta minuti dopo che avevano smentito l’allarme, tutte le comunicazioni con Tebezza si sono interrotte.»

Massarde rifletté, ma non riuscì a trovare una spiegazione. «Perché avrebbero assaltato le miniere?» chiese alla fine. «A che scopo?»

«Per prendere l’oro, probabilmente», rispose Kazim.

«Sarebbero stupidi a portar via il minerale. Noi trasferiamo l’oro nel deposito del Pacifico meridionale non appena viene raffinato. L’ultima spedizione è stata due giorni fa. Una banda di ladri con un minimo di cervello avrebbe cercato di impadronirsene durante il trasporto.»

«Per il momento non ho una teoria da proporre», confessò Kazim. Guardò l’orologio. «I miei dovrebbero atterrare più o meno adesso sul plateau delle miniere. Entro un’ora ne sapremo di più.»

«Se quel che dici è vero, sta succedendo qualcosa di molto strano», mormorò Massarde.

«Dobbiamo considerare la possibilità che la stessa squadra dell’ONU che ha attaccato la mia base aerea di Gao sia responsabile dell’incursione a Tebezza.»

«L’operazione di Gao era diversa. Perché sarebbero tornati a colpire Tebezza? Per ordine di chi?»

Kazim finì il gin e se ne versò un altro. «Hala Kamil? Forse qualcuno le ha detto del sequestro di Hopper e del suo gruppo di scienziati e allora ha mandato la squadra tattica a liberarli.»

«Impossibile», disse Massarde scuotendo la testa. «A meno che i tuoi uomini non abbiano parlato.»

«I miei uomini sanno che morirebbero se tradissero la mia fiducia», rispose freddamente Kazim. «Se c’è stata una fuga di notizie, è stata dalla tua parte.»

Massarde lo guardò con aria benevola. «Siamo sciocchi a discutere. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo controllare il futuro.»

«In che modo?»

«Il tuo pilota non ha riferito di aver colpito l’aereo?»

«Sono state le sue ultime parole.»

«Allora possiamo presumere che sia stato eliminato l’unico mezzo che avrebbe potuto permettere agli incursori di fuggire dal Mali.»

«Se il loro airbus è rimasto danneggiato in modo grave.»

Massarde si alzò e si avvicinò a un grande plastico del Sahara che stava sulla parete dietro la scrivania. «Se fossi al comando degli incursori e il tuo aereo venisse distrutto, come vedresti la situazione?»

«Disperata o quasi.»

«Che possibilità avresti?»

Kazim si avvicinò e batté leggermente il bicchiere contro il plastico. «C’è una possibilità sola: fuggire verso il confine con l’Algeria.»

«Possono farcela?» chiese Massarde.

«Se i veicoli di cui dispongono sono intatti e hanno i serbatoi pieni, dovrebbero riuscire a entrare in Algeria più o meno all’alba.»

Massarde lo fissò. «Sei in grado di sorprenderli e annientarli prima che arrivino al confine?»

«I nostri sistemi per il combattimento notturno sono limitati. Potrei metterli in difficoltà, ma per annientarli avrei bisogno della luce del giorno.»

«E allora sarà troppo tardi.»

Kazim prese un sigaro, l’accese e bevve un sorso di gin. «Cerchiamo di essere pratici. Quello è il Tanezrouft, la parte più desolata e negletta del Sahara. Raramente i militari algerini mandano una pattuglia nella regione disabitata lungo il confine. Perché dovrebbero? Non hanno motivi di dissidio con il Mali, e noi non ne abbiamo con loro. Le mie forze del servizio di sicurezza possono addentrarsi facilmente per centocinquanta chilometri nel territorio dei nostri vicini del nord senza essere scoperte.»

Massarde gli lanciò un’occhiata. «Se fosse davvero una missione di salvataggio delle forze dell’ONU, non possiamo permettere che riesca a fuggire qualcuno del gruppo di Hopper, o dei miei ingegneri e delle loro famiglie. Se anche uno solo di loro ce la fa e smaschera Fort Foureau o Tebezza, per la nostra collaborazione sarà la fine.»

Sulla faccia del generale spuntò un sorriso. «Non preoccuparti, Yves, amico mio. Abbiamo messo in piedi un’attività troppo redditizia per permettere che pochi ficcanaso ci taglino l’erba sotto i piedi. Ti assicuro che entro domani a mezzogiorno saranno tutti finiti in pasto agli avvoltoi.»


Quando Kazim uscì, Massarde pronunciò poche parole nell’interfono. Dopo qualche secondo entrò Ismail Yerli.

«Ha seguito la scena sul monitor?» chiese Massarde.

Yerli annuì. «È strano che quell’uomo sia così furbo e nel contempo così stupido.»

«Vedo che ha capito molto bene Kazim. Non le sarà facile tenerlo al guinzaglio.»

«Quando entrerò a far parte del suo entourage?»

«La presenterò questa sera, al pranzo che offrirò in onore del presidente Tahir.»

«Con la situazione critica che si è creata a Tebezza, Kazim non sarà troppo indaffarato per partecipare?»

Massarde sorrise. «Il grande leone del Mali non è mai troppo occupato per mancare a un pranzo elegante organizzato da un francese.»


Nel suo piccolo ufficio al Palazzo di Vetro di New York, il generale Bock lesse il rapporto del colonnello Levant trasmesso da un satellite delle comunicazioni dell’ONU. Aveva un’espressione grave sul volto segnato quando prese un telefono anti-intercettazioni e chiamò il numero privato dell’ammiraglio Sandecker. La segreteria telefonica automatica fece sentire il segnale acustico, e Bock lasciò un breve messaggio. Dopo otto minuti, Sandecker si mise in contatto con lui.

«Ho appena ricevuto un rapporto poco incoraggiante del colonnello Levant», annunciò Bock.

«Com’è la situazione?» chiese Sandecker.

«Un aereo militare maliano ha distrutto il loro airbus mentre era a terra. Sono tagliati fuori e intrappolati.»

«E l’operazione di salvataggio nelle miniere?»

«È andata come previsto. Tutti i cittadini stranieri ancora vivi hanno ricevuto assistenza medica e sono stati evacuati. Levant riferisce che un paio dei suoi sono stati feriti in modo non grave.»

«In questo momento li stanno attaccando?»

«Per adesso no. Ma è questione di ore prima che le forze del generale Kazim li raggiungano.»

«Hanno un percorso alternativo di fuga?»

«Il colonnello ha detto molto chiaramente che la loro unica speranza sta nel raggiungere il confine algerino prima che faccia giorno.»

«Non mi sembra che abbiano molta scelta», commentò amaramente Sandecker.

«Io sospetto che sia una falsa pista.»

«Perché?»

«Ha inviato il rapporto su una frequenza aperta. Gli operatori di Kazim l’hanno sicuramente intercettato.»

Sandecker prese un appunto. «Pensa che il colonnello Levant si stia avviando in una direzione diversa da quella che ha dichiarato?»

«Speravo che potesse dirmelo lei.»

«La chiaroveggenza non è una delle mie doti.»

«Nel rapporto di Levant c’era anche un messaggio per lei, da parte di Pitt.»

«Dirk.» La voce di Sandecker assunse un tono caldo e reverente. Pitt era capace di aver escogitato un piano imprevedibile. «Che cosa dice?»

«Eccolo: ‘Avverta l’ammiraglio che quando tornerò a Washington lo condurrò a vedere Judy, l’amichetta di Harvey, che canta nel saloon AT&S’. È uno scherzo grossolano o che altro?»

«Dirk non è famoso per gli scherzi grossolani», disse Sandecker in tono deciso. «Ha cercato di comunicarmi qualcosa con una specie di indovinello.»

«Lei sa chi è Harvey?» chiese Bock.

«Il nome non mi dice nulla», mormorò Sandecker. «Non ho mai sentito Dirk parlare di qualcuno che si chiami così.»

«A Washington c’è un saloon AT&S, con una cantante di nome Judy?» insistette il generale.

«No, che io sappia», rispose l’ammiraglio mentre continuava a riflettere. «E l’unica cantante di nome Judy di cui conosco l’esistenza era…»

La risposta lo colpì come uno schiaffo. La semplicità ingegnosa del codice era ovvia per chiunque fosse un vecchio appassionato di cinema come l’ammiraglio. Avrebbe dovuto prevederlo, avrebbe dovuto immaginare che Pitt avrebbe puntato su quel fatto. Rise.

«Non ci trovo nulla di divertente», commentò Bock.

«Non sono diretti al confine con l’Algeria», dichiarò Sandecker in tono trionfante.

«Come ha detto?»

«Il contingente del colonnello Levant sta andando a sud, verso la ferrovia che collega il mare a Fort Foureau.»

«Posso chiederle come è arrivato a questa conclusione?» domandò insospettito il generale.

«Dirk ci ha lanciato un enigma, un indovinello che molto difficilmente Kazim saprebbe risolvere. La cantante Judy è Judy Garland, e Harvey si riferisce a un film di cui era la protagonista, Le ragazze di Harvey.»

«E cosa c’entra il saloon AT&S?»

«Non è un saloon, è una canzone. La canzone di successo che Judy Garland cantava in quel film: On the Atchison, Topeka and Santa Fe. Ed è il nome di una ferrovia.»

Bock mormorò: «Questo spiega perché Levant ha inviato un rapporto che gli uomini di Kazim potevano intercettare facilmente. Li ha indotti a credere che si sta avviando verso nord, verso l’Algeria».

«Ma in realtà va nella direzione opposta», disse Sandecker.

«Levant ha pensato, a ragione, che anche passando il confine tra Mali e Algeria non sarebbero al sicuro. Gli individui spietati come Kazim non si fanno scrupolo di violare il diritto internazionale. Inseguirà i nostri fino a che non sarà riuscito a sterminarli.»

«Però vorrei sapere cosa faranno, dopo aver raggiunto la ferrovia.»

«Forse ruberanno un treno», suggerì Bock.

«Potrebbe essere logico. Ma in pieno giorno?»

«Il messaggio di Pitt contiene un’altra frase.»

«Mi dica.»

«Ecco: ‘Informi inoltre l’ammiraglio che Gary, Ray e Bob stanno andando a casa di Brian per spassarsela’. Lei è in grado di interpretarla?»

Sandecker rifletté per un momento. «Se Pitt ha continuato a usare un codice legato al cinema, allora Gary è Gary Cooper. E credo che Ray sia Ray Milland.»

«Ricorda un film che hanno interpretato insieme?»

«Ma certo!» Sandecker sorrise soddisfatto. «È come se Dirk avesse acceso un’insegna al neon. Interpretarono con Robert Preston e Brian Donlevy un famoso film del 1939, Beau Geste.»

«L’ho visto quand’ero bambino», ricordò Bock. «Parlava di tre fratelli arruolati nella Legione Straniera.»

«L’allusione alla casa di Brian fa pensare a un forte.»

«Non può essere l’impianto di Fort Foureau per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Sarebbe l’ultimo posto dove andrebbe Levant.»

«C’è un altro forte nella zona?»

Bock s’interruppe per consultare le carte. «Sì, un vecchio avamposto della Legione, diversi chilometri a ovest dell’impianto. È da quello, per l’esattezza, che ha preso il nome.»

«A quanto pare, è là che vogliono rintanarsi fino a quando sarà buio.»

«Io farei lo stesso, se fossi al posto del colonnello Levant.»

«Avranno bisogno d’aiuto», disse Sandecker.

«È per questo che l’ho chiamata», replicò Bock, assumendo un tono sbrigativo. «Deve convincere il presidente a mandare un gruppo delle Forze Speciali americane per portar via Levant e i prigionieri liberati dal territorio di Kazim.»

«Ne ha parlato con il segretario generale Hala Kamil? Le sue parole hanno per il presidente un peso assai più rilevante delle mie.»

«Purtroppo ha dovuto recarsi d’urgenza a Mosca per una conferenza. Lei è l’unico cui posso rivolgermi in questo momento.»

«Quanto tempo abbiamo?»

«Non ne abbiamo, in pratica. In quella parte del deserto farà giorno fra due ore.»

«Farò tutto ciò che mi sarà possibile», promise Sandecker. «Mi auguro che il presidente non sia andato ancora a dormire, altrimenti sarà impossibile convincere i suoi collaboratori a svegliarlo.»

49.

«Dev’essere impazzito, se pretende di vedere il presidente a quest’ora», disse rabbiosamente Earl Willover.

Sandecker squadrò il capo dello staff presidenziale, che portava un gessato scuro doppiopetto con la piega dei pantaloni appena tirata, e si chiese se lasciava mai l’ufficio e se dormiva in piedi. «Mi creda sulla parola, Earl, non sarei qui se non fosse una cosa urgente.»

«Non sveglierò il presidente a meno che non si tratti d’una crisi tale da mettere in pericolo la sicurezza della nazione.»

Fino a quel momento Sandecker si era dominato; ma cominciava a perdere l’autocontrollo. «Sta bene. Gli dica che c’è un contribuente, nonché elettore, fuori della grazia di Dio.»

«Lei è matto.»

«Sì, sono abbastanza matto per piombare nella camera del presidente e svegliarlo.»

Willover sembrava sul punto di esplodere. «Ci provi, e la farò arrestare dal servizio segreto.»

«Molti innocenti, inclusi donne e bambine, moriranno se il presidente non agirà in fretta.»

«Questo lo sento ripetere ogni giorno della settimana», sbuffò Willover.

«E scherza sulla pelle delle vittime, eh?»

Willover perse la pazienza. «Dovrà rispondere di tutto questo! Io posso distruggerla quando voglio, sa?»

Sandecker gli si avvicinò tanto da sentire l’odore di menta del suo alito. «Mi ascolti, Earl. Un giorno il mandato del presidente finirà e lei tornerà a far parte della massa. Allora verrò a suonare alla sua porta e le strapperò il fegato.»

«Scommetto che ne sarebbe capace», disse una voce.

Sandecker e Willover si voltarono e videro il presidente fermo sulla soglia in pigiama e vestaglia. Teneva in mano un piatto e stava addentando una tartina.

«Sono andato a frugare nel frigo della cucina per fare uno spuntino e ho sentito le vostre voci.» Fissò Sandecker. «Mi dica di cosa si tratta, ammiraglio.»

Willover si piazzò davanti a Sandecker. «La prego, signore. È una questione di scarsa importanza.»

«Perché non lascia giudicare a me, Earl? Dunque, ammiraglio, mi dica.»

«Innanzi tutto mi permetta una domanda, signor presidente: è stato informato sugli ultimi sviluppi dell’operazione Fort Foureau?»

Il presidente guardò Willover. «Mi è stato detto che due dei suoi, Pitt e Giordino, erano riusciti a rifugiarsi in Algeria e hanno fornito notizie vitali sulle attività disoneste di Yves Massarde.»

«Posso chiedere come ha reagito?»

«Stiamo per convocare un tribunale ambientalista formato dai rappresentanti dell’Europa e dell’Africa settentrionale che dovrà discutere un piano d’azione», rispose Willover.

«Allora non ha intenzione di… Mi pare che lei abbia detto, signor presidente… ‘intervenire direttamente e togliere di mezzo quell’impianto’?»

«Opinioni più moderate hanno avuto la meglio», disse il presidente indicando Willover.

«Anche adesso, con la prova che le sostanze chimiche filtrate da Fort Foureau causano la marea rossa, non si farà nient’altro che discuterne?» chiese Sandecker, dominando a stento l’esasperazione.

«Ne parleremo un’altra volta», disse il presidente, e si voltò per tornare di sopra. «Earl le fisserà un appuntamento.»

«Earl le ha parlato anche delle miniere d’oro di Tebezza?» insistette Sandecker.

Il presidente esitò e scosse la testa. «No. È un nome che mi giunge nuovo.»

«Dopo che Pitt e Giordino sono stati catturati a Fort Foureau», continuò l’ammiraglio, «sono stati portati in un’altra delle aziende del generale Kazim e di Yves Massarde, una miniera d’oro poco nota dove gli oppositori e i prigionieri politici vengono tenuti come schiavi e costretti a lavorare fino alla morte nelle condizioni più barbare e disumane. Molti sono ingegneri francesi: Massarde li ha imprigionati con i loro familiari perché non potessero tornare in patria e riferire la verità su Fort Foureau. I miei uomini hanno trovato anche gli scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ufficialmente erano stati dichiarati morti in un incidente aereo. Tutti erano ridotti in condizioni tremende dalla denutrizione e dalla fatica.»

Il presidente lanciò un’occhiata gelida a Willover. «A quanto pare, sono stato tenuto all’oscuro di molte cose.»

«Cerco di fare il mio lavoro tenendo conto delle priorità», dichiarò Willover.

«E tutto ciò a che cosa porta?» chiese il presidente rivolto all’ammiraglio.

«Hala Kamil sapeva che sarebbe stato inutile chiederle l’intervento delle Forze Speciali», disse Sandecker. «Perciò è intervenuta mettendo di nuovo a disposizione la squadra dell’ONU. Guidati da Pitt e Giordino, il colonnello Levant e i suoi sono atterrati nel deserto presso le miniere, hanno portato a termine un’incursione e hanno liberato venticinque cittadini stranieri fra uomini, donne e bambini…»

«Anche i bambini erano costretti a lavorare nelle miniere?» l’interruppe il presidente.

Sandecker annuì. «I figli degli ingegneri francesi. E fra i prigionieri c’era anche un’americana, la dottoressa Eva Rojas che fa parte del team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.»

«Se l’incursione è riuscita, dov’è il problema?» chiese Willover.

«L’aereo che li aveva portati dall’Algeria è stato distrutto sulla pista di Tebezza dai caccia maliani. Ora, la squadra dell’ONU e i prigionieri liberati sono intrappolati nel Mali. È questione di ore prima che i militari di Kazim li trovino e li attacchino.»

«Mi sta facendo un quadro molto preoccupante», disse il presidente. «Non hanno possibilità di raggiungere il confine algerino?»

«Anche se lo facessero non servirebbe a molto», spiegò Sandecker. «Kazim non esiterebbe a correre il rischio di uno scontro con il governo di Algeri pur di impedire che i prigionieri rivelino le atrocità di Tebezza e i pericoli di Fort Foureau. Manderebbe i suoi militari in Algeria per massacrarli.»

Il presidente rimase in silenzio, fissando le tartine sul piatto. Le implicazioni di quanto aveva detto Sandecker non si potevano accantonare, come sosteneva Willover. E non poteva restare inattivo mentre un despota barbaro massacrava stranieri innocenti.

«Kazim è della stessa razza di Saddam Hussein», mormorò. Si rivolse a Willover. «Non intendo comportarmi come uno struzzo, Earl. Ci sono troppe vite in gioco, incluse quelle di tre americani. Dobbiamo fare qualcosa.»

«Ma, signor presidente…» protestò Willover.

«Contatti il generale Halverson al Comando delle Forze Speciali a Tampa. Lo avverta che un’operazione è imminente.» Il presidente si rivolse a Sandecker. «Chi dovrebbe coordinare l’azione, ammiraglio?»

«Il generale Bock, comandante dell’UNICRATT. È in contatto con il colonnello Levant e potrà fornire al generale Halverson tutti gli aggiornamenti sulla situazione.»

Il presidente mise il piatto con le tartine sul mobile e posò le mani sulle spalle di Willover. «Apprezzo il suo consiglio, Earl, ma questa volta devo agire. Potremo prendere due piccioni con una fava e addossarci metà del biasimo se l’operazione andasse male. Voglio che le nostre Forze Speciali si infiltrino nel Mali, e portino in salvo la squadra dell’ONU e i prigionieri liberati, e se ne vadano prima che Kazim e Massarde si rendano conto di quel che è successo. Poi, più tardi, forse troveremo il modo di neutralizzare l’impianto di Fort Foureau.»

«Approvo di tutto cuore», esclamò Sandecker con un largo sorriso.

«Immagino che non riuscirò a farle cambiare idea», disse Willover al presidente.

«No, Earl.» Il presidente riprese il piatto di tartine. «Dobbiamo puntare tutto e sperare di vincere.»

«E se perderemo?»

«Non possiamo perdere.»

Willover lo guardò incuriosito. «Perché, signore?»

Anche il presidente sorrise. «Perché sono io che do le carte e sono sicuro che le nostre Forze Speciali riusciranno a rispedire a calci quelli come Kazim e Massarde nella palude da cui sono usciti.»


Molti chilometri a ovest di Washington, nella campagna del Maryland, c’è una collina che si erge in mezzo a una zona pianeggiante. Gli automobilisti di passaggio che notano l’anomalia pensano che sia uno scherzo geologico. Quasi nessuno sa che è artificiale, ed è formata dalla terra che era stata scavata per costruire un centro di comando e un rifugio per i pezzi grossi politici e militari della capitale, durante la seconda guerra mondiale.

Durante la guerra fredda i lavori non si fermarono, e alla struttura sotterranea fu aggiunto un imponente magazzino per i documenti e i manufatti che risalivano al tempo dei primi pionieri stabilitisi sulla costa orientale nel diciassettesimo secolo. Lo spazio interno è così vasto che non si misura in metri bensì in chilometri quadrati. I pochi che ne conoscono l’esistenza sanno che si chiama ASD, Archival Safekeeping Depository.

Migliaia di segreti sono sepolti là sotto. Per qualche strana ragione, nota soltanto a pochissimi burocrati, intere sezioni del deposito contengono materiale e oggetti che non saranno mai rivelati al pubblico. Le ossa di Amelia Earhart e di Fred Noonan e la documentazione giapponese della loro esecuzione a Saipan, i fascicoli sull’assassinio dei due fratelli Kennedy, le informazioni sui sabotaggi sovietici di Chernobyl, i filmati sul falso atterraggio della missione Apollo sulla Luna, e molte, molte altre cose sono tenute sottochiave e non vedranno mai la luce del giorno.

St. Julien Perlmutter non sapeva guidare, e perciò prese un tassi per farsi portare nella cittadina di Forestville, nel Maryland. Dopo aver atteso per quasi mezz’ora su una panchina alla fermata dell’autobus fu finalmente preso a bordo da un furgoncino Dodge.

«Il signor Perlmutter?» chiese il guidatore, un agente del governo che portava gli inevitabili occhiali a specchio.

«Sono io.»

«Salga, prego.»

Perlmutter obbedì, anche se pensava che quei sotterfugi fossero un gioco infantile. «Non vuol vedere la mia patente?» chiese in tono acido.

L’autista, un afro-americano dalla pelle scura, scosse la testa. «Non è necessario. È l’unico in questa città che corrisponda alla descrizione.»

«Lei ha un nome?»

«Ernie Nelson.»

«Per quale organizzazione lavora? La Sicurezza Nazionale? L’FBI? La CIA?»

«Non sono autorizzato a dirlo», rispose Nelson in tono solenne.

«Ha intenzione di bendarmi gli occhi?»

Nelson scosse la testa. «Non ce n’è bisogno. La sua richiesta di consultare l’archivio storico è stata approvata dal presidente, e una volta lei aveva un nullaosta Beta-Q, perciò credo che non rivelerà quanto vedrà oggi.»

«Se avesse esaminato con maggiore attenzione il mio dossier, avrebbe visto che questa è la quarta volta che vado a fare ricerche all’ASD.»

L’agente non reagì e rimase in silenzio per il resto del percorso. Lasciò la strada principale e arrivò a un cancello, mostrò le credenziali ed entrò. Superarono altri due controlli prima che la strada li portasse a una costruzione simile a un fienile in mezzo a una fattoria con tanto di maiali e polli e biancheria stesa ad asciugare. Quando entrarono nel fienile, presero una grande rampa di cemento che scendeva nelle viscere della terra. Finalmente arrivarono a una postazione del servizio di sicurezza, e l’agente parcheggiò il furgone.

Perlmutter conosceva la routine. Scese dalla macchina e raggiunse un veicolo elettrico che sembrava un cart per campi da golf. Un archivista in camice bianco gli strinse la mano.

«Frank Moore», disse presentandosi. «Lieto di rivederla.»

«È un piacere, Frank. Quanto tempo è passato?»

«Tre anni, da quando è venuto qui l’ultima volta. Faceva ricerche sulla Sakite Maru.»

«La nave passeggeri giapponese affondata dal sottomarino americano Trout.»

«Se non ricordo male, trasportava V-2 tedesche in Giappone.»

«Ha un’ottima memoria.»

«L’ho rinfrescata consultando la documentazione sulle sue visite precedenti», ammise Moore. «Cosa posso fare per lei, questa volta?»

«La guerra di secessione», rispose Perlmutter. «Vorrei studiare tutti i documenti che gettano qualche luce sulla scomparsa misteriosa d’una corazzata della Confederazione.»

«Interessante.» Moore invitò con un cenno Perlmutter a salire sul veicolo elettrico. «I documenti e i manufatti della guerra di secessione si trovano in costruzioni a circa due chilometri da qui.»

Dopo un ultimo controllo da parte del servizio di sicurezza e un breve colloquio con il curatore capo, Perlmutter firmò una dichiarazione giurata con la quale s’impegnava a non rendere di pubblico dominio le sue eventuali scoperte senza l’approvazione del governo. Poi partì con Moore sul cart. Passarono davanti a un gruppo di uomini che scaricavano gli oggetti lasciati dai visitatori al Memorial dei veterani del Vietnam: foto, vecchi scarponi e uniformi, bottoni, orologi e fedi nuziali, piastrine di riconoscimento, bambole… Ogni oggetto veniva catalogato, etichettato, riposto in un sacchetto di plastica e collocato sugli scaffali.

Il governo non buttava via niente.

Sebbene avesse visto una parte dei sotterranei durante le visite precedenti, Perlmutter era sbalordito dalla grandezza dell’archivio e dalla quantità sterminata dei contenitori pieni di documenti e vecchi oggetti, molti dei quali provenivano da Paesi stranieri. La sola sezione dedicata al nazismo copriva una superficie pari a quella di quattro campi da football.

Il materiale della guerra di secessione era sistemato in quattro costruzioni a tre piani: i soffitti di cemento del deposito erano alti quindici metri. Allineati ordinatamente davanti alle strutture, c’erano diversi tipi di cannoni, immacolati e ben tenuti come quando erano stati mandati sul campo di battaglia. Erano montati sui carriaggi e stavano accanto ai mezzi che contenevano i proiettili. Erano in mostra anche i colossali cannoni della Marina provenienti da navi famose come l’Hartford, la Kearsage, la Carondelet e la Merrimack.

«I documenti sono nell’edificio A», spiegò Moore. «Quelli B, C e D ospitano armi, uniformi, attrezzature mediche e mobili appartenuti a Lincoln, Jefferson Davis, Lee, Grant e altri personaggi famosi di quella guerra.»

Scesero dal veicolo ed entrarono nell’edificio A. Il piano terreno era un mare di schedari. «I documenti relativi alla Confederazione sono qui», disse Moore, indicando. «Quelli dell’Unione sono al primo e al secondo piano. Da dove vuole incominciare?»

«Voglio tutto quel che c’è sulla Texas.»

Moore sfogliò diverse pagine di un elenco che aveva portato con sé sul veicolo. «I documenti sulla Marina confederata stanno negli schedari blu lungo la parete di fondo.»

Sebbene nessuno avesse frugato negli schedari da anni, in molti casi addirittura da quando erano stati messi lì, c’era pochissima polvere. Moore aiutò Perlmutter a scovare un pacchetto che conteneva tutti i particolari conosciuti sulla sfortunata Texas.

Poi Moore indicò un tavolo e una sedia. «Si accomodi. Conosce il regolamento: sono tenuto a restarle vicino per seguire la sua ricerca.»

«Conosco il regolamento», confermò Perlmutter.

Moore mostrò l’orologio. «Il suo permesso scade fra otto ore. Poi dovremo tornare nell’ufficio del conservatore, e lei sarà riaccompagnato a Forestville. È tutto chiaro?»

Perlmutter annuì. «Allora farò bene a cominciare.»

«Proceda pure», disse Moore. «E buona fortuna.»

Dopo un’ora, Perlmutter aveva vuotato due interi schedali metallici e finalmente aveva trovato una vecchissima cartelletta gialla contenente i documenti relativi alla Texas. Le carte rivelavano pochissime informazioni di carattere storico, tutte già note e pubblicate. Le specifiche sulla costruzione della nave da guerra, le dichiarazioni dei testimoni oculari sul suo aspetto, un disegno dell’ingegnere capo e un elenco degli ufficiali e degli uomini dell’equipaggio. C’erano anche diversi resoconti dell’epoca della battaglia contro le navi dell’Unione durante la fuga verso il mare aperto. Da uno degli articoli, scritto da un cronista nordista che si trovava a bordo di un monitore dell’Unione colpito dalle cannonate della Texas, erano state tagliate via due righe. Era la prima volta, in tutti gli anni di ricerche sulle navi affondate durante la guerra di secessione, che Perlmutter incontrava un intervento delle forbici della censura.

Poi trovò un ritaglio stampa ingiallito e lo aprì con cura. Parlava della dichiarazione fatta sul letto di morte da un certo Clarence Beecher a un giornalista britannico in un piccolo ospedale nei pressi di York. Beecher affermava di essere l’unico superstite della misteriosa scomparsa della C.S.S. Texas; descriveva la traversata dell’Atlantico e la risalita lungo un grande fiume africano. La nave aveva percorso centinaia di miglia in uno scenario lussureggiante prima di arrivare ai margini di un grande deserto. Il pilota non conosceva il fiume, e per errore aveva abbandonato il corso principale e aveva proseguito lungo un affluente. Avevano viaggiato ancora per due giorni e due notti prima che il comandante si accorgesse dello sbaglio. Quando stava facendo manovra per invertire la direzione e ridiscendere il fiume, la corazzata si era arenata ed era stato impossibile disincagliarla.

Gli ufficiali si erano consultati e avevano deciso di attendere per tutta l’estate, fino a quando le piogge autunnali avessero fatto alzare il livello delle acque. A bordo c’era una scorta di viveri limitati, ma il fiume assicurava l’acqua necessaria. Il comandante, inoltre, acquistava provviste dalle tribù dei tuareg che passavano da quelle parti, e le pagava in oro. Per due volte grosse bande di predoni del deserto avevano commesso l’errore di attaccare la corazzata per rubare il tesoro che aveva a bordo.

Prima che venisse agosto le febbri tifoidi, la malaria e la denutrizione avevano decimato l’equipaggio. Soltanto due ufficiali, il presidente e dieci marinai erano ancora in grado di camminare.

Perlmutter s’interruppe e guardò nel vuoto, sopraffatto dalla curiosità. A quale presidente alludeva Beecher? Era molto interessante.

Poi Beecher spiegava che lui e altri quattro uomini armati erano stati scelti per scendere il fiume con una scialuppa per cercare aiuto. Soltanto Beecher era sopravvissuto ed era giunto alla foce del Niger. Rimesso in salute dalle cure dei mercanti di un avamposto commerciale britannico, aveva ottenuto un passaggio gratuito fino all’Inghilterra, dove più tardi si era sposato ed era diventato proprietario di una fattoria nello Yorkshire. Beecher diceva che non era mai tornato in Georgia, lo Stato in cui era nato, perché era certo che l’avrebbero impiccato per il terribile reato commesso dalla Texas; anzi, aveva avuto troppa paura per parlarne, se non in punto di morte.

Quando si era spento, la sua vedova e il medico curante avevano pensato che quella dichiarazione fosse il delirio d’un morente. Sembrava che il direttore del giornale avesse pubblicato il pezzo solo perché quel giorno non c’erano molte notizie.

Perlmutter rilesse l’articolo. Avrebbe voluto accettarlo nonostante lo scetticismo della vedova e del medico, ma un rapido controllo del ruolino dell’equipaggio gli rivelò che non c’era nessun Clarence Beecher quando la Texas era partita da Richmond. Sospirò e chiuse il fascicolo.

«Ormai ho trovato quel che potevo trovare», disse a Moore. «Vorrei vedere i documenti della Marina unionista.»

Moore lo aiutò a rimettere i fascicoli negli schedari e lo precedette sulla scala d’acciaio che conduceva al primo piano. «Che mese e che anno le interessano?» chiese.

«Aprile 1865.»

Si avviarono tra le file degli schedari che arrivavano fino al soffitto. Moore portò una scaletta nell’eventualità che il visitatore volesse esaminare i fascicoli più in alto e gli indicò lo schedario giusto.

Perlmutter incominciò ad ampliare la ricerca partendo dal 2 aprile 1865, la data in cui la Texas era salpata da Richmond. Aveva elaborato un personale sistema di ricerca e pochi erano più abili di lui nello scoprire gli indizi utili. Una tenacia ostinata e un istinto infallibile gli permettevano sempre di arrivare all’essenziale.

Incominciò con i rapporti ufficiali sulla battaglia. Quando ebbe terminato, passò ai resoconti dei civili che vi avevano assistito dalle rive del fiume James e dei marinai che s’erano trovati a bordo delle navi dell’Unione. In due ore esaminò i passi pertinenti di una sessantina di lettere e di quindici diari. Prese appunti su un grosso blocco, sotto lo sguardo attento di Frank Moore, che si fidava di lui ma aveva visto troppi ricercatori autorizzati che tentavano di sottrarre documenti storici, e quindi era molto coscienzioso.

Quando Perlmutter trovò il filo conduttore incominciò a districarlo, via via che una descrizione superficiale, un’informazione in apparenza insignificante portavano una quantità di rivelazioni su una storia che sembrava incredibile. Alla fine, quando non poté andare oltre, fece un cenno a Moore.

«Quanto tempo mi resta?»

«Due ore e dieci minuti.»

«Vorrei proseguire.»

«Cosa le interessa vedere?»

«La corrispondenza privata e i documenti relativi a Edwin McMasters Stanton.»

Moore annuì. «Il vecchio, ruvido segretario della Guerra di Lincoln. Non so che cosa abbiamo sul suo conto. I suoi documenti non sono mai stati catalogati in modo completo. Ma dovrebbero essere di sopra, con gli altri del governo dell’Unione.»

I documenti Stanton erano voluminosi: dieci schedari pieni. Perlmutter lavorò con impegno, interrompendosi una sola volta per andare in bagno. Procedette con tutta la rapidità possibile, ma trovò ben poco sui rapporti fra Stanton e Lincoln verso la fine della guerra. Era un fatto storicamente noto che il segretario della Guerra non aveva simpatia per il suo presidente, e aveva distrutto parecchie pagine del diario dell’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth, nonché vari documenti riguardanti i complici. Con grande disperazione degli storici, Stanton aveva lasciato volutamente senza risposta molti interrogativi sull’attentato nel Ford’s Theatre.

Poi, quando gli restavano appena quaranta minuti, Perlmutter trovò ciò che cercava.

In fondo a uno schedario scovò un pacchetto ingiallito che portava ancora un sigillo intatto di ceralacca. Guardò la scritta in inchiostro marrone con la data del 9 luglio 1865, due giorni dopo che i complici di Booth, Mary Surratt, Lewis Paine, David Herold e George Atzerodt, erano stati impiccati nel cortile della prigione dell’arsenale di Washington. Sotto la data c’erano queste parole: «Da non aprire prima che siano trascorsi cent’anni dalla mia morte». E la firma di Edwin M. Stanton.

Perlmutter sedette a un tavolo, ruppe il sigillo, aprì il plico e cominciò a leggere le carte con trentun anni di ritardo rispetto alle istruzioni di Stanton.

E mentre leggeva aveva la sensazione di tornare indietro nel tempo. Nonostante il fresco del sotterraneo aveva la fronte imperlata di sudore. Quando terminò quaranta minuti più tardi e posò l’ultimo foglio, gli tremavano le mani. Esalò un lungo sospiro silenzioso e scosse la testa.

«Mio Dio», mormorò.

Moore lo guardò. «Ha trovato qualcosa d’interessante?»

Perlmutter non rispose. Continuò a fissare il mucchio di carte e a mormorare: «Mio Dio, mio Dio».

50.

Erano distesi dietro la cresta di una duna e guardavano il binario vuoto che si estendeva sulla sabbia come una ferrovia fantasma diretta verso l’oblio. Gli unici segni di vita, nell’oscurità che precedeva l’alba, erano le luci lontane dell’impianto di smaltimento di Fort Foureau. Al di là delle rotaie, a meno di un chilometro in direzione ovest, l’ombra nera del forte abbandonato s’innalzava contro il cielo buio come il castello maledetto di un film dell’orrore.

La corsa folle attraverso il deserto era andata bene; nessuno li aveva scoperti e non c’erano stati incidenti. I prigionieri avevano sofferto per i sobbalzi dei veicoli, ma erano troppo felici per lamentarsi. Fairweather li aveva guidati esattamente lungo la vecchia pista carovaniera che andava dalle miniere di sale di Taoudenni fino a Timbuctu. Aveva condotto il convoglio della ferrovia in vista del forte grazie alla sua conoscenza del terreno e a una bussola presa a prestito.

A un certo punto Pitt e Levant s’erano fermati ad ascoltare, quando avevano captato i suoni dei motori di un gruppo di elicotteri scortati da caccia a reazione. Stavano volando verso nord, in direzione di Tebezza e del confine con l’Algeria. Come Pitt aveva previsto, i piloti maliani avevano sorvolato il convoglio senza sospettare che i fuggiaschi stavano proprio sotto di loro.

«Ottimo lavoro, signor Fairweather», disse Levant. «Lei è il miglior navigatore che abbia mai conosciuto. Ci ha portati dritti all’obiettivo.»

«È questione d’istinto.» Fairweather sorrise. «D’istinto e di fortuna.»

«È meglio che attraversiamo i binari ed entriamo nel forte», suggerì Pitt. «Ci resta meno di un’ora per nascondere i veicoli prima che faccia giorno.»

Come strane creature notturne, la dune buggy e i trasporti truppe avanzarono sulla banchina, sobbalzando sulle traversine, fino a che arrivarono davanti al forte. Pitt svoltò dopo il relitto del camion Renault, lo stesso che lui e Giordino avevano usato per nascondersi prima di saltare sul treno per Fort Foureau, e si fermò all’entrata. I grandi battenti di legno erano ancora socchiusi come li avevano lasciati più di una settimana prima. Levant chiamò una squadra di uomini che li spalancarono per permettere al convoglio di entrare nella piazza d’armi.

«Se posso dare un suggerimento, colonnello», azzardò Pitt, «c’è appena il tempo perché i suoi cancellino le tracce delle nostre gomme che vanno dalla ferrovia al forte. Dovrebbe sembrare che un convoglio di veicoli militari maliani sia arrivato dal deserto e poi abbia proseguito sulla banchina della ferrovia per entrare nell’impianto di smaltimento dei rifiuti.»

«Buona idea», approvò Levant. «Devono credere che sia stata una delle loro pattuglie.»

Pembroke-Smythe, seguito da Giordino e dagli altri ufficiali, arrivò per chiedere ordini.

«La prima cosa da fare è mimetizzare i veicoli e trovare un riparo per le donne e i bambini», disse il colonnello. «E poi prepareremo il forte per un attacco in caso che i maliani capiscano di aver dato la caccia ai fantasmi e si mettano a cercare le nostre tracce non cancellate dal vento.»

«E dove ha deciso che ci ritireremo, signore?» chiese un ufficiale dall’accento svedese.

Levant si rivolse a Pitt. «Come aveva detto, signor Pitt?»

«Fermeremo il primo treno in partenza che passerà di qui dopo l’imbrunire», rispose Pitt. «E ce ne impadroniremo.»

«I treni sono dotati di sistemi di comunicazione», fece notare Pembroke-Smythe. «Il macchinista darà subito l’allarme se cercheremo di scappare con il suo treno.»

«E appena avvertiti, i maliani bloccheranno la ferrovia», rincarò l’ufficiale svedese.

«Non ci pensate», intervenne Pitt. «Lasciate fare a Jesse James Pitt e a Butch Cassidy Giordino. Ci siamo allenati a impadronirci silenziosamente dei treni almeno da… da quanto, Al?»

«Almeno da una settimana, partendo da giovedì scorso», rispose Giordino.

Pembroke-Smythe guardò Levant con aria desolata. «Sarebbe il caso di aumentare il premio delle nostre assicurazioni.»

«Ormai è troppo tardi», disse Levant mentre studiava l’interno buio del forte. «Questi muri non sono stati costruiti per resistere ai missili aria-terra o all’artiglieria pesante. Le forze di Kazim possono demolire questo posto in mezz’ora. Quindi, per evitare problemi, dovrà conservare il suo aspetto abbandonato.»

«Questa volta i maliani non si troveranno contro civili indifesi», affermò Pembroke-Smythe in tono risoluto. «Il terreno è piatto come un campo da cricket per un raggio di due chilometri. Gli attaccanti non troveranno coperture. Quelli di noi che sopravvivranno agli assalti aerei faranno pagare a Kazim un prezzo molto salato, prima che possa prendere il forte.»

«Auguriamoci che non abbia qualche carro armato nella zona», commentò Giordino.

«Mettete le vedette sui bastioni», ordinò Levant. «Poi cercate un’apertura che conduca sotto terra. Quando venni qui, ricordo, c’era un arsenale dove tenevano le munizioni.»

Come aveva previsto il colonnello, c’era una scala sotto il dormitorio. I due locali erano vuoti, a parte alcune cassette metalliche che un tempo avevano contenuto cartucce per fucili. I prigionieri liberati furono accompagnati nel sotterraneo, e gli infermieri li aiutarono, occupandosi di quelli che erano in gravi condizioni.

I veicoli della squadra tattica furono coperti in modo da sembrare cumuli di detriti. Quando il sole incominciò a battere contro i muri, il forte della Legione Straniera aveva ripreso il suo aspetto abbandonato. Le due possibilità che preoccupavano Levant erano il rischio di essere scoperti prima di notte e la vulnerabilità a un attacco aereo. Non si sentiva affatto sicuro. Se li avessero scoperti, non avrebbero saputo dove fuggire. Le sentinelle sui bastioni seguivano malinconicamente con lo sguardo un treno che partiva dal complesso per raggiungere la Mauritania e si auguravano di potervi salire.

Pitt andò a esaminare quello che era stato il garage del parco macchine. Ispezionò una dozzina di barili di gasolio semisepolti sotto una montagna di ciarpame; batté sul metallo e scoprì che sei erano quasi pieni. Stava per svitare i tappi quando sopraggiunse Giordino.

«Hai intenzione di accendere il fuoco?» chiese.

«Non sarebbe una cattiva idea, se venissimo attaccati da mezzi corazzati», rispose Pitt. «Le truppe dell’ONU hanno perso i lanciamissili anticarro quando è saltato in aria il loro aereo.»

«Gasolio», borbottò Giordino. «Devono averlo lasciato qui gli operai che hanno costruito la ferrovia.»

Pitt infilò l’indice nell’apertura, poi lo fiutò. «Puro come il giorno che è uscito dalla raffineria.»

«A che cosa può servire, se non per le bottiglie Molotov?» chiese Giordino con aria dubbiosa. «A meno che tu non voglia farlo bollire e versarlo sui nemici che scalano le mura, come facevano nel medioevo?»

«Ci stai arrivando.»

Giordino fece una smorfia. «Cinque uomini e un bambino non ce la farebbero a sollevare uno di quei bidoni e a portarlo sui bastioni, se è pieno.»

«Hai mai visto un arco a molla?»

«Mai», ribatté Giordino. «Ti sembrerei molto stupido se ti chiedessi di fare un disegno?»

Con grande sorpresa di Giordino, Pitt lo accontentò. Si chinò, sfilò il coltello da commando dal fodero legato alla gamba e cominciò a tracciare uno schema nella polvere del pavimento. Era uno schizzo rudimentale, ma Giordino comprese. Quando ebbe terminato, Pitt alzò la testa.

«Credi che possiamo costruirne uno?»

«Perché no? Nel forte ci sono travi in abbondanza, e i veicoli trasportano rotoli di corde di nailon per scalare le rocce e per rimorchiare. Il problema, secondo me, è che ci servirebbe qualcosa per produrre la torsione.»

«Le molle degli assi posteriori?»

Giordino rifletté un momento, poi annuì. «Potrebbero andare. Sì, per Dio: andrebbero benissimo.»

«Probabilmente sarà tempo sprecato», disse Pitt mentre studiava il disegno. «Non c’è motivo di pensare che una delle pattuglie di Kazim capiti qui e dia l’allarme prima che passi il nostro treno.»

«Mancano undici ore all’imbrunire. Così avremo qualcosa da fare.»

Pitt si avviò verso la porta. «Tu comincia a montare i pezzi. Io ho un paio di cose da sbrigare. Ti raggiungo più tardi.»

Pitt passò accanto a un gruppo di uomini che stavano rinforzando la porta principale e che gli diedero la parola d’ordine. Poi girò intorno al forte. Un treno carico di contenitori avanzava verso la stazione di sicurezza dell’impianto, ma il raggio del faro rotante non giungeva abbastanza lontano per toccare il forte. Continuò a camminare nel deserto fino a quando arrivò a una gola, e vi si calò quando scorse una massa scura che spiccava fra le ombre.

L’Avions Voisin era ancora lì, solitaria e indisturbata.

Quasi tutta la sabbia con cui l’avevano coperta lui e Giordino era stata portata via dal vento, ma ne restava abbastanza perché gli aerei di Kazim non potessero individuarla. Aprì la portiera, sedette al volante e premette l’avviamento. Il motore si accese quasi subito.

Pitt rimase immobile per qualche minuto ad ammirare la perfezione artigianale della vecchia automobile. Poi spense il motore, scese e tornò a coprire con la sabbia la carrozzeria.

Mezz’ora dopo ritornò al forte, gridò la parola d’ordine e rientrò.


Pitt scese la scala dell’arsenale e vide subito che Eva stava meglio. Sebbene fosse ancora pallida e smagrita, e avesse addosso indumenti sporchi e laceri, stava dando da mangiare a un bambino tenuto in braccio dalla madre. Alzò il viso verso Pitt con un’espressione energica e decisa.

«Come va?» chiese Pitt.

«Potrà giocare a soccer non appena avrà mangiato qualcosa di solido e avrà preso una quantità adeguata di vitamine.»

«Io gioco a football», mormorò il bambino.

«In Francia?» chiese incuriosita Eva.

«Noi lo chiamiamo soccer», disse Pitt con un sorriso. «In tutti i Paesi del mondo, tranne il nostro, lo chiamano football.»

Il padre del bambino, uno degli ingegneri francesi che avevano costruito l’impianto di Fort Foureau, venne a stringere la mano a Pitt. Sembrava uno spaventapasseri. Portava un paio di rozzi sandali, una camicia sudicia e strappata, e i pantaloni sostenuti da una corda annodata. La faccia era seminascosta dalla barba nera, e la testa era fasciata.

«Sono Louis Monteux.»

«Dirk Pitt.»

«Anche a nome di mia moglie e di mio figlio», disse Monteux, «non so come ringraziarla per averci salvati.»

«Non siete ancora usciti dal Mali», replicò Pitt.

«Una morte rapida è meglio di Tebezza.»

«Domani a quest’ora saremo fuori della portata del generale Kazim», gli assicurò Pitt.

«Kazim e Yves Massarde», sibilò Monteux. «Assassini e criminali della specie peggiore.»

«La ragione per cui Massarde ha mandato lei e la sua famiglia a Tebezza era impedirle di rivelare l’attività fraudolenta di Fort Foureau?» chiese Pitt.

«Sì, il gruppo degli scienziati e degli ingegneri che avevano progettato e costruito il complesso ha scoperto che Massarde intendeva far arrivare rifiuti tossici in quantità molto superiore a quella che l’impianto era in grado di smaltire.»

«Lei cosa faceva?»

«Ho progettato e diretto la costruzione del reattore termico per la distruzione dei rifiuti.»

«E funziona?»

Monteux annuì con orgoglio. «Certo. Funziona benissimo. È uno dei sistemi di smaltimento più grandi ed efficienti del mondo. La tecnologia dell’energia solare è perfetta nel suo campo.»

«Allora in che cosa erano sbagliati i calcoli di Massarde? Perché ha speso centinaia di milioni di dollari per un equipaggiamento modernissimo, se poi lo usa solo come facciata per seppellire in segreto rifiuti tossici e nucleari?»

«La Germania, la Russia, la Cina, gli Stati Uniti e mezzo mondo sono pieni di scorie nucleari, i residui radioattivi che rimangono dal combustibile dei reattori e del materiale fissile delle bombe nucleari. Anche se rappresenta meno dell’uno per cento del materiale nucleare avanzato, sono pur sempre milioni di litri di materiale che non si sa dove mettere. Massarde si è offerto di smaltirli tutti.»

«Ma certi governi hanno costruito depositi.»

«Troppo pochi e troppo tardi.» Monteux alzò le spalle. La nuova discarica francese di Soulaines è stata quasi riempita appena completata. Poi c’è quella di Hanford Reservation a Richland, nello Stato di Washington. I serbatoi progettati per contenere rifiuti liquidi fortemente radioattivi per mezzo secolo hanno incominciato a lasciarli filtrare dopo vent’anni. Circa cinque milioni di litri di rifiuti radioattivi sono finiti nel terreno e hanno contaminato le falde acquifere.»

«Un bell’inghippo», disse pensosamente Pitt. «Massarde conclude accordi sottobanco con i governi e le aziende che devono assolutamente sbarazzarsi dei rifiuti tossici. Dato che Fort Foureau è nel Sahara occidentale sembrava la discarica ideale, si è messo in società con Zateb Kazim per evitare proteste in patria e all’estero. E adesso si fa pagare tariffe esorbitanti, importa di nascosto i rifiuti nel territorio più inutile del mondo, e li seppellisce sotto un centro termico di smaltimento.»

«È una descrizione semplice ma piuttosto precisa. Ma lei come fa a saperlo?»

«Il mio amico e io siamo entrati nel magazzino sotterraneo e abbiamo visto i contenitori dei rifiuti nucleari.»

«Il dottor Hopper ci ha detto che eravate stati catturati nel complesso.»

«Secondo lei, signor Monteux, Massarde avrebbe potuto costruire un impianto utile e affidabile a Fort Foureau per eliminare tutti i rifiuti che vi arrivano?»

«Assolutamente no», rispose Monteux in tono deciso. «Se Massarde avesse scavato magazzini per i rifiuti a una profondità di due chilometri in formazioni rocciose stabili e immuni da attività sismica, sarebbe stato proclamato santo. Invece è un affarista avido e senza scrupoli che mira soltanto al guadagno. È come un drogato, maniaco del potere e del denaro che nasconde da qualche parte.»

«Sapevate che i rifiuti chimici filtrano nelle acque sotterranee?» chiese Pitt.

«Una sostanza chimica?»

«A quanto ho capito, il composto responsabile di migliaia di morti in questa parte del deserto è formato da un aminoacido sintetico e dal cobalto.»

«Non abbiamo più saputo nulla, dopo l’arrivo a Tebezza», disse Monteux, e rabbrividì. «Dio, è ancora più orribile di quanto avessi immaginato. Ma il peggio deve ancora venire. Massarde ha usato contenitori scadenti per i rifiuti nucleari e tossici. È solo questione di tempo prima che il magazzino e tutto il territorio circostante si intridano di morte liquida.»

«C’è un’altra cosa che non sa», aggiunse Pitt. «La sostanza filtra attraverso i fiumi sotterranei e raggiunge il Niger, quindi l’oceano, dove sta causando un’esplosione della marea rossa che distrugge la vita e l’ossigeno.»

Monteux si passò le mani sulla faccia, inorridito. «Che cosa abbiamo fatto? Se avessimo saputo che Massarde intendeva creare un complesso pericoloso, nessuno di noi l’avrebbe permesso.»

Pitt lo guardò. «Eppure dovevate aver capito le intenzioni di Massarde già all’inizio dei lavori.»

Monteux scosse la testa. «Quelli di noi che sono finiti a Tebezza erano consulenti e appaltatori. Ci occupavamo soltanto della progettazione e della costruzione dei collettori fotovoltaici del reattore termico. Non facevamo molta attenzione agli scavi: era un progetto distinto, gestito dalla Massarde Entreprises.»

«Quando avete incominciato a insospettirvi?»

«Non certo all’inizio. Se qualcuno interrogava per curiosità gli operai di Massarde, gli veniva risposto che gli scavi servivano a immagazzinare temporaneamente i rifiuti prima del loro smaltimento. Nessuno poteva avvicinarsi a quell’area, tranne le squadre incaricate delle costruzioni sotterranee. Solo quando il progetto stava per essere ultimato abbiamo incominciato a intuire la verità.»

«E che cosa ha tradito le intenzioni di Massarde?» chiese Pitt.

«Eravamo convinti che il magazzino sotterraneo fosse stato completato prima del collaudo del reattore termico. A quel punto i materiali tossici sono incominciati ad arrivare con la ferrovia che Massarde aveva costruito grazie alla manodopera fornita dal generale Kazim. Una sera un ingegnere che aveva montato i collettori solari è sceso di nascosto nel magazzino dopo aver rubato un distintivo. Ha scoperto che gli scavi non s’erano mai interrotti, e che i lavori continuavano, quando ha visto che la terra estratta veniva spedita segretamente nei container che portavano i rifiuti. E ha trovato intere caverne piene di contenitori di scorie nucleari.»

Pitt annuì. «Anche il mio amico e io ci siamo imbattuti negli stessi segreti. Non sapevamo di essere osservati attraverso i monitor del servizio di sicurezza.»

«L’ingegnere è tornato nei nostri alloggi e ha rivelato tutto prima che potessero impedirlo», spiegò Monteux. «Poco dopo, tutti noi consulenti e i nostri familiari siamo stati rastrellati e inviati a Tebezza per evitare che il segreto arrivasse in Francia.»

«E Massarde come ha giustificato la vostra sparizione improvvisa?»

«Ha inventato un disastro, un incendio che ci avrebbe uccisi tutti. Il governo francese voleva un’inchiesta approfondita, ma Kazim ha rifiutato di ammettere nel Mali gli ispettori stranieri e ha dichiarato che le indagini sarebbero state svolte dal suo governo. Naturalmente le indagini non ci sono state. Hanno raccontato che, dopo una mesta cerimonia, le nostre ceneri erano state sparse nel deserto.»

Gli occhi verdi di Pitt s’incupirono. «Massarde è un tipo meticoloso, ma ha commesso una serie di errori.»

«Quali?» chiese incuriosito Monteux.

«Ha lasciato in vita troppa gente.»

«Lo ha incontrato, quando è stato catturato?»

Pitt alzò la mano e si toccò una ferita sulla guancia. «Ha anche un gran brutto carattere.»

Monteux sorrise. «Si consideri fortunato perché quello è stato tutto ciò che le ha fatto. Quando ci hanno radunati per mandarci a lavorare come schiavi a Tebezza, una donna ha tentato di resistere e ha sputato in faccia a Massarde. Lui le ha sparato in mezzo agli occhi, in presenza del marito e della figlia di dieci anni.»

«Più sento parlare di quell’uomo», commentò freddamente Pitt, «e meno mi è simpatico.»

«I commando dicono che cercheremo di impadronirci di un treno, questa notte, e di fuggire in Mauritania.»

Pitt fece un cenno di assenso. «È il nostro piano. Purché i militari del Mali non ci scoprano prima di sera.»

«Abbiamo parlato fra di noi», disse Monteux in tono solenne. «Nessuno di noi tornerà a Tebezza. Preferiremmo morire. Abbiamo fatto un patto: uccideremo le nostre mogli e i nostri figli perché non debbano più soffrire nelle miniere.»

Pitt fissò Monteux, poi guardò le donne e i bambini che riposavano sul pavimento di pietra dell’arsenale. Il viso duro e coriaceo aveva un’espressione di tristezza mista a collera. Poi disse a voce bassa: «Speriamo che non si arrivi a questo».


Eva era troppo stanca per dormire. Guardò Pitt negli occhi. «Vuoi fare una passeggiata con me sotto il sole del mattino?»

«Non si può uscire all’aperto. Il forte deve sembrare abbandonato a chiunque passi con un treno o con un aereo.»

«Abbiamo viaggiato per tutta la notte, e prima sono stata rinchiusa sotto terra per un lungo periodo. Non potrei vedere il sole?» implorò Eva.

Pitt non disse nulla. Le rivolse il suo miglior sorriso da bucaniere, la sollevò fra le braccia e la portò sulla piazza d’armi. Non si fermò: salì fino al camminamento che si estendeva intorno ai bastioni e la posò delicatamente a terra.

Per qualche istante, accecata dal sole, Eva non vide avvicinarsi una delle donne della squadra di Levant che era in servizio di vedetta. «Dovete restare nascosti», disse la donna. «Ordine del colonnello.»

«Un paio di minuti», insistette Pitt. «La signora non vedeva da tempo il cielo azzurro.»

Anche se aveva tutto l’aspetto della dura guerriera nella tuta da combattimento carica di armi e munizioni, la donna era più comprensiva di qualunque uomo. Le bastò dare un’occhiata a Eva che, smagrita ed esausta, si appoggiava a Pitt, perché la sua espressione si addolcisse. «Due minuti», mormorò con un lieve sorriso. «Poi dovrete tornare al riparo.»

«Grazie», disse Eva. «Le sono molto grata.»

Il caldo non era ancora terribile quando Pitt ed Eva guardarono dall’alto il territorio sterminato che si estendeva verso nord, al di là della ferrovia. Stranamente era Pitt, non Eva, a vedere la magnificenza del paesaggio arido e ostile, nonostante il fatto che per poco non l’aveva ucciso.

«Vorrei tanto rivedere presto l’oceano», disse lei.

«Ti piacciono le immersioni?»

«Ho sempre amato l’acqua, ma non sono mai scesa oltre il livello dello snorkel.»

«Intorno a Monterey la fauna marina abbonda. Ci sono pesci bellissimi nelle foreste di alghe, e formazioni rocciose incredibili, soprattutto lungo la costa dopo Carmel, in direzione di Big Sur. Quando ci andremo, ti darò lezioni di nuoto subacqueo e ti condurrò a fare tante immersioni.»

«Non vedo l’ora.»

Eva chiuse gli occhi, inclinò la testa all’indietro e rimase a ricevere i raggi del sole. Le guance le brillavano nel caldo crescente. Pitt la guardò, scrutò i lineamenti delicati che le orribili traversie non avevano trasformato. Le vedette sui bastioni parvero sparire nella luce intensa del sole. Avrebbe voluto stringerla fra le braccia, dimenticare i pericoli, dimenticare tutto tranne quel momento… e baciarla.

La baciò.

Per un lungo momento Eva gli cinse il collo con le mani e ricambiò il bacio. Pitt le strinse la vita e l’attirò più vicina. Nessuno dei due avrebbe saputo dire per quanto tempo erano rimasti così.

Alla fine Eva si scostò, alzò lo sguardo verso gli occhi color opale di Pitt e sentì la debolezza, l’eccitazione e l’amore fondersi in un’unica, vorticosa emozione. «Fin da quando abbiamo cenato insieme al Cairo ho capito che non avrei mai potuto resisterti», mormorò.

«E io pensavo che non ti avrei più rivista.»

«Tornerai a Washington, quando saremo al sicuro?» Eva pronunciò quelle parole come se la felice conclusione della fuga fosse una certezza.

Pitt alzò le spalle ma non la lasciò. «Vorranno che torni in patria e collabori per bloccare le maree rosse. E tu, dopo un periodo di riposo, dove andrai? Parteciperai a un’altra missione umanitaria in un Paese sottosviluppato per combattere un’epidemia?»

«È il mio lavoro», disse Eva. «Contribuire a salvare vite umane è ciò che ho sempre desiderato da quando ero bambina.»

«Non rimane molto tempo per le avventure romantiche, vero?»

«Tutti e due siamo prigionieri delle nostre occupazioni», commentò Eva.

La vedetta tornò verso di loro. «Dovete scendere», disse, quasi imbarazzata. «La prudenza non è mai troppa, vero?»

Eva attirò a sé il viso barbuto di Pitt e gli sussurrò all’orecchio: «Mi giudicheresti male se dicessi che ti voglio?»

Pitt sorrise. «Sono sempre disponibile per le ragazze vogliose.»

Lei si assestò i capelli e gli indumenti laceri. «Ma non per una ragazza che non fa il bagno da due settimane ed è magra come un gatto randagio.»

«Oh, non so. Le donne magre e sporche hanno sempre scatenato in me un selvaggio istinto animalesco.»

Pitt non aggiunse altro. La condusse nella piazza d’armi e poi in un piccolo magazzino accanto a quella che un tempo era stata la mensa. C’era soltanto un bariletto pieno di grossi chiodi di ferro. E non c’era anima viva. Pitt lasciò Eva per pochi istanti e tornò con due coperte, le stese sul pavimento polveroso e chiuse a chiave la porta.

Riuscivano a stento a vedersi nella poca luce che filtrava sotto la porta. Pitt la prese di nuovo fra le braccia. «Purtroppo non posso offrirti musica romantica, champagne e un letto a due piazze.»

Eva sistemò le coperte e s’inginocchiò, alzando lo sguardo verso di lui. «Chiuderò gli occhi e immaginerò di essere con te nella suite più lussuosa del miglior albergo di San Francisco.»

Pitt la baciò e rise sommessamente.

«Mia cara signora», le sussurrò attirandola a sé, «lei è dotata di una formidabile immaginazione.»

51.

Il principale collaboratore di Massarde, Félix Verenne, entrò nell’ufficio. «C’è una chiamata di Yerli dal quartier generale di Kazim.»

Massarde annuì e prese il telefono. «Sì, Ismail, spero che abbia buone notizie.»

«Purtroppo, signor Massarde, devo dirle che le notizie sono tutt’altro che buone.»

«Kazim ha raggiunto l’unità dell’ONU?»

«No, non l’ha ancora trovata. L’aereo è stato distrutto come pensavamo. Ma loro sono spariti nel deserto.»

«Perché le pattuglie di Kazim non possono seguirne le tracce?» chiese irritato Massarde.

«Il vento le ha coperte di sabbia», rispose Yerli con calma. «Tutte le tracce del loro passaggio sono state cancellate.»

«Com’è la situazione nella miniera?»

«I prigionieri si sono ribellati, hanno ucciso le guardie, distrutto il materiale e devastato gli uffici. Anche i suoi ingegneri sono morti. Ci vorranno sei mesi per rimettere le miniere in condizioni di funzionare.»

«E O’Bannion?»

«È sparito. Non c’è traccia del corpo. Ma i miei uomini hanno trovato quella sadica della sovrintendente.»

«L’americana che si faceva chiamare Melika?»

«I prigionieri hanno mutilato il corpo al punto di renderlo quasi irriconoscibile.»

«Gli assalitori devono aver portato via O’Bannion perché fornisse informazioni su di noi», osservò Massarde.

«È presto per dirlo», rispose Yerli. «Gli ufficiali di Kazim hanno cominciato a interrogare i prigionieri. Un’altra notizia che non le farà piacere è che i due americani, Pitt e Giordino, sono stati riconosciuti da una guardia sopravvissuta. Chissà come, erano fuggiti dalle miniere oltre una settimana fa, sono arrivati in Algeria e sono tornati con gli incursori dell’ONU.»

Massarde era allibito. «Mio Dio, questo significa che hanno raggiunto Algeri e stabilito un contatto con l’esterno.»

«Lo penso anch’io.»

«Perché O’Bannion non ci aveva informati della fuga?»

«Evidentemente temeva la reazione sua e di Kazim. È un mistero come possano aver attraversato quattrocento chilometri di deserto senza viveri né acqua.»

«Se hanno parlato delle nostre miniere e degli schiavi ai loro superiori di Washington, devono aver rivelato anche il segreto di Fort Foureau.»

«Non hanno prove», disse Yerli. «Due stranieri che hanno varcato clandestinamente il confine e commesso azioni criminose contro il governo del Mali non verranno presi sul serio da nessun tribunale internazionale.»

«Ma il mio complesso sarà assediato dai giornalisti e dai rappresentanti delle associazioni ambientaliste», obiettò Massarde in tono secco.

«Non si preoccupi. Consiglierò a Kazim di chiudere le frontiere a tutti gli stranieri e di espellere quelli che tentano di passare.»

«Dimentica una cosa», sibilò Massarde che si sforzava di restare calmo. «Gli ingegneri e gli scienziati francesi che avevo ingaggiato per costruire l’impianto e che poi ho mandato a Tebezza. Appena saranno al sicuro, racconteranno di essere stati sequestrati e imprigionati. Peggio ancora, riveleranno che noi immagazziniamo illegalmente i rifiuti tossici. La Massarde Entreprises subirà attacchi da ogni parte, e io verrò incriminato in tutti i Paesi dove ho una filiale o un progetto in corso.»

«Nessuno di loro sopravvivrà per poter testimoniare», disse Yerli come se fosse una conclusione scontata.

«Ora cosa faremo?» chiese Massarde.

«I ricognitori di Kazim e le pattuglie motorizzate non hanno trovato nulla che indichi un loro sconfinamento in Algeria. Quindi sono ancora nel Mali, nascosti da qualche parte, ad attendere d’essere portati in salvo da un contingente di soccorritori.»

«Che le forze di Kazim provvederanno a fermare», concluse Massarde.

«Naturalmente.»

«È possibile che si siano diretti a ovest, verso la Mauritania?»

Yerli scosse la testa. «No. Ci sono più di mille chilometri fra loro e il primo villaggio con un pozzo. E non è possibile che trasportino carburante sufficiente per coprire quella distanza.»

«Bisogna fermarli, Ismail», disse Massarde senza nascondere una nota di disperazione. «Bisogna sterminarli.»

«Provvederemo», promise Yerli. «Glielo garantisco, non usciranno vivi dal Mali. Daremo la caccia a tutti, uno per uno. Possono ingannare Kazim, ma non me.»


Al Haj Ali era seduto sulla sabbia all’ombra del dromedario e attendeva che passasse un treno. Aveva percorso più di duecento chilometri dal villaggio di Araouane per vedere la meraviglia della ferrovia, descritta da un inglese di passaggio che guidava una comitiva di turisti attraverso il deserto.

Poco dopo aver compiuto quattordici anni, Ali aveva ottenuto dal padre il permesso di prendere uno dei due dromedari della famiglia, un superbo animale tutto bianco, e di recarsi a nord, fino al binario lucente, per vedere con i propri occhi il grande mostro d’acciaio. Anche se aveva visto automobili e aerei in volo, gli altri prodigi come le macchine fotografiche, le radio e i televisori erano per lui un mistero. Ma il fatto di aver visto e magari anche toccato una locomotiva gli avrebbe fatto guadagnare l’invidia di tutti i ragazzi del suo villaggio.

Bevve un po’ di tè e succhiò alcuni dolci bolliti mentre attendeva. Dopo tre ore, poiché il treno non compariva, montò sul dromedario e si avviò lungo la ferrovia verso il complesso di Fort Foureau, per poter parlare alla sua famiglia delle costruzioni immense che sorgevano nel deserto.

Quando fu vicino al forte della Legione Straniera, abbandonato da tanto tempo e circondato da alti muri, lasciò la ferrovia e, per curiosità, si accostò alla porta. I grandi battenti sbiancati dal sole erano chiusi. Balzò a terra e condusse il dromedario intorno al forte in cerca di un’altra apertura per poter entrare. Ma trovò soltanto argilla e pietre: desistette e tornò verso la ferrovia.

Guardò verso ovest, affascinato dalle rotaie argentee che si perdevano in lontananza e sembravano incurvarsi sotto le onde di calore ascendenti dalla sabbia arsa dal sole. Mentre si trovava sulle traversine il suo sguardo notò qualcosa. Un puntolino apparve aleggiando attraverso le ondate di calore, ingrandì e venne verso di lui. Il grande mostro d’acciaio, pensò emozionato.

Ma quando l’oggetto fu più vicino, Ali si accorse che era troppo piccolo per una locomotiva. Poi vide due uomini a bordo e notò che il veicolo sembrava un’automobile scoperta. Si scostò dal binario e si fermò accanto al dromedario mentre il carrello a motore con i due che ispezionavano i binari si fermava davanti a lui.

Uno dei due era uno straniero bianco, l’altro invece aveva la carnagione scura. Quest’ultimo lo salutò. «Sallam al laikum.»

«Al laikum el sallam», rispose Ali.

«Da dove vieni, ragazzo?» chiese il moro nella lingua berbera dei tuareg.

«Sono venuto da Araouane per vedere il mostro d’acciaio.»

«Hai fatto molta strada.»

«È stato un viaggio facile», si vantò Ali.

«Hai un magnifico dromedario.»

«Mio padre mi ha prestato il migliore.»

Il moro diede un’occhiata all’orologio d’oro. «Non dovrai aspettare molto. Il treno in arrivo dalla Mauritania passerà fra tre quarti d’ora.»

«Grazie, aspetterò», disse Ali.

«Hai visto qualcosa d’interessante nel vecchio forte?»

Ali scosse la testa. «Non si può entrare. La porta è chiusa.»

I due uomini si scambiarono occhiate di stupore e per qualche istante si parlarono in francese.

Poi il moro chiese: «Sei sicuro? Il forte è sempre aperto. È là che teniamo le traversine e il materiale per le riparazioni della ferrovia».

«Io non mento. Potete vedere voi stessi.»

Il moro smontò dal carrello e si avvicinò al forte. Pochi minuti dopo tornò e parlò in francese al collega bianco.

«Il ragazzo ha ragione. La porta principale è chiusa dall’interno.»

Il francese si oscurò. «Dobbiamo andare al complesso e riferire questo fatto.»

Il moro annuì e risalì sul carrello. Rivolse ad Ali un cenno di saluto. «Non stare troppo vicino al binario quando arriva il treno, e tieni ben stretta la briglia del dromedario.»

Il motore scoppiettò e il carrello proseguì sul binario in direzione del complesso, lasciando Ali a seguirlo con lo sguardo mentre il dromedario fissava stoicamente l’orizzonte.


Il colonnello Marcel Levant si rendeva conto che non poteva impedire al ragazzo nomade e agli addetti alla ferrovia d’ispezionare l’esterno del forte. In silenzio, una dozzina di mitra aveva seguito i movimenti degli intrusi. Non sarebbe stato un problema ucciderli e trascinare i cadaveri nel forte, ma Levant non se la sentiva di massacrare civili innocenti, quindi li risparmiò.

«Cosa ne pensa?» chiese Pembroke-Smythe mentre il carrello correva sul binario verso la stazione del servizio di sicurezza del complesso.

Levant studiò il ragazzo e il dromedario che riposavano ancora accanto al binario in attesa del passaggio del treno, e socchiuse gli occhi come un cecchino. «Se quei due riferiscono alle guardie di Massarde che il forte è chiuso, possiamo prevedere che una pattuglia armata verrà a controllare.»

Pembroke-Smythe guardò l’orologio. «Mancano sette ore all’imbrunire. Auguriamoci che reagiscano lentamente.»

«Il generale Bock non si è più fatto sentire?» chiese Levant.

«Abbiamo perduto il contatto. La radio è stata sbatacchiata durante il viaggio da Tebezza e i circuiti sono danneggiati. Non riuscivamo più a trasmettere e la ricezione è molto debole. L’ultimo messaggio del generale era troppo disturbato perché fosse possibile decifrarlo. Secondo l’operatore, accennava a una squadra delle Forze Speciali americane che dovrebbero incontrarsi con noi in Mauritania.»

Levant sgranò gli occhi, incredulo. «Gli americani arrivano, ma si fermano in Mauritania? Mio Dio, da qui sono trecento chilometri! Di che utilità ci saranno, in Mauritania, se verremo attaccati prima che possiamo varcare il confine?»

«Il messaggio non era chiaro, signore.» Pembroke-Smythe scrollò le spalle. «Il nostro operatore ha fatto il possibile. Forse ha capito male.»

«Non può collegare la radio agli apparecchi che usiamo per comunicare durante i combattimenti?»

Pembroke-Smythe scosse la testa. «Ci aveva pensato anche lui, ma i sistemi non sono compatibili.»

«Non sappiamo neppure se l’ammiraglio Sandecker ha decifrato il messaggio in codice di Pitt», disse stancamente Levant. «Per quel che ne sa Bock, noi potremmo vagare spersi nel deserto, oppure essere in fuga verso l’Algeria.»

«Preferisco essere ottimista, signore.»

Levant si appoggiò a un parapetto del bastione. «Non ci sono possibilità di fuggire. Non abbiamo carburante a sufficienza. E quasi certamente i maliani ci sorprenderebbero allo scoperto. Non abbiamo contatti con il resto del mondo. Temo che molti di noi moriranno in questa tana di topi, Pembroke-Smythe.»

«Si sforzi di vedere il lato più roseo della situazione, colonnello. Forse gli americani arriveranno qui alla carica come il Settimo Cavalleggeri del generale Custer.»

«Oh, Dio!» gemette Levant. «Doveva parlare proprio di lui


Giordino era disteso sotto un trasporto truppe e stava asportando una molla dallo chassis quando vide gli stivali di Pitt che si fermavano accanto a lui. «Dove sei stato?» borbottò mentre svitava un dado da un bullone.

«Ad assistere i deboli e gli infermi», rispose allegramente Pitt.

«Allora occupati dell’intelaiatura di quel tuo strano aggeggio. Puoi usare le travi del soffitto dell’alloggio ufficiali. Sono molto secche ma solide.»

«Ti sei dato da fare.»

«Peccato che tu non possa dire altrettanto», protestò Giordino. «Comincia a pensare a un modo per montare tutti i pezzi.»

Pitt posò a terra un bariletto di legno, in piena vista di Giordino. «Problema risolto. Ho trovato mezzo barile di chiodi in sala mensa.»

«In sala mensa?»

«In un magazzino accanto alla sala mensa», precisò Pitt.

Giordino uscì di sotto il veicolo e squadrò Pitt dagli stivali slacciati alla tuta semiaperta e ai capelli in disordine. Quando finalmente parlò, la sua voce era carica d’ironia.

«Scommetto che quel mezzo barile non è la sola cosa che hai scoperto in quel magazzino.»

52.

Quando il rapporto dei due assistenti della ferrovia fu trasmesso da Fort Foureau al comando delle forze di sicurezza di Kazim, il maggiore Sid Ahmed Gowan lo lesse in fretta e lo mise da parte. Non gli sembrava che fosse interessante, e non c’era motivo di inoltrarlo all’intruso turco, Ismail Yerli.

Gowan non riusciva a vedere un nesso tra un forte abbandonato e una preda sfuggente che si trovava quattrocento chilometri più a nord. I due uomini della ferrovia insistevano sul fatto che il forte fosse chiuso dall’interno ma erano da considerare informatori poco attendibili, ansiosi d’ingraziarsi i superiori.

Ma quando le ore trascorsero senza che il contingente dell’ONU venisse avvistato, il maggiore Gowan diede un’altra occhiata al rapporto e cominciò a insospettirsi. Era un individuo riflessivo, giovane e intelligente, l’unico ufficiale delle forze di sicurezza di Kazim che avesse studiato in Francia e si fosse diplomato a Saint-Cyr, il più famoso collegio militare francese. Incominciò a intravedere la possibilità di realizzare un colpo che l’avrebbe messo in buona luce agli occhi del suo capo e avrebbe fatto fare a Yerli la figura della spia dilettante.

Prese il telefono, chiamò il comandante delle forze aeree maliane e chiese una ricognizione aerea del deserto a sud di Tebezza, con particolare riferimento alle eventuali tracce di veicoli sulla sabbia. Come precauzione aggiuntiva, consigliò a Fort Foureau di fermare tutti i treni in partenza o in arrivo. Se il contingente dell’ONU s’era davvero spinto a sud attraverso il deserto senza essere scoperto, pensò Gowan, forse era rintanato nel vecchio forte della Legione Straniera per far passare le ore di luce. Dato che sicuramente i veicoli erano a corto di carburante, con ogni probabilità avrebbero atteso che si facesse buio prima di tentare di impadronirsi di un treno diretto in Mauritania.

Per confermare la sua intuizione, Gowan aveva bisogno di un avvistamento aereo di tracce fresche di veicoli fra Tebezza e la ferrovia. Certo di essere sulla pista giusta, chiamò BCazim e gli spiegò la nuova analisi dell’operazione di ricerca.

Nel forte, ciò che causava più angoscia era il tempo. Tutti contavano i minuti che mancavano al cader della notte. Ogni ora che passava senza un attacco era considerata un dono del cielo. Ma, alle quattro del pomeriggio, Levant comprese che qualcosa non andava.

Era su un bastione e studiava con il binocolo il complesso per lo smaltimento dei rifiuti tossici quando Pembroke-Smythe, seguito da Pitt, si avvicinò.

«Mi ha fatto chiamare, colonnello?» chiese Pitt.

Levant rispose senza abbassare il binocolo. «Quando lei e il signor Giordino siete entrati nel complesso, avete per caso calcolato gli intervalli fra i passaggi dei treni?»

«Sì. I treni in partenza e quelli in arrivo si alternavano. Uno entrava tre ore dopo che un altro era uscito.»

Levant abbassò il binocolo e si voltò a guardare Pitt. «Allora, come interpreta il fatto che non è comparso un treno ormai da quattro ore e mezzo?»

«Un problema con il binario, un deragliamento, un guasto. Potrebbero esserci molte ragioni per questo rallentamento.»

«Lo crede davvero?»

«Neppure per un istante.»

«Cosa ne pensa?» insistette Levant.

Pitt fissò il binario deserto che passava davanti al vecchio torte. «Se dovessi scommettere un anno di stipendio, direi che hanno capito dove siamo.»

«Crede che i treni siano stati fermati per impedirci di fuggire?»

Pitt annuì. «Mi sembra logico. Quando Kazim capirà come stanno le cose e le sue pattuglie troveranno le tracce dei nostri veicoli che puntano verso sud, verso la ferrovia, si renderà conto che il nostro obiettivo era impadronirci di un treno.»

«I maliani sono più furbi di quanto immaginassi», ammise Levant. «Ormai siamo in trappola e non possiamo comunicare la nostra situazione al generale Bock.»

Pembroke-Smythe si schiarì la gola. «Se posso permettermi, signore, mi offro volontario per tentare di raggiungere il confine, incontrarmi con la squadra delle Forze Speciali americane e guidarla fin qui.»

Levant lo squadrò severamente. «Sarebbe una missione suicida. Nel migliore dei casi.»

«Forse è la nostra unica possibilità di portar via qualcuno da qui. Se prendo la dune buggy, posso varcare il confine entro sei ore.»

«È troppo ottimista, capitano», lo corresse Pitt. «Ho viaggiato in quella parte del deserto. Mentre sta sfrecciando su quella che sembra una pianura del tutto uniforme, può precipitare in un burrone di quindici metri. E se vuole correre, non può passare in un tratto pieno di dune. Direi che potrebbe considerarsi fortunato se riuscisse ad arrivare in Mauritania domattina sul tardi.»

«Ho intenzione di viaggiare in linea retta, passando sul binario.»

«Troppo rischioso. Le pattuglie di Kazim le piomberebbero addosso entro cinquanta chilometri, ammesso che non abbiano già piazzato barricate attraverso le rotaie.»

«Non dimentica che siamo a corto di carburante?» soggiunse Levant. «Non ce n’è a sufficienza per coprire neppure un terzo della distanza.»

«Possiamo usare quello che è rimasto nei serbatoi dei trasporti truppe», incalzò Pembroke-Smythe, deciso a non cedere.

«Non avrebbe un grosso margine», obiettò Pitt.

Pembroke-Smythe alzò le spalle. «Senza qualche rischio, un viaggio è noioso.»

«Non può andare solo», disse Levant.

«Una traversata notturna del deserto a velocità elevata può essere pericolosa», avvertì Pitt. «Avrà bisogno di un secondo pilota e d’un navigatore.»

«Non intendo provarci da solo», rispose Pembroke-Smythe.

«Chi ha scelto?» chiese Levant.

Pembroke-Smythe sorrise. «Il signor Pitt o il suo amico Giordino, dato che hanno già fatto un corso accelerato di sopravvivenza nel deserto.»

«Un civile non sarebbe di grande aiuto negli scontri con le pattuglie di Kazim», commentò il colonnello.

«Conto di alleggerire il veicolo rimuovendo la corazza e le armi. Porteremo una ruota di scorta e gli attrezzi, acqua sufficiente per ventiquattr’ore e armi da fuoco portatili.»

Levant rifletté attentamente sul piano assurdo di Pembroke-Smythe. «Sta bene, capitano. Si metta al lavoro sul veicolo.»

«Sì, signore.»

«Ma c’è un’altra cosa.»

«Signore?»

«Mi dispiace rifiutarle il permesso per la gita, ma ho bisogno che rimanga qui. Dovrà mandare qualcun altro. Le consiglio il tenente Steinholm. Se non ricordo male, una volta ha partecipato al Rally di Montecarlo.»

Pembroke-Smythe non tentò di nascondere il disappunto. Fece per dire qualcosa, rinunciò, salutò militarmente e scese in fretta nella piazza d’armi senza una parola di protesta.

Levant guardò Pitt. «Lei dovrebbe offrirsi volontario, signor Pitt. Non ho l’autorità per ordinarle di andare.»

«Colonnello», rispose Pitt con l’ombra di un sorriso, «sono stato inseguito in tutto il Sahara la settimana scorsa, sono stato sul punto di morire di sete, mi hanno sparato addosso e cotto a vapore come un’aragosta e tutti i mascalzoni che ho incontrato mi hanno preso a pugni in faccia. Questa è l’ultima tappa. Scendo dal treno e mi fermo. Con il tenente Steinholm andrà Giordino.»

Levant sorrise. «Lei è un imbroglione, signor Pitt, un autentico imbroglione. Sa bene che restare qui significa una morte sicura. È un bel gesto dare al suo amico la possibilità di salvarsi al suo posto. Le esprimo tutto il mio rispetto.»

«I gesti nobili non c’entrano. Non mi piace lasciare un lavoro incompiuto.»

Levant abbassò lo sguardo sulla strana macchina che andava prendendo forma al riparo di un muro. «Si riferisce alla catapulta?»

«Per la precisione è una specie di arco a molla.»

«Crede davvero che funzionerà contro i mezzi corazzati?»

«Oh, farà il suo dovere», disse Pitt in tono di assoluta sicurezza. «C’è solo da vedere se lo farà bene.»


Poco dopo il tramonto, i sacchetti di sabbia riempiti in fretta e gli sbarramenti improvvisati furono rimossi dalla porta principale e i massicci battenti vennero aperti. Il tenente Steinholm, un austriaco alto, biondo e di bell’aspetto, si mise al volante, allacciò la cintura e ricevette le istruzioni definitive da Pembroke-Smythe.

Giordino, fermo accanto alla dune buggy, salutò Pitt ed Eva. «Arrivederci, vecchio mio», disse a Pitt con un sorriso forzato. «Non è giusto che vada io al tuo posto.»

Pitt l’abbracciò. «Attento alle buche.»

«Steinholm e io torneremo con le birre e le pizze per l’ora di pranzo.»

Erano parole prive di significato. Entrambi sapevano che entro il mezzogiorno dell’indomani il forte e tutti coloro che vi si erano rifugiati sarebbero stati soltanto un ricordo.

«Terrò una lampada accesa alla finestra», disse Pitt.

Eva diede a Giordino un bacio sulla guancia e gli consegnò un pacchetto avvolto nella plastica. «Da mangiare lungo la strada.»

«Grazie.» Giordino girò la testa per non lasciar vedere che aveva le lacrime agli occhi e salì sul veicolo. Il suo volto aveva assunto di colpo un’espressione triste. «Su, andiamo», disse a Steinholm.

Il tenente assentì, innestò la marcia e premette il piede sull’acceleratore. La dune buggy sfrecciò via, varcò il portone e si avviò rombando verso il cielo arrossato dal tramonto, mentre le ruote posteriori sollevavano due zampilli di polvere.

Giordino si girò sul sedile. Pitt stava appena all’interno del portone e cingeva con un braccio la vita di Eva. Alzò l’altra mano in segno di saluto. Giordino riuscì a scorgere il lampo del suo sorriso prima che la polvere lo nascondesse.

Per un lungo istante l’intera squadra seguì con gli occhi la dune buggy che correva nel deserto. Le reazioni andavano da una stanchezza triste alla rassegnazione mentre il veicolo diventava un puntolino nel crepuscolo. Giordino e Steinholm portavano con sé tutte le loro speranze di sopravvivenza. Poi Levant impartì un ordine e i commando richiusero la porta e la barricarono per l’ultima volta.


Il maggiore Gowan ricevette l’atteso rapporto da un elicottero che aveva seguito le tracce del convoglio di Levant sino alla ferrovia, dove scomparivano. Le ricerche furono interrotte a causa dell’oscurità. I pochi aerei maliani dotati dell’equipaggiamento per la visione notturna erano fermi a terra per riparazioni. Ma Gowan non chiese altre missioni di ricognizione. Sapeva dove si nascondeva la sua preda. Si mise in contatto con Kazim e confermò la sua valutazione. Soddisfatto, Kazim lo promosse colonnello e gli promise una decorazione al merito.

La parte di Gowan nell’operazione era terminata. Accese un sigaro, posò i piedi sulla scrivania e si versò un bicchiere di cognac Remy Martin, una marca di lusso che teneva nella scrivania per le occasioni speciali. E quella era un’occasione speciale, veramente.

Purtroppo il suo comandante in capo, il generale Kazim, non poté più contare per il resto dell’operazione sulle capacità deduttive di Gowan. Proprio quando Kazim avrebbe avuto più bisogno di lui, il neopromosso colonnello era tornato a casa nella sua villa in riva al Niger per trascorrere una vacanza con l’amante francese, ignaro della tempesta che si preparava a ovest, al di là del deserto.


Massarde stava ascoltando al telefono il rapporto di Yerli sul progresso delle ricerche. «Quali sono le ultime notizie?» chiese ansiosamente.

«Li abbiamo trovati», annunciò Yerli in tono trionfante, assumendosi il merito dell’intuizione di Gowan. «Hanno creduto di batterci in astuzia invertendo il percorso di fuga e dirigendosi nell’interno del Mali, ma io non mi sono fatto imbrogliare. Sono intrappolati nel forte abbandonato della Legione, a poca distanza da lei.»

«Mi fa piacere saperlo», disse Massarde con un sospiro. «Che piani ha Kazim?»

«Per prima cosa chiederà che si arrendano.»

«E se obbedissero?»

«Processerà la squadra dell’ONU per aver invaso il suo Paese. Poi, dopo la condanna, li terrà in ostaggio e chiederà in cambio aiuti economici alle Nazioni Unite. I prigionieri di Tebezza verranno portati nelle camere per gli interrogatori e trattati come può immaginare.»

«No», obiettò Massarde. «Non è la soluzione che voglio. L’unica soluzione è sterminarli tutti, e in fretta. Non deve restarne vivo neppure uno. Non possiamo permetterci altre complicazioni. Deve assolutamente convincere Kazim a chiudere la faccenda.»

L’ordine era così imperioso e brusco che per un momento Yerli non disse nulla. «Sta bene…» mormorò alla fine. «Farò il possibile per convincere Kazim a lanciare l’attacco alle prime luci con i caccia a reazione, seguiti dalle unità degli elicotteri d’assalto. Per fortuna, ha quattro carri armati pesanti e tre compagnie di fanteria impegnati in una manovra nelle vicinanze.»

«Può attaccare il forte questa notte?»

«Avrà bisogno di tempo per radunare le forze e coordinare un attacco. Non potrà far nulla prima di domattina.»

«Si assicuri che Kazim faccia quanto è necessario per impedire che Pitt e Giordino fuggano di nuovo.»

«È per questo che ho preso la precauzione di fermare tutti i treni da e per la Mauritania», mentì Yerli.

«Adesso dove si trova?»

«A Gao. Sto per salire sull’aereo del comando che lei ha generosamente regalato a Kazim. Il generale intende dirigere di persona l’assalto.»

«Non dimentichi, Yerli», disse Massarde con tutta la pazienza di cui era capace. «Niente prigionieri.»

53.

Arrivarono poco dopo le sei del mattino. I membri della squadra tattica dell’ONU erano stanchissimi dopo aver scavato trincee profonde alla base dei muri, ma erano pronti a resistere. Molti di loro, adesso, erano rintanati come talpe nelle buche, in previsione di un attacco aereo. Nell’arsenale sotterraneo i due infermieri avevano allestito un ospedale da campo mentre gli ingegneri francesi e i loro familiari stavano rannicchiati sul pavimento sotto i vecchi mobili per ripararsi dalle pietre e dalle macerie che potevano cadere dal soffitto. Soltanto Levant e Pembroke-Smythe, con gli addetti alla Vulcan che era stata asportata dalla dune buggy, erano rimasti sul bastione, protetti dai parapetti e dai mucchi di sacchetti di sabbia.

Sentirono gli aerei a reazione prima ancora di scorgerli, e diedero l’allarme.

Pitt non si mise al riparo; continuò a lavorare sul suo arco a molla per effettuare gli ultimi adattamenti. Le molle del camion, montate verticalmente su un labirinto di travi di legno, erano quasi piegate in due dal martinetto idraulico del vecchio carrello elevatore a forche trovato con il materiale per la ferrovia. Un bidone semipieno di gasolio, fissato alle molle e con una serie di fori nella parte superiore, stava su un’asse scanalata e inclinata verso il cielo. Dopo aver aiutato Pitt a montare la strana macchina, gli uomini di Levant si allontanarono. Non erano affatto convinti che il gasolio potesse venire lanciato oltre il muro senza esplodere all’interno del forte e bruciare vivi tutti coloro che si trovavano nella piazza d’armi.

Levant s’inginocchiò dietro il parapetto, con la schiena protetta da un mucchio di sacchetti di sabbia, e scrutò il cielo sereno. Individuò gli aerei e li studiò con il binocolo mentre cominciavano a volare in cerchio a cinquecento metri di quota, appena tre chilometri a sud del forte. Sembrava che non temessero di essere colpiti da missili terra-aria, come se fossero sicuri che il forte non poteva difendersi da un attacco aereo.

Come tanti altri pezzi grossi militari che preferivano il lustro alla praticità, Kazim aveva acquistato i veicoli Mirage dai francesi più per esibirli che per usarli in combattimento. Aveva ben poco da temere dai vicini, tutti militarmente più deboli; le forze del Mali erano state create per suscitare ammirazione verso Kazim e spaventare i rivoluzionari.

Il contingente d’attacco maliano aveva l’appoggio di una piccola flotta di elicotteri armati in modo leggero, la cui unica missione consisteva nello svolgere voli di ricognizione e trasportare truppe d’assalto. Solo i caccia erano in grado di lanciare missili che potevano mettere fuori combattimento carri armati e fortificazioni. Ma i piloti, che non disponevano delle nuove bombe a guida laser, dovevano prendere la mira manualmente e guidare i missili fino al bersaglio.

Levant parlò nel microfono dell’elmetto. «Capitano Pembroke-Smythe, rimanga con la Vulcan.»

«Rimango con Madeleine, e siamo pronti a sparare», rispose Pembroke-Smythe dalla postazione della mitragliera sul bastione di fronte.

«Madeleine?»

«Gli uomini si sono affezionati alla mitragliera, signore, e le hanno dato il nome d’una ragazza di cui hanno goduto i favori in Algeria.»

«Stia attento che Madeleine non faccia i capricci e non s’inceppi.»

«Sì, signore.»

«Lasciate che il primo aereo compia il suo passaggio», ordinò Levant. «Poi sparategli in coda mentre vira. Se calcolerete bene il tempo, dovreste farcela a girare l’arma e a centrare il secondo reattore prima che possa lanciare i missili.»

«Molto bene, signore.»

Pembroke-Smythe aveva appena finito di parlare quando il primo Mirage si staccò dalla formazione e scese a settantacinque metri, avanzando senza ricorrere a tattiche evasive per sfuggire al fuoco da terra. Il pilota non era un asso. Si avvicinò troppo lentamente e lanciò i missili un attimo troppo tardi.

Alimentato da un motore monostadio a propellente solido, il primo missile sfrecciò sopra il forte e la testata esplosiva scoppiò nella sabbia senza fare danni. Il secondo colpì il parapetto settentrionale, deflagrò, aprì uno squarcio di due metri nella sommità del muro e fece cadere una pioggia di frammenti di pietra sulla piazza d’armi.

Gli uomini della Vulcan seguirono il caccia che volava basso, e nell’istante in cui passò sopra il forte aprirono il fuoco. La mitragliera a sei canne rotanti, regolata per sparare mille colpi al minuto anziché duemila per risparmiare le munizioni, vomitò una gragnola di proiettili da 20 millimetri contro l’aereo che virava e si portava in una posizione vulnerabile. Un’ala si staccò nettamente come se fosse stata tagliata da un bisturi. Il Mirage si rovesciò sul dorso e andò a schiantarsi al suolo.

L’impatto non era ancora avvenuto quando gli uomini girarono Madeleine di 180 gradi e ripresero a sparare, questa volta contro il secondo jet, e lo colpirono in pieno. Si vide uno sbuffo nero, poi il caccia esplose in una sfera di fuoco e si disintegrò in pezzi che caddero contro il muro esterno del forte.

Il terzo caccia lanciò i missili troppo presto e virò. Levant rimase ad assistere con un’espressione assorta, mentre le esplosioni gemelle aprivano due crateri a circa duecento metri dal forte. Il resto della squadriglia interruppe l’attacco e incominciò a volare in cerchio, fuori tiro.

«Molto bene», disse Levant agli uomini addetti alla Vulcan. «Ora sanno che possiamo azzannarli, e lanceranno i missili più da lontano e con precisione minore.»

«Ci restano circa seicento colpi», riferì Pembroke-Smythe.

«Conservateli, per il momento. Dica ai suoi uomini di mettersi al coperto. Lasceremo che ci martellino per un po’. Prima o poi qualcuno diventerà imprudente e tornerà ad avvicinarsi.»


Kazim aveva ascoltato i piloti che si parlavano eccitati per radio; e poi aveva assistito alla débâcle iniziale per mezzo del sistema dei monitor del centro di comando. Sconvolti dal primo scontro con un nemico che rispondeva al fuoco, i piloti farfugliavano come bambini spaventati e chiedevano istruzioni.

Rosso in faccia per la rabbia, Kazim entrò nella cabina delle comunicazioni e cominciò a gridare alla radio. «Vigliacchi! Sono il generale Kazim. Voi aviatori siete il mio braccio destro, i miei giustizieri. Attaccate! Attaccate! Chi non si dimostrerà coraggioso sarà fucilato appena atterrerà, e la sua famiglia finirà in carcere.»

I piloti maliani, mal addestrati e fino a quel giorno troppo sicuri della loro abilità, erano più abituati a pavoneggiarsi per le strade e a correr dietro alle ragazze che a combattere avversali decisi a ucciderli. I francesi avevano fatto il possibile per modernizzare e istruire i nomadi del deserto nelle tattiche del combattimento aereo, ma la tradizione culturale era troppo radicata perché fosse possibile trasformarli in combattenti esperti.

Pungolati dalle parole di Kazim e timorosi più della sua collera che dei proiettili che avevano ucciso i loro compagni, ripresero con riluttanza ad attaccare e si tuffarono in picchiata verso le mura ancora solide del vecchio forte della Legione Straniera.


Come se si ritenesse indistruttibile, Levant si alzò e osservò l’attacco dai bastioni con la calma di uno spettatore a una partita di cricket. I primi due caccia lanciarono i missili e virarono bruscamente prima di avvicinarsi al bersaglio. Tutti i razzi passarono in alto e andarono a scoppiare al di là della ferrovia.

Arrivavano da ogni parte in manovre imprevedibili. Gli assalti avrebbero dovuto essere organizzati per spianare un muro, anziché attaccare da tutte le direzioni. Quando videro che gli assediati non rispondevano al fuoco, diventarono più precisi, e il forte incominciò a incassare colpi devastanti. Apparvero grossi squarci e i muri presero a sgretolarsi.

Poi, come aveva previsto Levant, i piloti maliani divennero audaci e si avvicinarono sempre di più prima di lanciare i missili. Si alzò e si scrollò la polvere dalla tuta.

«Capitano, ci sono morti o feriti?»

«Non mi risulta, colonnello.»

«È ora che Madeleine e i suoi amici tornino a fare il loro dovere.»

«Chiamo gli uomini al pezzo, signore.»

«Se farà bene i suoi calcoli, le resteranno colpi sufficienti per abbattere altri due diavoli.»

Il compito risultò più facile quando due Mirage sfrecciarono sul deserto volando affiancati. La Vulcan ruotò e aprì il fuoco. In un primo momento sembrò che i mitraglieri avessero mancato il bersaglio. Poi vi fu una fiammata e il Mirage di destra eruttò fumo nero. L’aereo non esplose, e il pilota sembrò non perdere il controllo. Il muso si abbassò in un angolo appena accennato e il caccia continuò la discesa fino a quando piombò sulla sabbia.

Gli uomini girarono Madeleine verso il caccia di sinistra e aprirono il fuoco. Dopo pochi secondi l’ultimo proiettile partì dalle canne rotanti e la mitragliera ammutolì. Ma quella breve raffica trasformò il secondo caccia in un ammasso di rottami. I frammenti volarono in tutte le direzioni.

Stranamente, non c’erano segni di fumo o di fuoco. Il Mirage scese nel deserto, sobbalzò, andò a sbattere contro il muro a est ed esplose con un rombo assordante, scagliando pietre e frammenti incendiati sulla piazza d’armi, e facendo crollare l’alloggio ufficiali. Coloro che si trovavano all’interno ebbero la sensazione che il vecchio forte fosse stato sollevato dal suolo in una detonazione lacerante.

Pitt fu gettato a terra con violenza mentre il cielo si squarciava. Sembrava che la detonazione fosse direttamente sopra di lui, mentre proveniva dalla parte opposta del forte. Aveva l’impressione di trovarsi nel vuoto e di venir sballottato qua e là dallo spostamento d’aria.

Si sollevò sulle ginocchia e tossì, soffocato dalla polvere che invadeva l’interno del forte. Il suo primo pensiero fu per l’arco a molla. Era ancora intero, al centro della nube di polvere. Poi notò un corpo che giaceva a terra accanto a lui.

«Mio Dio!» gemette.

Poi Pitt riconobbe Pembroke-Smythe che era stato scagliato nel cortile dalla violenza dello scoppio. Lo raggiunse strisciando e vide che aveva gli occhi chiusi. Solo la vena che pulsava nel collo del capitano indicava che era ancora vivo.

«È ferito gravemente?» chiese Pitt. Non gli veniva in mente altro.

«Mi ha troncato il respiro e rovinato la schiena», ansimò Pembroke-Smythe a denti stretti.

Pitt alzò gli occhi verso il tratto di parapetto che era crollato. «È stata una brutta caduta. Non vedo sangue, e non ci sono ossa rotte. Ce la fa a muovere le gambe?»

Il capitano riuscì ad alzare le ginocchia e a girare i piedi. «Se non altro, la spina dorsale è ancora intera.» Poi sollevò una mano e indicò la piazza d’armi. La polvere aveva incominciato a ricadere, e vedeva il mucchio di macerie che aveva sepolto alcuni dei suoi uomini. «Liberi quei poveracci», implorò. «Per amor di Dio, li liberi!»

Pitt si voltò verso il muro schiantato. Il massiccio baluardo di pietra e calce era diventato un gran cumulo di macerie. Nessuno di coloro che si trovavano là sotto poteva essere sopravvissuto; e quelli che potevano essere ancora vivi e intrappolati nelle buche non avrebbero resistito a lungo prima di morire soffocati. Pitt provò un brivido d’orrore al pensiero che sarebbe stato possibile diseppellirli in tempo solo con grosse ruspe.

Prima che potesse reagire, altri missili piombarono nel forte, esplosero e sventrarono la mensa. Le travi del tetto s’incendiarono e fecero salire una colonna di fumo nel caldo crescente del mattino. Sembrava che un gigante avesse assaltato le mura con un maglio. Il muro nord era quello che aveva subito meno danni: incredibilmente, la porta principale era rimasta intatta. Ma gli altri tre erano malridotti, e i parapetti erano sfondati in diversi punti.

I piloti maliani, dopo aver perduto quattro aerei e usato tutti i missili, erano a corto di carburante. Si raggrupparono e ripartirono per la base. I commando superstiti uscirono dai rifugi sotterranei come morti risuscitati dalle tombe e cominciarono affannosamente a rimuovere le macerie per estrarre i compagni. Nonostante gli sforzi disperati, non c’era speranza che quelli sepolti sotto il muro potessero essere liberati usando soltanto le mani.

Levant scese dal bastione e cominciò a impartire ordini. I feriti furono portati al sicuro nell’arsenale, dove li attendevano gli infermieri aiutati da Eva e dagli altri.

I membri della squadra tattica caddero preda dell’angoscia quando Levant ordinò di smettere di scavare sotto il muro e di colmare invece le brecce più ampie. Levant condivideva la loro tristezza, ma aveva la responsabilità dei vivi. Per i morti non era più possibile far nulla.

L’indomabile Pembroke-Smythe, che continuava a sorridere nonostante il dolore alla schiena, si aggirava zoppicando per il forte, informandosi delle perdite e incoraggiando i superstiti. Nonostante la morte e l’orrore che li circondavano, tentava di tener alto il morale dei suoi uomini per far loro affrontare quella brutta situazione.

C’erano stati sei morti più tre feriti gravi che avevano le ossa fratturate dalle pietre cadute. Altri sette tornarono ai rispettivi posti dopo essere stati medicati per ferite lievi. Avrebbe potuto andar peggio, si disse il colonnello Levant. Ma sapeva che gli attacchi aerei erano soltanto l’inizio. Dopo un breve intervallo, il secondo atto cominciò quando, sotto il muro meridionale, esplose un missile lanciato da uno dei quattro carri armati a due chilometri di distanza. Poi altri missili piombarono sul forte in successione rapida.

Levant si arrampicò sulle macerie del muro e scrutò i carri armati con il binocolo. «Sono AMX-30 francesi e lanciano missili SS-11», annunciò con calma a Pitt e Pembroke-Smythe. «Ci martelleranno per un po’ prima di avanzare con la fanteria.»

Pitt si guardò intorno. «Non è rimasto molto da martellare», commentò laconicamente.

Levant abbassò il binocolo e si rivolse a Pembroke-Smythe che stava accanto a loro, curvo come un vecchio ultranovantenne.

«Ordini a tutti di scendere nell’arsenale. A parte una vedetta, attenderemo là sotto che passi la tempesta.»

«E quando i carri armati verranno a bussare alla nostra porta?» chiese Pitt.

«Allora toccherà alla sua catapulta, no?» disse Pembroke-Smythe con aria un po’ scettica. «È l’unica arma che abbiamo contro quei maledetti carri armati.»

Pitt sorrise cupamente. «Sembra che sia disposto a credermi, capitano.»

Pitt era fiero della sua abilità di attore. Riusciva a nascondere l’apprensione che lo assaliva in grandi ondate. Non aveva la più pallida idea se quella sua medievale arma anticarro avesse una possibilità di funzionare.

54.

Quattrocento chilometri più a ovest l’aurora spuntò nel silenzio assoluto: neppure un sussurro di vento risuonava sulle terre aride e desolate. L’unico suono era quello smorzato dello scappamento della dune buggy che correva nel deserto come una formica nera su una spiaggia.

Giordino studiava il computer di bordo che sottraeva la distanza percorsa in linea retta dalle deviazioni necessarie per aggirare gole intransitabili e un gran mare di dune. Per due volte erano stati costretti a tornare indietro di quasi venti chilometri prima di continuare la rotta.

Stando alle cifre che scorrevano sul piccolo schermo, Giordino e Steinholm avevano impiegato quasi dodici ore per coprire i quattrocento chilometri tra Fort Foureau e il confine della Mauritania. L’obbligo di tenersi lontani dalla ferrovia aveva fatto perdere parecchio tempo. Ma la loro missione era troppo importante per correre il rischio di imbattersi in pattuglie armate lungo il binario o di essere individuati e fatti a pezzi da un caccia maliano.

L’ultimo terzo del viaggio s’era svolto su terreno compatto, costellato di sassi levigati dalla polvere sollevata dal vento. Le pietre andavano dalle dimensioni di una biglia a quelle di un pallone da football e rendevano molto disagevole la guida; ma non c’era neppure da pensare di ridurre la velocità. Sobbalzavano sul terreno irregolare a novanta chilometri orari e sopportavano i tremendi scossoni con stoica fermezza.

La stanchezza e la sofferenza erano messe in ombra dal pensiero della sorte degli uomini e delle donne che avevano lasciato al forte. Giordino e Steinholm sapevano che, per avere una speranza di salvarli, dovevano trovare le Forze Speciali americane, e trovarle in fretta: solo così la missione di soccorso avrebbe potuto raggiungere Fort Foureau prima che Kazim massacrasse tutti. Giordino si sentiva stringere il cuore quando ricordava che aveva promesso di tornare per mezzogiorno. La prospettiva non era incoraggiante.

«Siamo molto lontani dal confine?» chiese Steinholm in un inglese dall’accento degno di Arnold Schwarzenegger.

«È impossibile capirlo», rispose Giordino. «Nel deserto non mettono i cartelli di benvenuto. Per quel che ne so, potremmo averlo già superato.»

«Adesso, almeno, fa abbastanza chiaro per vedere dove andiamo.»

«E per i maliani sarà più facile individuarci.»

«Propongo di puntare a nord, verso la ferrovia», disse Steinholm. «L’indicatore del carburante sta per segnare vuoto. Ancora trenta chilometri e dovremo proseguire a piedi.»

«D’accordo, mi ha convinto.» Giordino controllò di nuovo il computer e indicò la bussola montata sul quadro. «Svolti di 50 gradi verso nord-ovest e proceda su un percorso diagonale fino a quando incontreremo la ferrovia. Così avremo qualche chilometro di vantaggio, nel caso che non fossimo ancora entrati in Mauritania.»

«Il momento della verità», disse Steinholm con un sorriso. Premette l’acceleratore e le ruote girarono vorticosamente sui sassi e sulla sabbia, sollevando in aria una pioggia di ciottoli e polvere. Nello stesso istante girò il volante e lanciò la dune buggy verso la ferrovia di Massarde.


I caccia tornarono alle undici e ricominciarono ad attaccare con i missili il forte già demolito. Quando ebbero finito, i quattro carri armati proseguirono il bombardamento e il deserto echeggiò del rombo incessante degli esplosivi. I difensori avevano la sensazione che il tuono e la devastazione non finissero mai, mentre le forze di terra di Kazim si portavano a meno di trecento metri e martellavano le rovine con i mortai.

La Legione Straniera non s’era mai trovata ad affrontare una simile concentrazione di fuoco quando aveva combattuto i tuareg durante la secolare occupazione dell’Africa occidentale. I proiettili cadevano uno dopo l’altro, e le detonazioni si fondevano in un tuono incessante. I resti dei muri venivano polverizzati dalle esplosioni che si susseguivano a ritmo costante e che scagliavano in aria pietre, calce e sabbia: ormai il vecchio forte conservava ben poco del suo aspetto originale. Ormai sembrava una rovina dell’antichità.


L’aereo del generale Kazim era atterrato nei pressi di un lago prosciugato. Accompagnato dal capo di stato maggiore, il colonnello Sghir Cheik, e da Ismail Yerli, fu ricevuto dal capitano Mohammed Batutta che li fece salire sul fuoristrada e li condusse al quartier generale del colonnello Nohoum Mansa, un gruppo di tende montate in gran fretta.

«Li avete circondati completamente?» chiese Kazim.

«Sì, generale», rispose Mansa. «Il mio piano consiste nello stringere il cerchio intorno al forte sino all’assalto finale.»

«Ha cercato di convincere alla resa la squadra dell’ONU?»

«In quattro occasioni diverse. Ma ho sempre ricevuto un secco rifiuto dal comandante, un certo colonnello Levant.»

Kazim sorrise cinicamente. «Dato che vogliono morire, li accontenteremo.»

«Non possono esserne rimasti molti», commentò Yerli mentre guardava con un cannocchiale montato su un treppiede. «Il forte sembra un crivello. Devono essere sepolti sotto le macerie dei muri.»

«I miei uomini sono ansiosi di combattere», disse Mansa. «Vogliono dare buona prova di sé per il loro amato capo.»

Kazim sembrava soddisfatto. «Ne avranno l’occasione. Dia l’ordine di caricare il forte fra un’ora.»


Il martellamento non cessava mai. Nell’arsenale, dove erano affollate sessantacinque persone fra commando e civili, le pietre del soffitto incominciavano a cadere via via che la calce si sgretolava.

Eva era rannicchiata accanto alla scala e stava fasciando una donna del contingente dell’ONU che aveva diverse ferite di shrapnel alla spalla, quando un proiettile di mortai esplose all’entrata superiore. Il suo corpo riparò dalla tempesta di pietre la donna che stava medicando. Eva perse i sensi e quando più tardi rinvenne si trovò distesa sul pavimento con gli altri feriti.

Uno degli infermieri si stava occupando di lei mentre Pitt le sedeva accanto e le teneva la mano. Aveva il viso stanco, striato di sudore, e la barba lunga, imbiancata dalla polvere, ma sorrideva affettuosamente.

«Bentornata», disse. «Ci hai fatto prendere uno spavento quando è crollata la scala.»

«Siamo intrappolati?» mormorò Eva.

«No, potremo uscire quando sarà il momento.»

«Mi sembra così buio.»

«Il capitano Pembroke-Smythe e i suoi hanno liberato un passaggio largo quanto basta per permetterci di respirare. Non lascia entrare molta luce ma protegge dagli shrapnel.»

«Mi sento intorpidita. Ma è strano, non sento dolori.»

L’infermiere, un giovane scozzese dai capelli rossi, le sorrise. «Le ho dato un sedativo. Non potevo permettere che rinvenisse mentre le mettevo a posto le ossa.»

«Sono ridotta male?»

«A parte il braccio e la spalla destri fratturati, una costola incrinata, o forse due, non posso dirlo senza una radiografia, la frattura della tibia sinistra e della caviglia, più un mare di ematomi e forse qualche lesione interna, è tutto a posto.»

«È molto sincero», disse Eva, sorridendo coraggiosamente alla spiritosaggine del giovane.

L’infermiere le batté la mano sul braccio illeso. «Mi scusi, ma penso sia meglio dirle la verità.»

«Grazie», rispose Eva con un filo di voce.

«Due mesi di riposo e sarà in grado di attraversare a nuoto la Manica.»

«Mi accontenterò d’una piscina riscaldata.»

Pembroke-Smythe, infaticabile come sempre, si aggirava nell’arsenale per incoraggiare tutti. Venne a inginocchiarsi a fianco di Eva. «Bene, bene. È proprio di ferro, dottoressa Rojas.»

«Mi hanno detto che sopravvivrò.»

«Ma per un po’ non potrà dedicarsi alle follie sessuali», commentò scherzando Pitt.

Pembroke-Smythe fece una smorfia buffa. «Cosa non darei per essere nei dintorni quando guarirà.»

Eva non raccolse il sottinteso del capitano. Era già ripiombata nell’incoscienza.

Pitt e Pembroke-Smythe si guardarono negli occhi e smisero di sorridere. Il capitano indicò con un cenno la pistola automatica che Pitt portava sotto il braccio sinistro.

«Ci penserà lei, alla fine?» chiese a voce bassa.

Pitt annuì solennemente. «Sì.»

Levant si avvicinò. Sapeva che i suoi non potevano resistere ancora a lungo, il fatto di dover assistere alle sofferenze delle donne e dei bambini gli straziava l’animo. Non sopportava di vedere tutta quella gente sottoposta a un simile tormento. La sua paura più grande era che, al termine del bombardamento, sarebbero stati travolti, e sarebbe stato costretto ad assistere impotente alle violenze e ai massacri dei maliani.

Secondo il suo calcolo, gli avversari erano mille o millecinquecento. I suoi ancora in grado di combattere erano appena ventinove, incluso Pitt. E c’era da fare i conti con i quattro carri armati. Non sapeva per quanto avrebbero potuto resistere. Un’ora, forse due… probabilmente meno. Si sarebbero battuti fino all’ultimo, questo era certo. Per quanto fosse strano, il bombardamento aveva prodotto un risultato a loro favorevole. Quasi tutte le macerie dei muri erano crollate verso l’esterno, e per gli assedianti sarebbe stato difficile scalarle.

«Il caporale Wadilinski segnala che i maliani stanno per avanzare», disse Levant a Pembroke-Smythe. «L’assalto è imminente. Faccia allargare l’entrata della scala e dica ai suoi di tenersi pronti a uscire appena smetteranno di sparare.»

«Subito, colonnello.»

Levant si rivolse a Pitt. «Bene, credo sia venuto il momento di collaudare la sua invenzione.»

Pitt si alzò e si stirò. «È un miracolo che il bombardamento non l’abbia fatta a pezzi.»

«Quando ho dato un’occhiata in superficie pochi minuti fa era ancora intera, ai piedi di un tratto di muro rimasto in piedi.»

«Questo basta per farmi rinunciare a bere tequila.»

«Non prenderà una decisione così drastica, spero.»

Pitt guardò Levant negli occhi. «Posso chiederle cosa ha risposto quando Kazim le ha chiesto di arrendersi?»

«Ho dato la stessa risposta che noi francesi abbiamo dato a Waterloo: merde.»

«In altre parole, ‘sterco’», tradusse Pembroke-Smythe.

Levant sorrise. «È un modo molto educato di esprimersi.»

Pitt sospirò. «Non avevo mai pensato di finire come Davy Crockett e Jim Bowie ad Alamo.»

«Se teniamo conto del nostro numero ridotto e della potenza di fuoco del nemico», commentò Levant, «devo dire che le nostre speranze di sopravvivere non sono migliori. Probabilmente sono molto peggiori.»

Scese un silenzio improvviso, come se una immensa coltre fosse stata gettata sull’arsenale sotterraneo. Tutti restarono immobili e alzarono gli occhi verso il soffitto, come se potessero vedere attraverso tre metri di roccia e di sabbia.

Dopo essere rimasti rintanati per sei ore sotto il bombardamento, i componenti della squadra tattica ancora in grado di reggersi e di combattere rimossero le macerie che bloccavano l’accesso e si avventarono sotto il sole bruciante. Un fumo nero eruttava dai trasporti truppe incendiati e tutti gli edifici erano stati spianati quasi completamente. I proiettili sibilavano e rimbalzavano fra i mucchi di pietre come calabroni impazziti.

I combattenti dell’ONU erano sudati, sporchi, affamati ed esausti, ma non conoscevano la paura ed erano furiosi per essere stati costretti così a lungo a subire l’attacco dei maliani senza poter reagire. Erano a corto di tutto, ma non di coraggio: si piazzarono nelle posizioni difensive e giurarono freddamente di far pagare agli assalitori un prezzo altissimo prima che cadesse l’ultimo di loro.

«Al mio ordine sparate senza sosta», ordinò Levant attraverso la radio.


Il piano di battaglia di Kazim era d’una semplicità addirittura ridicola: i carri armati dovevano sfondare la porta principale sul lato nord mentre le truppe speciali caricavano da ogni parte. Tutti gli uomini a sua disposizione stavano per entrare in battaglia… Tutti, cioè 1470. Nessuno sarebbe rimasto di riserva.

«Voglio una vittoria schiacciante», disse Kazim ai suoi ufficiali. «Uccidete tutti i commando dell’ONU che tenteranno la fuga.»

«Niente prigionieri?» chiese il colonnello Cheik in tono sorpreso. «Non le sembra imprudente, generale?»

«Le sembra che ci sia qualche problema, amico mio?»

«Quando la comunità internazionale saprà che abbiamo giustiziato un intero contingente delle Nazioni Unite potranno esserci gravi contromisure a nostro danno.»

Kazim s’impettì. «Non intendo tollerare incursioni di truppe ostili entro i nostri confini. Il mondo imparerà che il popolo del Mali non si lascia trattare come i vermi del deserto.»

«Sono d’accordo con il generale», confermò Yerli. «I nemici del vostro popolo devono essere annientati.»

Kazim non riusciva a contenere l’eccitazione. Era la prima volta che guidava truppe in battaglia. La sua rapida carriera era dovuta a intrighi subdoli, e non aveva mai fatto altro che ordinare ad altri di uccidere quanti opponevano resistenza. Ora si vedeva come un grande guerriero in procinto di guidare una carica contro gli stranieri infedeli.

«Ordinate l’avanzata», disse. «Questo è un momento storico. Attacchiamo il nemico.»


Le truppe d’assalto corsero attraverso il deserto nel classico attacco da manuale. Gli uomini si buttavano a terra per sparare e coprire i commilitoni che avanzavano, poi si alzavano e proseguivano. La prima ondata incominciò a gridare baldanzosamente quando arrivò a meno di duecento metri dal forte senza incontrare il fuoco nemico. I carri armati che li precedevano non s’erano sparsi a ventaglio e si muovevano in formazione scalare.

Pitt decise di tentare di colpire l’ultimo. Con l’aiuto di cinque uomini rimosse le macerie dall’arco a molla e lo trainò allo scoperto. In un’antica macchina da assedio la tensione sarebbe stata sostenuta da un argano a manovella. Ma, nel modello realizzato da Pitt, l’elevatore a forche era inclinato, in modo che le sporgenze gemelle potessero tirare all’indietro le molle in una linea orizzontale. Mentre un bidone perforato di gasolio veniva caricato sull’arco, altri cinque, che costituivano tutto l’arsenale di Pitt, venivano allineati, pronti per l’uso.

«Su, piccolo», borbottò Pitt mentre cercava di avviare il motore recalcitrante del carrello. «Non è il momento di far storie.» Poi il carburatore emise un colpo di tosse e dallo scappamento incominciò a uscire un rombo regolare.

Mentre era ancora buio, Levant era uscito dal forte e aveva piantato paletti intorno al perimetro per indicare la distanza a cui si doveva aprire il fuoco. Se avessero aspettato di vedere il bianco degli occhi degli attaccanti, per i difensori sarebbe stata la morte certa. C’era una sproporzione troppo grande per pensare a un combattimento a distanza ravvicinata. Levant aveva piazzato i paletti a settantacinque metri.

Ora, mentre la squadra tattica attendeva di entrare in azione, tutti gli occhi erano rivolti a Pitt. Se non fosse stato possibile fermare i carri armati, le truppe d’assalto maliane non avrebbero dovuto far altro che concludere l’operazione.

Pitt prese un coltello e incise una tacca nel punto in cui le estremità delle molle piegate incontravano l’asse di lancio per calcolare la tensione necessaria. Poi salì su una delle travi di supporto e scrutò di nuovo i carri armati.

«A quale sta mirando?» chiese Levant.

Pitt indicò l’ultimo, in fondo a sinistra della fila. «La mia idea è incominciare dalla coda per poi venire avanti.»

«In modo che i carri armati che stanno in testa non si accorgano di quel che succede dietro di loro», commentò Levant. «Speriamo che funzioni.»

Il calore rovente del sole si irradiava sui contorni corazzati dei carri armati. Assolutamente sicuri di trovare soltanto cadaveri, i comandanti e i piloti avanzavano con i portelli aperti mentre le loro armi vomitavano proiettili contro i pochi bastioni del forte che ancora resistevano.

Quando Pitt riuscì quasi a distinguere i lineamenti del pilota del primo carro, accese una torcia e l’accostò al gasolio che sgocciolava dalla sommità del bidone perforato. La fiamma eruttò immediatamente. Pitt piantò la torcia nella sabbia e tirò la corda che faceva scattare il meccanismo di blocco ricavato dalla serratura d’una porta. Il cavo di nailon che tratteneva le molle scattò, liberandole e facendole tornare nella posizione normale.

Il bidone di gasolio incendiato volò come una meteora al di sopra del muro semidistrutto e sfrecciò al di là dell’ultimo carro armato. Piombò a terra a una distanza considerevole prima di esplodere.

Pitt era sbalordito. «La mia macchina funziona meglio di quanto immaginassi», mormorò.

«Cinquanta metri più vicino e dieci più a destra», commentò Pembroke-Smythe come se riferisse il punteggio d’una partita di calcio.

Mentre gli uomini di Levant issavano un altro bidone, Pitt incise una nuova tacca sulla tavola di lancio per regolare la distanza. Poi mise in funzione il sistema idraulico del carrello a forche e piegò di nuovo all’indietro l’arco a molla. Usò la torcia, fece scattare il meccanismo, e il secondo bidone di gasolio prese il volo.

Il lancio finì qualche metro più avanti dell’ultimo carro armato; il bidone rimbalzò e rotolò sotto i cingoli prima di esplodere. In un attimo le fiamme avvilupparono il veicolo corazzato. Atterriti, gli uomini dell’equipaggio si azzuffarono per poter fuggire. Su quattro, due soli uscirono vivi.

Pitt si affrettò a ricaricare l’arco a molla. Un altro bidone fu issato e scagliato contro i carri armati avanzanti. Questa volta il centro fu perfetto. Il bidone sorvolò il muro e piombò esattamente nella torretta di un secondo carro armato, esplose e lo trasformò in una palla di fuoco.

«Funziona, funziona davvero», mormorò soddisfatto Pitt mentre preparava l’arco per un altro colpo.

«Magnifico!» gridò Pembroke-Smythe, di solito così riservato. «Ha colpito quei maledetti negri dove gli brucia di più!»

Pitt e gli altri che faticavano per issare sulla tavola di lancio un altro bidone non avevano bisogno d’incitamenti. Levant salì sull’unico bastione indenne e scrutò il campo di battaglia. La distruzione inaspettata di due dei carri armati di Kazim aveva bloccato per il momento l’avanzata. Levant era compiaciuto del successo iniziale della macchina di Pitt, ma sapeva che anche se fosse rimasto un solo carro armato e fosse arrivato al forte, per i difensori sarebbe stato il disastro.

Pitt scagliò il quarto bidone che descrisse una parabola perfetta; ma il comandante del carro armato, che si era accorto della risposta dei difensori, aveva ordinato al pilota di procedere a zigzag. La prudenza diede un risultato positivo perché il bidone finì quattro metri più indietro del cingolo sinistro. Il contenitore esplose, ma solo una parte del liquido incendiato innaffiò la coda del veicolo, e il mostro continuò ad avanzare verso il forte.

Ai combattenti rannicchiati fra le macerie, l’orda dei maliani sembrava un esercito di formiche migranti. Erano tanti e a ranghi così fitti che sarebbe stato quasi impossibile mancarli. I maliani lanciavano grida di guerra e avanzavano sparando senza sosta.

La prima ondata era a pochi metri dai paletti piantati da Levant, ma il colonnello rimandava l’ordine di sparare augurandosi che Pitt riuscisse a eliminare i due carri armati superstiti. Il suo desiderio fu esaudito quando Pitt, anticipando il nuovo cambiamento di percorso del comandante del mezzo corazzato, regolò meglio l’arco a molla e lanciò il quinto bidone fiammeggiante quasi nel portello anteriore.

Un turbine di fiamma avvolse il muso del carro armato che esplose. L’avanzata si arrestò, e tutti rimasero allibiti a guardare la torretta che veniva scagliata vorticando nel cielo del deserto prima di ricadere e di piantarsi nella sabbia come un aquilone di piombo.

A Pitt era rimasto un solo bidone. Ormai era così esausto per lo sforzo fisico e il caldo massacrante che stentava a reggersi in piedi. Ansimava e il cuore gli batteva per la fatica di aiutare gli altri a caricare i pesanti contenitori sulla tavola di lancio e di spostare l’arco a molla sui supporti per prendere la mira.

L’enorme carro armato da sessanta tonnellate giganteggiava fra la polvere e il fumo come un mostro d’acciaio in cerca di vittime da divorare. Si vedeva il comandante che dava ordini al pilota e all’artigliere, mentre la mitragliatrice apriva improvvisamente il fuoco.

Nel forte tutti si tesero e trattennero il respiro mentre Pitt regolava l’arco a molla. Molti pensarono che fosse giunta la fine. Quello era l’ultimo colpo, l’ultimo dei contenitori pieni di gasolio.

Nessun giocatore di football aveva mai puntato su una mossa più importante per ottenere la vittoria. Se Pitt avesse sbagliato il tiro, molti sarebbero morti, compresi lui e i bambini rifugiati nell’arsenale.

Il carro armato continuava ad avanzare, e il comandante non deviava dal percorso. Era così vicino che Pitt dovette alzare la parte posteriore dell’arco a molla per abbassare la tavola di lancio. Fece partire il colpo, augurandosi fervidamente che tutto andasse per il meglio.

Nello stesso istante l’artigliere del carro armato sparò. Per un’incredibile coincidenza il proiettile e il bidone fiammeggiante si incontrarono a mezz’aria.

L’artigliere aveva caricato un proiettile capace di penetrare attraverso una corazza: e infatti sfondò il bidone e fece piovere sul carro armato un diluvio di gasolio incendiato. Il mostro d’acciaio sparì in una cortina di fuoco. In preda al panico, il pilota innestò la marcia indietro nel vano tentativo di sottrarsi al pericolo e si scontrò con il carro armato in fiamme che stava a pochi passi. Incastrati, i due veicoli corazzati si trasformarono in un unico rogo fra le esplosioni dei proiettili e dei serbatoi.

Le acclamazioni degli uomini del forte si levarono ancora più alte degli spari delle truppe avanzanti. Ora che l’arco a molla di Pitt aveva eliminato le loro peggiori paure e rinfrancato il morale, erano decisi più che mai a battersi sino alla fine. Quel giorno, nel vecchio Fort Foureau non esisteva la paura.

«Scegliete i bersagli e cominciate a sparare», ordinò Levant. «Adesso tocca a noi farli soffrire.»

55.

Giordino scorse una lunga fila di quattro treni fermi sul binario, ma un attimo dopo tutto fu nascosto da un turbine che sollevò una tempesta di sabbia. La visibilità si ridusse da venti chilometri a cinquanta metri.

«Cosa ne pensa?» chiese Steinholm mentre bloccava la dune buggy in terza, nel tentativo di risparmiare le ultime, preziose gocce di carburante. «Siamo in Mauritania?»

«Mi piacerebbe saperlo», disse Giordino. «Sembra che Massarde abbia fermato tutti i treni, ma non so da che parte del confine si trovino.»

«Cosa dice il computer?»

«Secondo i calcoli, abbiamo passato la frontiera da dieci chilometri.»

«Allora tanto vale che ci avviciniamo alla ferrovia. È un rischio che possiamo correre.»

Mentre parlava, Steinholm fece avanzare il veicolo fra due grandi rocce e salì sulla cresta di una collinetta, poi frenò all’improvviso. Entrambi sentirono il suono nello stesso istante. Era inconfondibile, nonostante il sibilo del vento. Era fioco, ma era impossibile equivocare. Il rumore diventò più chiaro di secondo in secondo. Poi sembrò arrivare sopra di loro.

Steinholm girò il volante, premette l’acceleratore e lanciò la dune buggy in un brusco testa-coda. Ma all’improvviso il motore scoppiettò e si spense. Il carburante era finito. I due uomini rimasero immobili, impotenti, mentre il veicolo si fermava.

«Mi sembra che siamo arrivati al capolinea», borbottò Giordino.

«Devono averci visti sul radar, e adesso stanno per piombarci addosso», si lamentò rabbiosamente Steinholm mentre batteva i pugni sul volante.

Attraverso la cortina di sabbia e di polvere, come un enorme insetto giunto da un pianeta alieno, un elicottero si materializzò e rimase librato a due metri da terra. Trovarsi di fronte a una Chain di 30 millimetri, due batterie di trentotto missili da 2,75 pollici e otto missili anticarro a guida laser era un’esperienza poco piacevole. Giordino e Steinholm rimasero irrigiditi ai loro posti e si prepararono al peggio.

Ma dall’elicottero, anziché una raffica, uscì una figura che si lanciò a terra. Quando si avvicinò, videro che portava una tuta per il combattimento nel deserto, carica di aggeggi ad alta tecnologia. La testa era protetta da un elmetto mimetico, la faccia da maschera e occhialoni. Stringeva un mitra come se fosse un’appendice naturale delle sue mani.

Si fermò a un passo dalla dune buggy e squadrò Giordino e Steinholm. Poi scostò la maschera e chiese: «E voi da dove diavolo venite?»


Pitt, che ormai aveva finito di usare l’arco a molla, prese i mitra di due uomini che erano feriti gravemente e si piazzò in una postazione difensiva che aveva preparato con le pietre cadute. Era piuttosto impressionato dai nomadi in uniforme, individui grandi e grossi che correvano e schivavano i colpi con agilità mentre avanzavano verso il forte. Più si avvicinavano senza incontrare opposizione e più diventavano baldanzosi.

La squadra tattica dell’ONU, in inferiorità numerica per cinquanta a uno, non poteva sperare di resistere abbastanza a lungo perché arrivassero i soccorsi. Era una di quelle volte in cui i perseguitati non avevano speranza di farcela. Pitt capiva che cosa dovevano aver provato i difensori di Alamo. Prese la mira e, quando Levant diede l’ordine, incominciò a sparare contro l’orda.

La prima ondata dei maliani fu accolta da raffiche tremende che rallentavano l’avanzata. Erano bersagli facili, su un terreno che non offriva la minima copertura. Rannicchiati fra le macerie, i combattenti dell’ONU miravano con calma e sparavano con precisione mortale. Gli attaccanti cadevano a mucchi, come erbacce recise da una falce, quasi prima ancora di capire cosa stava accadendo. Dopo venti minuti, più di duecentosettantacinque giacevano morti o feriti intorno al perimetro del forte.

La seconda ondata avanzò incespicando sui caduti, esitò quando fu decimata a sua volta, e ripiegò. Nessuno, neppure gli ufficiali, s’era aspettato una simile resistenza. L’attacco pianificato da Kazim si risolse nel caos. I suoi uomini cominciarono ad abbandonarsi al panico, e molti della retroguardia spararono alla cieca contro quelli che li precedevano.

Mentre i maliani ripiegavano in preda alla confusione, in maggioranza fuggendo come animali di fronte a un incendio nella boscaglia, pochi coraggiosi indietreggiavano lentamente e continuavano a sparare contro tutto ciò che poteva sembrare la testa di un difensore del forte. Trenta attaccanti cercarono di mettersi al riparo dietro i carri armati che bruciavano; ma Pembroke-Smythe aveva previsto quella tattica e quindi ordinò un fuoco di precisione che li abbatté tutti.

Un’ora dopo l’inizio dell’assalto il crepitare degli spari cessò e la sabbia arida intorno al forte echeggiò delle grida dei feriti e dei gemiti dei morenti. I commando dell’ONU rimasero sbalorditi nel vedere che i maliani non tentavano neppure di portare in salvo i compagni. Non sapevano che Kazim, infuriato, aveva dato l’ordine di abbandonare i feriti a soffrire sotto lo spietato sole del Sahara.

Fra le macerie del forte, i commando si alzarono e cominciarono a contare. Un morto e tre feriti, due dei quali gravi. Pembroke-Smythe fece rapporto a Levant. «Direi che gli abbiamo dato una bella batosta», annunciò.

«Torneranno», gli rammentò il colonnello.

«Almeno li abbiamo ridotti di numero.»

«Anche loro hanno fatto altrettanto», disse Pitt, offrendo a Levant un po’ d’acqua. «Abbiamo quattro uomini in meno per respingere il prossimo attacco, mentre Kazim può chiamare i rinforzi.»

«Il signor Pitt ha ragione», ammise Levant. «Ho visto gli elicotteri che portavano altre due compagnie.»

«Fra quanto pensa che ritenteranno?» chiese Pitt al colonnello.

Levant alzò una mano per schermarsi gli occhi e scrutò il sole. «Direi nel momento più caldo della giornata. I suoi uomini sono abituati più di noi a certe temperature. Kazim ci lascerà friggere per qualche ora prima di ordinare un altro assalto.»

«Ormai sono stati iniziati al combattimento», disse Pitt. «La prossima volta sarà impossibile fermarli.»

«Già», confermò Levant. Era stravolto dalla stanchezza. «Non credo che sarà possibile.»


«Come sarebbe a dire?» chiese indignato Giordino. «Non volete entrare nel Mali per portarli in salvo?»

Il colonnello Gus Hargrove non era abituato a essere contraddetto, soprattutto da un civile molto più basso di lui. Comandava la task force di elicotteri per le operazioni clandestine dei ranger dell’Esercito; era un professionista che aveva guidato assalti di elicotteri in Vietnam, a Grenada, a Panama e in Iraq. Era un tipo duro e astuto, rispettato dai subordinati e dai superiori. Sotto l’elmetto brillavano due occhi azzurri che sembravano d’acciaio temperato. Teneva stretto fra i denti un sigaro che ogni tanto si toglieva dall’angolo della bocca per poter sputare.

«Mi pare che lei non capisca, signor Giordano.»

«Giordino.»

«Comunque sia», borbottò Hargrove in tono indifferente. «C’è stata una soffiata probabilmente attraverso l’ONU. I maliani stavano aspettando che entrassimo nel loro spazio aereo. Proprio in questo momento, metà della loro Aeronautica militare sta facendo la ronda appena oltre il confine. Caso mai lei non lo sapesse, l’elicottero Apache è una formidabile piattaforma lanciamissili ma non può tener testa ai caccia Mirage. Almeno di giorno. Senza una squadriglia di caccia ‘invisibili’ Stealth che assicurino una copertura protettiva, non possiamo muoverci prima dell’imbrunire. Soltanto allora potremo approfittare del terreno basso e delle gole per volare al di sotto della portata del radar. Riesce a capirlo?»

«Ci sono uomini, donne e bambini che moriranno se non raggiungerete Fort Foureau entro poche ore.»

«È stata una pessima idea far venire qui la mia unità quando l’avversario era informato in anticipo, e farci arrivare in pieno giorno e senza appoggi», dichiarò Hargrove con fermezza. «Se tentiamo di passare adesso dalla Mauritania al Mali, i miei quattro elicotteri saranno fatti a pezzi a meno di cinquanta chilometri oltre il confine. Me lo dica lei, signore, di che utilità sarebbe per i suoi assediati nel forte?»

Messo con le spalle al muro, Giordino scrollò la testa. «Ha ragione. Mi scusi, colonnello, non conoscevo la situazione.»

Hargrove si rabbonì. «Capisco la sua preoccupazione, ma ormai siamo compromessi e i maliani mordono il freno e non vedono l’ora di tenderci un’imboscata. Temo che sarà impossibile salvare i suoi amici.»

Giordino ebbe la sensazione che una morsa gli stringesse lo stomaco. Voltò le spalle a Hargrove e scrutò il deserto. La tempesta di sabbia era passata e adesso riusciva a scorgere i treni fermi in lontananza sul binario.

Si voltò di nuovo. «Quanti uomini ha?»

«Senza contare gli equipaggi degli elicotteri, sono ottanta.»

Giordino spalancò gli occhi. «Ottanta uomini per affrontare metà delle forze di sicurezza del Mali?»

«Sì.» Hargrove sogghignò, si tolse il sigaro dalle labbra e sputò. «Ma abbiamo una potenza di fuoco sufficiente per radere al suolo metà dell’Africa occidentale.»

«Immagini di poter attraversare il deserto fino a Fort Foureau senza che nessuno se ne accorga.»

«Sono sempre disposto a prendere in considerazione un piano efficace.»

«I treni diretti al complesso per lo smaltimento dei rifiuti tossici a Fort Foureau… Ne hanno lasciato passare qualcuno?»

Hargrove scosse la testa. «Ho mandato uno dei miei a controllare la situazione, e ha riferito che i ferrovieri hanno ricevuto per radio l’ordine di fermarsi al confine della Mauritania. Il macchinista del primo convoglio ha detto che devono restare in attesa dell’autorizzazione per procedere, trasmessa dal sovrintendente del deposito ferroviario del complesso.»

«Il posto di blocco al confine maliano… Quanti uomini sono?»

«Dieci guardie. Forse dodici.»

«Ce la fareste a toglierle di mezzo prima che diano l’allarme?»

Hargrove girò lo sguardo verso i vagoni del treno, osservò in particolare i cinque carri a pianale coperti dai teloni che proteggevano i nuovi camion destinati a Fort Foureau, e infine il posto di guardia al confine, accanto al binario. Poi tornò a fissare Giordino. «John Wayne ce la faceva ad andare a cavallo?»

«Possiamo arrivare a destinazione in due ore e mezzo», disse Giordino. «Tre al massimo.»

Hargrove si tolse il sigaro di bocca e lo fissò con aria assorta. «Credo di aver capito. Il generale Kazim non si aspetterà certo che il mio contingente piombi sul suo campo a bordo di un treno.»

«Faccia salire gli uomini sui carri portacontainer. Gli elicotteri possono viaggiare sui carri a pianale, coperti dai teloni. Così arriveremo prima che Kazim intuisca la verità, e avremo buone probabilità di evacuare gli uomini del colonnello Levant e i civili e di rientrare in Mauritania prima che i maliani si rendano conto di quel che è capitato.»

Hargrove apprezzava il piano di Giordino, ma aveva qualche dubbio.

«Supponiamo che uno dei piloti di Kazim veda un treno che ignora le istruzioni, e decida di farlo saltare?»

«Neppure Kazim oserebbe distruggere uno dei treni di Yves Massarde senza avere la prova incontrovertibile che è finito in mani nemiche.»

Hargrove cominciò a camminare avanti e indietro. Il piano gli sembrava audace e fuori del comune. Era indispensabile non perdere tempo. Decise di giocarsi la carriera e di tentare.

«D’accordo», disse laconicamente. «Facciamo partire la Wabash Cannonball.»


Zateb Kazim inveiva come un pazzo: era esasperato al pensiero di non essere riuscito ad annientare Levant e i suoi nel vecchio forte della Legione Straniera. Insultava gli ufficiali, istericamente, come un bambino al quale hanno tolto i giocattoli. Arrivò a schiaffeggiarne due e a ordinare che venissero fucilati, prima che il suo capo di stato maggiore, il colonnello Cheik, lo convincesse a placarsi. Fremendo di rabbia Kazim rimase a guardare con disprezzo le truppe che si ritiravano e ordinò che si preparassero immediatamente per un secondo assalto.

Preoccupato dalla collera di Kazim, il colonnello Mansa si aggirò tra le forze in ritirata, gridando e rimproverando gli ufficiali, perché milleseicento assedianti non riuscivano a sopraffare un pugno di difensori. Ordinò di raggruppare le compagnie per compiere un altro tentativo. E per far capire chiaramente che non sarebbero stati tollerati altri fallimenti, fece fucilare sul posto dieci uomini che erano stati sorpresi mentre cercavano di fuggire dal campo di battaglia.

Anziché attaccare il forte a ondate, Kazim ammassò le sue forze in una colonna imponente. I rinforzi si schierarono alla retroguardia e ricevettero l’ordine di sparare sugli uomini che li precedevano se avessero tentato la fuga. L’unico comando di Kazim che veniva fatto circolare da una compagnia all’altra era: «Combattere o morire».

Alle due del pomeriggio le forze di sicurezza maliane erano in formazione e attendevano il segnale. Un comandante davvero capace avrebbe rinunciato ad attaccare dopo aver dato un’occhiata alle sue truppe incupite e spaventate. Kazim non era un capo per il quale gli uomini fossero disposti a morire. Ma mentre i soldati guardavano il terreno cosparso di cadaveri intorno al forte, a poco a poco la loro collera ebbe la meglio sulla paura di morire.

Questa volta, giurarono in silenzio, i difensori di Fort Foureau sarebbero finiti nella tomba.

56.

Con un’incredibile indifferenza ai proiettili dei cecchini, Pembroke-Smythe stava seduto sotto il sole torrido su un seggiolino portatile e osservava la formazione maliana che si schierava per l’assalto.

«Credo che quei farabutti stiano per riprovarci», comunicò a Levant e a Pitt.

Una serie di razzi fu sparata in aria per dare il segnale dell’avanzata. Diversamente dal primo assalto, i maliani non eseguivano manovre evasive e non avevano un fuoco di copertura. Avanzavano correndo sul terreno piatto. Da quasi duemila gole erompevano urla che echeggiavano nel deserto.

Pitt si sentiva come un attore sul palcoscenico d’un teatro, attorniato da un pubblico ostile. «Non direi che abbiano una grande immaginazione tattica», commentò mentre scrutava la colonna. «Ma può darsi che ce la facciano.»

Pembroke-Smythe annuì. «Kazim si serve dei suoi come di un rullo compressore.»

«Buona fortuna, signori», disse Levant con un sorriso cupo. «Forse ci rivedremo tutti all’inferno.»

«Non ci sarà più caldo che qui», rispose Pitt ricambiando il sorriso.

Il colonnello si rivolse a Pembroke-Smythe. «Faccia cambiare posizione alle nostre unità per respingere un attacco frontale. E dica di sparare a volontà.»

Pembroke-Smythe strinse la mano a Pitt e incominciò a passare da un uomo all’altro. Levant prese il suo posto sull’ultimo bastione mentre Pitt tornava alla piccola fortificazione che aveva scavato fra le macerie. I proiettili cominciavano già a cadere su Fort Foureau e a rimbalzare sulle pietre spezzate.

Lo schieramento degli attaccanti si estendeva per settantacinque metri. Con i rinforzi, erano quasi milleottocento uomini. Kazim li stava scagliando contro il lato del forte che aveva subito più danni durante gli attacchi aerei e i bombardamenti… il lato nord, con la porta principale sfondata.

Gli uomini delle ultime file erano tranquillizzati dalla certezza che sarebbero arrivati vivi all’interno del forte; quelli dell’avanguardia avevano idee ben diverse: nessuno di loro sarebbe sopravvissuto all’avanzata su quel tratto scoperto. Sapevano che non potevano aspettarsi pietà né dai difensori che li fronteggiavano né dai compagni che li seguivano.

Nella prima fila c’era già qualche vuoto e i pochi difensori del forte continuavano il loro fuoco micidiale. Ma i maliani proseguivano la carica, scavalcando i corpi di coloro che erano caduti durante il primo assalto. Questa volta sarebbe stato impossibile fermarli: sentivano già l’odore sanguinoso della vittoria.

Pitt prendeva con cura la mira e sparava brevi raffiche come se agisse in sogno. Mirava e sparava, mirava e sparava e ricaricava. Gli sembrava di continuare così da chissà quanto tempo, mentre in realtà erano trascorsi appena dieci minuti dal segnale dell’assalto.

Un proiettile di mortaio esplose dietro di lui. Kazim aveva ordinato di continuare il bombardamento fino a quando i suoi fossero entrati nel forte. Pitt sentì il sibilo dello shrapnel sopra la testa e lo spostamento d’aria. Ormai i maliani erano così vicini da riempire il mirino del mitra.

I proiettili continuarono a cadere in un uragano di fuoco. Poi il martellamento cessò quando gli elementi della prima fila raggiunsero le macerie e cominciarono a inerpicarsi. In quel momento erano più vulnerabili. I ranghi avanzati si dissolsero, falciati dal fuoco disperato dei difensori. Non potevano mettersi al riparo, arrampicarsi sulle macerie e nel contempo sparare a bersagli che non si mostravano.

I difensori, invece, non potevano sbagliare. I maliani inciampavano e strisciavano sulle macerie mentre incontravano uno sciame di proiettili. La prima fila era stata falciata a cento metri, la seconda quando era arrivata all’ombra del forte. Poi toccò alla fila che la seguiva. Lungo il lato nord, gli attaccanti e i loro ufficiali cadevano urlando. Ma il loro fuoco concentrato, per quanto impreciso, non poteva mancare di colpire qualche difensore.

Erano troppi perché la squadra dell’ONU potesse fermarli. Gli spari diventarono meno martellanti via via che i difensori venivano uccisi o feriti.

Levant si rendeva conto che ormai mancavano pochi minuti alla fine. «Falciateli!» ruggiva attraverso la radio. «Teneteli lontani dal muro!»

Sembrava impossibile, ma la grandine dei colpi sparati dal contingente dell’ONU diventò all’improvviso più intensa. La testa della colonna maliana si bloccò. Pitt era rimasto senza munizioni, ma scagliava bombe a mano una dopo l’altra. Le esplosioni provocavano il caos in mezzo all’orda. I maliani incominciarono a ripiegare. Erano storditi e non riuscivano a credere che qualcuno fosse capace di battersi con tanta rabbia. Dovettero fare appello a tutto il loro coraggio per riorganizzarsi e varcare i resti schiantati della porta principale.

I combattenti dell’ONU si alzarono dalle postazioni e spararono dall’altezza del fianco mentre si ritiravano attraverso la piazza d’armi, girando intorno ai trasporti ancora fumanti. Poi formarono una nuova linea difensiva nelle rovine dei dormitori e degli alloggi ufficiali. La polvere e il fumo riducevano la visibilità a meno di cinque metri. Gli spari incessanti avevano reso sordi i combattenti alle grida dei feriti.

Le perdite tremende inflitte ai maliani erano sufficienti per distruggere il morale di qualunque attaccante; tuttavia continuavano ad avanzare e a riversarsi nel forte in un’alluvione umana. La prima compagnia che varcò il muro rimase temporaneamente allo scoperto sulla piazza d’armi e fu decimata mentre si aggirava confusa, senza riuscire a trovare neppure un superstite allo scoperto.

Pembroke-Smythe fece rapidamente il conto dei sopravvissuti nel dormitorio e nell’alloggio ufficiali mentre i pochi feriti che erano riusciti a salvare venivano portati nell’arsenale. Soltanto Pitt e dodici della squadra tattica erano ancora in grado di combattere. Il colonnello Levant era sparito. L’avevano visto l’ultima volta mentre sparava dal bastione quando l’orda degli attaccanti aveva varcato la porta settentrionale.

Quando riconobbe Pitt, Pembroke-Smythe sorrise. «Ha un aspetto orribile, vecchio mio», disse indicando le macchie rosse che si allargavano sul braccio sinistro e sulla spalla. Un altro filo di sangue gli colava su una guancia da un taglio causato da una scheggia di pietra.

«Neppure lei è il ritratto della salute», ribatté Pitt, additando la ferita sul fianco del capitano.

«Come sta a munizioni?»

Pitt alzò il mitra che gli restava e lo buttò a terra. «Finite. Ho soltanto due bombe a mano.»

Pembroke-Smythe gli porse un mitra nemico. «Sarà bene che scenda nell’arsenale. Noi resisteremo fino a quando avrà avuto il tempo…» Non trovò la forza di finire e fissò il terreno.

«Li abbiamo conciati male», dichiarò Pitt mentre estraeva il caricatore e contava i proiettili. «Sembrano cani idrofobi smaniosi di vendetta. La faranno pagare a tutti quelli che troveranno ancora vivi.»

«Le donne e i bambini non possono cadere di nuovo nelle mani di Kazim.»

«Non soffriranno», promise Pitt.

Pembroke-Smythe lo fissò e vide l’angoscia nei suoi occhi. «Addio, signor Pitt. È stato un onore conoscerla.»

Pitt gli strinse la mano mentre una tempesta di colpi infuriava intorno a loro. «Anche per me, capitano.»

Poi scese in mezzo alle macerie che intasavano la scala dell’arsenale. Hopper e Fairweather lo videro e gli andarono incontro.

«Chi sta vincendo?» chiese lo scienziato.

Pitt scosse la testa. «I nostri no, purtroppo.»

«Non ha senso stare ad aspettare la morte», disse Fairweather. «È meglio batterci. Per caso, non ha un’arma in più?»

«Farebbe comodo anche a me», soggiunse Hopper.

Pitt consegnò il mitra a Fairweather. «Mi dispiace, ma oltre alla mia automatica ho solo quello. Di sopra ci sono armi in abbondanza, ma dovrà prenderle ai maliani uccisi.»

«Mi sembra una buona idea», tuonò Hopper, e diede a Pitt una pacca sulla spalla. «Buona fortuna, ragazzo mio. Abbia cura di Eva.»

«Glielo prometto.»

Fairweather accennò col capo. «Lieto di averla conosciuta, vecchio mio.»

Mentre i due si avviarono verso la scala, un’infermiera che stava medicando un ferito si alzò e si rivolse a Pitt.

«Come va?» gli chiese.

«Si prepari al peggio», rispose Pitt a voce bassa.

«Fra quanto?»

«Il capitano Pembroke-Smythe e quello che resta della vostra squadra stanno opponendo l’ultima resistenza. Alla fine non possono mancare che dieci o quindici minuti.»

«E questi poveretti?» L’infermiera indicò i feriti sdraiati sul pavimento.

«I maliani non avranno pietà», rispose Pitt.

La donna spalancò gli occhi. «Non fanno prigionieri?»

«Sembra di no.»

«E le donne e i bambini?»

Pitt non rispose, ma la sua espressione addolorata era fin troppo eloquente.

L’infermiera si sforzò coraggiosamente di sorridere. «Allora immagino che quanti sono ancora in condizioni di premere il grilletto se ne andranno così.»

Pitt le posò le mani sulle spalle, poi la lasciò. L’infermiera si voltò per dare la notizia al collega. Prima che Pitt potesse avvicinarsi a Eva, fu fermato da Louis Monteux, l’ingegnere francese.

«Signor Pitt.»

«Mi dica.»

«È venuto il momento?»

«Sì, purtroppo.»

«La sua pistola. Quanti proiettili ci sono?»

«Dieci, ma ho un altro caricatore con quattro colpi.»

«Ce ne bastano undici per le donne e i bambini», mormorò Monteux, e tese la mano per prendere l’arma.

«L’avrà dopo che mi sarò occupato della dottoressa Rojas», disse Pitt in tono deciso.

Monteux alzò la testa mentre il rumore degli scontri si faceva più vicino ed echeggiava sulla scala. «Non ci metta troppo tempo.»

Pitt andò a sedere sul pavimento accanto a Eva, che era sveglia e lo guardava con un’espressione inconfondibile di affetto e preoccupazione. «Sanguini. Ti hanno ferito.»

Pitt alzò le spalle. «Ho dimenticato di chinarmi quando è scoppiata una bomba a mano.»

«Sono felice che tu sia qui. Cominciavo a chiedermi se ti avrei rivisto.»

«Spero che avrai già scelto il vestito per il nostro appuntamento», disse lui mentre le passava delicatamente un braccio intorno alle spalle e la spostava per farle appoggiare la testa sulle sue ginocchia. Estrasse l’automatica dalla cintura in modo che Eva non la vedesse e gliel’accostò a un centimetro dalla tempia destra.

«Ho scelto anche il ristorante…» Eva esitò e inclinò la testa, in ascolto. «Hai sentito?»

«Che cosa?»

«Non sono sicura. Sembrava un fischio.»

Pitt era certo che i sedativi l’avessero stordita. Era impossibile che un suono estraneo fosse udibile nel fragore del combattimento. Incominciò a contrarre l’indice sul grilletto.

«Non sento niente», disse.

«No… no… eccolo di nuovo.»

Pitt esitò mentre gli occhi di Eva si animavano. Ma era deciso a fare ciò che doveva. Si chinò per baciarle le labbra e distrarla mentre ricominciava a premere il grilletto.

Eva cercò di spostare la testa. «È impossibile che tu non lo senta.»

«Addio, amore.»

«Il fischio di una locomotiva», disse lei, vivacemente. «È Al. È tornato.»

Pitt allentò la pressione e inclinò la testa verso la scala. E lo sentì, fra gli spari. Non era il fischio d’una locomotiva ma la sirena di un locomotore diesel.


Accanto al macchinista, Giordino tirava come un pazzo la catenella della sirena mentre il treno rombava sui binari. Guardava il forte e stentava a riconoscere la costruzione semidistrutta che ingrandiva a vista d’occhio. La devastazione, il fumo nero che saliva al cielo lo sconvolgevano. A quanto pareva, i soccorsi erano arrivati troppo tardi.

Hargrove assisteva affascinato alla scena. Non riusciva a credere che qualcuno potesse sopravvivere in mezzo a quella distruzione. Quasi tutti i parapetti erano crollati, i bastioni erano un ammasso di macerie. Il lato dove un tempo stava il portone principale non era altro che un monticello di pietre frantumate. Era sbalordito nel vedere i numerosissimi cadaveri sparsi intorno al forte e i quattro carri armati bruciati.

«Dio, come si sono battuti», mormorò.

Giordino premette la canna della pistola alla tempia del macchinista. «Frena! Subito!»

Il macchinista era un francese che aveva lasciato il TGV, il treno ad alta velocità in servizio fra Parigi e Lione, per accettare uno stipendio doppio offerto dalla Massarde Entreprises. Frenò e fece fermare il convoglio esattamente tra il forte e il quartier generale da campo di Kazim.

Con precisione cronometrica i guerrieri di Hargrove balzarono dal treno in entrambe le direzioni ed entrarono subito in azione. Un’unità attaccò immediatamente il quartier generale maliano e colse alla sprovvista Kazim e il suo stato maggiore. Gli altri assaltarono da tergo le forze maliane. Gli elicotteri Apache, che erano fissati ai pianali dei carri merci, furono prontamente liberati dai teloni e dopo due minuti si levarono in volo e si piazzarono in posizione per lanciare i missili.

Nella confusione improvvisa, Kazim era paralizzato dalla scoperta che le Forze Speciali americane erano riuscite a passare il confine nonostante il suo schermo aereo. Era assalito dalla nausea dello shock e non tentava neppure di dirigere una difesa o di mettersi in salvo.

I colonnelli Mansa e Cheik lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono fuori della tenda, verso una macchina dello stato maggiore, mentre il capitano Batutta si metteva al volante. Ismail Yerli, animato come loro dallo spirito di conservazione, sedette a fianco di Batutta.

«Andiamo via!» urlò Mansa al capitano mentre insieme con Cheik prendeva posto sul sedile posteriore accanto a Kazim. «In nome di Allah, muoviamoci prima che ci ammazzino tutti.»

Batutta non aveva voglia di morire più di quanta ne avessero i suoi superiori. Gli ufficiali erano decisi ad abbandonare i loro uomini e non si facevano scrupolo di fuggire dal campo di battaglia per salvarsi la pelle. Atterrito al punto di non riuscire a pensare secondo logica, Batutta diede gas al motore e inserì la marcia. Anche se era un veicolo a quattro ruote motrici, le gomme affondarono nella sabbia soffice e scavarono due trincee parallele senza ottenere un minimo di trazione. Dominato dal panico, Batutta continuò a tenere il piede sull’acceleratore. Il motore urlò, protestando contro il numero eccessivo di giri mentre, stupidamente, il capitano peggiorava la situazione sprofondando le ruote nel terreno fino al mozzo.

Kazim mosse le labbra senza che ne uscisse alcun suono; poi tornò di colpo alla realtà e il terrore gli sfigurò la faccia. «Salvatemi!» gridò. «Vi ordino di salvarmi!»

«Idiota!» urlò Mansa a Batutta. «Molli l’acceleratore o non ce la faremo.»

«Ci sto provando!» replicò Batutta mentre il sudore gli grondava dalla fronte.

Yerli era l’unico che conservava la calma. Guardava in silenzio dal finestrino la morte che si avvicinava sotto forma di un uomo imponente e deciso che indossava l’uniforme americana.

Il sergente maggiore Jason Rasmussen di Paradise Valley, in Arizona, aveva condotto la sua squadra direttamente alle tende del quartier generale di Kazim. Il loro compito consisteva nel catturare i militari del settore comunicazioni e impedire che lanciassero l’allarme e provocassero un attacco da parte dell’Aeronautica. Dovevano muoversi con la stessa rapidità con cui un vampiro piscia sangue, aveva raccomandato in modo pittoresco il colonnello Hargrove quando aveva impartito le istruzioni, o sarebbe stata la fine per tutti se i caccia a reazione maliani li avessero sorpresi prima che i loro elicotteri potessero riattraversare il confine con la Mauritania.

Dopo che i suoi avevano stroncato una fiacca resistenza da parte dei soldati maliani sbigottiti e avevano interrotto tutte le comunicazioni, Rasmussen aveva notato con la coda dell’occhio la macchina dello stato maggiore ed era accorso. Da lontano aveva scorto tre uomini sul sedile posteriore e due su quello anteriore. Il suo primo pensiero, quando vide che la macchina era bloccata nella sabbia, fu di prenderli prigionieri. Ma poi il veicolo schizzò avanti e si mosse sul terreno solido. L’autista accelerò con prudenza e cominciò ad allontanarsi.

Rasmussen aprì il fuoco con il mitra e crivellò le portiere e i finestrini. I frammenti di vetro volarono scintillando nel sole. Quando ebbe vuotato due caricatori, scorse la macchina rallentare e fermarsi. Si avvicinò cautamente e vide che il guidatore era accasciato esanime sul volante. Il corpo di un alto ufficiale maliano spenzolava dal finestrino, un altro era stramazzato riverso a terra dalla portiera spalancata e fissava il cielo con occhi vitrei. Un terzo era seduto al centro del sedile posteriore con gli occhi aperti come se scrutasse in stato d’ipnosi un oggetto lontano. L’uomo sul sedile anteriore, accanto all’autista, aveva un’espressione stranamente serena.

A Rasmussen, l’ufficiale seduto al centro sembrava un feldmaresciallo da cartone animato. La giacca dell’uniforme era coperta di galloni dorati, fusciacche, nastrini e medaglie. Il sergente maggiore non riusciva a credere che fosse il capo supremo delle forze maliane. Si sporse all’interno della macchina e lo spinse con il calcio dell’arma. Il cadavere si rovesciò sul fianco rivelando due fori di proiettile attraverso la spina dorsale, alla base del collo.

Il sergente maggiore Rasmussen accertò che anche gli altri fossero già morti. Tutti avevano subito ferite letali. Non immaginava di aver compiuto la sua missione in modo superiore a ogni aspettativa. Senza gli ordini diretti di Kazim e dei suoi più stretti collaboratori, nessun ufficiale subordinato sarebbe stato disposto ad assumere l’iniziativa e a sferrare un attacco aereo. Da solo, il sergente dell’Arizona aveva cambiato la faccia di una nazione dell’Africa occidentale. In seguito alla morte di Kazim un nuovo partito politico, propugnatore delle riforme democratiche, avrebbe travolto i vecchi dirigenti del Mali e fondato un nuovo governo, un governo contrario agli intrallazzi degli avvoltoi come Yves Massarde.

Inconsapevole di aver cambiato la storia, Rasmussen ricaricò il mitra, non pensò più alla carneficina e tornò correndo dai suoi per aiutarli a completare il loro lavoro.

Sarebbero trascorsi quasi dieci giorni prima che il generale Kazim venisse sepolto nel deserto accanto al luogo della sua sconfitta, ìn una tomba senza nome.

57.

Pitt salì correndo la scala dell’arsenale e raggiunse i superstiti della squadra tattica che continuavano a resistere intorno all’entrata del sotterraneo. Avevano innalzato in fretta una barricata e falciavano la piazza d’armi con un fuoco incessante. Nel mare di devastazione e di morte continuavano a combattere con una tenacia folle per impedire che i nemici penetrassero nell’arsenale e massacrassero i civili e i feriti prima che Giordino e gli uomini delle Forze Speciali potessero intervenire.

Sbalorditi da quella difesa irriducibile, gli assalitori maliani si bloccarono quando Pitt, Pembroke-Smythe, Hopper, Fairweather e dodici membri della squadra dell’ONU, anziché arretrare, si avventarono su di loro. Sedici uomini che ne caricavano poco meno di mille, urlando come demoni e sparando a tutto ciò che si trovavano davanti.

La muraglia dei maliani si aprì come il mar Rosso davanti a Mosè, e indietreggiò dinanzi all’attacco spietato. Gli attaccanti si dispersero in ogni direzione. Ma non tutti erano sopraffatti dalla paralisi: alcuni dei più coraggiosi si inginocchiarono e spararono. Quattro uomini dell’ONU caddero, ma lo slancio portò avanti gli altri che s’impegnarono in un combattimento a corpo a corpo.

L’eco degli spari dell’arma automatica di Pitt gli rintronò assordante nelle orecchie mentre cinque maliani si dileguavano davanti a lui. Era impossibile ritirarsi o mettersi al coperto finché le forze di sicurezza maliane restavano al loro posto.

Di fronte a una muraglia di uomini, Pitt scaricò la pistola, poi la scagliò un attimo prima di cadere al suolo, colpito a una coscia.

Nello stesso istante i ranger del colonnello Gus Hargrove si riversarono nel forte e cominciarono a sparare rabbiosamente, cogliendo di sorpresa le forze ignare del defunto Zateb Kazim. La resistenza di fronte a Pitt e agli altri parve dissolversi mentre i maliani si accorgevano d’essere attaccati alle spalle. Il coraggio e la razionalità li abbandonarono. Su un campo di battaglia pianeggiante si sarebbe verificata una rotta totale; ma nel forte non c’erano posti dove rifugiarsi. Come se obbedissero a un ordine, gli uomini incominciarono a gettare le armi e a intrecciare le mani dietro la testa.

La sparatoria intensa divenne sporadica, poi cessò completamente. Uno strano silenzio scese sul forte mentre gli uomini di Hargrove incominciavano a circondare i maliani e a disarmarli. La fine improvvisa della battaglia segnò un momento strano, inquietante.

«Mio Dio!» esclamò un ranger americano nel vedere la carneficina. Dal momento in cui erano balzati dal treno e avevano attraversato correndo la fascia di deserto che separava il forte dal binario, erano passati in mezzo a un tappeto di morti e feriti, così numerosi che a volte non erano riusciti ad aggirarli. Adesso, all’interno del forte demolito, i cadaveri erano ammucchiati a strati di tre o quattro, in certi punti. Nessuno di loro aveva mai visto tanti morti in un unico luogo.

Pitt si rialzò a fatica e si mosse zoppicando; si strappò una manica e l’avvolse intorno alla ferita alla coscia per fermare il sangue. Poi guardò Pembroke-Smythe che stava immobile, cinereo in viso per la sofferenza che gli causavano le numerose ferite.

«È conciato addirittura peggio dell’ultima volta che l’ho vista», disse Pitt.

Il capitano lo squadrò e si scrollò la polvere dalle spalline. «Malmesso com’è, non lascerebbero entrare al Savoy Hotel neppure lei.»

Come se risorgesse dalla tomba, il colonnello Levant si alzò in mezzo alla devastazione incredibile e si avvicinò a Pitt e Pembroke-Smythe zoppicando e usando come gruccia un lanciagranate. Aveva perduto l’elmetto e il braccio sinistro gli pendeva inerte lungo il fianco. Sanguinava da una lacerazione al cuoia capelluto e da una caviglia.

Gli altri due non avevano immaginato di rivederlo vivo. Gli strinsero solennemente la mano.

«Felice di vederla, colonnello», disse Pembroke-Smythe in tono allegro. «Credevo che fosse rimasto sepolto sotto il muro.»

«Ci sono rimasto per un po’, infatti.» Levant fece un cenno a Pitt e sorrise: «Vedo che è ancora con noi, signor Pitt».

«Come la proverbiale erba grama.»

Levant si oscurò quando vide i pochi uomini della squadra che si stavano avvicinando. «Ci hanno decimati.»

«Anche noi abbiamo decimato i maliani», borbottò Pitt.

Levant vide Hargrove e i suoi aiutanti sopraggiungere in quel momento, accompagnati da Giordino e Steinholm. S’irrigidì e si rivolse a Pembroke-Smythe. «Faccia mettere gli uomini in formazione, capitano.»

Per Pembroke-Smythe fu difficile mantenere un tono di voce fermo mentre radunava ciò che restava della squadra tattica dell’ONU. «Bene, ragazzi…» Esitò nel vedere una donna con i gradi di caporale che aiutava un sergente a reggersi in piedi. «… E signore. Mettetevi in riga.»

Hargrove si accostò a Levant e scambiò un saluto con lui. Era sbalordito nel vedere il numero modestissimo di coloro che avevano combattuto validamente contro tanti maliani. Nessuno era illeso, ma tutti avevano un atteggiamento fiero. Sembravano statue, così coperti di polvere. Gli occhi erano rossi e infossati, le facce scavate. Gli uomini avevano la barba lunga. Le tenute da combattimento erano lacere e sporche. Alcuni portavano fasciature rudimentali intrise di sangue. Ma non erano stati sconfitti.

«Colonnello Gus Hargrove», disse presentandosi. «Ranger dell’Esercito degli Stati Uniti.»

«Colonnello Marcel Levant, Squadra Anticrisi dell’ONU.»

«Mi rincresce sinceramente», disse Hargrove, «che non siamo arrivati prima.»

Levant scrollò le spalle. «È un miracolo che siate venuti.»

«Una resistenza magnifica, colonnello.» Hargrove si guardò intorno, guardò i combattenti esausti schierati dietro Levant e un’espressione incredula gli spuntò sul viso. «Siete tutti qui?»

«Sì, è quel che resta della mia squadra.»

«Quanti erano al suo comando?»

«All’inizio una quarantina.»

Hargrove ripeté il saluto, come se fosse in trance. «Mi complimento per la gloriosa difesa. Non avevo mai visto niente di simile.»

«Abbiamo diversi feriti nell’arsenale sotterraneo del forte», gli spiegò Levant.

«Ho saputo che avevate con voi anche donne e bambini.»

«Sono nell’arsenale con i feriti.»

Hargrove si voltò e gridò ai suoi ufficiali: «Fate venire gli infermieri a occuparsi di questa gente. Portate fuori i feriti e caricateli sugli elicotteri da trasporto, e subito! L’aviazione maliana potrebbe arrivare da un momento all’altro.»

Giordino si avvicinò a Pitt e lo abbracciò. «Questa volta, vecchio mio, temevo che non ce l’avresti fatta.»

Pitt si sforzò di sorridere nonostante lo sfinimento e il dolore causato dalla ferita alla coscia. «Io e il diavolo non ci siamo messi d’accordo sulle condizioni.»

«Mi dispiace di non aver potuto concludere due ore prima», mormorò Giordino.

«Nessuno si aspettava che arrivaste con il treno.»

«Hargrove non poteva rischiare di volare con i suoi elicotteri in pieno giorno attraverso lo schermo difensivo dei caccia di Kazim.»

Pitt alzò gli occhi mentre un Apache volava in cerchio sul forte, e con i suoi apparecchi elettronici sofisticati sondava l’orizzonte in cerca d’intrusi. «Siete riusciti a passare senza che vi scoprissero», disse. «È questo che conta.»

Giordino lo guardò, incerto. «Eva?»

«È viva ma gravemente ferita. Grazie a te e alla tua sirena, è scampata alla morte con un margine di due secondi.»

«Gli uomini di Kazim stavano per ucciderla?» chiese incuriosito Giordino.

«No, stavo per farlo io.» Prima che l’amico potesse rispondere, Pitt indicò l’entrata dell’arsenale. «Vieni. Sarà felice di rivedere la tua brutta faccia.»

Giordino si oscurò nel vedere i feriti bendati e insanguinati che giacevano sul pavimento dell’arsenale. Era sorpreso dai danni causati dalle pietre cadute dal soffitto. Ma ciò che lo sbalordiva di più era il silenzio incredibile. Nessuno dei feriti si lasciava sfuggire un suono, un gemito. Nessuno parlava. I bambini si limitavano a fissarlo, ammutoliti dopo ore e ore di paura.

Poi, come a un segnale, tutti incominciarono ad applaudire e ad acclamare debolmente quando riconobbero Giordino che aveva portato i rinforzi e li aveva salvati. Pitt assisteva divertito. Non aveva mai visto Giordino mostrarsi tanto modesto e imbarazzato mentre gli uomini gli stringevano la mano e le donne lo baciavano come un innamorato ritrovato dopo molto tempo.

Poi Giordino scorse Eva che aveva sollevato la testa e gli sorrideva. «Al… Oh, Al, sapevo che saresti tornato.»

Giordino si accovacciò accanto a lei e le accarezzò goffamente una mano. «Non sai quanto sono felice di vedere ancora vivi te e Dirk.»

«È stata una vera baldoria», disse Eva spavaldamente. «È un peccato che non ci fossi anche tu.»

«Mi avevano mandato a prendere il ghiaccio.»

Poi Eva girò lo sguardo sui feriti che le stavano intorno. «Si può fare qualcosa per loro?»

«Stanno arrivando gli infermieri delle Forze Speciali», spiegò Pitt. «Evacueranno tutti il più presto possibile.»

Dopo pochi istanti arrivarono i ranger che incominciarono a portar via i bambini e ad aiutare le madri a raggiungere un elicottero da trasporto che s’era posato nella piazza d’armi. Gli infermieri, assistiti anche dai due colleghi dell’ONU ormai esausti, diressero l’evacuazione dei feriti.

Giordino si procurò una barella e, con l’aiuto di Pitt, portò Eva fuori, nella luce del pomeriggio.

«Non avrei mai pensato di trovare così piacevole il sole del deserto», mormorò lei.

Due ranger si sporsero dal portellone dell’elicottero. «Ora ce ne occupiamo noi», disse uno di loro.

«Mettetela in prima classe», raccomandò Pitt con un sorriso. «È una signora molto speciale.»

«Eva!» tuonò una voce all’interno dell’elicottero. Il dottor Hopper era seduto su una barella, con una benda attraverso il petto nudo e un’altra su metà faccia. «Speriamo che questo volo abbia una destinazione più piacevole del precedente.»

«Congratulazioni, Doc», disse Pitt. «Sono contento di vedere che ce l’ha fatta.»

«Ho steso quattro di quei bastardi prima che uno mi mettesse fuori uso con una bomba a mano.»

«E Fairweather?» chiese Pitt guardandosi intorno.

Hopper scosse mestamente la testa. «Non ce l’ha fatta.»

Pitt e Giordino aiutarono i ranger a legare la barella di Eva accanto a quella di Hopper. Poi Pitt le sistemò i capelli con una carezza. «Sei in buona compagnia, con il dottore.»

Eva lo guardò. Desiderava con tutto il cuore che potesse prenderla fra le braccia. «Non vieni con noi?»

«Stavolta no.»

«Ma hai bisogno di cure», protestò lei.

«Ho una faccenda da concludere.»

«Non puoi restare nel Mali», insistette Eva. «Non devi, dopo quel che è successo.»

«Al e io siamo venuti in Africa occidentale per fare un lavoro e non l’abbiamo ancora concluso.»

«Allora fra noi è tutto finito?» chiese Eva con voce soffocata.

«No, naturalmente.»

«Quando ti rivedrò?»

«Fra non molto, se tutto andrà bene.»

Eva alzò la testa. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Lo baciò lievemente sulla bocca. «Fai presto, ti prego.»

Pitt e Giordino si scostarono mentre il pilota dell’elicottero aumentava i giri e si staccava dal suolo, sollevando all’interno del forte un uragano di polvere. Rimasero a guardare l’apparecchio che superava i muri devastati e si dirigeva verso ovest.

Poi Giordino si girò e indicò le ferite di Pitt. «Sarà meglio che ti faccia rattoppare, se hai intenzione di fare quello che immagino.»


Pitt volle attendere fino a quando tutti i feriti più gravi furono medicati prima di permettere che un infermiere gli estraesse lo shrapnel dal braccio sinistro e dalla spalla, suturasse le ferite, inclusa quella da proiettile alla coscia, e gli facesse due iniezioni, una contro l’infezione e l’altra contro il dolore, prima di fasciarlo. Quindi lui e Giordino si accomiatarono da Levant e Pembroke-Smythe prima che i due ufficiali venissero evacuati con gli altri superstiti della squadra dell’ONU.

«Non venite con noi?» chiese Levant.

«Non possiamo lasciare impunito il principale responsabile di questo massacro dissennato», rispose enigmaticamente Pitt.

«Yves Massarde?»

Pitt annuì in silenzio.

«Buona fortuna.» Il colonnello strinse la mano a entrambi. «Signori, non so cosa dire, se non un grazie per la vostra collaborazione.»

«È stato un piacere, colonnello», rispose Giordino con un sorriso spavaldo. «Ci chiami pure quando vuole.»

«Spero che le diano una medaglia e la promuovano generale», disse Pitt. «Nessuno lo merita più di lei.»

Levant si guardava intorno come se cercasse qualcosa. Forse pensava ai suoi subordinati ancora sepolti sotto le macerie. «Spero che i sacrifici sopportati da entrambe le parti giustifichino il terribile prezzo in vite umane.»

Pitt alzò le spalle. «La morte si paga soltanto con il dolore e si misura soltanto con la profondità della tomba.»

Pembroke-Smythe, con un’espressione sdegnosa sul volto, fu l’ultimo a salire a bordo. «È stato un gran bel divertimento», disse. «Una volta o l’altra dovremo ritrovarci e ricominciare.»

«Potremmo fare una rimpatriata», borbottò Giordino in tono sarcastico.

«Se mai c’incontreremo a Londra», disse imperturbabile Pembroke-Smythe, «sarò io a offrire il Dom Pérignon. Anzi, vi farò conoscere certe ragazze meravigliose che per qualche ragione inspiegabile hanno simpatia per gli americani.»

«E ci farà fare un giro con la sua Bentley?» chiese Pitt.

«Come fa a sapere che ho una Bentley?» ribatté Pembroke-Smythe, piuttosto sorpreso.

Pitt sorrise. «Mi sembra il tipo.»

Si allontanarono senza voltarsi indietro mentre l’elicottero con i superstiti della squadra dell’ONU s’involava sul deserto in direzione della Mauritania. Un giovane tenente negro andò loro incontro e accennò di fermarsi.

«Mi scusino. Il signor Pitt e il signor Giordino?»

Pitt annuì. «Siamo noi.»

«Il colonnello Hargrove vuole che vadano al quartier generale maliano al di là della ferrovia.»

Giordino sapeva che non era il caso di offrire un aiuto all’amico che camminava zoppicando e stringeva i denti per il dolore alla coscia. Gli occhi verdi brillavano decisi nel viso scavato e coperto parzialmente da una benda.

Le tende che formavano il quartier generale da campo di Kazim erano mimetiche, ma somigliavano piuttosto a una scena di Kismet. Il colonnello Hargrove era in quella principale e stava curvo su un tavolo a studiare i codici per le comunicazioni militari dei maliani. Stringeva fra le labbra un mozzicone di sigaro.

Chiese senza preamboli: «Uno di voi sa che aspetto ha Zateb Kazim?»

«L’abbiamo conosciuto», rispose Pitt.

«Potreste identificarlo?»

«È probabile.»

Hargrove si raddrizzò e uscì dalla tenda. «Da questa parte.»

Li precedette su un breve tratto di terreno pianeggiante fino a una macchina crivellata di proiettili. Si tolse il sigaro dalle labbra e sputò sulla sabbia. «Riconoscete qualcuno di questi buffoni?»

Pitt si sporse all’interno della macchina. C’erano già orde di mosche che coprivano i cadaveri incrostati di sangue. Poi lanciò un’occhiata a Giordino che osservava dalla parte opposta, e Giordino annuì.

Pitt si rivolse a Hargrove. «Quello in mezzo è il defunto generale Zateb Kazim.»

«Siete sicuri?» chiese Hargrove.

«Sicurissimi», rispose Pitt in tono fermo.

«E gli altri devono far parte del suo stato maggiore», aggiunse Giordino.

«Congratulazioni, colonnello. Ora non deve far altro che informare il governo maliano di aver arrestato il generale e di tenerlo in ostaggio per garantire il felice ritorno in Mauritania del suo contingente.»

Hargrove lo fissò. «Ma è morto.»

«E chi può saperlo? Certo non i suoi subordinati delle forze di sicurezza.»

Hargrove lasciò cadere il sigaro sulla sabbia e lo calpestò. Girò lo sguardo sulle centinaia di superstiti delle forze di Kazim, radunati in un grande cerchio e sorvegliati dai ranger. «Dovrebbe funzionare. Ordinerò di stabilire un contatto mentre portiamo a termine l’evacuazione.»

«Dato che non c’è più tanta fretta di andarcene da qui, c’è un’altra cosa.»

«Quale?» chiese Hargrove.

«Un favore.»

«Cosa posso fare per lei?»

Pitt sorrise. «Vorrei uno dei suoi elicotteri Apache, colonnello, e alcuni dei suoi uomini migliori. Vorrei averli in prestito per un paio d’ore.»

58.

Dopo aver comunicato con vari pezzi grossi del Mali e aver raccontato che teneva Kazim in ostaggio, Hargrove era convinto che non ci sarebbero state azioni militari contro i suoi nel corso dell’evacuazione. Non era più preoccupato, ora che la fase finale della missione di soccorso era libera da pressioni. Anzi, si era divertito molto quando il presidente-fantoccio del Mali lo aveva supplicato di giustiziare il generale Kazim.

Ma Hargrove non intendeva prestare il suo personale Sikorsky H-76 Eagle personale, l’equipaggio e sei dei suoi ranger a un paio di burocrati… soprattutto in zona di combattimento. L’unica concessione fu inoltrare la richiesta di Pitt al Comando delle Operazioni Speciali in Florida servendosi del sistema comunicazioni di Kazim, nella certezza che i suoi superiori si sarebbero fatti quattro risate.

E rimase sbalordito quando la risposta arrivò quasi immediatamente. Non soltanto la richiesta era stata accolta, ma era stata approvata con un ordine presidenziale.

Hargrove disse a Pitt in tono acido: «Deve avere amici molto altolocati».

«Non sono venuto a fare una gita», rispose Pitt senza neppure tentare di nascondere la soddisfazione. «Lei non è stato informato, ma la posta in gioco era molto più importante di un’operazione clandestina di salvataggio.»

«Meglio così», sospirò Hargrove. «Per quanto tempo avrà bisogno dei miei uomini e dell’elicottero?»

«Per due ore.»

«E poi?»

«Se tutto andrà secondo il mio piano, glieli restituirò in condizioni perfette.»

«E lei e Giordino?»

«Rimarremo qui.»

«Non sto neppure a chiedere il perché», disse Hargrove scuotendo la testa. «Per me, l’intera operazione è un mistero.»

«Ha mai sentito parlare di un’operazione militare che non lo fosse?» chiese Pitt con la massima serietà. «Ciò che ha fatto qui oggi avrà conseguenze che neppure immagina.»

Hargrove inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. «Crede che riuscirò mai a sapere di cosa sta parlando?»

«Secondo il metodo tradizionale in uso per scoprire i segreti del governo», rispose maliziosamente Pitt, «lo leggerà sul giornale di domani.»


Dopo una deviazione di venti chilometri fino a un villaggio abbandonato dove prelevarono campioni d’acqua inquinata da un pozzo sulla piazza del mercato, Pitt chiese al pilota dell’Eagle di volare intorno al complesso di Fort Foureau per lo smaltimento dei rifiuti tossici.

«Lasci che le guardie vedano bene il nostro armamento», disse Pitt. «Ma attento: potrebbero sparare da terra.»

«L’elicottero di Massarde è fermo, ma le pale del rotore girano», osservò Giordino. «Credo che si stia preparando a una partenza precipitosa.»

«Ora che Kazim è morto, non può aver avuto notizia della conclusione della battaglia», disse Pitt. «Ma è abbastanza furbo per capire che è andata male.»

«Peccato, dovremmo annullare il suo volo», disse Giordino con un sogghigno diabolico.

«Nessuno sta sparando da terra, signore», comunicò il pilota a Pitt.

«Benissimo, ci lasci all’eliporto.»

«Non vuole che veniamo con voi?» domandò un robusto sergente.

«Ora che le guardie sono adeguatamente impressionate, Al e io possiamo procedere da soli. Restate a ronzare qui intorno per circa mezz’ora, per intimidire chiunque sia così stupido da pensare di resistere. E fermate quell’elicottero se tentasse di decollare. Poi, al mio segnale, tornate dal colonnello Hargrove.»

«C’è un comitato di benvenuto», disse il pilota indicando l’eliporto.

«Santo cielo», disse Giordino socchiudendo gli occhi nella luce intensa del sole, «mi sembra che quello sia il nostro vecchio amico, il capitano Brunone.».

«Con una squadra dei suoi gorilla», soggiunse Pitt. Batté la mano sulla spalla del pilota. «Li tenga sotto mira fino a che le segnaleremo che può smettere.»

Il pilota si fermò a mezzo metro da terra, mentre i lanciarazzi e la Chain continuavano a puntare sulle guardie in attesa. Giordino balzò agilmente sulla piattaforma di cemento e aiutò Pitt a scendere. Si avviarono verso Brunone che s’irrigidì quando li riconobbe e li fissò sorpreso.

«Non mi aspettavo di rivedervi», disse il capitano.

«Ci scommetto», mormorò velenosamente Giordino.

Pitt fissò Brunone e notò nei suoi occhi un’espressione che era sfuggita a Giordino e che rivelava sollievo, non paura. «Sembra quasi contento di vederci.»

«Lo sono. Mi avevano detto che nessuno era mai riuscito a fuggire da Tebezza.»

«Era stato lei a mandare là gli ingegneri, le mogli e i figli?»

Brunone scosse la testa. «No. Era successo una settimana prima del mio arrivo.»

«Ma sapeva che erano prigionieri?»

«Avevo sentito certe voci. Ho tentato di indagare ma il signor Massarde ha eretto un muro di segretezza. Tutti coloro che avevano partecipato a quel crimine sono spariti dal complesso.»

«Probabilmente gli ha tagliato la gola per farli tacere», disse Giordino.

«Non ha molta simpatia per Massarde, vero?» chiese Pitt.

«È un porco e un ladro», sibilò Brunone. «Potrei dirvi certe cose…»

«Le conosciamo già», l’interruppe Pitt. «Perché non ha mollato tutto e non è tornato a casa?»

Brunone lo fissò. «Quelli che danno le dimissioni dalla Massarde Entreprises finiscono sotto terra entro una settimana. Io ho moglie e cinque figli.»

Pitt intuì di potersi fidare di Brunone. La collaborazione del capitano poteva essere utile. «Da questo momento non è più alle dipendenze di Yves Massarde. Lavora per le Industrie Pitt e Giordino.»

Brunone rifletté per qualche istante sulla proposta, che sembrava soprattutto la proclamazione di una realtà, sbirciò l’elicottero che era armato a sufficienza per radere al suolo metà dell’impianto e studiò l’espressione decisa e sicura di Pitt e Giordino. Poi alzò le spalle. «Consideratemi assunto.»

«E le sue guardie?»

Per la prima volta Brunone sorrise. «I miei uomini mi sono fedeli. Detestano Massarde quanto lo detesto io. Non protesteranno per il cambiamento.»

«Rafforzi la loro lealtà comunicandogli che da questo momento la loro paga è raddoppiata.»

«E io?»

«Se giocherà bene le sue carte», disse Pitt, «diventerà il prossimo direttore del complesso.»

«Ah, un incentivo di prima classe. Avrà la mia completa collaborazione. Cosa devo fare?»

Pitt accennò con la testa gli uffici amministrativi dell’impianto. «Può incominciare scortandoci da Massarde, così potremo licenziarlo.»

Brunone esitò. «Ha dimenticato il generale Kazim? Lui e Massarde sono soci. Non rimarrà inerte mentre la sua parte del complesso passa in mano ad altri.»

«Il generale Zateb Kazim non è più un problema», gli assicurò Pitt.

«Com’è possibile? Qual è la sua posizione attuale?»

«La sua posizione?» ribatté ironicamente Giordino. «L’ultima volta che qualcuno l’ha visto, era coperto di mosche.»


Massarde era seduto alla scrivania e gli attenti occhi azzurri esprimevano una moderata irritazione, come se la comparsa inattesa di Pitt e Giordino non fosse altro che un inconveniente passeggero. Verenne era in piedi dietro di lui, simile a un discepolo devoto, e faceva smorfie di disgusto.

«Come le Furie vendicatrici della mitologia greca, non smette mai di perseguitarmi», disse filosoficamente Massarde. «Ha persino l’aria di essere uscito dagli inferi.»

Sulla parete dietro la scrivania c’era un grande specchio con una cornice barocca tutta dorata e ornata di cherubini paffuti. Pitt si guardò e si rese conto che Massarde non sbagliava. Aveva un aspetto ben diverso da Giordino, che era abbastanza pulito e non aveva segni di ferite. Con la tuta lacera e sporca di fumo e polvere, gli strappi insanguinati che rivelavano le fasciature al braccio sinistro, alla spalla e alla coscia destra, un taglio che andava dallo zigomo al mento, la faccia scavata e rigata di sudore… Se avessi trovato una strada dove stendermi, pensò Pitt, potrei essere scambiato per la vittima d’un incidente.

«I fantasmi degli uccisi che tornano a tormentare i malvagi, ecco che cosa siamo», ribatté Pitt. «E siamo venuti a punirla del male che ha fatto.»

«Mi risparmi le sue spiritosaggini», tagliò corto Massarde. «Che cosa vuole?»

«Tanto per cominciare, l’impianto di Fort Foureau per lo smaltimento dei rifiuti tossici.»

«Vuole l’impianto.» Massarde lo disse come se fosse una cosa normale. «Devo desumere dalla sua sfacciataggine che il generale Kazim non è riuscito a riprendere gli evasi di Tebezza.»

«Se allude alle famiglie che aveva ridotto in schiavitù, sì. In questo momento sono in viaggio verso la salvezza, grazie al sacrificio della squadra tattica dell’ONU e all’intervento tempestivo di un contingente delle Forze Speciali americane. Appena arriveranno in Francia denunceranno le sue attività criminose. Gli omicidi, le atrocità nelle miniere d’oro, la discarica illegale dei rifiuti tossici che ha causato migliaia di morti fra gli abitanti del deserto: quanto basta per fare di lei il criminale numero uno del mondo.»

«I miei amici francesi mi proteggeranno», disse con fermezza Massarde.

«Non conti sui suoi contatti altolocati nel governo francese. Quando lo scandalo investirà i politici amici suoi, diranno di non aver mai sentito parlare di lei. Poi ci sarà uno sgradevole processo e lei finirà all’Isola del Diavolo o nel posto dove al giorno d’oggi la Francia spedisce i criminali.»

Verenne strinse convulsamente la spalliera della poltroncina di Massarde come una delle scimmie volanti della malvagia Strega dell’Ovest. «Il signor Massarde non sarà processato e non finirà in carcere. È troppo potente. Troppi leader mondiali sono in debito con lui.»

«L’immagino», ironizzò Giordino. Andò al bar e stappò una bottiglia d’acqua minerale.

«Sono intoccabile finché rimango in Mali», disse Massarde. «Posso continuare a dirigere da qui le mie aziende.»

«Temo che non sia possibile», intervenne Pitt, pronto a sferrare il colpo decisivo. «Tenuto conto, soprattutto, della fine meritata del generale Kazim.»

Massarde lo fissò e strinse le labbra. «Kazim è morto?»

«Come il suo stato maggiore e quasi metà del suo esercito.»

Massarde guardò Brunone. «E lei, capitano? È ancora dalla mia parte?»

Brunone scosse la testa. «No, signore. Alla luce degli eventi attuali, ho deciso di accettare l’offerta più allettante del signor Pitt.»

Massarde esalò un sospiro rassegnato. «Perché vuole controllare il complesso?» chiese a Pitt.

«Per farlo funzionare a dovere e tentare di rimediare al disastro ambientale che ha causato.»

«I maliani non permetteranno mai che uno straniero ne assuma il controllo.»

«Oh, credo che i dirigenti del governo si convinceranno quando sapranno che tutti i profitti dell’operazione andranno al loro Paese. Tenuto conto del fatto che il Mali è una delle nazioni più povere del mondo, come potrebbero rifiutare?»

«Consegnerebbe il complesso per lo smaltimento dei rifiuti tossici più avanzato del mondo a un branco di barbari ignoranti che lo manderebbero in rovina?» chiese stupito Massarde. «Perderà tutto.»

«Crede che mi sia avventurato nel suo acquitrino con lo scopo di fare un colpaccio finanziario? Mi dispiace, Massarde, ma al mondo c’è ancora qualcuno che non è motivato dall’avidità.»

«È un idiota, Pitt», disse Massarde, e si alzò di scatto dalla scrivania.

«Sieda! Non ha ancora sentito la parte migliore della proposta.»

«Cos’altro può pretendere, oltre al controllo di Fort Foureau?»

«Il patrimonio che ha nascosto nelle Iles de la Société.»

«Di cosa sta parlando?» chiese rabbiosamente Massarde.

«Dei milioni, anzi delle centinaia di milioni, in denaro liquido che ha accumulato negli anni con le sue attività disoneste e i suoi affari spietati. Tutti sanno che non si fida delle istituzioni finanziarie e non segue le solite pratiche d’investimento, che non ha imboscato i suoi quattrini a Grand Cayman o nelle Isole del Canale. Avrebbe potuto ritirarsi molto tempo fa e godersi la vita, investire in quadri, automobili d’epoca o ville in Italia. Meglio ancora, avrebbe potuto diventare un filantropo e rendere felici molte associazioni beneficile. Ma l’avidità genera l’avidità. Non può spendere i suoi profitti. Per quanto metta da parte, non le basta mai. È troppo corrotto per vivere come le persone normali. La ricchezza che non investe nella Massarde Entreprises per le acquisizioni la nasconde in un’isola del Pacifico meridionale. Tahiti, Moorea, oppure Bora Bora? Secondo me è una delle meno popolate. Sono arrivato vicino alla verità, Massarde?»

Massarde non rispose.

«Ecco la proposta», continuò Pitt. «Se cederà il controllo del complesso e rivelerà dove ha nascosto i suoi guadagni disonesti, le permetterò di salire sul suo elicottero assieme a Verenne, e di andare liberamente dove vorrà.»

«È un idiota», scattò Verenne con voce rauca. «Lei non ha l’autorità né il potere per ricattare il signor Massarde.»

Ignorato da tutti, Giordino era rimasto dietro il banco del bar e parlava a voce bassa in una piccola trasmittente. Fu una scelta di tempo perfetta. Dopo pochi attimi di silenzio l’elicottero Eagle apparve davanti alla finestra e rimase minacciosamente librato nell’aria, con le armi puntate come se fosse sul punto di distruggere l’ufficio di Massarde.

Pitt lo indicò con la testa. «Non ho l’autorità, ma ho il potere.»

Massarde sorrise. Non era il tipo che si lasciava mettere con le spalle al muro senza combattere. Non mostrava la minima paura. Si tese al di sopra della scrivania e disse con calma: «Prenda pure il complesso, se vuole. Senza l’appoggio di un despota come Kazim, il governo lo lascerà andare in malora. Diventerà un relitto abbandonato come tutte le creazioni della tecnologia occidentale sorte in questo deserto dimenticato da Dio. Ho altri progetti, altre iniziative per sostituirlo.»

«Ci siamo quasi», disse freddamente Giordino.

«In quanto alla mia ricchezza non sprechi il fiato. Quel che è mio è mio. Ha ragione: è su un’isola del Pacifico. Lei e un milione di altri potreste cercare per mille anni e non riuscireste a trovarla.»

Pitt si rivolse a Brunone. «Capitano, restano ancora diverse ore calde del pomeriggio. Imbavagli il signor Massarde e lo spogli. Poi lo leghi a quattro paletti, là fuori a terra, e lo lasci al sole.»

Questa volta Massarde era profondamente scosso. Non riusciva a capire come fosse possibile che lo trattassero con la stessa brutalità con cui aveva sempre trattato gli altri. «Non può far questo a Yves Massarde», disse rabbiosamente. «Per Dio, non può…»

Pitt lo fece tacere con un violento manrovescio. «Quel che è fatto è reso, amico. Dovrebbe essere contento perché io non porto anelli.»

Massarde non disse nulla. Per qualche istante rimase immobile,.con la faccia atteggiata a una maschera d’odio e pallida per la paura. Guardò Pitt e comprese che non aveva speranza: nell’americano c’erano una freddezza impassibile, una totale mancanza di compassione che smentiva ogni possibilità di scamparla. Si spogliò lentamente e rimase nudo.

«Capitano Brunone», disse Pitt, «faccia il suo dovere.»

«Con vero piacere, signore», rispose Brunone in tono soddisfatto.

Quando Massarde fu imbavagliato e legato ai paletti sul terreno riarso davanti agli uffici dell’amministrazione sotto il sole spietato del Sahara, Pitt fece un cenno a Giordino. «Ringrazia gli uomini dell’elicottero e digli che possono tornare dal colonnello Hargrove.»

Quando ricevette il messaggio, il pilota dell’elicottero salutò con la mano e puntò verso il campo di battaglia. Pitt e Giordino erano rimasti soli, decisi a scommettere il tutto per tutto sul bluff.

Giordino guardò Massarde e poi Pitt con una strana luce negli occhi. «Perché quel bavaglio?» chiese.

Pitt sorrise. «Se stessi arrostendo là fuori al sole, quanto offriresti a Brunone e ai suoi perché ti lasciassero fuggire?»

«Un paio di milioni di dollari o anche più», rispose Giordino, pieno di ammirazione per la sottigliezza dell’amico.

«Probabilmente di più.»

«Credi davvero che si deciderà a parlare?»

Pitt scosse la testa. «No. Massarde soffrirà le torture dei dannati e andrà all’inferno piuttosto che rivelare dove ha nascosto la sua ricchezza.»

«Ma se non te lo dirà lui, chi lo farà?»

«Il suo amico e confidente», disse Pitt e indicò Verenne.

«Maledizione, non lo so!» La voce di Verenne esplose in un grido disperato.

«Oh, credo che lo sappia. Forse non conosce la località esatta, ma credo che possa portarci molto vicino.»

L’espressione impaurita di Verenne bastava a indicare che conosceva il segreto. «Se potessi, direi tutto.»

«Al, mentre io approfitto del lussuoso alloggio di Massarde per ripulirmi, perché non accompagni il nostro amico in un ufficio vuoto e non lo convinci a disegnare una mappa del tesoro personale del suo capo?»

«Buona idea», disse con noncuranza Giordino. «È quasi una settimana che non trapano un dente.»

59.

Due ore più tardi, dopo una doccia e un sonnellino, Pitt si sentiva di nuovo umano. Il dolore delle ferite era quasi sopportabile. Era seduto alla scrivania di Massarde, avvolto in una vestaglia di seta troppo piccola che aveva trovato in un guardaroba contenente abiti in quantità tale da poter rifornire un negozio di abbigliamento maschile. Stava frugando nei cassetti e studiava i documenti del francese quando Giordino entrò spingendo davanti a sé un pallidissimo Verenne.

«Avete fatto una piacevole chiacchierata?» chiese Pitt.

«È un grande conversatore, quando si trova nella compagnia più adatta», ammise Giordino.

Verenne si guardò intorno con occhi stralunati che sembravano aver perduto ogni contatto con la realtà. Scuoteva la testa lentamente come per liberarsi dalla nebbia e sembrava sull’orlo d’un esaurimento nervoso.

Pitt lo scrutò, incuriosito. «Che cosa gli hai fatto?» chiese a Giordino. «Non ha neppure un graffio.»

«Come ho detto, abbiamo fatto una piacevole chiacchierata. Io ho passato il tempo a descrivergli in tutti i particolari come lo avrei fatto a pezzi, millimetro per millimetro.»

«Tutto qui?»

«Ha molta immaginazione. Non ho dovuto neppure mettergli una mano addosso.»

«Ha indicato l’isola del tesoro di Massarde?»

«Avevi indovinato: è francese, ma si trova circa cinquemila chilometri a nord-est di Tahiti e duemila a sud-ovest del Messico. È proprio in capo al mondo.»

«Non sapevo che ci fosse un’isola francese nel Pacifico al largo del Messico.»

«Nel 1979 la Francia ha assunto l’amministrazione diretta di un atollo che si chiama Clipperton Island, in ricordo del pirata inglese John Clipperton che la usò come covo nel 1705. Secondo Verenne, misura appena cinque chilometri quadrati e il suo punto più elevato è un promontorio alto ventun metri.»

«È abitata?»

Giordino scosse la testa. «No, a meno di contare qualche maiale selvatico. Verenne dice che l’unica reliquia dell’attività umana è un faro abbandonato, risalente al diciottesimo secolo.»

«Un faro.» Pitt ripeté lentamente la parola. «Solo un pirata furbo come Massarde poteva pensare di nascondere un tesoro presso un faro su un’isola disabitata in mezzo all’oceano.»

«Verenne sostiene di non conoscere il punto esatto.»

«Ogni volta che il signor Massarde ancorava lo yacht davanti all’isola», mormorò Verenne, «andava sempre a terra da solo, con la barca, e sempre di notte perché nessuno potesse spiare i suoi movimenti.»

Pitt guardò Giordino con aria interrogativa. «Pensi che dica la verità?»

«Lo giuro! Lo giuro!» implorò Verenne.

«Potrebbe essere un ballista nato», disse Giordino.

«Ho detto la verità!» La voce di Verenne sembrava l’implorazione d’un bambino. «Oh, Dio, non voglio essere torturato. Non sopporto il dolore.»

Giordino lo fissava come una volpe. «Oppure potrebbe essere un abile attore.»

Verenne sembrava straziato. «Cosa devo fare perché mi crediate?»

«Le crederemo quando ci dirà tutto sul suo principale. Deve fornirci documenti, nomi delle vittime, date della loro morte, tutti gli affari sporchi che ha concluso; insomma, smascherare l’intera organizzazione.»

«Mi farà uccidere!» gracchiò Verenne, terrorizzato.

«Non la toccherà.»

«Oh, sì. Può farlo. Non avete idea del suo potere.»

«Anzi, ne ho un’idea molto chiara.»

«E comunque, non le farà mai male quanto gliene farò io», disse minacciosamente Giordino.

Verenne si lasciò cadere su una sedia. Sudava. Fissò Giordino con occhi sbarrati che però si accesero di un barlume di speranza quando si voltò a guardare Pitt. Quei due uomini avevano spogliato il suo capo della dignità e dell’arroganza. Se c’era una possibilità di salvarsi… ora sapeva di dover scegliere.

«Farò quello che mi chiederete», gemette.

«Voglio sentirlo di nuovo», ordinò Pitt.

«Tutti i documenti e le informazioni sulla Massarde Entreprises. Ve li consegnerò per le indagini.»

«Inclusi i documenti segreti sulle attività illegali e fraudolente.»

«Fornirò tutti i dati che non sono scritti o computerizzati.»

Vi fu un breve silenzio. Pitt guardava dalla finestra. Anche da quella distanza, vedeva che la pelle bianca di Massarde s’era colorata d’un rosso carico. Si alzò dalla scrivania e posò una mano sulla spalla di Giordino.

«Al, lo affido a te. Strappagli tutte le prove che puoi.»

Giordino passò un braccio intorno alle spalle di Verenne, e quello rabbrividì. «Faremo una lunga chiacchierata amichevole, noi due.»

«Voglio i nomi delle persone che Massarde ha perseguitato o ucciso. Li voglio per primi.»

«C’è una ragione particolare?» chiese incuriosito Giordino.

«Quando verrà il momento di fare un viaggio a Clipperton Island e se le ricerche avranno buon esito, vorrei creare un’organizzazione che userà le ricchezze accumulate da Massarde per risarcire coloro che ha fatto soffrire e i familiari di quelli che ha ucciso.»

«Il signor Massarde non lo permetterà mai», mormorò Verenne.

«A proposito della nostra carogna preferita», disse Pitt, «credo che sia rimasta in forno abbastanza a lungo.»


La parte anteriore del corpo di Massarde sembrava un crostaceo lessato in pentola. Soffriva atrocemente; la pelle era piena di vesciche e prima del mattino seguente avrebbe incominciato a staccarsi. Stava in piedi senza bisogno di aiuto fra Brunone e due guardie, immobile, con le labbra aggricciate come quelle di un cane ringhiante e la faccia rossa contratta dalla rabbia e dall’odio.

«Non potete farmi questo e continuare a vivere», sibilò. «Anche se mi ucciderete, ho predisposto i mezzi per farla pagare ai responsabili.»

«Una squadra di killer», disse Pitt in tono asciutto. «Molto previdente. Dopo essere rimasto a cuocere al sole, sarà stanco e assetato. Sieda. Al, porta al signor Massarde una bottiglia della sua acqua minerale francese.»

Massarde sedette su una poltrona di pelle morbida. Il suo volto aveva un’espressione sofferente. Quando finalmente si mise comodo, trasse un respiro profondo. «Siete pazzi se pensate di restare impuniti. Kazim ha ufficiali ambiziosi che prenderanno il suo posto, uomini feroci e astuti come lui, e che manderanno un esercito a seppellirvi nel deserto prima di domattina.»

Prese la bottiglia che Giordino gli porgeva e in pochi secondi bevve tutto il contenuto. Senza bisogno di sollecitazioni, Giordino gliene diede un’altra.

Pitt non poteva fare a meno di ammirare l’incomparabile sfrontatezza di Massarde. Si comportava come se avesse il dominio assoluto della situazione.

Massarde finì la seconda bottiglia e si guardò intorno per cercare il suo segretario personale. «Dov’è Verenne?»

«Morto», rispose laconicamente Pitt.

Per la prima volta Massarde sembrò sorpreso. «L’avete assassinato?»

Pitt alzò le spalle. «Ha tentato di accoltellare Giordino. Molto stupido, da parte sua, aggredire con un tagliacarte un uomo armato di pistola.»

«È questo che ha fatto?» chiese Massarde in tono diffidente.

«Se vuole posso mostrarle il cadavere.»

«È stato uno strano comportamento da parte di Verenne. Era un vigliacco.»

Pitt scambiò un’occhiata con Giordino. Verenne era già al lavoro sotto sorveglianza in un ufficio due piani più sotto.

«Ho una proposta da farle», disse Pitt.

«Che accordo potrebbe concludere con me?» ringhiò Massarde.

«Ho cambiato idea. Se promette di comportarsi bene per l’avvenire, le permetterò di uscire di qui, salire sul suo elicottero e lasciare il Mali.»

«Cos’è, uno scherzo?»

«No. Ho deciso che, prima me la toglierò dai piedi, meglio sarà.»

«Non parlerà sul serio», disse Brunone. «Quest’uomo è pericoloso. Si vendicherà alla prima opportunità.»

«Sì, lo Scorpione. È così che la chiamano, no, Massarde?»

Il francese non rispose. Rimase chiuso in un silenzio cupo.

«Sei sicuro di sapere quello che fai?» chiese Giordino.

«Non ammetto discussioni», disse Pitt in tono brusco. «Voglio che questo delinquente se ne vada, e subito. Capitano Brunone, lo scorti all’elicottero e si assicuri che parta.»

Massarde si alzò tremando. La pelle bruciata dal sole tirava e solo con uno sforzo atroce lui riusciva a stare diritto. Sorrise nonostante la sofferenza. La sua mente aveva ripreso a funzionare a pieno regime. «Ho bisogno di qualche ora per portar via la mia roba e i documenti personali.»

«Ha esattamente due minuti per lasciare il complesso.»

Massarde imprecò. «Non posso andare così, senza i miei vestiti. Per Dio, un po’ di decenza!»

«Cosa ne sa lei della decenza?» ribatté spassionatamente Pitt. «Capitano Brunone, porti fuori di qui questo figlio di puttana prima che lo ammazzi.»

Brunone non ebbe bisogno di dare ordini ai suoi due uomini. Fece un cenno, e quelli caricarono sull’ascensore Massarde che imprecava e inveiva. I tre rimasti nell’ufficio non si scambiarono una parola. Guardarono dalla finestra il magnate che veniva spinto di malagrazia a bordo del lussuoso elicottero. Il portello si chiuse e i rotori cominciarono a sferzare l’aria calda. Dopo meno di quattro minuti l’apparecchio era scomparso verso nord.

«È diretto a nord-est», osservò Giordino.

«Secondo me va in Libia», azzardò Brunone. «Poi si nasconderà in qualche posto prima di andare a recuperare il bottino.»

«La sua destinazione finale non ha la minima importanza», fece Pitt con uno sbadiglio.

«Avrebbe dovuto ucciderlo», disse Brunone in tono deluso.

«Non era il caso di disturbarmi. Morirà entro una settimana.»

«Come può affermarlo?» chiese Brunone. «Lo ha lasciato libero. Perché? Quell’uomo ha più vite di un gatto. Non morirà certo d’insolazione.»

«No, ma morirà.» Pitt si rivolse a Giordino. «Avevi fatto lo scambio?»

Giordino sogghignò. «È stato facilissimo.»

Brunone era completamente confuso. «Di cosa state parlando?»

«Ho fatto legare Massarde al sole», spiegò Pitt, «perché gli venisse sete.»

«Sete? Non capisco.»

«Al ha vuotato le bottiglie dell’acqua minerale e le ha riempite con quella contaminata dalle sostanze chimiche che filtrano dal deposito sotterraneo.»

«Si chiama giustizia poetica.» Giordino mostrò le bottiglie vuote. «Ha bevuto quasi tre litri di questa roba.»

«Gli organi interni si disintegreranno, il cervello si corroderà. Morirà pazzo.» Il tono di Pitt era gelido, e il suo volto sembrava scolpito nella pietra.

«Non ci sono speranze per lui?» chiese Brunone, sbalordito.

Pitt scosse la testa. «Yves Massarde morirà legato a un letto, urlando per sfuggire al tormento. Vorrei soltanto che le sue vittime potessero vederlo.»

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