Al Floyd Bennet Field, sulla riva di Jamaica Bay, New York, un uomo vestito come un hippy degli anni ’60 stava appoggiato a una station wagon Jeep Wagoneer ferma all’estremità deserta della pista e, attraverso gli occhiali a lenti rotonde, scrutava un aereo color turchese che rollava nella nebbia leggera del mattino e si fermava a una decina di metri di distanza. L’uomo si mosse quando Sandecker e Chapman scesero dal jet della NUMA e andò loro incontro per salutarli.
L’ammiraglio notò la macchina e annuì soddisfatto. Detestava le berline ufficiali e preferiva i fuoristrada. Rivolse un rapido sorriso al direttore del centro dati della NUMA. Hiram Yaeger, che indossava un giubbotto Levi’s e teneva i capelli legati in un codino, era l’unico collaboratore d’alto livello di Sandecker che si vestisse impunemente a modo suo.
«Grazie per essere venuto a prenderci, Hiram. E mi scusi se l’ho costretta a lasciare Washington in fretta e furia.»
Yaeger si accostò, tendendogli la mano. «Nessun problema, ammiraglio. Sentivo il bisogno di staccarmi per un po’ dalle mie macchine.» Poi inclinò la testa verso l’alto per guardare in faccia il dottor Chapman. «Darcy, com’è andato il volo di ritorno dalla Nigeria?»
«Il soffitto della cabina era troppo basso e il sedile troppo piccolo», commentò il tossicologo. «E per peggiorare le cose l’ammiraglio mi ha battuto a gin rummy per dieci partite a quattro.»
«Vi aiuto a caricare in macchina i bagagli, poi andremo a Manhattan.»
«Ha preso appuntamento con Hala Kamil?» chiese l’ammiraglio Sandecker.
Yaeger annuì. «Ho telefonato all’ONU non appena mi ha comunicato l’orario d’arrivo. La signora segretario generale ha cambiato il programma dei suoi impegni per riceverci. Il suo aiutante si è meravigliato che abbia fatto eccezione per lei.»
Sandecker sorrise. «Siamo amici da molto tempo.»
«L’appuntamento è per le dieci e mezzo.»
L’ammiraglio diede un’occhiata all’orologio. «Un’ora e mezzo: abbiamo tempo per bere un caffè e fare colazione.»
«Buona idea», commentò Chapman fra uno sbadiglio e l’altro. «Sto morendo di fame.»
Yaeger si avviò lungo la panoramica e uscì in Coney Island Avenue dove trovò un delicatessen. I tre sedettero in un séparé e passarono le ordinazioni a una cameriera che non nascose la sua meraviglia nel notare l’alta statura del dottor Chapman.
«Cosa prendono, signori?»
«Salmone affumicato, formaggio alla panna e un bagel», disse Sandecker.
Chapman optò per un’omelette al pastrami e salame, mentre Yaeger si accontentò di un dolce danese. Rimasero in silenzio, immersi nei loro pensieri, fino a quando la cameriera venne a servire il caffè. Sandecker mise un cubetto di ghiaccio nel suo per raffreddarlo e si assestò contro la spalliera.
«Cosa segnalano i suoi amichetti elettronici a proposito della marea rossa?» chiese a Yaeger.
«Le proiezioni promettono ben poco di buono», rispose l’esperto di computer giocherellando con una forchetta. «Ho seguito incessantemente l’estensione in base alle foto trasmesse dai satelliti. Il tasso di crescita è sconvolgente. Fa venire in mente il vecchio adagio: incomincia con un cent e raddoppialo ogni giorno, così alla fine del mese sarai miliardario. La marea rossa al largo dell’Africa occidentale si allarga, raddoppiandosi ogni quattro giorni. Questa mattina alle quattro copriva un’area di 240.000 chilometri quadrati.»
«Cioè centomila miglia quadrate», disse Sandecker, traducendo il dato nel vecchio sistema di misura.
«Con quel ritmo coprirà l’intero Atlantico meridionale in tre o quattro settimane», calcolò Chapman.
«Avete un’idea della causa?» chiese Yaeger.
«Probabilmente è un organometallo che promuove una mutazione dei dinoflagellati responsabili della marea rossa.»
«Un organometallo?»
«Una combinazione tra un metallo e una sostanza organica», spiegò Chapman.
«C’è qualche rapporto particolare in evidenza?»
«Per ora, no. Abbiamo identificato dozzine di agenti inquinanti, ma sembra che nessuno sia il responsabile. Al momento possiamo solo immaginare che un elemento metallico si mescoli in qualche modo con composti sintetici o con sottoprodotti chimici che vengono scaricati nel fiume Niger.»
«Potrebbero essere addirittura i rifiuti di qualche strana ricerca biotecnica», suggerì Yaeger.
«Non c’è nessun esperimento biotecnico in corso nell’Africa occidentale», rispose con fermezza Sandecker.
«Chissà come, quello schifo non identificato funziona da eccitante», continuò Chapman. «Quasi come un ormone. Crea una marea rossa mutante con un tasso di crescita sconvolgente e un grado incredibile di tossicità.»
I tre tacquero mentre la cameriera veniva a servire la colazione, e poi tornava con la caffettiera per riempire di nuovo le tazze.
«C’è la possibilità che abbiamo a che fare con una reazione batterica ai rifiuti organici?» chiese Yaeger mentre fissava con aria mesta il dolce danese che sembrava calpestato da uno stivale bisunto.
«I liquami possono costituire un nutrimento per le alghe, esattamente come il letame per le colture agricole sulla terraferma», rispose Chapman. «Ma in questo caso, no. Siamo di fronte a un disastro ecologico ben più grave di quello che possono produrre i rifiuti umani.»
Sandecker spalmò il formaggio alla panna sul bagel e aggiunse il salmone. «Quindi, mentre noi stiamo qui a rimpinzarci, si sta formando una marea rossa al cui confronto l’inquinamento petrolifero causato nel 1991 dagli iracheni fa la figura di una pozzanghera nelle praterie del Kansas.»
«E non possiamo far niente per impedirlo», ammise Chapman. «Senza le analisi dei campioni d’acqua, posso soltanto avanzare teorie sul composto chimico. Fino a che Rudy Gunn non avrà trovato l’ago nel pagliaio e non avrà scoperto chi o che cosa ce l’ha messo, avremo le mani legate.»
«Quali sono le ultime notizie?» chiese Yaeger.
«Le ultime notizie su che cosa?» borbottò Sandecker fra un boccone e l’altro.
«I nostri tre amici in crociera sul Niger», rispose Yaeger, irritato dall’apparente indifferenza di Sandecker. «La trasmissione telemetrica dei loro dati si è interrotta improvvisamente proprio ieri.»
L’ammiraglio si guardò intorno per assicurarsi che nessuno potesse sentirli. «Hanno avuto un piccolo alterco con due cannoniere e un elicottero della Marina del Benin.»
«Un piccolo alterco?» balbettò incredulo Yaeger. «E come diavolo è successo? Sono feriti?»
«Possiamo presumere che siano sopravvissuti e stiano bene», disse Sandecker. «Quelli del Benin pretendevano di salire a bordo. Per salvare il nostro progetto non hanno potuto far altro che combattere. E, durante la battaglia, il loro sistema di comunicazioni è finito fuori uso.»
«Questo spiega perché i dati telemetrici non arrivano più», commentò Yaeger, un po’ più calmo.
«Le foto trasmesse dal satellite dell’Ente per la Sicurezza Nazionale», continuò l’ammiraglio, «mostrano che hanno fatto a pezzi le due cannoniere e l’elicottero, hanno varcato il confine e raggiunto il Mali.»
Yaeger si accasciò sulla sedia. Aveva perso di colpo l’appetito. «Non usciranno mai dal Mali. Si stanno cacciando in un vicolo cieco. Ho passato al computer i profili del governo maliano. Il capo militare, in fatto di diritti umani, ha i precedenti peggiori di tutta l’Africa occidentale. Pitt e gli altri verranno catturati e impiccati alla prima palma.»
«È proprio per questo che abbiamo appuntamento con il segretario generale dell’ONU», disse Sandecker.
«E cosa può fare?»
«L’ONU è la nostra unica speranza di far uscire sani e salvi dal Mali i nostri amici e i dati che hanno raccolto.»
«Perché comincio ad avere l’impressione che la nostra ricerca sul fiume Niger fosse priva dell’autorizzazione ufficiale?» chiese Yaeger.
«Non siamo riusciti a convincere i politici dell’urgenza e della gravità della cosa», sbottò Chapman, esasperato. «Continuavano a parlare di istituire una commissione speciale per indagare sul problema. Roba da non credere! Il mondo è sull’orlo dell’estinzione, e i nostri illustri rappresentanti del popolo pensano solo a pavoneggiarsi per far vedere quanto sono importanti mentre cianciano e cianciano all’infinito.»
«Darcy vuol dire», spiegò Sandecker, sorridendo del frasario scelto da Chapman, «che ha esposto la situazione al presidente, al segretario di Stato e a diversi autorevoli membri del Congresso. Tutti si sono rifiutati di forzare la mano alle nazioni dell’Africa occidentale perché ci permettessero di analizzare l’acqua del fiume.»
Yaeger lo fissò. «E così, per poter incominciare, avete spedito di nascosto Pitt, Giordino e Gunn.»
«Non c’era altro da fare. Il tempo stringe. Abbiamo dovuto aggirare il nostro governo. Se si viene a sapere di questa iniziativa, sarò nei guai fino al collo.»
«È anche peggio di quel che immaginavo.»
«Perciò abbiamo bisogno dell’ONU», concluse Chapman. «Senza la sua collaborazione, è molto probabile che Pitt, Giordino e Gunn finiscano in un carcere maliano e non ne escano più.»
«E con loro», precisò Sandecker, «spariranno i dati di cui abbiamo un bisogno disperato.»
Yaeger aveva l’aria triste. «Lei li ha sacrificati, ammiraglio. Ha intenzionalmente sacrificato i nostri amici più cari.»
Sandecker lo fissò, impassibile. «Crede che per me non sia stato terribile prendere questa decisione? Tenendo conto della posta in gioco, di chi si sarebbe fidato per portare a termine il lavoro? Chi avrebbe mandato a risalire il Niger?»
Yaeger si massaggiò le tempie per un momento prima di rispondere e alla fine annuì. «Ha ragione, naturalmente. Sono i migliori. Se c’è qualcuno che può fare l’impossibile, è Pitt.»
«Mi fa piacere che sia d’accordo», disse burberamente Sandecker. Poi guardò di nuovo l’orologio. «È meglio che paghiamo e andiamo. Non voglio far aspettare Hala Kamil, soprattutto quando sto per buttarmi in ginocchio ai suoi piedi e implorarla come un’anima disperata.»
Hala Kamil, l’egiziana che era segretario generale delle Nazioni Unite, aveva la bellezza misteriosa di Nefertiti. A quarantasette anni i suoi occhi erano neri e penetranti, i lunghi capelli d’ebano le scendevano a cascata sulle spalle e la carnagione perfetta metteva in risalto i lineamenti delicati. Quella donna riusciva insomma a conservare la bellezza e l’aspetto giovanile nonostante gli oneri della sua carica prestigiosa. Era alta, con una splendida figura che neppure il severo tailleur riusciva a nascondere.
Si alzò dalla scrivania quando Sandecker e i suoi amici furono ammessi nel suo studio, nel palazzo nell’ONU. «Ammiraglio Sandecker, è un piacere rivederla.»
«Il piacere è mio, signora Kamil.» Sandecker diventava sempre raggiante in presenza di una bella donna. Ricambiò la stretta di mano e accennò un inchino. «Grazie per avermi ricevuto.»
«Mi sorprende, ammiraglio. Non è affatto cambiato.»
«E lei sembra addirittura più giovane.»
Hala Kamil gli rivolse un sorriso affascinante. «Lasciamo da parte i complimenti. Tutti e due abbiamo qualche ruga in più. È passato molto tempo.»
«Quasi cinque anni.» L’ammiraglio presentò Chapman e Yaeger.
Hala non fece caso alla statura di Chapman e all’abbigliamento di Yaeger. Era troppo abituata a incontrare persone appartenenti a cento nazioni diverse e vestite nei modi più strani. Indicò con la mano i due divani che si fronteggiavano. «Si accomodino, prego.»
«Sarò breve», disse Sandecker senza preamboli. «Mi occorre il suo aiuto in una questione urgente relativa a un disastro ambientale che minaccia di annientare l’intero genere umano.»
Hala Kamil lo guardò con aria scettica. «La sua è un’affermazione molto grave, ammiraglio. Se è un’altra funesta predizione sull’Effetto Serra, devo dirle che non ci credo.»
«È qualcosa di ben peggiore», incalzò Sandecker. «Entro la fine dell’anno, la maggior parte della popolazione mondiale sarà soltanto un ricordo.»
Hala guardò in faccia i tre uomini che le sedevano di fronte, e li vide così cupi e decisi che cominciò a prestar fede alle parole dell’ammiraglio. Non sapeva con precisione perché gli credesse; ma conosceva abbastanza Sandecker per avere la certezza che non dava ascolto alle fantasie, e non era il tipo che andava in giro ad annunciare che il cielo stava per cadere senza averne le prove scientifiche.
«Continui, la prego», gli disse.
Sandecker lasciò la parola a Chapman e Yaeger, che riferirono le loro scoperte sull’espansione della marea rossa. Dopo una ventina di minuti, Hala si scusò e andò a premere un tasto dell’interfono. «Sarah, per favore, chiami l’ambasciatore del Perù e gli dica che si è verificato un imprevisto molto importante. Gli chieda se possiamo rimandare il nostro incontro domani alla stessa ora.»
«Le siamo molto grati della sua disponibilità», disse sinceramente Sandecker.
«Non ci sono dubbi sulla gravità del pericolo?» chiese Hala Kamil a Chapman.
«Nessun dubbio. Se la marea rossa si espanderà incontrollata negli oceani, soffocherà l’ossigeno indispensabile per il sostentamento della vita sulla terra.»
«E tutto questo senza tener conto della tossicità», soggiunse Yaeger. «Che causerà l’annientamento di tutte le forme di vita del mare e degli animali e degli esseri umani che se ne nutriranno.»
Hala Kamil fissò Sandecker. «E il Congresso? E i vostri scienziati? Sicuramente il vostro governo e la comunità ambientalista mondiale saranno preoccupati.»
«Certo, la preoccupazione c’è», rispose Sandecker. «Abbiamo presentato le prove in nostro possesso al presidente e a vari membri del Congresso. Ma gli ingranaggi della burocrazia si muovono lentamente. Ci sono commissioni che studiano la questione ma non sono ancora pervenute a decisioni. Non si rendono conto dell’enormità dell’orrore che si prospetta. Non riescono a concepire una riduzione così rapida del fattore tempo.»
«Naturalmente abbiamo inoltrato le nostre risultanze preliminari agli specialisti di oceanografia e di tossicologia», interloquì Chapman. «Ma, fino a quando non riusciremo a isolare la causa esatta del disastro, non potremo far molto per trovare una soluzione.»
Hala rimase in silenzio. Le era difficile rendersi conto delle prospettive apocalittiche, soprattutto così all’improvviso. Da un certo punto di vista era impotente. La sua posizione di segretario generale delle Nazioni Unite era più che altro quello della sovrana d’un regno immaginario. Il suo compito consisteva nel vegliare sui vari adempimenti più o meno simbolici che avevano lo scopo di conservare la pace e sui numerosi programmi commerciali e assistenziali. Poteva impartire direttive, ma non dare ordini.
Guardò Sandecker che era seduto di fronte a lei. «Oltre a promettere la collaborazione del nostro organismo per la programmazione ambientale, non so che altro potrei fare.»
Con sicurezza crescente, Sandecker proseguì a voce bassa e decisa. «Ho mandato un’imbarcazione con una squadra di specialisti a risalire il Niger per analizzare l’acqua, nel tentativo di scoprire l’origine dell’esplosione della marea rossa.»
Gli occhi scuri di Hala erano calmi e penetranti. «È stata la sua imbarcazione ad affondare le cannoniere del Benin?» chiese.
«Il suo servizio informazioni è molto efficiente.»
«Ricevo sempre i sommarii dei rapporti pervenuti da tutto il mondo.»
«Sì, è stato un mezzo della NUMA», ammise Sandecker.
«Immagino saprà che l’ammiraglio capo di stato maggiore della Marina del Benin, fratello del presidente di quella nazione, è rimasto ucciso durante la battaglia.»
«L’ho saputo.»
«A quanto mi risulta, la sua imbarcazione batteva bandiera francese. Il fatto che i suoi svolgessero un’attività clandestina sotto una bandiera straniera potrebbe farli condannare a morte dagli africani come agenti nemici.»
«I miei uomini erano consci del pericolo e si sono offerti volontari. Sapevano che ogni ora può essere decisiva, se vogliamo arrestare la marea rossa prima che si espanda troppo e che la nostra tecnologia non sia più in grado di annientarla.»
«Sono ancora vivi?»
Sandecker annuì. «Qualche ora fa avevano seguito a ritroso le tracce della contaminazione oltre il confine del Mali e si stavano avvicinando indisturbati alla città di Gao.»
«Chi altri è al corrente della cosa, nel suo governo?»
Sandecker indicò Chapman e Yaeger. «Solo noi tre, oltre ai tre a bordo della barca. Al di fuori della NUMA non lo sa nessuno… a parte lei.»
«Il generale Kazim, il capo della sicurezza del Mali, non è uno stupido. Sarà a conoscenza della battaglia con la Marina del Benin, e le sue spie lo avranno informato dell’ingresso degli uomini della NUMA nel suo Paese. Li farà arrestare nel momento stesso in cui attraccheranno.»
«È appunto per questa ragione che sono venuto a parlarle.»
Ci siamo, pensò Hala. «Che cosa vuole da me, ammiraglio?»
«Voglio il suo aiuto per salvare i miei uomini.»
«L’immaginavo.»
«È indispensabile che vengano portati in salvo non appena avranno scoperto l’origine della contaminazione.»
«Abbiamo un bisogno disperato dei dati che avranno raccolto», soggiunse seccamente Chapman.
«Allora in realtà tenete a portare in salvo soprattutto i risultati», commentò freddamente Hala.
«Io non ho l’abitudine di abbandonare gli uomini coraggiosi al loro destino», disse Sandecker sporgendo il mento con fare bellicoso.
Hala scosse la testa. «Mi dispiace, signori. Posso capire la vostra disperazione. Ma non posso mettere in pericolo l’onorabilità della mia carica abusando del mio potere per partecipare a un’operazione internazionale illegittima, per quanto possa essere d’importanza vitale.»
«Neppure se gli uomini da salvare fossero Dirk Pitt, Al Giordino e Rudi Gunn?»
Per un attimo, Hala Kamil sgranò gli occhi, poi si riabbandonò sulla poltrona. Per un breve istante, i suoi pensieri si smarrirono nel passato. «Comincio a rendermi conto della situazione», mormorò. «Si sta servendo di me esattamente come si è servito di loro.»
«Non sto organizzando un torneo di tennis fra celebrità», ribatté seccamente Sandecker. «Sto cercando di impedire la perdita di un numero incalcolabile di vite umane.»
«Spara sempre al cuore, vero?»
«Sì, quand’è necessario.»
Chapman inarcò le sopracciglia. «Purtroppo non ci capisco niente.»
Hala tenne lo sguardo fisso nel vuoto. «Cinque anni fa, i tre uomini che in questo momento stanno risalendo il Niger mi salvarono dai terroristi, non una volta sola, ma due. La prima fu in montagna, a Breckenridge, in Colorado; la seconda fu in una miniera abbandonata presso un ghiacciaio sullo stretto di Magellano. L’ammiraglio Sandecker sta puntando sulla mia gratitudine perché ricambi il favore.»
«Mi sembra di ricordare», disse Yaeger, annuendo. «Fu durante la ricerca del tesoro della Biblioteca di Alessandria.»
Sandecker si alzò e andò a sedersi accanto a Hala. «Ci aiuterà, signora segretario generale?»
La donna rimase immobile come una statua, eppure qualcosa in lei suggeriva che, lentamente, la sua fermezza cominciava a incrinarsi. Il suo respiro era appena percettibile. Alla fine girò la testa verso Sandecker.
«D’accordo», disse a voce bassa. «Le prometto che userò tutte le fonti a mia disposizione per far uscire i nostri amici dall’Africa occidentale. Posso solo augurarmi che non sia troppo tardi, e che siano ancora vivi.»
Sandecker abbassò la testa, per nascondere l’espressione di sollievo che gli era apparsa negli occhi. «La ringrazio, segretario generale. Ho un debito con lei. Un grosso debito.»
«Nessun segno di vita?» Grimes stava guardando il villaggio cadente di Asselar. «Non c’è neppure un cane o una pecora.»
«Sì, sembra una città morta», convenne Eva, che si schermava gli occhi per ripararli dal sole.
«Più morta di un rospo schiacciato su un’autostrada», mormorò Hopper scrutando la scena con il binocolo.
Erano su una piccola altura del deserto che sovrastava Asselar. L’unico segno della presenza umana era rappresentato dalle tracce dei pneumatici che, da nord-est, portavano al villaggio. Stranamente, nessuna di quelle tracce sembrava indicare che qualcuno se ne fosse allontanato. Eva aveva l’impressione di vedere un’antica città abbandonata mentre, attraverso le onde tremolanti di calore, guardava le rovine intorno alla parte centrale dell’abitato. C’era uno strano silenzio che la faceva sentire tesa e inquieta.
Hopper si rivolse a Batutta. «È stato molto gentile a collaborare con noi, capitano, e a permetterci di atterrare qui, ma è evidente che si tratta di una città fantasma.»
Batutta, al volante del Mercedes fuoristrada, alzò le spalle con aria innocente. «Una carovana arrivata dalle miniere di sale di Taoudenni ha segnalato che ad Asselar c’erano casi di malattia. Che altro posso dirle?»
«Non sarà male dare un’occhiata», commentò Grimes.
Eva annuì. «Per stare sul sicuro dobbiamo analizzare l’acqua del pozzo.»
«Se proseguirete a piedi», disse Batutta, «io tornerò all’aereo per andare a prendere gli altri.»
«Molto gentile, capitano», replicò Hopper. «Può portare anche il nostro equipaggiamento.»
Senza una parola né un cenno di saluto, Batutta si allontanò in una nube di polvere, attraversò una piana e si diresse verso l’aereo che era atterrato in un lungo tratto di terreno pianeggiante.
«Mi sembra molto strano che sia così disposto ad aiutarci», borbottò Grimes.
Eva annuì. «Troppo ben disposto, secondo me.»
«Non mi va», disse Grimes mentre guardava il villaggio silenzioso. «Se questo fosse un film western, direi che stiamo per cadere in un’imboscata.»
«Imboscata o no», commentò Hopper in tono noncurante, «proviamo a cercare gli abitanti.» Incominciò a scendere a lunghi passi il pendio senza curarsi del sole a picco e del calore irradiato dal suolo cosparso di sassi. Eva e Grimes esitarono un momento, poi si avviarono per seguirlo.
Dieci minuti più tardi entrarono nelle viuzze di Asselar. Le prime cose che notarono furono il disordine e la sporcizia. Erano costretti di continuo a scavalcare mucchi di immondizia e di ciarpame che coprivano ogni metro quadrato. Una brezza caldissima e leggera incominciò a soffiare all’improvviso, e l’odore della putredine e della carne decomposta li assalì. Il lezzo diventava più forte a ogni passo, e sembrava giungere dall’interno delle case.
I tre si astennero dall’entrare negli edifici sino a che ebbero raggiunto la piazza del mercato. E là si offrì ai loro occhi uno spettacolo incredibilmente disgustoso. Nessuno di loro, neppure negli incubi più atroci, avrebbe potuto immaginare un simile orrore: c’erano resti di scheletri umani, teschi allineati come se fossero in vendita, pelli annerite e seccate appese all’albero centrale e brulicanti di sciami di mosche.
Il primo pensiero di Eva fu di trovarsi di fronte a ciò che restava di un massacro compiuto da forze armate. Ma si affrettò a scartare quella teoria perché non spiegava la posizione dei crani né le pelli scuoiate. Lì era accaduto qualcosa che superava di parecchio le atrocità commesse da soldati assetati di sangue o da banditi del deserto. Ne ebbe la conferma quando s’inginocchiò, raccolse un osso e lo riconobbe: era un omero, l’osso più lungo del braccio. Un brivido gelido l’assalì quando si accorse che era intaccato e scheggiato dai segni di una dentatura umana.
«Cannibalismo», mormorò inorridita.
Stranamente, il ronzio delle mosche e la rivelazione di Eva parvero accentuare il silenzio di morte che dominava il villaggio. Grimes prese l’osso e lo esaminò.
«Eva ha ragione», disse a Hopper. «Qualche pazzo criminale ha divorato tutti questi poveracci.»
«A giudicare dal fetore», notò Hopper arricciando il naso, «ce ne sono alcuni che non si sono ancora ridotti a scheletri. Tu ed Eva dovete aspettarmi qui. Guarderò all’interno delle case e vedrò se riesco a trovare qualcuno vivo.»
«Non mi sembra che abbiano simpatia per i forestieri», ribatté Grimes. «Propongo di battere rapidamente in ritirata fino all’aereo prima di finire sul menù locale.»
«Sciocchezze!» sbuffò Hopper. «Ci troviamo davanti a un caso estremo di comportamento anormale. Potrebbe essere causato dalla sostanza tossica che stiamo cercando, e non ho intenzione di fuggire prima d’essere arrivato a fondo della questione.»
«Vengo con te», disse Eva in tono risoluto.
Grimes alzò le spalle. Apparteneva alla vecchia scuola e non intendeva mostrarsi meno coraggioso di una donna. «D’accordo, cercheremo insieme.»
Hopper gli batté la mano sulla schiena. «Bravo, Grimes. Sarò onorato di figurare insieme con te come ingrediente del piatto del giorno.»
La prima casa in cui entrarono aveva i muri formati da pietre legate alla meglio dall’argilla secca e conteneva due cadaveri, un uomo e una donna, morti almeno da una settimana. Il caldo aveva già disseccato i tessuti e incartapecorito la pelle. La morte non era stata rapida, bensì lenta e tormentosa; Hopper lo accertò con un esame superficiale dei resti. Non erano stati uccisi da un veleno fulmineo: avevano sofferto atrocemente fino a quando la morte li aveva liberati.
«Non sono in grado di dire di più senza un esame necroscopico», disse Hopper.
Grimes osservò i due corpi con aria calma e imperturbabile. «Sono morti da diverso tempo. Credo che avrei maggiori possibilità di trovare qualche risposta concreta se trovassimo qualcuno spirato da poco.»
A Eva quelle parole sembrarono fredde e cliniche. Rabbrividì, non per la vista dei cadaveri ma perché aveva riconosciuto un mucchio di ossa e di teschi molto piccoli in un angolo della casa semibuia. Non poté trattenersi dal chiedersi se i due avevano ucciso e divorato i figlioletti. Era un pensiero troppo orribile: lo scacciò e proseguì da sola. Entrò in un’abitazione all’altro lato della strada.
Varcò un portale più elaborato degli altri, che conduceva in un cortile a forma di L, pulito e ben spazzato. Era quasi uno spettacolo blasfemo in confronto agli altri luoghi invasi dai rifiuti. In quella casa il lezzo era particolarmente forte. Eva intrise un fazzoletto con l’acqua contenuta nella borraccia che portava appesa alla cintura e passò cautamente da una stanza all’altra. Le pareti erano bianchissime e i soffitti alti erano sostenuti da travi scoperte e arrotondate. La luce entrava dalle numerose finestre affacciate sul cortile.
Era una delle case più lussuose del villaggio: con ogni probabilità apparteneva a un mercante, pensò Eva osservando le sedie e i tavoli ben lavorati che erano ancora diritti in posizioni normali, diversamente dai mobili delle altre case che erano stati fracassati e gettati a terra. Varcò lentamente una porta ed entrò in una camera rettangolare, soffocò un grido e rimase immobile, paralizzata dal ribrezzo nel vedere un macabro mucchio di arti umani putrefatti, accatastati con cura in quella che era stata la cucina.
Dominò a stento la nausea. All’improvviso si sentiva svuotata e impaurita. Fuggì e, barcollando, entrò in una stanza da letto. L’orrore si sommò all’orrore. Si fermò di colpo e fissò l’uomo che stava disteso sul giaciglio come se riposasse con gli occhi spalancati. La testa era posata su un cuscino e le mani erano accostate ai fianchi, con i palmi rivolti verso l’alto. L’uomo la fissava a sua volta con due occhi ciechi che sembravano presi in prestito dal diavolo. Il bianco di quegli occhi era di un rosa intenso, le iridi d’un rosso cupo. Per un istante spaventoso, Eva pensò che fosse ancora vivo. Ma il torace non si abbassava né si sollevava nel respiro e gli occhi dai colori satanici non sbattevano.
Eva rimase a guardarlo per un tempo che le parve interminabile. Finalmente chiamò a raccolta tutto il suo coraggio, si avvicinò al letto e, con la punta delle dita, toccò la carotide del morto. Non c’erano pulsazioni. Si chinò e sollevò il braccio dell’uomo. Il rigor mortis aveva appena incominciato a contrarre i muscoli. Si raddrizzò quando sentì alle sue spalle un suono di passi. Si girò di scatto e vide Hopper e Grimes.
I due le passarono accanto e guardarono il cadavere. Poi, all’improvviso, Hopper scoppiò in una risata che echeggiò in tutta la casa. «Per Dio, Grimes. Volevi una vittima morta da poco per effettuare l’autopsia? Eccola.»
Quando Batutta ebbe fatto l’ultimo tragitto fino al villaggio con il team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’apparecchiatura portatile per le analisi, fermò il Mercedes accanto all’aereo. La cabina di comando e quella per i passeggeri erano diventate roventi sotto il sole martellante, e i membri dell’equipaggio oziavano all’ombra di un’ala. Anche se si erano comportati con indifferenza di fronte agli scienziati in presenza di Batutta, questa volta scattarono sull’attenti e lo salutarono militarmente.
«È rimasto qualcuno a bordo?» chiese Batutta.
Il primo pilota scosse la testa. «Gli ultimi li ha accompagnati lei al villaggio. L’aereo è vuoto.»
Batutta sorrise al pilota che indossava l’uniforme di una linea aerea con i galloni sulla manica. «Ottima recitazione, tenente Djemaa. Il dottor Hopper ha abboccato all’amo. Siete riusciti a fargli credere che siete l’equipaggio di riserva.»
«Grazie, capitano. E posso ringraziare mia madre… è sudafricana e mi ha insegnato l’inglese.»
«Ho bisogno di usare la radio per mettermi in contatto con il colonnello Mansa.»
«Se viene nella cabina di comando, regolerò la frequenza.»
Entrare nella cabina era come infilarsi in un secchio di piombo fuso. Anche se il tenente Djemaa aveva lasciato i finestrini laterali aperti per favorire la ventilazione, il caldo tolse il respiro a Batutta, che sedette e attese mentre il pilota militare maliano chiamava il comando del colonnello Mansa. Appena ebbe stabilito il collegamento, Djemaa gli consegnò il microfono e, con un sospiro di sollievo, scese di nuovo a terra.
«Qui Falco-Uno. Passo.»
«Eccomi, capitano», risuonò la voce di Mansa. «Può fare a meno del codice. Non credo che qualche spia nemica ci stia ascoltando. Com’è la situazione?»
«Gli abitanti di Asselar sono tutti morti. Gli occidentali operano liberamente nel villaggio. Ripeto, tutti gli abitanti sono morti.»
«Quei maledetti cannibali si sono sterminati fra loro, non è così?»
«Sì, colonnello, fino all’ultima donna e all’ultimo bambino. Il dottor Hopper e i suoi credono che siano stati avvelenati tutti quanti.»
«Hanno le prove?»
«Non ancora. In questo momento stanno prelevando l’acqua dal pozzo ed effettuando l’autopsia delle vittime.»
«Non importa. Stia al loro gioco. Non appena avranno concluso gli esperimenti, li porti a Tebezza. Il generale Kazim ha organizzato un’accoglienza adeguata.»
Batutta non faticava a immaginare che cosa aveva progettato il generale per Hopper. Detestava il canadese; li detestava tutti. «Farò in modo che arrivino in buone condizioni.»
«Porti a termine la sua missione, capitano, e le assicuro che avrà una promozione.»
«Grazie, colonnello. Passo e chiudo.»
Grimes si insediò nella casa del morto scoperto da Eva: era la più grande e la più pulita di tutto il villaggio. Gli altri componenti del team incominciarono a esaminare tessuti e ossa prelevati agli altri morti. In un grosso magazzino dietro il mercato trovarono le Land Rover malridotte della comitiva turistica massacrata; le rimisero in funzione per fare servizio di spola fra il villaggio e l’aereo mentre il capitano Batutta si aggirava di qua e di là senza concludere nulla.
Il lezzo dei cadaveri era così forte da impedire di dormire, perciò gli scienziati lavorarono per tutta la notte e continuarono fino alla sera seguente. Venne montato un accampamento presso l’aereo. Dopo un breve riposo e una cena a base di scatolette di carne, sedettero intorno alla stufa a petrolio per proteggersi dal freddo. La temperatura, infatti, era scesa bruscamente dai 44 gradi registrati durante il giorno ai 5 della notte. Batutta si comportò da ospite cordiale e preparò un tè all’africana mentre ascoltava con attenzione i dialoghi sulle ricerche in corso.
Hopper accese la pipa e fece un cenno a Grimes. «Comincia tu, Warren. Riferisci i risultati dell’esame condotto sull’unico cadavere trovato in condizioni decenti.»
Grimes prese una cartelletta dalle mani di un assistente e la studiò per un momento alla luce d’una lanterna. «In tutti i miei anni di attività non ho mai visto tante complicazioni in un essere umano. Arrossamento degli occhi, sia delle iridi sia della sclera. Anche l’epidermide è fortemente arrossata, fino ad assumere una colorazione bronzea. Ingrossamento notevole della milza. Grumi di sangue nel cuore, nel cervello e nelle estremità. Lesioni ai reni nonché al fegato e al pancreas. Tasso altissimo di emoglobina. Degenerazione dei tessuti adiposi. Non è sorprendente che questi poveracci siano impazziti e si siano divorati fra loro. Mettete insieme tutte queste alterazioni e il risultato sarà una psicosi incontrollata.»
«Incontrollata?» chiese Eva.
«La vittima è impazzita lentamente con l’aggravarsi delle sue condizioni, in particolare delle lesioni cerebrali. Alla fine è diventata furiosa, come dimostrano i segni di cannibalismo. Secondo le mie stime, è stato un miracolo che sia sopravvissuta così a lungo.»
«E la conclusione diagnostica?» insistette Hopper.
«La morte è stata causata da una massiccia policitemia vera, una malattia di origine sconosciuta i cui sintomi sono un aumento del numero dei globuli rossi e dell’emoglobina. In questo caso, c’è stata una massiccia infusione di eritrociti che ha prodotto danni irreparabili agli organi interni della vittima. E poiché non si sono avute trombosi in misura sufficiente per arrestare il cuore, vi sono state emorragie in tutto il corpo, evidenti soprattutto nell’epidermide e negli occhi. Si direbbe che alla vittima fosse stata iniettata una forte dose di vitamina B-12, che come tutti sapete è indispensabile nello sviluppo dei globuli rossi.»
Hopper si rivolse a Eva. «Tu hai fatto le analisi del sangue. Cosa puoi dire degli eritrociti? Hanno mantenuto la tipica forma discoidale concava al centro?»
Eva scosse la testa. «No, avevano una forma che non ho mai visto in precedenza. Erano quasi triangolari, con protuberanze simili a spore. Come ha detto Warren, erano presenti in numero incredibilmente elevato. Nel sangue di un adulto umano normale vi sono in media cinque milioni e duecentomila globuli rossi per millimetro cubico. Il sangue della nostra vittima ne conteneva un numero almeno triplo.»
Grimes disse: «Posso aggiungere un altro dettaglio: ho scoperto anche un avvelenamento da arsenico che l’avrebbe ucciso comunque, prima o poi».
Eva annuì. «Posso confermare la diagnosi di Warren. Nei campioni di sangue ho trovato concentrazioni anormali d’arsenico. Anche il livello del cobalto era abnorme.»
«Cobalto?» Hopper si tese sulla sedia pieghevole.
«Non è una cosa sorprendente», osservò Grimes. «La vitamina B-12 contiene quasi il 4,5 per cento di cobalto.»
«I vostri risultati confermano quelli delle analisi che ho effettuato sui pozzi della comunità», disse Hopper. «In una tazza d’acqua c’erano abbastanza arsenico e cobalto da soffocare un cammello.»
«La falda acquifera sotterranea», mormorò Eva, guardando la fiamma della stufa. «Deve essere filtrata lentamente attraverso un deposito geologico di cobalto e arsenico.»
«Se non ricordo male le lezioni di geologia», disse pensieroso Hopper, «un composto piuttosto comune dell’arsenico è la niccolite, un minerale che si trova spesso associato con il cobalto.»
«Comunque, è solo la punta dell’iceberg», avvertì Grimes. «I due elementi non sono in quantità sufficiente per causare questo disastro. Qualche altra sostanza ha agito da catalizzatore con cobalto e arsenico fino a spingere il livello di tossicità oltre i limiti della tolleranza e moltiplicare il conto dei globuli rossi. Ma è una sostanza che ci è sfuggita.»
«E ha anche provocato la mutazione degli eritrociti», soggiunse Eva.
«Non vorrei complicare ancora di più il mistero», osservò Hopper, «ma nella mia analisi ho scoperto qualcosa d’altro. Tracce altissime di radioattività.»
«Pensi che le radiazioni siano penetrate solo di recente nell’acqua del pozzo?» chiese Eva.
«È possibile», ammise Grimes. «Ma ci resta da risolvere l’enigma della sostanza killer sconosciuta.»
«Disponiamo di apparecchiature limitate.» Hopper alzò le spalle. «Se dobbiamo cercare un nuovo ceppo di batteri o una combinazione di sostanze chimiche poco comuni, forse non riusciremo a identificare le cause qui sul posto. Dovremo portare i campioni nel nostro laboratorio a Parigi.»
«Un sottoprodotto sintetico», mormorò pensosamente Eva. Poi, indicando il deserto con un ampio gesto: «Da dove potrebbe venire? Non certo dalle zone vicine».
«L’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici di Fort Foureau?» suggerì Grimes.
Hopper fissò il fornello della pipa. «È duecento chilometri a nord-ovest. Un po’ troppo lontano per portare una sostanza inquinante in senso contrario ai venti prevalenti e depositarla nei pozzi di Asselar. E non spiegherebbe gli elevati livelli di radiazioni. L’impianto di Fort Foureau non è stato creato per ricevere rifiuti radioattivi. Inoltre, tutto il materiale pericoloso viene bruciato, quindi non può assolutamente penetrare nelle acque sotterranee e venire trasportato fin qui senza che il suolo assorba sostanze chimiche mortali.»
«Okay», disse Eva. «Quale sarà la nostra prossima mossa?»
«Facciamo i bagagli, raggiungiamo il Cairo, quindi proseguiamo per Parigi con i campioni. E porteremo con noi anche il nostro cliente. Lo avvilupperemo al dovere e lo terremo al fresco: dovrebbe restare in buone condizioni fino a quando potremo metterlo in ghiaccio al Cairo.»
Eva annuì. «Sono d’accordo. Prima effettueremo le ricerche nelle condizioni adatte e meglio sarà.»
Hopper si voltò verso Batutta che non aveva aperto bocca e stava ad ascoltare con simulata indifferenza mentre registrava tutto con il piccolo apparecchio nascosto sotto la camicia.
«Capitano Batutta?»
«Sì, dottor Hopper?»
«Abbiamo deciso di proseguire per l’Egitto domattina presto. Per lei va bene?»
Batutta sorrise calorosamente e si arricciò i baffi. «Purtroppo dovrò trattenermi per riferire ai miei superiori la tragedia del villaggio. Voi siete liberi di proseguire per il Cairo.»
«Non possiamo lasciarla qui.»
«I veicoli hanno una buona scorta di carburante. Prenderò una delle Land Rover e tornerò a Timbuctu.»
«È un percorso di quattrocento chilometri. Conosce la strada?»
«Sono nato e cresciuto nel deserto», rispose Batutta. «Partirò al levar del sole e arriverò a Timbuctu prima di notte.»
«Il cambiamento dei nostri piani le causerà difficoltà con il colonnello Mansa?» chiese Grimes.
«Ho avuto l’ordine di mettermi al vostro servizio», disse Batutta. «Non dovete preoccuparvi. Mi dispiace soltanto di non potervi accompagnare al Cairo.»
«Allora è tutto a posto», concluse Hopper, alzandosi. «Domattina caricheremo il materiale e partiremo per l’Egitto.»
Quando gli scienziati si avviarono per tornare alle loro tende, Batutta indugiò accanto alla stufa. Spense il registratore nascosto, poi impugnò una torcia elettrica e la fece lampeggiare due volte in direzione del finestrino della cabina di comando. Dopo un minuto il primo pilota scese la scaletta e lo raggiunse.
«Ha trasmesso il segnale?» chiese a voce bassa.
«I porci stranieri partiranno domani», rispose Batutta.
«Devo chiamare Tebezza via radio per annunciare il nostro arrivo.»
«E gli ricordi di riservare al dottor Hopper e ai suoi una degna accoglienza.»
Il primo pilota rabbrividì. «Tebezza è un posto orribile. Appena avrò consegnato i prigionieri, non resterò a terra un minuto più del necessario.»
«L’ordine è ritornare all’aeroporto di Bamako», spiegò Batutta.
«Sarà un piacere.» Il primo pilota accennò un inchino. «Buonanotte, capitano.»
Eva aveva fatto una breve passeggiata per respirare l’aria pura e contemplare le stelle che brillavano nel cielo. Tornò indietro in tempo per vedere il pilota che si avviava verso l’aereo e lasciava Batutta solo accanto alla stufetta.
Troppo arrendevole e premuroso, pensò. Ci saranno guai. Scosse la testa per scacciare il sospetto. Ecco che ricominci con i soliti dubbi, si disse. Che cosa poteva fare Batutta per fermarli? Una volta in volo non sarebbero tornati indietro. Si sarebbero lasciati alle spalle l’orrore e si sarebbero diretti verso una società più aperta e amichevole. Era una soddisfazione sapere che non sarebbe più tornata in quel posto terribile. Eppure qualcosa, nel profondo del suo essere, forse l’intuizione, l’ammoniva che non doveva sentirsi troppo sicura.
«Da quanto tempo ci stanno in coda?» chiese Giordino stropicciandosi gli occhi dopo una dormita di tre ore mentre fissava l’immagine che appariva sul radar.
«Li ho avvistati settantacinque chilometri più indietro, poco dopo che siamo entrati nel territorio maliano», rispose Pitt, che stava al timone e faceva girare la ruota con noncuranza.
«Hai dato un’occhiata al loro armamento?»
«No, l’imbarcazione era nascosta un centinaio di metri oltre una ramificazione del fiume. Ho notato un riflesso sul radar di superficie che mi è parso sospetto. Appena siamo spariti oltre un’ansa, sono avanzati nel canale navigabile e hanno cominciato a seguirci.»
«Potrebbe essere una vedetta in normale servizio di perlustrazione.»
«Le vedette in normale servizio di perlustrazione non si nascondono sotto le reti numeriche.»
Giordino studiò la distanza sullo schermo radar. «Non cercano di avvicinarsi.»
«Prendono tempo, ecco tutto.»
«Povera vecchia cannoniera», disse Giordino in tono di commiserazione. «Non sa che sta per finire dal grande sfasciacarrozze del cielo.»
«Purtroppo ci sono complicazioni», lo avvertì Pitt. «La cannoniera non è l’unico segugio sulle nostre tracce.»
«Perché, c’è qualche altro amico?»
«I militari maliani hanno tirato fuori lo stuoino metallico di benvenuto.» Pitt si girò a guardare il cielo azzurro sgombro di nubi. «C’è una squadriglia di caccia a reazione del Mali che vola in cerchio a est.»
Giordino li avvistò subito. Il sole brillava sugli abitacoli. «Sono Mirage francesi del nuovo modello modificato, mi pare. Sei… no, sette… a meno di sei chilometri.»
Pitt si girò di nuovo e indicò verso ovest, al di là del fiume. «E poi c’è quella nube di polvere oltre le colline che fiancheggiano la riva. È un convoglio di mezzi blindati.»
«Quanti sono?» chiese Giordino mentre faceva mentalmente l’inventario dei missili che gli restavano.
«Ne ho contati quattro quando hanno attraversato un punto di terreno scoperto.»
«Niente carri armati?»
«Andiamo a trenta nodi. Nessun carro armato potrebbe starci dietro.»
«Questa volta non avremo il vantaggio della sorpresa», commentò Giordino. «La notizia del nostro scherzetto ci ha preceduti.»
«È una deduzione logica, a giudicare dalla loro riluttanza a portarsi a tiro.»
«Mi sto chiedendo quando il vecchio… come si chiama?»
«Zateb Kazim?»
«Quello che è.» Giordino alzò le spalle. «Quando suonerà la carica?»
«Se è più sveglio di quell’ammiraglio da fumetti della Marina del Benin e se vuole confiscare la Calliope per suo uso personale, non deve far altro che aspettare. Prima o poi il fiume finirà.»
«E anche il carburante.»
«Appunto.»
Pitt tacque e scrutò il Niger che, ampio e pigro, si snodava sulla pianura sabbiosa. Il sole dorato scendeva verso l’orizzonte e le cicogne blu e bianche volavano nell’aria calda del pomeriggio o passeggiavano nell’acqua bassa sulle zampe lunghe ed esili. Un branco di persici del Nilo schizzò nell’aria, con un brillio degno d’un fuoco d’artificio in miniatura mentre la Calliope l’inseguiva sull’acqua tranquilla. Un pinnace scendeva lentamente verso valle, con lo scafo dipinto di nero ma ornato da fregi a colori vivaci a poppa e a prua, e la vela appena tesa dal vento leggero. Alcuni membri dell’equipaggio dormivano sui sacchi di riso ammucchiati sotto un tendone logoro, mentre altri spingevano le pertiche sul fondo per aumentare la velocità. Era una scena tranquilla e pittoresca, e per Pitt era difficile credere che la morte e la distruzione seguissero la loro rotta lungo il fiume.
Giordino interruppe i suoi pensieri. «Quella donna che hai conosciuto in Egitto… non avevi detto che partiva per il Mali?»
Pitt annuì. «È una biologa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il suo team doveva venire nel Mali per indagare su una strana epidemia scoppiata fra gli abitanti del deserto.»
«Peccato che tu non possa darle un appuntamento», disse Giordino con un sorriso. «Potresti sedere sotto la luna del deserto cingendole le spalle con un braccio, bisbigliarle all’orecchio le tue imprese e setacciare la sabbia.»
«Se questa è la tua idea delle avventure amorose, non mi meraviglia che non combini mai niente.»
«E come puoi fare, se no, a ingraziarti una geologa?»
«Ho detto biologa», lo corresse Pitt.
Giordino diventò serio di colpo. «Non hai pensato che lei e i suoi colleghi potrebbero dare la caccia alla tossina che stiamo cercando anche noi?»
«Sì, ci ho pensato.»
In quel momento Rudy Gunn salì dal laboratorio, con un gran sorriso sulle labbra. «Fatto», annunciò in tono trionfante.
Giordino lo guardò senza capire.
«Fatto che cosa?»
Gunn non rispose. Continuò a sorridere.
Pitt intuì il motivo di quella soddisfazione. «L’hai trovato?»
«La schifezza che provoca le maree rosse?» borbottò Giordino.
Gunn annuì. «Ho avuto un colpo di fortuna.»
Pitt gli strinse calorosamente la mano. «Le mie congratulazioni, Rudi.»
«Stavo per rinunciare», spiegò Gunn. «Ma poi la mia negligenza ha aperto la porta alla rivelazione. Avevo passato al gascromatografo centinaia di campioni d’acqua, e non avevo controllato il funzionamento con la frequenza dovuta. Quando finalmente ho dato un’occhiata ai risultati, ho trovato uno stratc di cobalto all’interno della colonna dello strumento. Mi è sembrato incredibile che un metallo venisse estratto assieme agli inquinanti organici sintetici e arrivasse nel gascromatografo. Dopo ore e ore di esperimenti, modifiche e analisi, ho identificato un composto organometallico, una combinazione di un aminoacido sintetico alterato e di cobalto.»
«Non ci capisco un’acca», commentò Giordino scrollando le spalle. «Cos’è un aminoacido?»
«La sostanza che forma le proteine.»
«E come arriva nel fiume?» chiese Pitt.
«Questo non lo so», rispose Gunn. «Secondo me l’aminoacido sintetico proviene da un laboratorio biotecnologico d’ingegneria genetica, i cui rifiuti vengono scaricati assieme a quelli chimici e nucleari nell’area della fonte della contaminazione. Mi sembra poco probabile che si mescoli naturalmente formando l’inquinante che causa le maree rosse dopo aver raggiunto il mare. Si forma in una stessa località.»
«Potrebbe essere una discarica di scorie nucleari?»
Gunn annuì. «Ho osservato livelli piuttosto alti di radiazione nell’acqua. È solo una parte dell’inquinamento complessivo e non ha relazioni con le caratteristiche nella nostra sostanza contaminante, ma esiste un nesso evidente.»
Pitt non rispose. Guardò di nuovo sullo schermo radar l’immagine della cannoniera che li seguiva tenendosi fuori vista. Se mai, era ancora più distanziata. Si voltò a scrutare il cielo in cerca dei caccia a reazione. Continuavano a volare pigramente e a risparmiare il carburante mentre sorvegliavano da lontano la Calliope. Il fiume era largo alcuni chilometri, in quel tratto, e le autoblinde non si vedevano.
«Il nostro lavoro è compiuto a metà», disse. «Ora dobbiamo scoprire il punto in cui la tossina entra nel Niger. Sembra che i maliani non abbiano fretta di attaccarci; quindi continueremo l’esplorazione verso monte e cercheremo di concludere la missione prima che ci sbattano la porta in faccia.»
«Il nostro sistema per la trasmissione dei dati è kaputt», disse Giordino. «Come faremo a comunicare i risultati a Chapman e Sandecker?»
«Qualcosa mi verrà in mente.»
Gunn non manifestò la minima perplessità. Annuì in silenzio e ridiscese in laboratorio.
Pitt affidò il timone a Giordino e si sdraiò su una stuoia sotto il tendone per rifarsi del sonno perduto.
Quando si svegliò, la grande sfera color arancio del sole era calata per un terzo dietro l’orizzonte, ma l’aria era più calda. Un rapido controllo al radar gli mostrò che la cannoniera continuava a seguirli. I caccia a reazione tornavano alla base per fare rifornimento di carburante. Stanno diventando spavaldi, pensò Pitt. I maliani dovevano essere convinti di avere ormai la selvaggina nel carniere. Altrimenti, perché i caccia si sarebbero allontanati senza che altri fossero venuti a dargli il cambio? Quando Pitt si alzò e si stirò, Giordino gli porse una tazza di caffè.
«Ecco, questo servirà a svegliarti. Buon caffè egiziano con abbondanza di fondi.»
«Per quanto sono rimasto nel mondo dei sogni?»
«Poco più di due ore.»
«Abbiamo superato Gao?»
«Sì, una cinquantina di chilometri fa. Ti sei perso lo spettacolo d’una villa galleggiante con una nidiata di bellezze in bikini che mi gettavano baci.»
«Vuoi prendermi in giro?»
Giordino alzò tre dita. «Lo giuro sul mio onore di boy scout. Era l’houseboat più lussuosa che abbia mai visto.»
«Rudi continua a registrare livelli elevati di tossine?»
Giordino annuì. «Dice che la concentrazione aumenta di chilometro in chilometro.»
«Dobbiamo essere ormai vicini.»
«Secondo lui siamo quasi arrivati.»
Un lampo balenò negli occhi di Pitt, come se rispecchiasse l’immagine apparsa nella sua mente. Giordino era sempre in grado di capire quando Pitt si staccava dalla realtà e navigava verso destinazioni ignote. Poi, in un battito degli occhi opalescenti, tutto svanì e fu sostituito dalla visione di un’altra scena.
Giordino continuò a fissarlo, incuriosito. «La tua espressione non mi piace.»
Pitt ridiscese sulla terra. «Stavo pensando semplicemente a un modo per salvare la Calliope da un despota mascalzone che vorrebbe usarla per farci le orge.»
«E come prevedi di cancellare la luce dell’avidità dagli occhi di Kazim?»
Pitt sfoggiò un sorriso maligno. «Escogiterò un piano diabolico per frustrare le sue speranze.»
Poco dopo il tramonto, Gunn chiamò dal laboratorio. «Siamo entrati in acque pulite. La contaminazione è sparita di colpo dagli strumenti.»
Pitt e Giordino si girarono a scrutare le due rive. In quel tratto il fiume scorreva leggermente in diagonale, da nord-ovest a sud-est. Non si vedevano villaggi e neppure strade rivierasche. Ai loro occhi si offriva soltanto un paesaggio desolato, pianeggiante e brullo che si estendeva senza interruzioni fino ai quattro orizzonti.
«Tutto vuoto», borbottò Giordino. «Tutto vuoto come un’ascella depilata.»
Gunn apparve sul ponte e si voltò a guardare a poppa. «Vedete qualcosa?»
«Guarda tu.» Giordino girò il braccio come l’ago d’una bussola. «Tutto vuoto. Non c’è altro che sabbia.»
«Verso est c’è un’apertura», disse Pitt, indicando un’ampia gola che squarciava la riva. «Sembra che in passato vi scorresse l’acqua.»
«Chissà quanto tempo fa», puntualizzò Gunn. «Doveva essere un affluente, in un’epoca più umida.»
Giordino studiò con aria solenne l’antico letto del fiume. «Rudi deve essersi sintonizzato su un videogame. Qui non entra nel Niger nessuna sostanza inquinante.»
«Tornate indietro e fate un altro passaggio, così potrò ricontrollare i miei dati», li invitò Gunn.
Pitt obbedì ed eseguì diversi passaggi avanti e indietro, come se falciasse un prato. Incominciò vicino alla riva e si allontanò via via verso il centro del canale, poi in direzione della riva opposta fino a quando le eliche sollevarono i sedimenti del fondo. Il radar mostrava che la cannoniera s’era fermata. Con ogni probabilità il comandante e gli ufficiali si stavano chiedendo cosa intendevano fare quelli della Calliope.
Gunn si affacciò dal boccaporto dopo l’ultimo passaggio. «Lo giuro davanti a Dio: la massima concentrazione di tossine proviene dalla foce di quel fiume in secca, sulla riva orientale.»
Tutti e tre guardarono con aria dubbiosa il letto sassoso e prosciugato da secoli. Si snodava verso nord, in direzione di una catena di basse dune. Nessuno parlò mentre Pitt metteva i motori in folle e lasciava che lo yacht andasse alla deriva sulla corrente.
«Non c’è traccia di residui tossici, a monte di questo punto?» chiese Pitt.
«Neppure l’ombra», rispose seccamente Gunn. «La concentrazione è al massimo subito a valle del fiume in secca, mentre a monte scompare.»
«Forse è un sottoprodotto naturale del suolo», suggerì Giordino.
«Questo composto diabolico non può essere prodotto dalla natura», borbottò Gunn. «Te lo garantisco.»
«E se ci fosse una conduttura sotterranea proveniente da uno stabilimento chimico al di là delle dune?» chiese Pitt.
Gunn scrollò le spalle. «Non sono in grado di dirlo senza indagare meglio. Non possiamo andare oltre. Abbiamo mantenuto l’impegno preso. Ora tocca agli specialisti raccogliere il resto dei cocci.»
Pitt guardò a poppa: la cannoniera era ricomparsa. «I nostri segugi stanno diventando curiosi. Non è molto intelligente da parte nostra fargli sapere che cosa stiamo perpetrando. È meglio che proseguiamo sulla nostra rotta come se stessimo ancora ammirando il panorama.»
«Bel panorama», brontolò Giordino. «In confronto, la Valle della Morte è un giardino.»
Pitt spinse in avanti le leve e la Calliope sollevò la prua e avanzò con un rombo smorzato. Meno di due minuti dopo la cannoniera maliana rimase distanziata nella sua scia. Adesso, pensò Pitt, comincia il divertimento.
Il generale Kazim era seduto su una poltroncina di cuoio a un’estremità del tavolo delle conferenze, fiancheggiato da due ministri maliani e dal suo capo di stato maggiore. A prima vista i quadri moderni appesi alle pareti tappezzate di seta e la moquette soffice conferivano alla sala per le riunioni l’aspetto del lussuoso ufficio d’un palazzo moderno. Gli unici particolari che rivelavano la verità erano il soffitto curvo e il suono smorzato dei motori a reazione.
L’Airbus Industrie A300 arredato con tanta eleganza era uno dei numerosi regali che Massarde aveva fatto a Kazim perché gli aveva permesso di svolgere la sua attività nel Mali senza perdere tempo con dettagli trascurabili come le leggi e le restrizioni governative. Kazim era disposto a dare a Massarde tutto ciò che voleva, purché il francese continuasse a impinguare i suoi conti in banca e gli fornisse costosi giocattoli.
Oltre a fungere come mezzo di trasporto privato per il generale e i suoi amici, l’Airbus era attrezzato elettronicamente come il centro comunicazioni d’un comando militare, soprattutto allo scopo di stornare le accuse dell’opposizione che, per quanto poco numerosa, faceva sentire con energia la sua voce in parlamento.
Kazim ascoltava in silenzio mentre il suo capo di stato maggiore, il colonnello Sghir Cheik, spiegava minuziosamente i rapporti sulla distruzione delle cannoniere e dell’elicottero del Benin. Poi passò a Kazim due foto scattate al super-yacht mentre risaliva il fiume. «Nella prima», fece notare Cheik, «batte il tricolore francese. Ma da quando è entrato nel nostro Paese, ha alzato la bandiera pirata.»
«Che assurdità sarebbe?» chiese Kazim.
«Non lo sappiamo», confessò Cheik. «L’ambasciatore di Francia giura che il suo governo non sa niente dell’imbarcazione, e che non risulta di proprietà francese. In quanto alla bandiera pirata, è un enigma.»
«Lei deve sapere da dove viene quella barca.»
«I nostri servizi segreti non sono riusciti a scoprire il costruttore e neppure il Paese d’origine. Le linee e lo stile non sono caratteristici dei principali cantieri americani ed europei.»
«Forse è cinese o giapponese», suggerì il ministro degli Esteri Messaoud Djerma.
Cheik si tirò la barba a punta e si assestò gli occhiali da sole firmati. «I nostri agenti hanno interpellato anche i costruttori nautici del Giappone, di Hong Kong e di Taiwan che producono yacht dalle velocità superiori ai cinquanta nodi orari. Nessuno sa niente della nostra barca.»
«Non avete scoperto nessuna informazione su questa specie di invasione?» chiese incredulo Kazim.
«Niente.» Cheik alzò le mani. «Si direbbe che Allah l’abbia lasciata cadere dal cielo.»
«Uno yacht dall’aria innocua che cambia bandiera come una donna cambia vestito e che sta risalendo il Niger», mormorò Kazim con una smorfia sprezzante. «Distrugge metà della Marina del Benin e ne uccide l’ammiraglio, entra tranquillamente nelle nostre acque senza fermarsi per le ispezioni doganali e dell’immigrazione, e lei mi dice che la rete dei nostri servizi segreti non è in grado di scoprire la nazionalità del costruttore e del proprietario?»
«Mi dispiace, generale», rispose nervosamente Cheik. I suoi occhi miopi evitarono lo sguardo gelido di Kazim. «Forse, se fossi stato autorizzato a mandare a bordo un agente quando hanno attraccato al molo di Niamey…»
«È già costato anche troppo pagare i funzionali del Niger perché guardassero dall’altra parte quando lo yacht si è fermato per fare il pieno di carburante. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era che un agente imbecille causasse un incidente.»
«Non hanno risposto ai contatti radio?» chiese Djerma.
Cheik scosse la testa. «I nostri avvertimenti sono rimasti ignorati. Come tutte le nostre comunicazioni.»
«In nome di Allah, che cosa vogliono?» chiese Seyni Gashi. Il capo del consiglio militare di Kazim aveva l’aria del mercante di dromedari più che del soldato. «Qual è la loro missione?»
«Sembra che il mio servizio segreto non sia in grado di risolvere il mistero», commentò Kazim in tono irritato.
«Ora che è entrato nel nostro territorio», disse il ministro degli Esteri, «perché non l’abbordiamo e non ne prendiamo possesso?»
«L’ammiraglio Matabu ha tentato di farlo ed è finito in fondo al fiume.»
«Lo yacht è armato di lanciamissili», osservò Cheik. «Molto efficienti, a giudicare dai risultati.»
«Ma senza dubbio noi disponiamo di una potenza di fuoco sufficiente per…»
«L’equipaggio e la barca sono intrappolati sul Niger senza via di scampo», l’interruppe Kazim. «Non possono tornare indietro e navigare per mille chilometri fino a raggiungere il mare. Devono rendersi conto che, se tentassero la fuga, i nostri caccia e la nostra artiglieria li annienterebbero. Aspettiamo e stiamo a vedere. Quando resteranno senza carburante, la loro unica speranza di sopravvivere sarà la resa. E allora troveremo le risposte ai nostri interrogativi.»
«Possiamo essere certi che gli uomini dell’equipaggio si lasceranno convincere a rivelare la loro missione?» chiese Djerma.
«Sì, sì», si affrettò a rispondere Cheik. «La loro missione e molto di più.»
Il secondo pilota arrivò dalla cabina di comando e scattò sull’attenti. «Abbiamo avvistato lo yacht, signore.»
«E così, finalmente, potremo vedere questo enigma con i nostri occhi», commentò Kazim. «Dica al pilota di offrirci una buona visuale.»
La stanchezza fisica e la delusione dovuta all’impossibilità di individuare la provenienza della tossina avevano attenuato la vigilanza di Pitt. Le sue capacità percettive, di solito così acute, si erano offuscate, e la sua mente cercava di sfuggire la visione della morsa d’acciaio che si stava chiudendo lentamente intorno alla Calliope.
Fu Giordino che sentì il sibilo lontano dei reattori, alzò gli occhi e vide per primo un aereo che volava a una quota inferiore ai duecento metri sopra il fiume, con le luci di posizione che ammiccavano nel cielo blu dell’imbrunire. L’aereo ingrandì e si rivelò un grosso reattore passeggeri con i colori nazionali del Mali che ornavano le fiancate della fusoliera. Due o tre caccia di scorta sarebbero stati sufficienti, ma quell’aereo ne aveva intorno venti. In un primo momento sembrò che il pilota intendesse volare lungo il fiume sino a incrociare la Calliope, ma quando fu a un paio di chilometri di distanza virò e incominciò a volare in cerchio, avvicinandosi in una lenta spirale. I caccia di scotta presero quota e si lanciarono in una serie di evoluzioni a otto.
Pitt aveva individuato la grande cupola radar sul muso e aveva riconosciuto un aereo usato come centro di comando. Quando arrivò a meno di cento metri, scorse le facce che scrutavano attraverso i finestrini e osservavano ogni dettaglio dello yacht.
Trasse un lungo sospiro silenzioso e agitò la mano in segno di saluto. Poi eseguì un inchino teatrale. «Venghino, venghino, signori, ad ammirare la nave pirata con la sua allegra banda di ratti del fiume. Godetevi lo spettacolo ma non danneggiate la merce. Potreste farvi male.»
«Proprio vero.» Acquattato sulla scaletta della sala macchine in attesa di entrare in azione con il lanciamissili, Giordino studiava l’aereo con attenzione. «Se si azzarda solo a far ondeggiare le ali, lo faccio a pezzettini.»
Gunn andò a sedersi su una sdraio e si tolse il berretto per salutare gli spettatori. «Se non conosciamo un metodo per renderci invisibili, è meglio assecondarli. Una cosa è trovarsi in condizioni d’inferiorità; ma essere una preda facile è tutta un’altra faccenda.»
«Siamo in condizioni d’inferiorità, è vero», ammise Pitt, dimenticando la stanchezza. «Qualunque cosa facciamo, non cambierà nulla. Quelli hanno una potenza di fuoco sufficiente per trasformare la Calliope in un mazzo di stuzzicadenti.»
Gunn scrutò le rive basse del fiume e il paesaggio desolato. «È inutile arenarci e darci alla fuga. La zona è completamente scoperta. Non faremmo neppure cinquanta metri.»
«E allora cosa facciamo?» chiese Giordino.
«Corriamo il rischio e ci arrendiamo?» propose Gunn in tono incerto.
«Anche i ratti inseguiti mordono e fuggono», disse Pitt. «Io sono favorevole a un ultimo gesto di sfida. Forse sarà un gesto inutile ma… che diavolo! Gli facciamo un gestaccio osceno con i pugni, mandiamo i motori al massimo e filiamo. Se diventeranno bellicosi, li spediremo al cimitero.»
«È più probabile che siano loro a spedire al cimitero noi», protestò Giordino.
«Hai parlato sul serio?» chiese Gunn, incredulo.
«Neanche per idea», rispose con enfasi Pitt. «Non ho nessuna voglia di morire. Punto sul fatto che Kazim tenga tanto a mettere le mani su questa barca da aver pagato i funzionari del Niger perché la lasciassero entrare nel Mali, per potersene impadronire. Se ho ragione, non vorrà neppure un graffio o un’ammaccatura sullo scafo.»
«Stai puntando tutto sul numero sbagliato», ribatté Gunn. «Se abbatti anche un solo aereo susciterai un vespaio. Kazim manderà tutti i mezzi di cui dispone per farci fuori.»
«È quello che spero.»
«Stai parlando come un pazzo», commentò Giordino, insospettito.
«I dati sulla contaminazione», disse Pitt in tono paziente. «Siamo qui per questo, non dimenticarlo.»
«Non c’è bisogno che sia tu a ricordarcelo», sottolineò Gunn, che incominciava a intravedere la logica nell’apparente incongruenza di Pitt. «Dunque, che cosa sta ribollendo nel malefico calderone del tuo cervello?»
«Anche se mi dispiace rovinare una barca così bella e funzionale, forse una diversione è l’unica cosa che può permettere a uno di noi di mettersi in salvo e di portare i risultati delle nostre ricerche fuori dell’Africa per consegnarli a Sandecker e Chapman.»
«C’è un metodo nella sua follia, tutto sommato», ammise Giordino. «Sentiamo.»
«Non è molto complicato», spiegò Pitt. «Fra un’ora sarà buio. Invertiremo la direzione di marcia e ci avvicineremo il più possibile a Gao prima che Kazim si stanchi del giochetto. Rudi si tufferà in acqua e raggiungerà la riva a nuoto. Poi tu e io incominceremo con i fuochi d’artificio e scenderemo il fiume come una vergine vestale inseguita da un’orda di barbari.»
«Non pensi che la cannoniera potrebbe trovare qualcosa da ridire?» obiettò Gunn.
«È solo un dettaglio trascurabile. Se non sbaglierò i tempi, passeremo sotto il naso della Marina maliana prima che qualcuno se ne accorga.»
Giordino lo sbirciò al di sopra degli occhiali da sole. «C’è qualche possibilità. A quel punto l’attenzione dei maliani non sarà concentrata su un corpo che si muove in acqua.»
«Perché deve toccare a me e non a uno di voi?» chiese Gunn.
«Perché sei il più qualificato», spiegò Pitt. «Sei furbo, subdolo e viscido. Se c’è qualcuno che può farcela a insinuarsi nell’aeroporto di Gao e a salire su un aereo diretto all’estero, quello sei tu. E sei anche l’unico chimico fra noi. Questo ti dà il diritto di smascherare la sostanza tossica e il suo punto d’ingresso nel fiume.»
«Potremmo cercare di rifugiarci nella nostra ambasciata nella capitale, Bamako.»
«Non ci sono molte speranze. Bamako dista qualcosa come seicento chilometri.»
«Dirk ha ragione», riconobbe Giordino. «Messi insieme, il suo cervello e il mio non sarebbero in grado di darti neppure la formula di una saponetta.»
«Non intendo fuggire lasciando che voi due sacrifichiate la vita per me», insistette Gunn.
«Non dire stupidaggini», fu la replica imperturbabile di Giordino. «Sai benissimo che Dirk e io non abbiamo stretto un patto suicida.» Si rivolse a Pitt. «Oppure sì?»
«Nemmeno per idea», rispose Pitt. «Dopo aver coperto la fuga di Rudi, sistemeremo la Calliope in modo che Kazim non possa goderne i lussi. Poi l’abbandoneremo e ci avventureremo attraverso il deserto per scoprire la vera fonte della tossina.»
«Che cosa?» Giordino sgranò gli occhi, allibito. «Dovremmo attraversare il deserto?»
«Avete il dono incredibile di semplificare le cose», disse Gunn.
«Il deserto?» si lamentò Giordino.
«Una bella camminata non ha mai fatto male a nessuno», dichiarò Pitt con aria gioviale.
«Mi sbagliavo», gemette Giordino. «Vuole la nostra autodistruzione!»
«Autodistruzione?» ripeté Pitt. «Amico mio, hai pronunciato la parola magica.»
Pitt diede un’ultima occhiata agli aerei a reazione che continuavano a volare in cerchio senza una meta. Non avevano mostrato di avere l’intenzione di attaccare, ed evidentemente non l’avrebbero fatto neppure ora. Quando la Calliope avesse incominciato la corsa verso valle, Pitt non avrebbe avuto il tempo di tenerli sotto osservazione. Viaggiare allo scoperto su una via d’acqua sconosciuta nel cuore della notte alla velocità di settanta nodi orari avrebbe impegnato tutta la sua capacità di concentrazione.
Girò lo sguardo dagli aerei alla grande bandiera che aveva issato sull’albero maestro dove stava l’antenna sfondata del satellite. Aveva rimosso il piccolo vessillo pirata dall’asta di poppa dopo aver trovato quello degli Stati Uniti ripiegato in un armadietto. Era molto grande — circa due metri di lunghezza — ma non c’era un alito di vento, e quindi pendeva floscio intorno all’antenna.
Pitt lanciò un’occhiata alla cupola di poppa. Le imposte erano chiuse. Giordino non si preparava a lanciare i sei razzi rimasti: li stava fissando intorno ai serbatoi del carburante per collegarli a un detonatore a tempo. Gunn, Pitt lo sapeva, era sottocoperta, e stava chiudendo i dati delle analisi e dei campioni d’acqua in un sacchetto di plastica, per riporli nello zainetto assieme ai viveri e all’attrezzatura necessari per sopravvivere.
Alla fine concentrò l’attenzione sul radar e s’impresse nella mente la posizione della cannoniera maliana. Era sorprendentemente facile liberarsi dai tentacoli della stanchezza. Ora che la decisione definitiva era stata presa, l’adrenalina gli scorreva nel sangue.
Trasse un respiro profondo, bloccò al massimo le tre leve dell’alimentazione e spinse la ruota fino allo stop di babordo.
Gli uomini che assistevano dall’aereo del comando ebbero l’impressione che la Calliope avesse spiccato un balzo improvviso sull’acqua e si fosse girata su se stessa a mezz’aria: descrisse un arco netto al centro del fiume e si avventò verso valle a tutta velocità, avvolta in un’immensa cortina di spuma. La prua si sollevò dall’acqua come una spada sguainata mentre la poppa sembrava sprofondare sotto una grande coda di gallo che esplodeva dietro l’arcaccia.
La bandiera con le stelle e le strisce si gonfiò e si spiegò sotto l’assalto del vento. Pitt sapeva benissimo che stava agendo in contrasto con la linea politica del governo perché ostentava l’emblema nazionale in terra straniera nel corso di un’intrusione illegale. Il Dipartimento di Stato avrebbe urlato come un’aquila spennata quando i maliani, inviperiti, avessero presentato una rabbiosa nota di protesta. Dio solo sapeva cosa sarebbe successo alla Casa Bianca. Ma a lui non importava un accidente.
Ormai il dado era tratto. Il nastro d’acqua nera lo chiamava. Solo la luce fioca delle stelle si specchiava sulla superficie liscia, e Pitt non era certo che la vista gli consentisse di restare nella parte più profonda del canale. Se avesse fatto arenare lo yacht alla velocità massima, questo si sarebbe disintegrato. Girava di continuo gli occhi dallo schermo radar all’ecoscandaglio e da questo al fiume che si snodava davanti a lui.
Non degnò di un’occhiata il tachimetro: l’ago esitò, fremendo, al segno dei settanta nodi, e poi lo superò. Non c’era bisogno di controllare per sapere che gli indicatori erano oltre la linea rossa. La Calliope dava tutte le sue energie per quell’ultimo viaggio, come un purosangue che s’impegna in una corsa al di là dei propri limiti. Sembrava sapesse che non avrebbe più rivisto il porto di partenza.
Quando la cannoniera maliana giunse quasi al centro dello schermo radar, Pitt socchiuse le palpebre per scrutare nell’oscurità. Scorgeva a stento la sagoma bassa della nave che virava per portarsi di fianco attraverso il canale nel tentativo di impedirgli il passaggio. Tutte le luci erano spente, ma Pitt era sicuro che l’equipaggio gli teneva puntate le armi alla gola.
Decise di eseguire una finta verso babordo e poi tagliare a tribordo per disorientare gli artiglieri prima di aggirare le secche e sfrecciare sotto la prua della cannoniera. I maliani avevano il vantaggio di poter prendere l’iniziativa, ma Pitt contava sulla certezza che Kazim non voleva rovinare uno degli yacht veloci più belli del mondo. Il generale non doveva aver fretta. Disponeva ancora di un comodo margine di svariate centinaia di chilometri di fiume, per poter fermare la loro fuga.
Pitt piantò saldamente i piedi sulla tolda e strinse la ruota del timone per prepararsi a una serie di virate fulminee. Per qualche ragione inspiegabile il rombo dei motori diesel e il crescendo del vento che gli martellava negli orecchi rammentavano l’ultimo atto del wagneriano Crepuscolo degli Dei. Mancavano soltanto i tuoni e i lampi.
E poi vennero anche quelli.
La cannoniera entrò in azione, e una massa di fuoco urlante eruttò nella notte lacerando i timpani nel fragore d’incubo dei proiettili che piombavano sulla Calliope.
A bordo dell’aereo, Kazim assistette inorridito all’attacco inatteso. Poi esplose.
«Chi ha detto al capitano della cannoniera di aprire il fuoco?» chiese.
Cheik era allibito. «Deve averlo deciso di sua iniziativa.»
«Gli ordini di cessare il fuoco immediatamente. Voglio quella nave intatta e indenne.»
«Sì, signore.» Cheik si alzò di scatto e si precipitò nella cabina delle comunicazioni.
«Idiota!» sibilò Kazim, stravolto dalla rabbia. «Gli ordini erano espliciti. Non si deve attaccare battaglia senza il mio consenso. Voglio che il capitano e gli ufficiali della cannoniera siano giustiziati per aver disobbedito ai miei comandi.»
Il ministro degli Esteri Messaoud Djerma lo fissò con aria di disapprovazione. «Sono misure molto gravi…»
Kazim l’interruppe con un’occhiata agghiacciante. «Non certo nei confronti di chi è stato sleale.»
Djerma rabbrividì. Un uomo con moglie e figli non poteva avere il coraggio di tener testa a Kazim. Quelli che contestavano le pretese del generale sparivano nel nulla come se non fossero mai esistiti.
Kazim distolse gli occhi da Djerma e si concentrò nuovamente sulla scena che si svolgeva sul fiume.
I proiettili traccianti brillavano stranamente nell’oscurità del deserto e saettavano sull’acqua. All’inizio passarono molto a tribordo della Calliope. Sembrava che una dozzina di armi da fuoco sparasse contemporaneamente. Gli spruzzi sferzavano la superficie del fiume come grandine. Poi la mira degli artiglieri divenne più precisa e pericolosa, e i proiettili spostarono la traiettoria e incominciarono a colpire lo yacht indifeso. Gli squarci irregolari apparvero a prua e sul ponte anteriore, e i proiettili avrebbero penetrato l’intera lunghezza della Calliope se non fossero stati assorbiti dai rotoli delle corde di nailon e deviati dalla catena dell’ancora.
Non ci fu il tempo di evitare l’attacco iniziale, ma solo quello di reagire. Pitt, colto alla sprovvista, si chinò istintivamente e con lo stesso movimento girò di scatto la ruota per sfuggire al fuoco micidiale. La Calliope obbedì e per qualche momento si mise fuori portata, sino a quando gli artiglieri corressero il tiro e la centrarono di nuovo: i lampi abbaglianti saettarono attraverso il fiume e la ritrovarono, crivellando lo scafo d’acciaio e la sovrastruttura in fibra di vetro. I tonfi degli impatti avevano il suono dei pneumatici di una macchina in corsa che sobbalzano sulla linea centrale dei catarifrangenti di una autostrada.
Fumo e fiamme eruttarono dagli squarci che si erano aperti nel castello di prua, dove i proiettili traccianti avevano incendiato i rotoli di corda. Il quadro degli strumenti esplose intorno a Pitt. Miracolosamente non fu colpito dal proiettile, ma sentì qualcosa di liquido che gli scorreva sulla guancia. Era stato uno stupido, si disse, a credere che maliani non avrebbero distrutto la Calliope. Era pentito di aver detto a Giordino di togliere i missili dai lanciamissili e di fissarli intorno ai serbatoi del carburante. Sarebbe bastato che un proiettile penetrasse nella sala macchine perché finissero tutti in pasto ai pesci, ridotti a brandelli irriconoscibili.
Ormai era così vicino alla cannoniera che avrebbe potuto leggere il quadrante del suo vecchio orologio subacqueo Doxa alla luce dei lampi degli spari.
Girò furiosamente la ruota e fece deviare lo yacht intorno alla prua della cannoniera quando ormai era distante meno di due metri. Poi passò oltre, e la valanga d’acqua causata dal movimento dello yacht fece ondeggiare la nave nemica e alterò la mira degli artiglieri. I proiettili si persero sibilando nella notte.
E all’improvviso il rombo ossessivo della mitragliera cessò. Pitt non stette a chiedersi la ragione di quella tregua. Mantenne una rotta zigzagante fino a lasciarsi indietro il nemico; solo quando fu certo di essere fuori tiro e il radar, che funzionava ancora, mostrò che nessun aereo stava per attaccarlo, si rilassò e trasse un respiro di sollievo.
Giordino apparve al suo fianco con un’espressione preoccupata. «Tutto bene?»
«Sono furioso perché ho fatto la figura del fesso. E tu e Rudi?»
«Qualche livido perché siamo stati sbatacchiati di qua e di là dal tuo modo schifoso di pilotare. Rudi si è buscato un bernoccolo in testa quando è finito lungo disteso durante una sterzata, ma ha continuato a lottare contro l’incendio a prua.»
«È un tipo duro.»
Giordino alzò la torcia elettrica e la puntò contro il viso di Pitt. «Sai, hai un pezzo di vetro che spunta da quel brutto muso.»
Pitt staccò la mano dalla ruota del timone e toccò cautamente un frammento del vetro di un contatore che gli si era piantato nella guancia. «Tu lo vedi meglio di me. Toglilo.»
Giordino strinse fra i denti la lampada tascabile, puntò il fascio di luce sulla ferita e afferrò la scheggia di vetro fra pollice e indice. L’estrasse con un movimento secco. «È più grossa di quel che pensavo», commentò con noncuranza. Gettò il vetro in acqua e prese la cassetta del pronto soccorso da un armadietto. Dopo aver applicato tre punti di sutura e una benda mentre Pitt continuava a tener d’occhio gli strumenti e il fiume, Giordino si scostò per ammirare il risultato della sua opera. «Ecco fatto. Un’altra brillante operazione nell’interminabile saga del dottor Albert Giordino, chirurgo del deserto.»
«Qual è la tua prossima grande impresa nel campo della medicina?» chiese Pitt mentre avvistava la fioca luce gialla di una lanterna e faceva deviare la Calliope in un ampio arco per evitare un pinnace che navigava nel buio.
«La presentazione del conto, naturalmente.»
«Ti spedirò un assegno.»
Gunn salì dalla sottocoperta. Si premeva un cubetto di ghiaccio contro un bernoccolo all’occipite. «L’ammiraglio morirà di dolore quando saprà cosa abbiamo fatto alla sua barca.»
«Io sono convinto che non sperasse certo di rivederla», commentò Giordino.
«L’incendio è spento?» chiese Pitt a Gunn.
«Sta ancora fumando, ma darò un’altra ripassata con l’estintore dopo aver respirato abbastanza per liberarmi i polmoni dal fumo.»
«C’è qualche falla?»
Gunn scosse la testa. «Quasi tutti i colpi ci hanno beccati nelle sovrastrutture. Nessuno è arrivato sotto la linea di galleggiamento. La sentina è asciutta.»
«Gli aerei sono ancora nei dintorni? Il radar ne mostra uno solo.»
Giordino alzò gli occhi al cielo. «È quello grosso, e continua a tenerci d’occhio», confermò. «È troppo buio per scorgere i caccia, e non li sento. Ma sento nelle ossa che non hanno smesso di ronzarci intorno.»
«Siamo molto lontani da Gao?» chiese Gunn.
«Settanta od ottanta chilometri», calcolò Pitt. «Anche a questa velocità non vedremo le luci della città almeno per un’altra ora o più.»
«Purché quei signori lassù ci lascino in pace», disse Giordino, alzando la voce di due ottave per farsi sentire nonostante il vento e il rombo delle macchine.
Gunn indicò la radio portatile che stava su un ripiano. «Potrebbe essere utile farci vivi.»
Pitt sorrise nell’oscurità. «Sì, credo che sia ora di fare qualche chiamata.»
«Perché no?» Giordino decise di stare al gioco. «Sono curioso di sentire cos’hanno da dirci.»
«Parlare con loro potrebbe servire a guadagnare il tempo necessario per raggiungere Gao», opinò Gunn. «Abbiamo ancora parecchia strada da fare.»
Pitt lasciò il timone a Giordino, alzò il volume dell’altoparlante perché tutti potessero sentire, e parlò nel microfono. «Buonasera», esordì gentilmente. «In che cosa posso esservi utile?»
Vi fu un breve silenzio. Poi una voce rispose in francese.
«Non mi piace», mormorò Giordino.
Pitt alzò lo sguardo verso l’aereo e disse: «Non parley vous français».
Gunn aggrottò la fronte. «Sai che cos’hai detto, più o meno?»
Pitt si voltò a guardarlo con aria innocente. «L’ho avvertito che non parlo francese.»
«Vous significa voi», spiegò Gunn. «Gli hai appena detto che lui non sa parlare il francese.»
«Comunque, capirà.»
La voce tornò a crepitare attraverso l’altoparlante. «Capisco l’inglese.»
«Molto bene», rispose Pitt. «Prosegua.»
«Si identifichi.»
«Prima lo faccia lei.»
«D’accordo. Sono il generale Zateb Kazim, capo del supremo consiglio militare del Mali.»
Pitt si voltò a guardare Giordino e Gunn. «È l’alto papavero in persona.»
«Ho sempre sognato di venire riconosciuto da una celebrità», disse Giordino in tono sarcastico. «Ma non immaginavo che sarebbe successo in mezzo al deserto.»
«Si identifichi», ripeté Kazim. «È il comandante di un vascello americano?»
«Edward Teach, capitano della Queen Anne’s Revenge.»
«Ho studiato all’università di Princeton», ribatté Kazim in tono asciutto. «E so benissimo chi era il pirata Barbanera. La smetta di fare lo spiritoso e consegni la nave.»
«E se avessi altri progetti?»
«Lei e i suoi saranno annientati dai cacciabombardieri dell’Aeronautica del Mali.»
«Se non sparano meglio delle vostre cannoniere», commentò Pitt, «non abbiamo nessun motivo di preoccuparci.»
«Non mi prenda in giro», ribatté Kazim, inviperito. «Chi siete e che cosa fate nel mio Paese?»
«Si potrebbe dire che siamo venuti a pescare.»
«Si fermi e consegni immediatamente lo yacht!» sibilò irritato Kazim.
«No, non credo che lo farò», rispose sfrontatamente Pitt.
«Se non lo farà, lei e i suoi moriranno di sicuro.»
«E lei perderà una barca che non ha eguali al mondo. Unica nel suo genere. Immagino che ormai si sarà fatto un’idea di quel che può fare.»
Vi fu un lungo silenzio. Pitt comprese di aver colpito nel segno.
«Ho letto i rapporti sulla vostra piccola discussione con il mio compianto amico, l’ammiraglio Matabu, e conosco la potenza di fuoco del suo yacht.»
«Allora sa che avremmo potuto spedire in fondo al fiume la sua cannoniera.»
«Mi rincresce che vi abbiano sparato: avevo dato ordini alquanto diversi.»
«E siamo anche in grado di impallinare il suo aereo», bluffò Pitt.
Kazim non era uno stupido, e aveva già preso in considerazione quella possibilità. «Allora io morirei e lei morirebbe. Che cosa ci sarebbe da guadagnare?»
«Mi lasci un po’ di tempo per pensarci; diciamo fino a quando arriveremo a Gao.»
«Io sono generoso», disse Kazim con una pazienza per lui inconsueta. «Ma a Gao interromperà la corsa e affiancherà lo yacht al molo del traghetto. Se si ostinerà in questo sciocco tentativo di fuga, i miei aerei vi spediranno tutti nell’inferno degli infedeli.»
«Ho capito, generale. Ha chiarito benissimo le possibilità di scelta.» Pitt spense la ricetrasmittente con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Sono sempre felice quando posso concludere un accordo conveniente.»
Le luci di Gao spuntarono nell’oscurità a meno di cinque chilometri di distanza. Pitt sostituì Giordino al timone e fece un cenno a Gunn. «Preparati a tuffarti, Rudi.»
Gunn scrutò con aria esitante l’acqua bianca che vorticava a poco meno di settantacinque nodi. «Non posso, a questa velocità.»
«Non preoccuparti», lo tranquillizzò Pitt. «La ridurrò bruscamente a dieci nodi e tu ti calerai in acqua sul lato opposto all’aereo. Appena ti sarai allontanato, tornerò ad accelerare.» Poi si rivolse a Giordino. «Parla con Kazim. Tienilo occupato.»
Giordino prese la radio e parlò a voce bassa. «Può ripetere le sue condizioni, generale?»
«Interrompete questo insensato tentativo di fuga, consegnate lo yacht a Gao e resterete vivi. Le condizioni sono queste.»
Mentre Kazim parlava, Pitt accostò un po’ di più la Calliope alla riva dove sorgeva la città. La tensione e l’ansia crebbero. Secondo Pitt, Gunn doveva tuffarsi prima che le luci di Gao rivelassero la sua presenza nell’acqua nera. E aveva motivi validi per stare in ansia. Lo scopo del gioco consisteva nell’evitare che i maliani si insospettissero per la sua manovra. L’ecoscandaglio rivelava che il fondo saliva rapidamente. Tirò indietro le leve, e la prua della Calliope si abbassò nell’acqua. La velocità si ridusse così all’improvviso da scagliarlo contro il banco.
«Vai!» gridò a Gunn. «Vai e buona fortuna.»
Senza una parola di commiato, lo scienziato della NUMA strinse energicamente le cinghie dello zaino, scavalcò il parapetto e sparì. Quasi nello stesso istante, Pitt spinse di nuovo le leve al massimo.
Giordino stava guardando da poppa, ma Gunn era invisibile nel fiume nero. Quando fu certo che stava attraversando a nuoto i cinquanta metri che separavano lo yacht dalla riva, si girò e continuò con calma il dialogo con il generale Kazim.
«Se ci promette che potremo lasciare indisturbati il Paese, la barca è sua… o almeno, quello che ne resta dopo che la sua cannoniera l’ha rovinata.»
Kazim non sembrava insospettito dal breve rallentamento della Calliope. «Accetto», mormorò. La sua risposta non ingannò nessuno.
«Non vogliamo morire sotto una grandinata di raffiche in un fiume inquinato.»
«È una scelta molto saggia», rispose Kazim. Le parole erano formali e garbate, ma il tono tradiva l’ostilità e il trionfo. «Non potete fare altro, per la verità.»
Pitt provò la deprimente sensazione di aver esagerato. Non dubitava, come non dubitava Giordino, che Kazim intendesse ucciderli e gettare i loro cadaveri agli avvoltoi. Avevano un’unica possibilità per distogliere da Gunn l’attenzione dei maliani, un’unica possibilità di restare vivi… ma le probabilità erano così basse che nessuno scommettitore degno di rispetto sarebbe stato disposto a puntare su di loro.
Il suo piano, se era possibile chiamarlo così, avrebbe fatto guadagnare qualche ora, nulla di più. Incominciò a imprecare tra sé: era stato pazzo a pensare di potersela cavare.
Ma dopo un momento apparve nella notte la salvezza, inattesa e imprevedibile.
Giordino batté la mano sulla spalla di Pitt e indicò verso valle. «Quelle luci di prua, a babordo… è l’houseboat di gran lusso che ti ho descritto. L’abbiamo incrociata all’andata. Sembra uno yacht per miliardari, con tanto di elicottero e una quantità di belle donne.»
«Credi che possa avere un sistema di comunicazioni via satellite che ci permetterebbe di contattare Washington?»
«Non mi sorprenderei affatto se avesse il telex.»
Pitt si voltò e sorrise. «Dato che non abbiamo impegni urgenti, perché non gli facciamo una visitina?»
Giordino rise e gli diede una pacca sulla schiena. «Regolo il detonatore.»
«Trenta secondi dovrebbero bastare.»
«D’accordo.»
Giordino gli restituì la radio e scese in fretta la scala a pioli che portava in sala macchine. Ricomparve quasi immediatamente, e trovò Pitt che programmava la rotta sul computer e inseriva il pilota automatico. Per fortuna il fiume era ampio e diritto, e avrebbe permesso alla Calliope di proseguire da sola per una distanza considerevole dopo che l’avessero abbandonata.
Pitt fece un cenno a Giordino. «Pronto?»
«Basta la parola.»
«A proposito di parole.» Pitt si accostò alle labbra la radio portatile. «Generale Kazim?»
«Sì?»
«Ho cambiato idea. Non avrà la barca. Buona giornata.»
Giordino sogghignò. «Mi piace il tuo stile.»
Pitt gettò in acqua la radio con un movimento noncurante e si tenne pronto fino a quando la Calliope giunse all’altezza dell’houseboat. Poi tirò all’indietro le leve.
Appena la velocità si ridusse a venti nodi, gridò: «Via!»
Giordino non ebbe bisogno di sollecitazioni. Attraversò correndo il ponte di poppa e si tuffò. Piombò in acqua al centro della scia e lo spruzzo si perse nel turbinio della spuma. Pitt indugiò solo il tempo necessario per bloccare le leve prima di lanciarsi dalla fiancata raggomitolandosi come una palla. L’impatto quasi gli mozzò il respiro. Per fortuna l’acqua era tiepida e l’avvolse come una coltre soffice. Comunque evitò d’inghiottirla. Era già in una situazione abbastanza preoccupante, anche senza il rischio di ammalarsi inguaribilmente.
Si girò sul dorso in tempo per vedere la Calliope che filava nell’oscurità rombando come un treno espresso: era uno yacht abbandonato che aveva pochi minuti da vivere. Rimase a galleggiare, immobile, in attesa che i missili e i serbatoi del carburante esplodessero. Non aspettò a lungo. Anche a una distanza superiore al chilometro, la deflagrazione fu assordante, e l’onda d’urto che si propagò attraverso l’acqua lo investì come un colpo sferrato da un maglio invisibile. Le fiamme eruppero nella tenebra in un’enorme sfera color arancio, mentre la fedele Calliope volava in mille frammenti. Dopo mezzo minuto le fiamme erano inghiottite dalla notte e non rimase la minima traccia dello splendido yacht.
C’era uno strano silenzio, ora che il rombo dei motori e il fragore dell’esplosione svanivano nel deserto. Gli unici suoni erano il ronzio dell’aereo di Kazim e le note di un pianoforte che suonava a bordo dell’houseboat.
Giordino gli passò accanto. «Stai nuotando? Credevo che avresti camminato sull’acqua.»
«Lo faccio solo in casi eccezionali.»
Giordino alzò una mano verso il cielo. «Credi che siamo riusciti a imbrogliarli?»
«Per il momento, sì. Ma credo che capiranno molto presto come stanno le cose.»
«Dobbiamo autoinvitarci alla festa?»
Pitt si girò e incominciò a nuotare a rana con molta calma. «Naturalmente.»
Studiò l’houseboat. Era il mezzo ideale per navigare su un fiume. Non doveva pescare più di un metro e venti. La sagoma ricordava un vecchio battello a pale del Mississippi, come la famosa Robert E. Lee, a parte il fatto che non aveva le ruote a pale e che la sovrastruttura era molto più moderna. Un fattore in comune era la timoniera installata nella parte anteriore del ponte superiore. Se fosse stata costruita per il mare aperto, con uno scafo adatto, sarebbe rientrata nella classe dei mega-yacht. Pitt studiò l’elicottero posato sul ponte di poppa, l’atrio a tre piani chiuso da vetrate e pieno di piante tropicali, gli apparecchi elettronici che spuntavano dietro la timoniera. Era una fantasia tradotta in realtà.
Erano a meno di venti metri dalla scaletta quando la cannoniera maliana arrivò a tutta velocità. Pitt vide in plancia le sagome scure degli ufficiali: stavano tutti guardando nella direzione in cui era avvenuta l’esplosione e non badavano al fiume intorno a loro. Vide un gruppo di uomini a prua: stavano scrutando l’acqua in cerca di eventuali superstiti e imbracciavano armi automatiche pronte a sparare.
Diede un’occhiata fulminea prima di tuffarsi sotto l’onda sollevata dalle eliche gemelle della cannoniera e vide una folla di persone che erano apparse sul ponte di passeggiata dell’houseboat. Parlavano tra loro animatamente e gesticolavano per indicare il luogo dell’ultimo riposo della Calliope. Il battello e l’acqua tutto intorno erano rischiarati dai riflettori montati sul ponte superiore. Quando Pitt riemerse, si fermò nel buio; poco oltre il limite del perimetro illuminato.
«Non possiamo andare oltre senza che ci vedano», disse sottovoce a Giordino, che galleggiava sul dorso a un metro di distanza.
«Non vogliamo fare un’entrata in grande stile?»
«La prudenza mi dice che faremmo meglio a informare l’ammiraglio Sandecker della nostra situazione prima di autoinvitarci alla festa.»
«Hai ragione come al solito, genio», ammise Giordino. «Il padrone potrebbe scambiarci per quei ladri che siamo e metterci ai ferri, cosa che farà indubbiamente comunque.»
«Mi pare che siamo a una ventina di metri. Come stai a fiato?»
«Sono capace di trattenerlo esattamente come te.»
Pitt cominciò a iperventilare per liberarsi i polmoni dall’anidride carbonica, quindi aspirò fino a riempirli completamente di ossigeno prima di immergersi.
Sicuro che Giordino l’avrebbe seguito, discese controcorrente. Rimase alla profondità di circa tre metri e si diresse verso la fiancata dell’houseboat. Si accorse d’essere più vicino quando vide la luce in superficie. Un’ombra passò sopra di lui, e comprese di essere transitato sotto la curva dello scafo. Tese una mano sopra la testa per proteggerla quest’ultima dall’urto e risalì lentamente fino a quando toccò con le dita lo strato viscido che si era formato sul fondo del battello. Poi deviò appena e affiorò accanto alla fiancata d’alluminio.
Aspirò l’aria notturna e alzò lo sguardo. Non riusciva a vedere i passeggeri, ma soltanto le loro mani strette intorno al parapetto due metri sopra la sua testa; e anche loro non avrebbero potuto scorgerlo a meno che si sporgessero per guardar giù. Era impossibile salire a bordo dalla scaletta senza essere notato. Giordino riemerse e subito si rese conto a sua volta della situazione.
In silenzio, Pitt indicò lo scafo e allargò le mani per indicare il pescaggio. Giordino annuì, ed entrambi si riempirono d’aria i polmoni. Poi avanzarono senza far rumore, s’immersero e passarono a nuoto sotto il fondo del battello. Era così largo che impiegarono quasi un minuto prima di riemergere dal lato opposto.
I ponti di tribordo erano deserti. Tutti erano sulla fiancata di babordo per osservare la fine della Calliope. C’era un paraurti di gomma appeso allo scafo, e Pitt e Giordino se ne servirono per issarsi a bordo. Pitt esitò un paio di secondi per farsi un’idea approssimativa della pianta del battello. Erano arrivati sul ponte dove si trovavano le suite per gli ospiti: adesso avrebbero dovuto salire. Seguito da Giordino, salì cautamente una scala che portava al ponte superiore. Attraverso un grande oblò diedero una rapida occhiata a un salone da pranzo lussuoso quanto il ristorante di un grande albergo, poi continuarono la salita fino a raggiungere il ponte sotto la timoniera.
Pitt socchiuse una porta e si affacciò in una lounge arredata sontuosamente, tutta vetrate, fregi di ferro battuto, cuoio giallo e oro. Un lato era dominato da un bar ben fornito.
Il barista non c’era; con ogni probabilità era corso fuori con gli altri. Ma una donna bionda dalle lunghe gambe nude, la vita sottile e una splendida abbronzatura era seduta a un piano a mezzacoda rivestito di ottone lucido. Indossava un seducente miniabito di lustrini neri molto attillato e stava suonando malinconicamente The Last Time I Saw Paris… Per la verità suonava maluccio e cantava le parole con voce gutturale. Sopra la tastiera c’erano quattro bicchieri da martini, vuoti. Sembrava che la donna avesse trascorso l’intera giornata, dal levar del sole in poi, a bere gin, e questa doveva essere la causa della sua interpretazione dolente. S’interruppe a metà del ritornello e guardò con aria di confusa curiosità Pitt e Giordino, socchiudendo gli occhi di un verde vellutato.
«Chi vi ha trascinati qui dentro?» chiese con voce impastata.
Pitt lanciò un’occhiata allo specchio dietro il bar, e vide se stesso e Giordino, due uomini in maglietta e calzoncini fradici, con i capelli incollati alla testa e la barba lunga d’una settimana. Non poteva darle torto, pensò ironicamente, se la donna li guardava come se fossero due ratti affogati. Si portò l’indice alle labbra per invitarla al silenzio, le prese una mano e la baciò, poi corse via e sparì in un corridoio.
Giordino si soffermò a guardarla malinconicamente e le strizzò un occhio. «Mi chiamo Al», le bisbigliò all’orecchio. «Ti amo. Tornerò.»
E sparì a sua volta.
Il corridoio sembrava estendersi all’infinito. C’erano passaggi laterali che si aprivano in ogni direzione e formavano un labirinto sconcertante. Se l’houseboat sembrava grande vista dall’esterno, all’interno era addirittura enorme.
«Qui ci vorrebbero due motociclette e una cartina stradale», borbottò Giordino.
«Se fossi io il padrone», disse Pitt, «piazzerei il mio ufficio e il centro comunicazioni in alto a prua, per potermi godere il panorama.»
«Sto pensando di sposare la pianista.»
«Non adesso», mormorò stancamente Pitt. «Andiamo avanti e controlliamo le porte.»
Non era difficile identificare i compartimenti: sulle porte c’erano eleganti targhette d’ottone e, come aveva previsto Pitt, quella in fondo al corridoio ostentava l’indicazione: Ufficio privato di M. Massarde.
«Dev’essere il proprietario di questa reggia galleggiante», commentò Giordino.
Pitt non rispose. Aprì la porta. Qualunque dirigente delle maggiori aziende del mondo occidentale sarebbe diventato verde per l’invidia nel vedere l’ufficio a bordo dell’houseboat ancorata in mezzo al deserto. Il pezzo centrale era un antico tavolo spagnolo con dieci sedie imbottite e rivestite di stoffe di lana create dai maestri della riserva navajo. Per quanto fosse incredibile, l’arredamento e gli oggetti appesi alle pareti e in mostra sui piedistalli erano tipici del Sud-ovest americano. Le sculture degli hopi kachina, realizzate con le enormi radici dei pioppi neri americani, spiccavano nelle grandi nicchie inserite nelle paratie. Il soffitto era coperto da latillas, i rametti posati sulle vigas, i pali che servivano da supporto al tetto; le finestre erano protette da imposte di salici intrecciati. Per un momento, Pitt dimenticò d’essere a bordo di un battello.
C’erano collezioni di splendido vasellame cerimoniale e di cesti sistemate sui lunghi ripiani dietro la gigantesca scrivania di legno pregiato. Un completo sistema di comunicazioni era montato in un trastero ottocentesco.
Non c’era nessuno, e Pitt non perse tempo. Raggiunse in fretta la console del telefono, sedette e studiò il complesso di tasti e manopole per qualche istante. Poi cominciò a comporre il numero privato di Sandecker e si appoggiò alla spalliera. L’altoparlante della console emetteva una serie di clic e di clac. Poi vennero dieci secondi di silenzio assoluto e finalmente il trillo caratteristico di un telefono americano.
Dopo dieci squilli, non ci fu risposta. «In nome di Dio, perché non si fa vivo?» esclamò esasperato Pitt.
«Washington è cinque ore più indietro del Mali. Là è mezzanotte, e probabilmente lui è a letto.»
Pitt scosse la testa. «Chi, Sandecker? Non dorme mai durante una crisi.»
«Sarà meglio che si sbrighi a rispondere», mormorò Giordino. «La muta dei cacciatori sta seguendo nel corridoio le nostre impronte bagnate.»
«Tienili a bada», disse Pitt.
«E se sono armati?»
«Puoi preoccupartene quando verrà il momento.»
Giordino girò gli occhi sulle opere dell’artigianato indiano. «Tienili a bada, dice lui», borbottò. «Mi sembra di essere Custer che se la spassa nel Montana.»
Finalmente una voce femminile risuonò attraverso l’altoparlante. «Qui ufficio dell’ammiraglio Sandecker.»
Pitt afferrò il ricevitore. «Julie?»
La segretaria privata di Sandecker, Julie Wolff, trattenne il respiro. «Oh, signor Pitt, è lei?»
«Sì. Non pensavo che fosse in ufficio a quest’ora di notte.»
«Nessuno ha più dormito dopo che le comunicazioni con voi si sono interrotte. Grazie a Dio, è vivo. Alla NUMA sono tutti tremendamente preoccupati. E il signor Gunn e il signor Giordino?»
«Stanno bene. C’è l’ammiraglio?»
«È in conferenza con un team tattico dell’ONU per decidere sul modo di portarvi via dal Mali. Lo chiamo subito.»
Dopo meno di un minuto risuonò la voce di Sandecker, mentre qualcuno bussava con violenza alla porta. «Dirk?»
«Non ho tempo per un rapporto dettagliato, ammiraglio. Metta in funzione il registratore.»
«È in funzione.»
«Rudi ha isolato il fattore chimico. Ha con sé i dati ed è diretto all’aeroporto di Gao, dove spera di nascondersi su un volo in partenza per l’estero. Abbiamo localizzato il punto in cui la sostanza entra nel Niger. La posizione esatta figura nei dati di Rudi. Il problema è che la sorgente si trova nel deserto, in un posto sconosciuto a nord. Al e io siamo rimasti per tentare di scoprirlo. A proposito, abbiamo distrutto la Calliope.»
«Gli indigeni stanno perdendo la pazienza», gridò Giordino, che premeva con tutte le sue forze contro la porta mentre qualcuno la prendeva a calci dall’altra parte.
«Dove siete?» chiese Sandecker.
«Ha mai sentito parlare di un riccone, un certo Massarde?»
«Yves Massarde, il magnate francese. Sì, l’ho sentito nominare.»
Prima che Pitt potesse rispondere, la porta esplose intorno a Giordino e sei robusti marinai lo assalirono come gli attaccanti d’una squadra di rugby. Giordino stese i primi tre, poi fu sepolto sotto un mucchio di aggressori.
«Siamo ospiti non invitati a bordo dell’houseboat di Massarde», spiegò precipitosamente Pitt. «Mi scusi, ammiraglio, ora devo andare.» Posò con calma il ricevitore, si girò sulla poltroncina e guardò l’uomo che era entrato in quel momento nell’ufficio.
Yves Massarde era vestito con perfetta eleganza: portava uno smoking bianco con una rosa gialla all’occhiello. Teneva una mano in tasca, con il gomito piegato verso l’esterno, impassibile, girò intorno agli uomini pesti e sanguinanti che cercavano di bloccare Giordino. Poi si soffermò a guardare la scena attraverso il fumo azzurrognolo di una Gauloise Bleu che gli pendeva da un angolo della bocca. Vide un individuo dagli occhi gelidi seduto alla sua scrivania, con le braccia conserte in un atteggiamento indifferente e un sorriso interessato e divertito. Massarde sapeva giudicare gli uomini, e intuì subito che quello che gli stava di fronte era astuto e pericoloso.
«Buonasera», disse educatamente Pitt.
«Americano o inglese?» chiese Massarde.
«Americano.»
«Cosa fa a bordo della mia barca?»
Le labbra di Pitt s’incurvarono in un sorriso ironico. «Dovevo assolutamente usare il suo telefono. Spero che il mio amico e io non l’abbiamo mandata in rovina; sarò ben felice di rimborsarle la telefonata e i danni alla porta.»
«Avreste potuto chiedere di salire a bordo e di usare il telefono, come fanno i gentiluomini.» Il tono di Massarde indicava chiaramente che li giudicava alla stregua di due cowboy primitivi.
«Visto il modo in cui siamo conciati, lei avrebbe invitato nel suo ufficio privato due sconosciuti apparsi all’improvviso nella notte?»
Massarde rifletté, poi sorrise pensosamente. «No, non credo. Ha ragione.»
Pitt prese una penna da un calamaio antico e scribacchiò su un blocco, poi strappò il foglio, girò intorno alla scrivania e lo porse a Massarde. «Può mandare il conto a questo indirizzo. È stato un piacere parlare con lei, ma ora dobbiamo andare.»
Massarde tolse la mano dalla tasca della giacca, e puntò contro Pitt una piccola pistola automatica, mirando alla fronte. «Devo insistere perché rimanga e approfitti della mia ospitalità fino a quando non la consegnerò alle forze della sicurezza del Mali.»
Gli uomini dell’equipaggio rimisero bruscamente in piedi Giordino, che aveva già un occhio gonfio e un filo di sangue che gli colava da una narice. «Ha intenzione di metterci ai ferri?» chiese a Massarde.
Il francese squadrò Giordino come se fosse un orso dello zoo. «Sì, credo che sia necessario.»
Giordino si voltò verso Pitt. «Visto?» borbottò. «Te l’avevo detto.»
Sandecker tornò nella sala per le conferenze della NUMA e sedette con un’aria ottimista che non aveva dieci minuti prima. «Sono vivi», annunciò laconicamente.
C’erano due uomini seduti al tavolo coperto da una grande carta del Sahara occidentale e dai rapporti dei servizi segreti sulle forze militari e poliziesche del Mali. Entrambi fissarono Sandecker e annuirono.
«Allora proseguiremo l’operazione di recupero secondo i piani», disse il più anziano dei due, che aveva i capelli grigi pettinati all’indietro. Due occhi duri e lucenti come topazi azzurri brillavano nella faccia rotonda.
Il generale Hugo Bock era un uomo lungimirante, un esperto ideatore di piani. Possedeva una straordinaria quantità di doti, ed era un killer nato. Era il comandante di un organo di sicurezza poco noto chiamato UNICRATT, una sigla che indicava il team tattico di reazione alle crisi dell’ONU. Il team era composto da combattenti perfettamente addestrati ed efficientissimi, che appartenevano a nove Paesi e compivano missioni clandestine per conto delle Nazioni Unite… Missioni che non venivano mai pubblicizzate. Bock aveva fatto una carriera di tutto rispetto nell’esercito tedesco e si era spostato di continuo per fungere da consigliere dei Paesi del Terzo Mondo i cui governi richiedevano la sua collaborazione durante le guerre rivoluzionarie o i conflitti per le dispute di confine.
Il suo vice era il colonnello Marcel Levant, un pluridecorato veterano della Legione Straniera francese, con l’aria di un vero nobile. Diplomato a Saint-Cyr, il più illustre collegio militare della Francia, aveva prestato servizio in tutto il mondo ed era stato uno degli eroi della breve guerra contro l’Iraq del 1991. Aveva un volto intelligente e quasi bello. Sebbene avesse già trentasei anni, la figura snella, i lunghi capelli bruni, i baffi vistosi ma ben curati e i grandi occhi grigi gli davano l’aspetto di uno studente reduce dalla cerimonia per la consegna delle lauree.
«Conosce la loro posizione?» chiese Levant a Sandecker.
«Sì», rispose l’ammiraglio. «Uno di loro sta cercando di salire clandestinamente a bordo di un aereo a Gao. Gli altri due si trovano sul fiume Niger, e più esattamente su una houseboat appartenente a Yves Massarde.»
Nel sentire il nome, Levant sgranò gli occhi.
«Ah, sì. Lo Scorpione.»
«Lo conosce?» chiese Bock.
«Soltanto di fama. Yves Massarde è un imprenditore internazionale che ha accumulato un patrimonio valutato sui due miliardi di dollari americani. Lo chiamano Scorpione perché molti dei suoi concorrenti e dei suoi soci in affari sono spariti in modo misterioso, lasciandolo unico proprietario di compagnie solide e molto redditizie. Ha la reputazione di essere spietato, e fra l’altro è motivo d’imbarazzo per il governo francese. I suoi amici non potevano scegliere una compagnia peggiore.»
«Svolge attività criminose?» chiese Sandecker.
«Senza il minimo dubbio, ma non lascia mai tracce che potrebbero farlo condannare da un tribunale. I miei amici dell’Interpol mi hanno detto che sul suo conto esiste un dossier alto un metro.»
«Fra tutta la gente che si può incontrare nel Sahara», mormorò Bock, «come hanno fatto i suoi a imbattersi proprio in quel Massarde?»
Sandecker scrollò stancamente le spalle. «Se conoscesse Dirk Pitt e Al Giordino lo capirebbe.»
«Ma ancora non capisco perché il segretario generale Hala Kamil ha approvato un’operazione per portare clandestinamente fuori del Mali quelli della NUMA», commentò Bock. «Le nostre missioni dell’UNICRATT di solito vengono compiute nella massima segretezza, in occasione di crisi internazionali. Non riesco a capire perché sia tanto importante salvare la vita di tre ricercatori.»
Sandecker lo guardò negli occhi: «Mi creda, generale: non le toccherà mai una missione più importante di questa. I dati scientifici raccolti nell’Africa occidentale da quegli uomini devono arrivare al più presto possibile ai nostri laboratori di Washington. Il nostro governo, per qualche ragione idiota che solo Dio conosce, rifiuta di lasciarsi coinvolgere. Ma, grazie al cielo, Hala Kamil si è resa conto dell’urgenza della situazione e ha approvato la missione».
«Posso chiedere di quali dati si tratta?» chiese Levant a Sandecker.
L’ammiraglio scosse la testa. «Non posso dirglielo.»
«È un segreto che riguarda esclusivamente gli Stati Uniti?»
«No. Riguarda tutti quanti, uomini, donne e bambini che vivono sulla terra.»
Bock e Levant si scambiarono un’occhiata sorpresa.
Dopo un momento il generale tornò a rivolgersi a Sandecker. «Ha detto che i suoi uomini si sono separati. Questo fattore rende molto difficile la riuscita dell’operazione. Sarà un rischio altissimo dividere il nostro contingente e cercare di prendere tre piccioni con una fava.»
«Mi sta dicendo che non ce la farà a portar via dal Mali tutti i miei uomini?» chiese Sandecker in tono incredulo.
«No, affatto», rispose Bock.
«Il generale Bock», spiegò Levant, «sta dicendo che raddoppieremo il rischio tentando due missioni simultaneamente. Il fattore sorpresa si riduce a metà. Per esempio, avremo maggiori possibilità di successo concentrando le nostre forze nell’azione per portar via i due uomini dall’houseboat di Massarde, perché prevediamo che non sarà protetta da una guardia armata di militari. Inoltre, possiamo accertarne l’ubicazione esatta. L’aeroporto è tutta un’altra faccenda. Non abbiamo idea di dove si nasconda il suo uomo…»
«Rudi Gunn», precisò Sandecker. «Si chiama Rudi Gunn.»
«Bene, dove si nasconda Gunn», continuò Levant. «La nostra squadra dovrebbe sprecare tempo prezioso per cercarlo. Inoltre, l’aeroporto viene utilizzato dall’Aeronautica militare maliana, oltre che dalle compagnie commerciali. C’è un servizio di sicurezza militare ventiquattr’ore su ventiquattro. Chiunque tentasse di fuggire dal Paese passando per l’aeroporto di Gao dovrebbe avere una fortuna straordinaria per andarsene tutto intero.»
«Mi chiede di fare una scelta?»
«In considerazione delle difficoltà e degli imprevisti», disse Levant, «dobbiamo stabilire quale delle due missioni ha la precedenza assoluta e quale è secondaria.»
Bock guardò Sandecker. «Sta a lei decidere, ammiraglio.»
Sandecker scrutò la carta del Mali stesa sul tavolo e fissò lo sguardo sulla linea rossa tracciata nel fiume Niger, che segnava il percorso della Calliope. Non aveva dubbi per quanto riguardava la decisione. La cosa più importante era l’analisi chimica. Ricordava le ultime parole di Pitt, quando aveva detto che sarebbe rimasto e avrebbe continuato la ricerca dell’origine del contagio. Prese dall’astuccio di cuoio uno dei sigari confezionati su ordinazione e l’accese. Per un lungo attimo tenne lo sguardo sul segno che indicava Gao, poi lo alzò verso Bock e Levant.
«Il salvataggio di Gunn deve avere la precedenza», disse in tono asciutto.
Bock annuì. «D’accordo.»
«Ma come possiamo avere la certezza che Gunn non sia già riuscito a imbarcarsi su un aereo in partenza dal Paese?»
Levant scrollò le spalle con aria saputa. «I miei collaboratori hanno già controllato gli orari dei voli. Il prossimo volo dell’Air Mali, o per meglio dire di qualunque altra compagnia, in partenza da Gao con destinazione all’estero sarà fra quattro giorni, purché non venga annullato… il che è un avvenimento tutt’altro che raro.»
«Quattro giorni», ripeté Sandecker, allarmato e depresso. «È impossibile che Gunn riesca a rimanere nascosto per quattro giorni. Per ventiquattr’ore, può darsi. Ma poi i servizi di sicurezza maliani lo staneranno sicuramente.»
«A meno che parli l’arabo o il francese e possa spacciarsi per un indigeno», osservò Levant.
«Impossibile», disse Sandecker.
Bock batté l’indice sulla carta geografica del Mali. «Il colonnello Levant e una squadra tattica di quaranta uomini possono atterrare a Gao entro dodici ore.»
«Sì, potremmo, ma non lo faremo», dichiarò Levant. «Se arrivassimo fra dodici ore, secondo il fuso orario maliano, sarebbe pieno pomeriggio.»
«Mi sono sbagliato», si corresse Bock. «Non possiamo far correre rischi al nostro contingente durante le ore di luce.»
«Ma più aspettiamo», ribatté Sandecker in tono acido, «e più è probabile che Gunn venga catturato e ucciso.»
«Le assicuro che i miei uomini e io faremo il possibile per portar via il suo collaboratore», promise Levant in tono solenne. «Ma non al prezzo di rischi gravissimi per altri.»
«Cerchi di non fallire.» Sandecker guardò Levant con fermezza. «Gunn porta con sé informazioni che hanno un’importanza decisiva per la sopravvivenza di tutti noi.»
Bock aveva un’espressione scettica mentre soppesava quelle parole. Poi i suoi occhi si indurirono. «Un avvertimento necessario, ammiraglio. Anche se questa missione è approvata dal segretario generale dell’ONU, se una dozzina dei miei uomini morirà per salvare uno dei suoi, è meglio che mi fornisca spiegazioni convincenti… o, per Dio, qualcuno dovrà vedersela con me.»
Sandecker comprese benissimo l’allusione ma non batté ciglio. Aveva sfruttato un debito di gratitudine di un vecchio amico di un servizio segreto che gli aveva passato copie della documentazione relativa all’UNICRATT. I suoi componenti erano chiamati «unimatti» dalle altre forze speciali: erano uomini duri che vivevano e si battevano con il massimo impegno. Non avevano paura di morire, erano intrepidi in combattimento e del tutto spietati: pochi erano più esperti di loro nell’arte di uccidere. E ognuno fungeva da agente della propria nazione, e inoltrava normalmente informazioni sulle attività clandestine dell’ONU. Sandecker aveva letto il profilo psicologico del generale Bock e sapeva con chi aveva a che fare.
L’ammiraglio si tese e fissò Bock con due occhi che parevano sprizzare scintille come coltelli sulla mola di un arrotino. «Adesso stia bene a sentire, grossa testa di Luger. Non m’interessa quanti uomini perderà per portar via Gunn dal Mali. Basta che lo porti via. Se fallisce la missione, la farò a pezzi.»
Bock non lo prese a pugni. Rimase immobile a fissarlo sotto le folte sopracciglia grigie; l’espressione che aveva negli occhi era quella di un orso grizzly che si mette il tovagliolo prima di divorare un vitello d’allevamento. L’ammiraglio era la metà di Bock, e lo scontro si sarebbe concluso in un batter d’occhio. Poi il tedesco si rilassò con una risata.
«Ora che ci siamo intesi, perché non proseguiamo e non prepariamo un piano a prova di bomba?»
Sandecker sorrise e si rilassò a sua volta. Offrì a Bock uno dei suoi sigari giganteschi. «È un piacere trattare gli affari con lei, generale. Speriamo che la collaborazione si riveli fruttuosa.»
Hala Kamil era sui gradini del Waldorf Astoria Hotel in attesa della sua macchina, dopo aver lasciato una cena ufficiale offerta in suo onore dall’ambasciatore indiano all’ONU. Cadeva una pioggerella leggera e l’asfalto bagnato rispecchiava le luci della città. Quando la lunga Lincoln nera si fermò accanto al marciapiedi, Hala s’infilò sotto l’ombrello sorretto da un portiere, sollevò la lunga gonna a pieghe e prese posto sul sedile posteriore.
A bordo c’era già Ismail Yerli. Le prese la mano e la baciò. «Mi dispiace che dobbiamo incontrarci così», disse in tono di scusa. «Ma è troppo rischioso farci vedere insieme.»
«È passato molto tempo, Ismail», replicò Hala, con un’espressione radiosa negli occhi. «Mi hai evitata.»
Yerli lanciò un’occhiata all’autista per assicurarsi che il vetro divisorio fosse alzato. «Ho pensato che per te sarebbe stato meglio se mi fossi dileguato. Hai fatto troppa strada e hai lavorato troppo per correre il rischio di perdere tutto a causa di uno scandalo.»
«Avremmo potuto comportarci con discrezione», disse Hala a voce bassa.
Yerli scosse la testa. «Gli amori degli uomini potenti vengono generalmente ignorati. Ma una donna nella tua posizione… I mass media e i pettegoli di tutte le nazioni del mondo ti farebbero a pezzi.»
«Ho sempre un grande affetto per te, Ismail.»
Yerli le prese la mano. «Anch’io per te, ma tu sei quanto di meglio poteva capitare all’ONU, e non voglio essere la causa della tua rovina.»
«Perciò te ne sei andato», concluse Hala mentre un’ombra di tristezza le oscurava il volto. «Sei stato molto generoso.»
«Sì», rispose lui senza esitare. «Per evitare titoli di questo genere: ‘Il segretario generale dell’ONU è l’amante di un agente dei servizi segreti francesi che lavora in incognito nell’Organizzazione Mondiale della Sanità’. E i miei superiori della Seconda Divisione dello stato maggiore della Difesa non sarebbero felici se venissi smascherato.»
«Abbiamo tenuto segreta la nostra relazione fino a ora», protestò Hala. «Perché non continuare?»
«Sarebbe impossibile.»
«Tutti sanno che sei di nazionalità turca. Chi potrebbe scoprire che i francesi ti avevano reclutato già quando studiavi all’università di Istanbul?»
«Se qualcuno scava abbastanza a fondo, può scoprire il segreto. La prima regola di un buon agente è agire nell’ombra senza essere né troppo visibile né troppo furtivo. Ho compromesso la mia copertura presso l’ONU quando mi sono innamorato di te. Se i servizi segreti britannici, russi o americani avessero sentore della nostra relazione, non si fermerebbero prima di aver riempito un dossier di dettagli sordidi che poi userebbero per estorcerti favori.»
«Per ora non l’hanno fatto», obiettò Hala in tono speranzoso.
«No, e non lo faranno», rispose Yerli con fermezza. «Perciò non dobbiamo vederci fuori del Palazzo di Vetro.»
Hala girò la testa verso il finestrino striato di pioggia. «Allora perché sei qui?»
Yerli trasse un respiro profondo. «Ho bisogno del tuo aiuto.»
«È una cosa che riguarda l’ONU oppure i tuoi superiori francesi?»
«L’uno e l’altro.»
Hala si oscurò. «Tu ti servi di me, Ismail. Giochi con i miei sentimenti per i tuoi interessi spionistici. Sei un mascalzone senza scrupoli.»
Yerli non disse nulla.
Hala cedette, esattamente come lei aveva temuto. «Che cosa vuoi che faccia?»
«C’è un team di epidemiologi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità», disse lui, assumendo un tono sbrigativo. «Stanno indagando sulle segnalazioni di strani casi di malattia nel deserto del Mali.»
«Ricordo il progetto. Se ne è parlato qualche giorno fa durante il mio briefing quotidiano. La ricerca è diretta dal dottor Frank Hopper.»
«Appunto.»
Hala annuì. «Hopper è uno scienziato noto e stimato. Cosa c’entri con la sua missione?»
«Ho il compito di coordinare il viaggio e di occuparmi della logistica, il rifornimento dei viveri, i mezzi di trasporto, il materiale di laboratorio e cose del genere.»
«Non mi hai ancora detto cosa vuoi da me.»
«Vorrei che richiamassi immediatamente il dottor Hopper e i suoi collaboratori.»
Hala si girò di scatto e lo fissò, sorpresa. «Perché me lo chiedi?»
«Perché stanno correndo un pericolo gravissimo. So da fonte attendibile che stanno per essere assassinati da terroristi dell’Africa occidentale.»
«Non ti credo.»
«Invece è vero», ribatté Yerli. «Metteranno sul loro aereo una bomba regolata per esplodere durante il volo sul deserto.»
«Per che razza di mostri lavori?» scattò Hala, inorridita. «Perché ti rivolgi a me? Perché non hai messo in guardia il dottor Hopper?»
«Ho cercato di avvertirlo, ma ha ignorato tutte le comunicazioni.»
«Non puoi convincere le autorità maliane a riferire la minaccia e a offrire la loro protezione?»
Yerli alzò le spalle. «Il generale Kazim li considera intrusi e se ne infischia della loro sicurezza.»
«Sarei una stupida se non sospettassi che c’è sotto ben altro intrigo che la minaccia di una bomba.»
Yerli la guardò diritto negli occhi. «Fidati di me, Hala. Il mio unico pensiero è salvare il dottor Hopper e i suoi collaboratori.»
Hala desiderava disperatamente credergli ma sentiva, in fondo al cuore, che stava mentendo. «A quanto sembra, in questi giorni tutti stanno cercando le prove di una contaminazione in atto nel Mali. E tutti chiedono con la massima urgenza interventi di salvataggio.»
Yerli la fissò, perplesso, ma non disse nulla. Rimase in attesa di una spiegazione.
«L’ammiraglio Sandecker della NUMA è venuto da me e ha chiesto l’approvazione per usare il nostro team di intervento tattico per salvare tre dei suoi dalle forze della sicurezza maliane.»
«Gli americani stavano cercando la fonte della contaminazione nel Mali?»
«Sì. A quanto pare era un’operazione clandestina, ma sono stati scoperti.»
«Li hanno catturati?»
«Quattro ore fa non li avevano ancora presi.»
Yerli sembrava sconvolto. Hala notò la tensione incalzante nella sua voce. «Il fiume Niger.»
Le strinse il braccio con una luce minacciosa negli occhi. «Voglio saperne di più.»
Per la prima volta, Hala fu scossa da un brivido. «Stavano cercando la fonte del composto chimico che causa la gigantesca marea rossa al largo delle coste dell’Africa.»
«Sì, l’ho letto sui giornali. Continua.»
«Mi è stato detto che avevano uno yacht dotato di attrezzature per le analisi chimiche e lo usavano per seguire a ritroso le tracce della sostanza chimica fino al punto in cui penetra nel fiume.»
«L’hanno trovato?» chiese Yerli.
«Secondo l’ammiraglio Sandecker sono risaliti fino a Gao, nel Mali.»
Yerli non sembrava convinto. «Disinformazione: la spiegazione deve essere questa. Deve trattarsi della copertura di qualcosa d’altro.»
Hala scosse la testa. «Diversamente da te, l’ammiraglio Sandecker non è un bugiardo di professione.»
«Hai detto che l’operazione è organizzata dalla NUMA?»
Hala annuì.
«Non dalla CIA o da qualcun altro dei servizi segreti americani?»
Lei si liberò il braccio e sorrise. «Vuoi dire che le tue fonti d’informazioni dell’Africa occidentale non immaginavano che gli americani operassero sotto il vostro naso?»
«Non dire assurdità. Quali segreti spettacolari potrebbe avere una nazione poverissima come il Mali per attirare l’interesse degli americani?»
«Qualcosa deve esserci. Perché non mi dici di che cosa si tratta?»
Yerli sembrava distratto. Non rispose subito. «Niente… niente, è logico.» Bussò sul divisorio per attirare l’attenzione dell’autista e indicò il marciapiedi.
L’autista si fermò davanti a un grande palazzo d’uffici. «Ti stai strappando da me con uno sforzo immane, vero?» Il tono di Hala era carico di disprezzo.
Yerli si voltò a guardarla. «Mi dispiace, sinceramente. Puoi perdonarmi?»
Angosciata, Hala scosse la testa. «No, Ismail. Non posso perdonarti. Non ci vedremo più. Voglio la tua lettera di dimissioni sulla mia scrivania prima di domani a mezzogiorno. Se no, ti farò espellere dall’ONU.»
«Non sei un po’ troppo dura?»
Ormai Hala aveva deciso. «Non ti stanno affatto a cuore gli interessi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E non sei fedele ai francesi, neppure per il cinquanta per cento. Tu lavori per i tuoi scopi finanziari!» Si tese e spalancò la portiera. «Ora scendi!»
Yerli scese in silenzio e si fermò sul marciapiedi. Hala, con le lacrime agli occhi, richiuse la portiera e non si voltò indietro mentre l’autista rimetteva in moto la macchina e si reinseriva nel traffico a senso unico.
Yerli si augurava di poter provare rimorso o tristezza, ma era un vero professionista. Hala aveva ragione: s’era servito di lei. Il suo affetto era una commedia, e l’unica attrazione era sessuale. Hala era stata una missione come un’altra. Ma come tante donne attratte da uomini alteri che le trattano con indifferenza, non aveva potuto evitare d’innamorarsi di lui. E solo adesso cominciava a scoprirne il prezzo.
Yerli entrò nella cocktail lounge dell’Algonquin Hotel, ordinò un drink, poi andò al telefono. Fece un numero e attese che qualcuno rispondesse.
«Sì?»
Yerli abbassò la voce e disse in tono confidenziale: «Ho informazioni vitali per il signor Massarde».
«Da dove viene?»
«Dalle rovine di Pergamo.»
«Turchia?»
«Sì», disse sbrigativamente Yerli. Non si fidava dei telefoni e detestava i codici: gli sembravano infantili. «Sono al bar dell’Algonquin Hotel. Quando posso aspettarla?»
«La una del mattino è troppo tardi?»
«No, cenerò a quell’ora.»
Yerli riattaccò il telefono con aria pensierosa. Cosa sapevano gli americani dell’operazione di Massarde a Fort Foureau? si chiese. I loro servizi di sicurezza avevano un’idea delle vere attività dell’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici e stavano curiosando? Se era così, le conseguenze potevano essere disastrose, e la caduta del governo francese in carica sarebbe stata la ripercussione meno grave.
Dietro di lui c’era la tenebra, davanti a lui i pochi lampioni accesi delle vie di Gao. Gunn doveva coprire a nuoto ancora dieci metri quando colpì con un piede il fondo molle del fiume. Cautamente, si chinò e immerse le mani nei sedimenti e si trascinò fino alla riva. Attese, ascoltando e socchiudendo gli occhi nel buio che avvolgeva la sponda del fiume.
La spiaggia saliva a un angolo di dieci gradi e finiva a un basso muro di pietra che fiancheggiava una strada. Strisciò sulla sabbia: quel tepore era piacevole contro la pelle bagnata delle braccia e delle gambe nude. Si fermò, si girò sul fianco e riposò per qualche minuto, sicuro di essere praticamente invisibile nella notte. Aveva un crampo alla gamba destra e le braccia intormentite e pesanti.
Tastò con cura lo zaino. Per un momento, dopo essere piombato come una palla da cannone nell’acqua tumultuosa, aveva temuto che gli fosse stato strappato via. Ma le cinghie gli stringevano ancora le spalle.
Si alzò e, tenendosi curvo, corse fino al muro dove si lasciò cadere in ginocchio. Sbirciò con prudenza oltre la sommità e scrutò la strada. Era deserta. Ma un’altra mal pavimentata, che entrava diagonalmente in città, era percorsa da numerosi pedoni. Con la coda dell’occhio scorse un lampo fioco; alzò gli occhi verso il tetto d’una casa vicina in tempo per vedere un uomo che accendeva una sigaretta. Ce n’erano altri: figure indistinte, alcune rischiarate da lanterne, che chiacchieravano con i vicini sui tetti delle altre case. Gunn immaginò che fossero saliti, come talpe che emergono dal suolo, per godersi il fresco della sera.
Studiò i pedoni sulla strada e cercò di assimilare il ritmo dei loro movimenti. Sembrava che andassero avanti e indietro come fantasmi, avvolti negli abiti fluenti, e camminavano senza far rumore. Gunn si tolse lo zaino dalle spalle, lo aprì ed estrasse un lenzuolo blu. Lo strappò per dargli una forma approssimativa e se lo mise addosso come una djellaba, il lungo indumento con le maniche abbondanti e il cappuccio. Non avrebbe vinto certamente un premio a un concorso locale d’eleganza, pensò, ma era abbastanza sicuro di poter passare inosservato nelle vie semibuie. Considerò la possibilità di togliersi gli occhiali, ma cambiò idea e sistemò il cappuccio in modo da coprirli parzialmente. Era troppo miope: non sarebbe stato in grado di vedere un autobus in movimento a una distanza di venti metri.
Nascose lo zaino sotto la veste e lo legò in modo che sembrasse uno stomaco sporgente. Poi sedette sul muro e lo scavalcò. Con aria disinvolta attraversò la strada e si avviò per la viuzza più stretta, mescolandosi agli abitanti di Gao che erano usciti per la passeggiata serale. Dopo due isolati arrivò a un incrocio. Gli unici veicoli visibili erano pochi tassi traballanti, un paio di autobus scalcinati, qualche motocicletta e un numero indefinibile di biciclette.
Sarebbe stato molto semplice fermare un tassi e farsi condurre all’aeroporto: ma in quel modo avrebbe attirato l’attenzione. Prima di abbandonare lo yacht aveva studiato la carta della zona e sapeva che l’aeroporto si trovava qualche chilometro a sud della città. Pensò di rubare una bicicletta, ma si affrettò a escluderlo. Il furto sarebbe stato sicuramente scoperto e denunciato, e non voleva lasciare traccia del suo passaggio. Se i poliziotti e le forze della sicurezza non avessero avuto motivo di credere che c’era un immigrato clandestino in mezzo a loro, non lo avrebbero cercato.
Gunn attraversò ad andatura tranquilla la parte centrale della città, passò per la piazza del mercato, davanti al decrepito Hotel Atlantide e ai mercanti che vantavano i loro prodotti dai banchetti allineati sotto i portici di fronte all’albergo. Gli odori non erano dei più gradevoli, e Gunn apprezzava la brezza che li disperdeva quasi tutti verso il deserto. Non esistevano cartelli stradali; ma si orientava lungo le vie sabbiose alzando ogni tanto gli occhi verso la stella polare.
Gli abitanti di Gao erano vestiti in maggioranza di blu e di verde, con qualche chiazza di giallo. Gli uomini indossavano, in prevalenza, djellaba o caffettani, ma alcuni erano abbigliati all’occidentale. Pochissimi erano scalzi. I maschi avevano la testa e la faccia avvolti in drappi blu; molte donne portavano eleganti mantelli, altre lunghi abiti a fiori, e solo pochissime erano velate.
Tutti parlavano incessantemente anche se a voce bassa. I bambini correvano di qua e di là, tutti vestiti in modo diverso. Per Gunn era difficile immaginare quella vivace attività sociale e quella cordialità in un ambiente tanto misero. Sembrava che nessuno avesse informato i maliani che erano poveri.
A testa bassa, con la faccia coperta dal cappuccio perché non si vedesse la carnagione bianca, Gunn si mescolò alla folla e lasciò la parte più affollata della città. Nessuno lo fermò per fargli domande imbarazzanti. Se, per una ragione inaspettata, lo avessero preso e interrogato, avrebbe dichiarato d’essere un turista che aveva risalito a piedi la sponda del Niger. Ma preferiva non pensare a quella possibilità: del resto, il rischio di venire fermato da qualcuno che cercasse specificamente un clandestino americano era quasi inesistente.
Passò accanto a un cartello stradale con una freccia e la sagoma di un aereo. Si stava dirigendo verso l’aeroporto con minori difficoltà del previsto. La fortuna non l’aveva ancora abbandonato.
Attraversò il quartiere dei mercanti più ricchi, quindi si addentrò negli slums. Dal momento in cui aveva lasciato il fiume, Gao gli aveva dato l’impressione di essere una città dove, al calar delle tenebre, orrori invisibili strisciavano per le vie sabbiose, una città immersa nel sangue e nella violenza dei secoli. L’immaginazione incominciò a giocargli brutti scherzi mentre camminava per le strade buie e semideserte: per la prima volta incominciò a notare occhiate ostili e incuriosite da parte della gente seduta davanti alle case malconce.
S’infilò in un vicolo che sembrava deserto e si fermò per prendere dallo zaino la pistola, una vecchia Smith Wesson calibro 38, modello Bodyguard, che era appartenuta a suo padre. L’istinto gli suggeriva che quelli erano posti dove era meglio non aggirarsi di notte, se si voleva vivere fino all’alba.
Un camion gli passò accanto rombando e sollevando un turbine di sabbia. Il pianale era carico di mattoni. Gunn si accorse che stava andando verso la sua destinazione, e decise di buttare al vento la prudenza. Prese la rincorsa, spiccò un salto e si inerpicò a bordo. Poi si stese sullo stomaco sopra i mattoni e guardò il tettuccio della cabina.
L’odore dei gas di scarico del motore diesel era un sollievo dopo il puzzo della città. Dall’alto del carico, Gunn vide due luci rosse lampeggianti qualche chilometro più avanti, verso sinistra. Quando il camion si avvicinò traballante, scorse alcuni riflettori montati su un terminal e due hangar, al di là della pista buia.
«Che bell’aeroporto», mormorò fra sé. «Spengono le luci della pista quando non è in funzione.»
Davanti ai fari del camion apparve una cunetta e l’autista rallentò. Gunn ne approfittò per balzare a terra. Il camion proseguì nel buio: la sabbia grondava dai pneumatici e l’autista non s’era accorto di nulla. Gunn seguì i fanalini rossi fino a quando arrivò a una strada laterale asfaltata: un cartello con una scritta in tre lingue indicava l’aeroporto internazionale di Gao.
«’Internazionale’», commentò Gunn. «Oh, spero proprio che lo sia.»
Proseguì lungo il bordo della via d’accesso, tenendosi a una certa distanza nell’eventualità che sopraggiungesse un veicolo. Ma era una precauzione superflua. Il terminal era al buio, il parcheggio completamente vuoto. Le speranze di Gunn declinarono quando vide il terminal da vicino: aveva visto magazzini destinati alla demolizione che erano in condizioni molto migliori di quella costruzione di legno con il tetto metallico arrugginito. E solo un uomo coraggioso poteva lavorare nella torre di controllo, in equilibrio precario su travi di supporto quasi completamente erose. Girò intorno alle costruzioni e arrivò alla pista deserta. Dall’altra parte, illuminati dai riflettori, c’erano quattro caccia a reazione maliani e un aereo da trasporto.
Gunn rimase immobile quando vide due guardie sedute davanti a una baracca della sicurezza. Una sonnecchiava su una sedia, l’altra fumava una sigaretta. Magnifico, pensò. Magnifico. Doveva vedersela con i militari.
Scrutò il quadrante del Chronosport subacqueo; erano le undici e venti. La stanchezza l’assalì all’improvviso. Era arrivato fin lì e ora l’aeroporto deserto aveva tutta l’aria di non aver visto la partenza o l’arrivo di un aereo di linea da diverse settimane. E, come se non bastasse, il campo era sorvegliato dalle forze della sicurezza dell’Aviazione maliana. Era impossibile prevedere per quanto tempo avrebbe potuto rimanere lì senza farsi scoprire o senza morire per mancanza di cibo e di acqua.
Gunn si rassegnò a una lunga attesa. Era inutile restare nei pressi durante il giorno. Si spostò d’un centinaio di metri nel deserto prima di incontrare uno scavo parzialmente riempito dalle macerie di un capannone abbandonato. Scavò nella sabbia asciutta, s’infilò nel varco e si coprì con qualche asse marcia. La buca, per quel che ne sapeva, poteva essere piena di formiche o di scorpioni, ma era troppo stanco per preoccuparsene.
Si addormentò dopo meno di trenta secondi.
Senza molti complimenti, gli uomini di Massarde ammanettarono Pitt e Giordino e li costrinsero a restare inginocchiati, bloccati dalle corte catene avvolte intorno a un tubo. Erano prigionieri nella sentina, sotto le pesanti lastre d’acciaio che formavano il ponte della sala macchine. Una guardia armata di machine pistol automatica camminava avanti e indietro e il suono dei suoi passi echeggiava sull’acciaio. Pitt e Giordino erano inginocchiati con i polsi spellati dalle manette e le ginocchia quasi ustionate dal rovente pavimento metallico.
La fuga era impossibile. Era solo questione di tempo prima che venissero consegnati alla polizia del generale Kazim; e allora sarebbe stata la fine.
L’atmosfera della sentina era soffocante e quasi irrespirabile. Il sudore sgorgava nel caldo umido irradiato dal tubo del vapore. La sofferenza cresceva a ogni istante. Giordino si sentiva tremendamente indebolito; dopo due ore in quel luogo infernale, le forze l’avevano abbandonato quasi completamente. L’umidità era peggiore di un bagno turco. E l’evaporazione dei liquidi organici lo faceva impazzire per la sete.
Guardò Pitt per vedere in che modo affrontava la torturante prigionia. A quanto sembrava, Pitt non tradiva la minima reazione. Il volto sudato sembrava assorto e compiaciuto. Stava studiando una fila di chiavi inglesi appesa alla paratia di poppa. Non poteva raggiungerle perché la catena fissata alle manette era bloccata da un supporto sporgente e quindi non poteva scivolare lungo il tubo. Stava misurando pensosamente la distanza; ogni tanto rivolgeva l’attenzione ai movimenti della guardia, poi tornava a concentrarla sulle chiavi inglesi.
«Ci hai messi in un altro bel pasticcio, Stanlio», disse Giordino, rievocando una tipica battuta delle comiche di Laurei e Hardy.
«Mi dispiace, Ollio, ma è stato in nome dell’umanità», replicò Pitt con un sorriso.
«Credi che Rudi ce l’abbia fatta?»
«Se si è tenuto nell’ombra e non ha perso la testa, non c’è motivo perché sia finito come noi.»
«Cosa credi che pensi di guadagnare, il vecchio riccone francese, tenendoci qui a sudare?» chiese Giordino mentre si asciugava il volto con il braccio.
«Non ne ho idea», rispose Pitt. «Ma sospetto che scopriremo presto perché ci ha messi in questo bagno turco invece di consegnarci ai gendarmi.»
«Sarà molto arrabbiato perché abbiamo usato il suo telefono.»
«Colpa mia», disse Pitt con un lampo d’ironia negli occhi. «Dovevo fare una chiamata a carico del destinatario.»
«Oh, be’, non potevi immaginare che fosse un tipo così tirchio.»
Pitt lo guardò con ammirazione. Era straordinario che il robusto italiano trovasse ancora la voglia di scherzare sebbene fosse sul punto di perdere i sensi.
Nei lunghi minuti tormentosi che seguirono, Pitt non pensò alla cella caldissima e alla tremenda situazione in cui si trovava; si concentrò invece sulle possibilità di fuga. Per il momento non c’erano prospettive incoraggianti. Non avevano la forza necessaria per spezzare le catene, e nessuno dei due era in grado di scassinare le serrature delle manette.
Evocò una dozzina di eventualità, pronto a cancellarle in favore di altre. Non ce n’era una sola che fosse realizzabile, a meno che si producessero certe situazioni. Il problema principale era rappresentato dalle catene. In un modo o nell’altro dovevano staccarle dal tubo: altrimenti anche i piani più efficienti sarebbero falliti ancor prima di decollare.
Pitt s’interruppe quando la guardia sollevò una delle lastre del pavimento, ripiegandola all’indietro sui cardini, poi sganciò una chiave dalla cintura e aprì le manette fissate alle catene. Quattro uomini dell’equipaggio, che stavano in sala macchine, si sporsero, rimisero in piedi i due prigionieri, poi li trascinarono su per una scala in un lussuoso corridoio dell’houseboat. Uno dei quattro bussò a una porta di tek, l’aprì e li spinse avanti.
Yves Massarde era seduto al centro di un grande divano di pelle. Fumava un sigaro sottile e rigirava un bicchiere di cognac. Sulla poltrona di fronte a lui un uomo dalla carnagione scura e dall’uniforme militare beveva champagne. Nessuno dei due si alzò quando Pitt e Giordino si fermarono, scalzi, in calzoncini e maglietta, grondanti di sudore e di umidità.
«Sono questi i patetici esemplari che hai pescato nel fiume?» chiese l’ufficiale mentre li guardava incuriosito.
«Per la precisione sono saliti a bordo senza invito», rispose Massarde. «Li ho sorpresi mentre stavano usando i miei mezzi di comunicazione.»
«Credi che siano riusciti a trasmettere un messaggio?»
Massarde annuì. «Non ho fatto in tempo a fermarli.»
L’ufficiale posò il bicchiere su un tavolino, si alzò e si avvicinò a Pitt. Era più alto di Giordino, ma era più basso di Pitt d’una quindicina di centimetri.
«Chi di voi era in contatto con me attraverso la radio?» chiese.
Pitt s’illuminò. «Allora lei dev’essere il generale Kazim.»
«Appunto.»
«È proprio vero che non si può giudicare una persona dalla voce. Immaginavo che somigliasse più a Rodolfo Valentino che a Willie la Puzzola…»
Pitt si chinò e si girò di fianco mentre Kazim, con la faccia accesa d’odio, i denti stretti per la rabbia, gli sferrava un calcio all’inguine. Il colpo era feroce, carico di tutte le sue forze. Ma l’espressione di furore si trasformò in panico quando Pitt, con una mossa fulminea, gli afferrò il piede con le mani e lo strinse come una morsa.
Pitt non si spostò: rimase immobile e tenne stretto il piede del generale costringendolo a rimanere in equilibrio su una gamba sola. Poi, lentamente, lo spinse all’indietro e lo fece cadere sulla poltrona.
Nella stanza scese un silenzio allibito. Kazim era in preda allo shock. Da più di un decennio era un dittatore incontrastato, e la sua mente rifiutava di accettare comportamenti sprezzanti e insubordinati. Era così abituato a vedere gli altri tremare di fronte a lui che non sapeva come reagire all’umiliazione. Respirava affannosamente, stringeva le labbra sbiancate, e la faccia scura era arrossata per la collera. Solo gli occhi erano rimasti neri, freddi e vuoti.
Estrasse una pistola dalla fondina. Era una vecchia automatica, pensò Pitt con distacco, una Beretta 9 mm del tipo NATO, modello 92SB. Kazim tolse la sicura e puntò la canna contro di lui, mentre un sorriso gelido gli spuntava sotto i baffi folti.
Pitt lanciò un’occhiata a Giordino e vide che era teso, pronto ad avventarsi su Kazim. Poi fissò la mano che stringeva l’automatica, in attesa della minima contrazione dei muscoli, di una flessione dell’indice sul grilletto, e si preparò a buttarsi sulla destra. Avrebbe potuto essere l’occasione per un tentativo di fuga; ma si rendeva conto di aver perso ogni vantaggio quando aveva esasperato il generale. Ora sarebbe morto lentamente. Era logico che Kazim fosse un abile tiratore, e a quella distanza non avrebbe sbagliato la mira. Pitt sapeva di potersi muovere abbastanza in fretta per schivare il primo colpo, ma Kazim avrebbe regolato la mira e avrebbe sparato per storpiarlo, prima a un ginocchio, poi all’altro. Gli occhi maligni non promettevano una morte rapida.
Poi, quando sembrava inevitabile che la stanza esplodesse tra spari e corpi in convulsioni, Massarde mosse una mano nell’aria e parlò in tono imperioso.
«Se non ti spiace, generale, vai a compiere l’esecuzione altrove, e non qui dentro.»
«Questo deve morire», sibilò Kazim fissando Pitt.
«Tutto a suo tempo, mio caro amico», disse Massarde mentre si versava altro cognac. «Fammi la cortesia di non macchiare di sangue il mio raro tappeto nazlini navajo.»
«Te ne comprerò uno nuovo», ringhiò Kazim.
«Non hai pensato che forse costui sta cercando una via d’uscita rapida e facile? È ovvio che ti ha fatto abboccare all’amo; preferisce una morte immediata alle sofferenze di una lunga tortura.»
Kazim abbassò lentamente la pistola. Il suo sorriso sembrava il ghigno d’un lupo.
«Allora hai capito. Hai capito esattamente a cosa stava mirando.»
Massarde alzò le spalle. «Gli americani lo chiamano l’intuito del teppista da strada. Questi due hanno qualcosa da nascondere. Qualcosa d’importanza vitale. Entrambi avremmo da guadagnare se li convincessimo a parlare.»
Kazim si rialzò, si avvicinò a Giordino e gli puntò contro l’orecchio destro la canna della Beretta.
«Vediamo se adesso sei più loquace di quando eri a bordo della tua barca.»
Giordino non batté ciglio. «Quale barca?» chiese, con il tono innocente d’un prete in confessionale.
«Quella che avete abbandonato pochi minuti prima che saltasse in aria.»
«Oh, quella.»
«Qual era la vostra missione? Perché avete risalito il Niger fino al Mali?»
«Stavamo facendo una ricerca sulla migrazione dei pesci lanosi e seguivamo un branco di quei piccoli diavoli che risalivano il fiume per andare a riprodursi.»
«E le armi a bordo della barca?»
«Armi? Quali armi?» Giordino fece una smorfia e alzò le spalle. «Non avevamo armi di nessun genere.»
«Hai dimenticato lo scontro con le cannoniere del Benin?»
Giordino scosse la testa. «Mi dispiace, ma questo non mi dice nulla.»
«Qualche ora nelle camere per gli interrogatori del mio quartier generale di Bamako potrebbe rinfrescarti la memoria.»
«Non è un clima salubre per gli stranieri mal disposti a collaborare, ve lo assicuro», disse Massarde.
«Finiscila d’imbrogliarlo», intervenne Pitt rivolgendosi a Giordino. «Digli la verità.»
Giordino si voltò a fissarlo, sbalordito. «Sei diventato matto?»
«Forse tu puoi sopportare la tortura. Io no. Il pensiero della sofferenza mi fa star male. Se non dici al generale Kazim quel che vuole sapere, glielo dico io.»
«Il tuo amico è un uomo di buon senso», osservò Kazim. «Faresti meglio ad ascoltarlo.»
Per un momento l’espressione impassibile di Giordino svanì. Poi fu sostituita dalla furia. «Sporco mascalzone, traditore…»
In quel momento Kazim lo colpì alla faccia con la pistola e gli aprì uno squarcio sanguinante sul mento. Giordino barcollò, indietreggiò di due passi, poi si avventò alla carica come un toro imbizzarrito. Kazim alzò la pistola automatica e gliela puntò in mezzo agli occhi.
Ci siamo, pensò freddamente Pitt, sconcertato dallo scatto dell’amico. Si buttò davanti a Kazim, afferrò Giordino per le braccia e gliele bloccò dietro la schiena. «Fermo, per amor di Dio!»
Con un movimento che gli altri non notarono, Massarde premette un pulsante su una piccola console accanto al divano. Prima che qualcuno potesse parlare o fare altre mosse, una schiera di membri dell’equipaggio piombò nella sala e, con un’azione di forza, gettò sul pavimento Pitt e Giordino, bloccandoli. Pitt ebbe una visione fuggevole della valanga che gli piombava addosso e si tese. Cadde sul pavimento senza reagire, sapendo che era inutile; aveva deciso di risparmiare le forze. Ma Giordino continuò a lottare come un pazzo e a urlare imprecazioni.
«Quello riportatelo nella sentina», gridò Massarde che si era alzato in piedi e puntava l’indice contro Giordino.
Pitt sentì la pressione allentarsi di colpo mentre le guardie si accanivano contro il suo amico. Uno degli uomini sferrò un colpo con un peso fissato all’estremità d’un cavo flessibile e colpì Giordino al collo, sotto l’orecchio. Con un gemito di dolore, Giordino si accasciò, e gli uomini di Massarde lo afferrarono per le spalle e lo trascinarono fuori.
Kazim puntò la pistola automatica contro Pitt, che era ancora steso sul pavimento. «Dunque, dato che preferisci una conversazione cordiale alla tortura, perché non incominci con il dirmi il tuo nome esatto?»
Pitt si girò sul fianco e si sollevò a sedere. «Pitt. Dirk Pitt.»
«Devo crederti?»
«È un nome che vale quanto un altro.»
Kazim si rivolse a Massarde. «Li avevi fatti perquisire?»
Massarde annuì. «Non avevano credenziali né documenti di nessun genere.»
Kazim fissò Pitt con un’espressione di ripugnanza. «Puoi spiegarmi perché siete entrati nel Mali senza passaporto?»
«È molto semplice, generale», rispose precipitosamente Pitt. «Il mio amico e io siamo archeologi. Una fondazione francese ci ha fatto un contratto perché cercassimo relitti di antichi naufragi nel fiume Niger. I nostri passaporti sono andati distrutti quando una delle vostre motovedette ha sparato contro la nostra barca e l’ha fatta saltare.»
«Due veri archeologi implorerebbero come bambini dopo essere stati incatenati per due ore in una sentina bollente. Voi due siete troppo arroganti e temerari per non essere agenti nemici…»
«Quale fondazione?» intervenne Massarde.
«La Società francese per le esplorazioni storiche», rispose Pitt.
«Mai sentita nominare.»
Pitt fece un gesto rassegnato. «Che cosa posso dire?»
«Da quando gli archeologi vanno in cerca di relitti a bordo di un super-yacht dotato di lanciamissili e armi automatiche?» chiese Kazim in tono sarcastico.
«È sempre meglio essere preparati per difendersi dai pirati e dai terroristi», rispose Pitt con un sorriso stupido.
In quel momento si sentì bussare alla porta. Uno degli uomini di Massarde entrò e gli consegnò un messaggio. «C’è risposta, signore?»
Massarde diede un’occhiata al foglio e annuì. «Riferisci i miei complimenti e digli di continuare le indagini.»
Appena l’uomo fu uscito, Kazim domandò: «Buone notizie?»
«Molto illuminanti», rispose Massarde in tono soddisfatto. «È il mio agente presso le Nazioni Unite. Sembra che questi uomini appartengano alla NUMA di Washington. Avevano il compito di scoprire la fonte di una contaminazione chimica che ha origine nel Niger e causa un rapido aumento delle maree rosse dopo aver raggiunto il mare.»
«Una semplice copertura», commentò Kazim con una smorfia. «Niente di più. Stavano cercando qualcosa di molto più importante dell’inquinamento. Secondo me, cercavano il petrolio.»
«È esattamente ciò che pensa il mio agente di New York. Ha detto che potrebbe essere una copertura, tuttavia la fonte d’informazioni non lo crede.»
Kazim guardò Massarde con aria insospettita. «Non ci sarà stata una soffiata da Fort Foureau, spero.»
«No, affatto», rispose Massarde senza esitare. «È troppo distante per causare effetti nel Niger. No, può essere soltanto un’altra delle tue numerose iniziative clandestine che non hai ritenuto opportuno rivelare.»
Il viso di Kazim s’irrigidì. «Se qualcuno è responsabile della contaminazione nel Mali, amico mio, devi essere tu.»
«Impossibile», ribatté Massarde in tono secco. E fissò Pitt. «Trova interessante questa conversazione, signor Pitt?»
«Non so di cosa stia parlando.»
«Lei e il suo collega devono essere personaggi molto preziosi.»
«Non direi. In questo momento siamo soltanto suoi prigionieri.»
«Perché dici che sono preziosi?» volle sapere Kazim.
«Il mio agente riferisce che l’ONU sta mandando una squadra tattica speciale per salvarli.»
Per un attimo Kazim rimase allibito. Poi si riprese prontamente. «Sta arrivando qui una squadra speciale?»
«Probabilmente è già in viaggio, dato che il signor Pitt è riuscito a contattare il suo superiore.» Massarde diede un’altra occhiata al messaggio. «Secondo il mio agente, questo capo è l’ammiraglio James Sandecker.»
«A quanto pare, è impossibile ingannarvi.» L’elegante sala a bordo dell’houseboat era rinfrescata dall’aria condizionata e Pitt era scosso da brividi irrefrenabili dopo aver sofferto il caldo soffocante della sentina; ma il senso di gelo che lo attanagliava era diverso. Cercava di immaginare chi potesse averli traditi, ma non gli veniva in mente neppure un nome.
«Bene, bene, bene, siamo molto meno strafottenti, adesso che la copertura è saltata, no, amico mio?» Kazim si versò un altro bicchiere dell’ottimo champagne di Massarde. Poi alzò lo sguardo di colpo. «Dove contavate di incontrarvi con il contingente dell’ONU, eh?»
Pitt stava cercando di dare l’impressione di essere in preda all’amnesia. Era in un vicolo cieco. L’aeroporto di Gao era una località troppo ovvia; non poteva correre il rischio di compromettere Gunn, ma decise di tentare nella speranza che Kazim fosse stupido quanto sembrava.
«L’aeroporto di Gao. Arriveranno all’alba. Dovevamo attendere all’estremità occidentale della pista.»
Kazim lo fissò per un istante. Poi lo colpì di scatto alla fronte con il calcio della Beretta. «Bugiardo!» sibilò.
Pitt chinò la testa e si nascose il volto con le braccia. «È la verità! Lo giuro.»
«Bugiardo», ripeté Kazim. «La pista di Gao va da nord a est. Non c’è un’estremità occidentale.»
Pitt esalò il fiato in un lungo sospiro silenzioso e scosse lentamente la testa. «Credo che sia inutile continuare a nasconderlo. Prima o poi riusciresti a farmelo dire.»
«Purtroppo per te, dispongo dei metodi necessari.»
«Sta bene», disse Pitt. «Gli ordini dell’ammiraglio Sandecker prevedevano che, dopo aver distrutto lo yacht, ci dirigessimo a sud di Gao per una ventina di chilometri fino a una gola ampia e poco profonda. Un elicottero arriverà dal Niger.»
«Qual è il segnale di riconoscimento?»
«Non c’è bisogno di segnali. Il territorio circostante è deserto. Mi è stato comunicato che l’elicottero controllerà l’area con i riflettori fino a quando ci avrà avvistati.»
«A che ora?»
«Alle quattro del mattino.»
Kazim lo guardò a lungo con aria pensierosa, poi disse, in tono caustico: «Se mi hai mentito un’altra volta, dovrai pentirtene amaramente».
Rimise la Beretta nella fondina e si rivolse a Massarde. «Non c’è tempo da perdere. Devo preparare la cerimonia di benvenuto.»
«Zateb, sarebbe più opportuno evitare guai con l’ONU. Ti sconsiglio di interferire con la squadra tattica. Quando non vedrà Pitt e il suo amico, tornerà sicuramente in Nigeria. Se facessi abbattere l’elicottero uccidendo tutti coloro che sono a bordo riusciresti solo a scoperchiare un nido di calabroni.»
«Stanno per invadere il mio Paese!»
«È un dettaglio trascurabile.» Massarde fece un gesto di noncuranza. «L’orgoglio patriottico non ti si addice. La perdita degli aiuti e dei fondi per sovvenzionare, diciamolo pure, i tuoi programmi nefandi non sarebbe compensata da quella misera soddisfazione. Lasciali andare indisturbati.»
Kazim sfoggiò un sorriso simile a una smorfia e rise senza allegria. «Yves, tu togli ogni piacere dalla mia vita.»
«E ti faccio intascare milioni di franchi.»
«Sì, anche questo è vero», ammise Kazim.
Massarde indicò Pitt con un cenno. «E puoi sempre divertirti con costui e con il suo amico. Sono sicuro che ti diranno tutto ciò che ti interessa sapere.»
«Parleranno prima di mezzogiorno.»
«Ne sono certo.»
«Grazie per averli ammorbiditi un po’ nel bagno turco della sala macchine.»
«È stato un piacere.» Massarde si avviò a una porta laterale. «Ora, se vuoi scusarmi, devo andare dai miei ospiti. Li ho trascurati troppo a lungo.»
«Un favore», disse Kazim.
«Non hai che da chiederlo.»
«Tieni Pitt e Giordino nel bagno turco ancora per un po’. Vorrei che perdessero completamente la baldanza e l’ostilità prima che li faccia trasportare nel mio quartier generale di Bamako.»
«Come vuoi», rispose Massarde. «Darò ordine al mio equipaggio di riportare il signor Pitt nella sentina.»
«Ti sono molto grato, amico mio, per averli catturati e consegnati a me. Grazie.»
Massarde chinò la testa. «È stato un piacere.»
Prima che la porta si chiudesse alle spalle di Massarde, Kazim concentrò di nuovo l’attenzione su Pitt. Gli occhi neri avevano un brillio diabolico. Pitt ricordava di aver visto una sola volta in vita sua tanta perfidia su una faccia umana.
«Goditi il soggiorno nella sentina, signor Pitt. Più tardi soffrirai, soffrirai più di quanto possa immaginare nei tuoi incubi più atroci.»
Se Kazim si aspettava di vedere Pitt tremare di paura, rimase deluso. Pitt era incredibilmente calmo. Aveva l’espressione raggiante di chi ha appena vinto alla slot machìne: senza volerlo, il generale aveva risolto il problema dei suoi piani di fuga. La porta s’era socchiusa, e Pitt aveva tutte le intenzioni di squagliarsela.
Troppo nervosa per dormire, Eva fu la prima tra gli scienziati ad accorgersi che l’aereo stava scendendo. Anche se i piloti azionavano i comandi con tutta la delicatezza possibile, Eva percepì la leggera diminuzione nella potenza dei motori e comprese che l’apparecchio aveva perso quota quando avvertì uno schiocco nelle orecchie.
Guardò dal finestrino ma vide soltanto la tenebra più totale. Non c’era una sola luce visibile nel deserto. Un’occhiata all’orologio le rivelò che era mezzanotte e dieci: era trascorsa appena un’ora e mezzo da quando avevano finito di caricare l’equipaggiamento e i campioni ed erano decollati da quella specie di cimitero che era Asselar.
Rimase tuttavia tranquilla e rilassata, pensando che forse i piloti stavano cambiando rotta e altitudine. Ma la sensazione di vuoto allo stomaco le diceva che l’aereo stava continuando la discesa.
Si alzò e si diresse verso il fondo della cabina dove Hopper si era isolato per poter fumare in pace la pipa. Si avvicinò e, trovandolo addormentato, lo scosse gentilmente. «Frank, c’è qualcosa che non va.»
Hopper, che aveva il sonno leggero, aprì gli occhi quasi subito e le rivolse un’occhiata interrogativa. «Che cos’hai detto?»
«L’aereo sta scendendo. Credo che stiamo per atterrare.»
«È assurdo», sbuffò Hopper. «Mancano cinque ore ancora per arrivare al Cairo.»
«No. Ho sentito i motori perdere potenza.»
«Probabilmente i piloti hanno ridotto la velocità per risparmiare il carburante.»
«Stiamo scendendo, ti dico. Ne sono sicura.»
Nel sentire il suo tono serio, Hopper si tese sul sedile e inclinò la testa per ascoltare meglio il suono. Poi si sporse e scrutò il corridoio, in direzione della paratia anteriore della cabina passeggeri. «Credo che tu abbia ragione. Il muso è leggermente inclinato verso il basso.»
Eva indicò la cabina di comando. «I piloti hanno sempre tenuto la porta aperta durante il volo. Ma ora è chiusa.»
«In effetti è un po’ strano, ma sono sicuro che ce la prendiamo troppo.» Hopper si liberò dal plaid che l’avvolgeva e si alzò con movimenti rigidi. «In ogni caso non sarà male dare un’occhiata.»
Eva lo seguì fino alla porta della cabina di comando. Hopper provò a girare la maniglia e si oscurò in viso. «È chiusa, maledizione.» Bussò, attese qualche istante ma non ebbe risposta. E l’angolo di discesa dell’aereo si accentuò. «Sta succedendo qualcosa di molto strano, davvero. È meglio svegliare gli altri.»
Eva tornò indietro lungo il corridoio e svegliò i colleghi. Grimes fu il primo che raggiunse Hopper.
«Perché stiamo atterrando?» chiese.
«Non ne ho la più vaga idea. Sembra che i piloti non abbiano voglia di comunicare.»
«Forse stanno facendo un atterraggio d’emergenza.»
«Se è così, ce lo tengono nascosto.»
Eva sbirciò nell’oscurità attraverso un finestrino. Un gruppetto di fioche luci gialle spiccava nella notte diversi chilometri oltre il muso dell’aereo. «Ci sono luci davanti a noi», annunciò.
«Potremmo sfondare la porta», propose Grimes.
«A che scopo?» chiese Hopper. «Se i piloti vogliono atterrare, non possiamo impedirglielo. Nessuno di noi è in grado di pilotare un jet.»
«Non possiamo far altro che tornare ai nostri posti e allacciare le cinture», disse Eva.
Aveva appena finito di parlare quando le luci dell’atterraggio si accesero e illuminarono il deserto. Il carrello si abbassò e il pilota eseguì una stretta virata per portarsi in linea con la pista ancora invisibile. Prima che tutti avessero finito di allacciare le cinture, le ruote batterono sulla sabbia compatta e i motori rombarono quando il pilota inserì i freni. La superficie della pista offriva un attrito sufficiente per far rallentare l’aereo senza che i piloti dovessero insistere nella frenata. L’aereo rollò verso una fila di riflettori che fiancheggiava la pista e si fermò.
«Chissà dove siamo?» mormorò Eva.
«Lo sapremo presto», disse Hopper. Si avviò alla porta della cabina di comando, deciso a sfondarla a calci. Ma la porta si aprì prima che la raggiungesse, e apparve il pilota. «Cosa significa questa sosta?» chiese Hopper. «C’è un problema meccanico?»
«Voi scendete qui», fu la risposta.
«Cosa sta dicendo? Dovete portarci al Cairo.»
«Ho avuto l’ordine di lasciarvi a Tebezza.»
«Questo aereo è stato noleggiato dall’ONU. Siete stati ingaggiati per portarci alle destinazioni scelte da noi, e Tebezza, o comunque si chiami, non è una di queste.»
«Lo consideri uno scalo imprevisto», insistette il pilota.
«Non potete buttarci fuori in mezzo al deserto. Come facciamo a proseguire per il Cairo?»
«Sono state date le disposizioni necessarie.»
«E il nostro equipaggiamento?»
«Sarà preso in custodia.»
«I nostri campioni devono arrivare al più presto possibile al laboratorio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Parigi.»
«La cosa non mi riguarda. Adesso prendete i vostri effetti personali e sbarcate.»
«Non abbiamo nessuna intenzione di farlo», rispose Hopper in tono sdegnato.
Il pilota gli passò accanto e si avviò verso l’uscita posteriore. Sbloccò le serrature e premette un grosso interruttore. I martinetti idraulici ronzarono e il portello di poppa si abbassò lentamente, divenne una scaletta che scendeva a terra. Poi il pilota brandì una pistola di grosso calibro che aveva tenuto nascosta dietro la schiena e l’agitò sotto gli occhi degli scienziati.
«A terra, subito?» ordinò bruscamente.
Hopper si avvicinò, si fermò a faccia a faccia con il pilota senza badare alla canna dell’arma che gli toccava lo stomaco. «Chi è lei? Perché si comporta in questo modo?»
«Sono il tenente Abubakar Babanandi dell’Aeronautica militare maliana e agisco per ordine dei miei superiori.»
«Sarebbe a dire?»
«Il supremo consiglio militare del Mali.»
«Vuol dire il generale Kazim. È lui che comanda, da queste parti…»
Hopper gemette quando Babanandi lo colpì all’inguine con la canna della pistola. «Non faccia storie, dottore. Scenda dall’aereo o sparo.»
Eva strinse il braccio di Hopper. «Fai come ti dice, Frank. Non è il caso di morire per orgoglio.»
Hopper barcollò e si premette le mani sull’inguine. Babanandi sembrava un duro, ma Eva vedeva nei suoi occhi più paura che ostilità. Senza aggiungere altro, il tenente spinse Hopper sul primo gradino.
«L’avverto. Non perda altro tempo.»
Dopo venti secondi Hopper, aiutato da Eva, scese a terra e si guardò intorno.
Sei uomini, con le facce nascoste dal velo color indaco dei tuareg, si avvicinarono e si disposero in semicerchio intorno a Hopper. Erano altissimi e minacciosi. Portavano lunghe vesti nere e fluenti ed erano armati di scimitarre infilate nelle fusciacche. Tenevano imbracciati fucili automatici e li puntavano al petto dello scienziato.
Si avvicinarono altri due. Uno era un uomo molto alto, magro; le mani dalla pelle chiara erano le uniche parti scoperte, eccettuati gli occhi appena visibili attraverso la fenditura del litham. La veste era di un violaceo carico ma il velo era bianco. Hopper gli arrivava appena alle spalle.
Era accompagnato da una donna che sembrava appena scesa da un camion carico di ghiaia. Indossava un abito sporco e abbondante che le arrivava appena al ginocchio e lasciava scoperte le gambe grosse come pali del telefono. Diversamente dagli altri era a testa scoperta. Sebbene la sua pelle fosse scura come quella degli africani del sud e i capelli fossero lanosi, aveva gli zigomi alti, il mento rotondo e il naso aguzzo. Gli occhi erano piccoli e tondi, e la bocca era larga quasi quanto il viso. Aveva un’aria fredda e sadica, accentuata dal naso spezzato e dalle cicatrici sulla fronte… Era un viso brutalizzato. Stringeva con una mano una cinghia di cuoio con un nodo a un’estremità. Squadrò Hopper come un torturatore dell’Inquisizione in cerca di una nuova vittima.
«Dove siamo?» chiese Hopper.
«A Tebezza», rispose l’uomo.
«Questo lo so. Ma dov’è Tebezza?»
La risposta giunse in un inglese dall’accento nordirlandese. «Tebezza è il posto dove finisce il deserto e incomincia l’inferno. Qui gli schiavi e i detenuti estraggono l’oro.»
«Un po’ come le miniere di sale di Taoudenni», disse Hopper, girando lo sguardo sui fucili puntati. «Vi dispiace abbassare quelle armi?»
«Sono necessarie, dottor Hopper.»
«Non si preoccupi. Non siamo venuti per rubare il…» Hopper s’interruppe. Sgranò gli occhi, impallidì e chiese in tono sbalordito: «Sa il mio nome?»
«Sì. Vi stavamo aspettando.»
«Lei chi è?»
«Selig O’Bannion. Sono l’ingegnere capo della miniera.» O’Bannion si voltò e indicò la donna. «La mia assistente è Melika, che significa ‘regina’. Prenderete tutti gli ordini da lei.»
Trascorse una decina di secondi di silenzio, rotto soltanto dal rombo delle turbine dell’aereo. Poi Hopper scattò: «Ordini? Cosa diavolo sta dicendo?»
«Siete stati mandati qui dal generale Zateb Kazim. È suo espresso desiderio che lavoriate nelle miniere.»
«Questo è un sequestro di persona!» esclamò Hopper.
O’Bannion scosse la testa. «No, dottor Hopper. Lei e i suoi scienziati non sarete tenuti in ostaggio e nessuno chiederà un riscatto. Siete stati condannati a lavorare nelle miniere di Tebezza, ed estrarrete l’oro per il tesoro nazionale del Mali.»
«È completamente pazzo…» mormorò Hopper, poi indietreggiò vacillando contro la scaletta quando Melika lo colpì alla faccia con la cinghia. Lo scienziato si irrigidì e si toccò la guancia ferita.
«Ecco la prima lezione per uno schiavo, lurido porco», sibilò la donna. «Da questo momento non devi parlare se non ti viene ordinato.»
Alzò la cinghia per colpire di nuovo Hopper, ma O’Bannion le afferrò il braccio. «Calma. Dagli il tempo di abituarsi all’idea.» Poi guardò gli altri scienziati che erano scesi e si erano schierati intorno a Hopper con aria sbalordita e terrorizzata. «Li voglio in buone condizioni per il primo giorno di lavoro.»
Controvoglia, Melika abbassò la cinghia. «Ti stai rammollendo, Selig. Non sono fatti di porcellana.»
«Tu sei americana», disse Eva.
Melika sogghignò. «Sicuro, tesoro. Dieci anni come capo delle guardie del penitenziario femminile di Corona, in California. Puoi credermi sulla parola, là ci sono i tipi più duri.»
«Melika si cura in particolare delle prigioniere», fece notare O’Bannion. «Farà certamente in modo che lei sia considerata della famiglia.»
«Fate lavorare le donne nelle miniere?» chiese Hopper in tono incredulo.
«Sì, molte, e anche i loro figli», rispose sbrigativamente O’Bannion.
«È una vergognosa violazione dei diritti umani», scattò Eva.
Melika guardò O’Bannion con un’espressione diabolica sul viso. «Posso?»
O’Bannion annuì. «Certo.»
Melika spinse l’estremità della cinghia contro lo stomaco di Eva che si piegò in due. Poi la colpì sul collo. Eva si accascio; sarebbe finita a terra se Hopper non l’avesse sorretta passandole un braccio intorno alla vita.
«Imparerete presto che anche la resistenza verbale è inutile» disse O’Bannion. «È meglio che collaboriate: così il tempo che vi resta da vivere sarà meno sgradevole.»
Hopper lo fissò, incredulo. «Siamo scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non potete giustiziarci per un capriccio.»
«Giustiziarvi, caro dottore?» ribatté O’Bannion con la massima disinvoltura. «Neppure per idea. Ho intenzione di farvi morire di fatica.»
Il piano si svolse come Pitt aveva sperato. Quando la guardia lo spinse di nuovo nella sentina fumante dov’era Giordino, si mostrò docile e alzò le mani perché l’uomo potesse bloccare la catena delle manette intorno al tubo del vapore. Ma questa volta tenne le mani alzate dall’altro lato del sostegno del tubo. Quando ebbe la certezza di averlo incatenato saldamente, la guardia fece ricadere rumorosamente la botola e lasciò soli i prigionieri nell’atmosfera soffocante.
Giordino era seduto in una pozza d’acqua. Il vapore era così denso che Pitt riusciva a vederlo a stento. «Com’è andata?» chiese Giordino.
«Massarde e Kazim sono complici e soci in un’attività poco pulita. Massarde paga il generale per i favori che gli fa. Questo e evidente. Non ho saputo altro.»
«Ancora una domanda.»
«Spara.»
«Come facciamo a uscire da questa teiera?»
Pitt alzò le mani e sogghignò. «Con un semplice movimento del polso.»
Fece scivolare la catena lungo il tubo fino a quando arrivò alla paratia di poppa, dove erano allineate le chiavi inglesi. Ne prese una e provò a usarla intorno al supporto del tubo. Era troppo grossa; ma la seconda che scelse andava alla perfezione. Pitt strinse l’impugnatura e tirò. Il sostegno era incastrato dalla ruggine e non cedette. Pitt riposò un momento, puntellò i piedi contro una trave di acciaio, afferrò la chiave inglese con entrambe le mani e usò tutte le sue forze. Le viti del supporto cedettero scricchiolando, ma di poco. Il primo quarto di giro richiese lo sforzo di tutti i muscoli delle braccia di Pitt. A ogni giro, però, il supporto ruotava più agevolmente. Quando restò fissato da due sole viti, Pitt si soffermò e si girò verso Giordino.
«Okay, adesso si può staccare. Per nostra fortuna, vi passa il vapore a bassa pressione per riscaldare le cabine, altrimenti fra poco scopriremmo cosa prova una povera aragosta buttata in pentola. Anche così, il vapore ci potrebbe soffocare se non ce ne andassimo in tutta fretta.»
Giordino si alzò in piedi, fletté le ginocchia e abbassò la testa quando toccò con i capelli fradici le lastre del ponte superiore. «Mettimi la guardia a portata di mano, e al resto ci penso io.»
Pitt annuì in silenzio e fece girare in fretta il supporto fino a staccarlo. Poi si servì della catena delle manette per appendersi al tubo con tutto il suo peso e staccarlo. Una nube di vapore eruppe nello spazio limitato della sentina, e in pochi secondi divenne così fitta che Pitt e Giordino non riuscirono più a vedersi. Con un movimento rapidissimo, Pitt liberò la catena facendola passare sopra l’estremità del tubo, e il vapore gli scottò il dorso delle mani.
Insieme con Giordino incominciò a gridare e a battere i pugni contro le lastre del ponte. Sorpreso dal sibilo inatteso del vapore che già cominciava a filtrare fra le saldature, l’uomo di guardia reagì come Pitt aveva previsto e sollevò la botola. Un vortice di vapore l’avvolse mentre le mani di Pitt si protendevano invisibili dal basso e lo trascinavano nella sentina. L’uomo cadde a capofitto, batté la mascella contro una trave d’acciaio e perse i sensi.
Pitt gli strappò dalle mani il fucile automatico e Giordino prese a frugargli nelle tasche, alla cieca, e infine trovò la chiave delle manette. Appena ebbe i polsi liberi, Pitt balzò sul ponte come un gatto e si acquattò, con l’arma imbracciata. La sala macchine era deserta. Non c’era nessun altro in servizio, oltre alla guardia.
Pitt si voltò, s’inginocchiò asciugandosi l’umidità che gli grondava dalla fronte e socchiuse gli occhi per vedere qualcosa nel vapore ondeggiante. «Allora, vieni o non vieni?»
«Porta su la guardia», borbottò la voce di Giordino. «Non c’è motivo di lasciare questo povero disgraziato a morire qui sotto.»
Pitt brancolò, sentì un paio di braccia sotto le mani e le strinse, trascinò la guardia svenuta nella sala macchine e la stese sul ponte. Poi afferrò Giordino per il polso e lo tirò fuori. Un improvviso dolore alle mani lo fece trasalire.
«Le tue mani sembrano gamberi bolliti», commentò Giordino.
«Le ho scottate quando ho sfilato la catena al di sopra dell’estremità del tubo.»
«Sarò meglio fasciarle.»
«Non abbiamo tempo.» Pitt alzò le mani ancora ammanettate. «Vuoi farmi l’onore?»
Giordino si affrettò a togliergli le manette, poi mostrò la chiave prima di metterla in tasca. «La terrò per ricordo. Non si può mai sapere quando ci arresteranno di nuovo.»
«Non passerà molto tempo, a giudicare dal pasticcio in cui siamo finiti», borbottò Pitt. «Fra poco gli ospiti di Massarde si lamenteranno perché il riscaldamento non funziona; soprattutto le donne che portano abiti scollati. Manderanno qualcuno dell’equipaggio a riparare il guasto e scopriranno che siamo scappati.»
«Allora questo è il momento di uscire di scena con classe e discrezione.»
«Almeno con discrezione.» Pitt raggiunse una botola, la sollevò e scrutò un ponte esterno che si estendeva verso la poppa. Si accostò al parapetto e guardò in alto. Attraverso le grandi vetrate della lounge si vedevano gli ospiti in abito da sera che bevevano e conversavano, ignari dei tormenti che Pitt e Giordino avevano subito proprio sotto di loro, nella sala macchine.
Accennò a Giordino di seguirlo. Avanzarono furtivi sul ponte, chinandosi per passare davanti agli oblò dei compartimenti riservati all’equipaggio. Poi arrivarono a una scala. Si nascosero nell’ombra sotto i gradini e alzarono gli occhi. Nettamente definito sotto la luce dei riflettori che lo illuminavano a giorno, tutto bianco e bordeaux contro lo sfondo nero del cielo, l’elicottero privato di Massarde si trovava sul ponte sopra il salone principale. Intorno non c’era nessuno.
«Il nostro mezzo di trasporto ci sta aspettando», disse Pitt.
«È sempre meglio che nuotare», ammise Giordino. «Se l’amico francese avesse saputo di aver preso due piloti veterani, non l’avrebbe lasciato incustodito.»
«La sua dimenticanza è una fortuna per noi», commentò con calma Pitt. Salì la scala, scrutò il ponte e sbirciò attraverso gli oblò per scoprire gli eventuali segni di vita. I pochi individui che scorse nelle cabine non sembravano affatto interessati a quanto succedeva all’esterno, e stavano girati dall’altra parte. Attraversò in fretta il ponte, aprì il portello dell’elicottero e salì a bordo. Giordino rimosse i ceppi che bloccavano le ruote e i cavi d’ormeggio; poi seguì Pitt, chiuse il portello e prese posto sul sedile di destra.
«Che cos’è?» mormorò studiando il quadro degli strumenti.
«Un Ecureuil francese ultimo tipo a due turbine, direi», rispose Pitt. «Non so quale sia con precisione il modello, ma non abbiamo il tempo di tradurre tutto. Dovremo rinunciare alle solite procedure di controllo e filarcela.»
Due minuti preziosi andarono persi nell’accensione, ma nessuno aveva ancora dato l’allarme quando Pitt mollò il freno e le pale del rotore incominciarono a girare, accelerando fino a raggiungere la rotazione necessaria per il decollo. La forza centrifuga fece ondeggiare l’elicottero sulle ruote. Come quasi tutti i piloti, Pitt non aveva bisogno di tradurre le indicazioni in francese sui contatori, gli strumenti e gli interruttori della plancia. Sapeva che cosa significavano. Erano comandi universali e non causavano problemi.
Un membro dell’equipaggio comparve all’improvviso e guardò incuriosito attraverso l’ampio parabrezza. Giordino lo salutò con la mano e sorrise. L’uomo rimase immobile, con un’espressione indecisa.
«Non può immaginare chi siamo», disse Giordino.
«È armato?»
«No. Ma i suoi colleghi che stanno salendo di corsa la scala non mi sembrano animati da buone intenzioni.»
«È ora di andare.»
«Tutte le spie sono sul verde», annunciò Giordino.
Pitt non esitò più. Trasse un respiro profondo, fece sollevare dal ponte l’elicottero e lo tenne immobile per un attimo, poi inclinò il muso e azionò la leva, lanciandolo in avanti. L’houseboat sembrò abbassarsi sotto di loro in uno sfolgorio di luci contro l’acqua nera. Quando fu a distanza di sicurezza, Pitt si portò in assetto orizzontale a dieci metri appena, e lanciò l’elicottero in una rotta verso valle.
«Dove siamo diretti?» chiese Giordino.
«Al posto in cui Rudi ha trovato la contaminazione che si riversa nel fiume.»
«Non stiamo andando nella direzione sbagliata? Abbiamo trovato il punto d’entrata delle tossine a cento chilometri di qui, dalla parte opposta.»
«È solo una finta per mettere fuori strada i cani da caccia. Appena saremo a distanza di sicurezza da Gao, virerò verso sud, taglierò attraverso il deserto e ritroverò il fiume una trentina di chilometri più a monte.»
«Perché non scendiamo all’aeroporto per prelevare Rudi e non ce ne andiamo come fulmini?»
«Per molte ragioni», spiegò Pitt, e indicò i contatori del carburante. «Uno: abbiamo carburante per un volo di circa duecento chilometri, non di più. Due: quando Massarde e il suo amico Kazim lanceranno l’allarme, i caccia a reazione maliani ci inseguiranno con i radar, ci costringeranno ad atterrare o ci faranno a pezzi. Credo che succederà fra circa un quarto d’ora. Tre, Kazim crede che siamo noi due soli. Maggiore sarà la distanza che riusciremo a mettere fra noi e Rudi e più avrà la possibilità di fuggire con i campioni.»
«È un’idea che ti è venuta così all’improvviso?» chiese Giordino in tono lamentoso. «Oppure discendi da una dinastia di chiaroveggenti?»
«Puoi considerarmi come un indovino, sì», disse Pitt, condiscendente.
«Dovresti fare domanda per predire il futuro in un luna park», commentò Giordino in tono asciutto.
«Ce l’ho fatta a tirarti fuori dal bagno turco su quella barca, no?»
«E adesso dovremo sorvolare il centro del Sahara fino a che non resteremo senza carburante. Poi proseguiremo a piedi nel più grande deserto del mondo, in cerca di una sostanza tossica che non conosciamo, fino a quando creperemo o saremo catturati dai militari maliani che ci spediranno direttamente nelle loro camere di tortura.»
«Sei un vero genio quando si tratta di descrivere le prospettive più lugubri», esclamò Pitt in tono sardonico.
«Allora spiegati meglio.»
«È giusto.» Pitt annuì. «Appena raggiungeremo la località in cui la contaminazione finisce nel fiume, abbandoneremo l’elicottero.»
Giordino lo guardò. «Nel fiume?»
«Vedo che cominci a capire.»
«Non voglio fare un’altra nuotata in questo fiume puzzolente… neppure per idea.» Giordino scosse la testa, deciso. «Sei più matto di un cavallo.»
«Ogni parola è una virtù, ogni mossa sublime», disse allegramente Pitt. Poi ridivenne serio di colpo e soggiunse: «Tutti gli aerei di cui dispongono i maliani cercheranno questo elicottero. Se sarà sepolto nelle acque del fiume, non sapranno dove cominciare la caccia. Comunque, Kazim non si aspetterà mai che puntiamo a nord, in mezzo al deserto, per trovare l’origine della contaminazione tossica».
«Sei subdolo», commentò Giordino. «Non c’è altra parola per definirti.»
Pitt si chinò e prese una mappa dalla custodia fissata al sedile. «Prendi i comandi mentre io traccio una rotta.»
«Fatto», annunciò Giordino afferrando la leva dei comandi collettivi e la colonna della variazione periodica del passo del rotore.
«Sali a cento metri, mantieni la rotta sul fiume per cinque minuti, poi vira e prosegui a due-sei-zero gradi.»
Giordino seguì le istruzioni e riportò l’elicottero in assetto orizzontale a cento metri di altitudine prima di guardare in basso. Riusciva appena a scorgere la superficie del fiume. «Per fortuna le stelle si riflettono sull’acqua, altrimenti non vedrei neppure dove diavolo stiamo andando.»
«Stai attento se vedi qualche ombra scura all’orizzonte, dopo la virata. Non vorrei andare a sbattere contro una formazione rocciosa.»
Trascorsero appena venti minuti dall’inizio della deviazione intorno a Gao, prima che si avvicinassero a destinazione. L’elicottero di Massarde volava nella notte come un fantasma, invisibile senza le luci di navigazione; Giordino azionava i comandi, e Pitt indicava il percorso. Sotto di loro il deserto era piatto, spezzato dalle poche ombre gettate dalle rocce o dalle modeste alture. Fu quasi un sollievo quando avvistarono nuovamente le acque nere del Niger.
«Cosa sono quelle luci a babordo?» chiese Giordino.
Pitt non alzò la testa. Continuò a tenere lo sguardo fisso sulla carta. «Su quale sponda del fiume?»
«Nord.»
«Dovrebbe essere Bourem, un paesetto che abbiamo superato con lo yacht poco prima di uscire dall’acqua inquinata. Gira molto al largo.»
«Dove vuoi abbandonare l’elicottero?»
«Più a monte, appena fuori portata degli eventuali abitanti locali con l’udito fino.»
«Hai una ragione particolare per scegliere questo posto?» indagò Giordino, insospettito.
«È sabato sera. Perché non andare in città a dare un’occhiata?»
Giordino aprì la bocca per rispondere per le rime, poi rinunciò e si concentrò sulla guida. Si tese e scrutò gli indicatori sul pannello degli strumenti. Si avvicinò al centro del fiume, tirò indietro la leva e nel contempo spinse delicatamente il comando collettivo, premette il timone di destra facendo girare l’apparecchio con il muso verso monte, e lo fermò.
«Hai il giubbotto di salvataggio?» chiese.
«Lo porto sempre.» Pitt annuì. «Scendi.»
Quando fu a due metri dalla superficie dell’acqua, Giordino spense i motori mentre Pitt chiudeva gli interruttori elettrici e quelli del carburante. Il bellissimo elicottero di Yves Massarde palpitò come una farfalla ferita, quindi piombò nell’acqua sollevando uno spruzzo. Rimase a galla il tempo sufficiente perché Giordino e Pitt uscissero e si lanciassero il più possibile lontani. Piombarono nel fiume muovendo furiosamente le braccia e le gambe per sottrarsi alla portata delle pale che ruotavano ancora, seppur lentamente. Quando l’acqua arrivò ai portelli aperti e invase l’abitacolo, l’elicottero scivolò sotto l’acqua nera con un gran sospiro mentre l’aria fuoriusciva dalla cabina.
Nessuno l’aveva sentito scendere e nessuno, sulla riva, lo vide affondare. Sparì come la Calliope e si calò nei sedimenti soffici del fiume che un giorno l’avrebbero ricoperto completamente e sarebbero diventati la sua tomba.
Non era esattamente la Polo Lounge del Beverly Hills Hotel, ma per qualcuno che era finito due volte in un fiume, era rimasto a bollire in un bagno a vapore e aveva i piedi doloranti dopo aver camminato nel deserto al buio per due ore, nessun locale avrebbe potuto offrire un rifugio migliore. Pitt non aveva mai visto una bettola tanto squallida che gli fosse sembrata più bella.
Ebbero la sensazione di entrare in una grotta. Le ruvide pareti di argilla si ergevano dal pavimento di terra battuta. Una lunga asse appoggiata a mattoni di cemento formava il banco, e al centro s’era incurvata verso il basso, tanto che ogni bicchiere posato sulla superficie avrebbe dovuto scivolare verso quel punto. Dietro il banco decrepito uno scaffale incuneato nel muro d’argilla ospitava un bizzarro assortimento di pentole e bollitori per preparare il caffè o il tè. Accanto c’erano cinque bottiglie di liquori dalle etichette misteriose, più o meno semivuote: dovevano essere riservate ai pochissimi turisti che arrivavano fin lì, pensò Pitt, dato che ai musulmani era vietato bere alcolici.
Una stufetta irradiava un calore piacevole e un aroma pungente che Pitt e Giordino, al momento, non avevano ancora identificato come sterco di dromedario. Le sedie sembravano gli scarti dei magazzini dell’Esercito della Salvezza: erano tutte spaiate. Anche i tavoli non erano molto meglio, scuriti dal fumo, bruciacchiati da innumerevoli sigarette e ornati di incisioni che risalivano al periodo coloniale francese. La poca luce proveniva da due lampadine senza paralume appese a un unico filo elettrico fissato con i chiodi a una trave del tetto. Emanavano un chiarore fioco: la debole energia arrivava dal generatore diesel del paese.
Seguito da Giordino, Pitt sedette a un tavolo libero e spostò l’attenzione dall’arredamento ai clienti. Notò con sollievo che nessuno era in uniforme. C’era un assortimento di barcaioli e pescatori, abitanti del villaggio e altri che sembravano contadini. Non c’era neppure una donna. Alcuni dei presenti bevevano birra, ma in maggioranza centellinavano minuscole tazze di caffè dolce o di tè. Dopo un’occhiata distratta ai nuovi venuti, tutti ripresero a parlare o a dedicarsi a un gioco simile al domino.
Giordino si sporse al di sopra del tavolo e mormorò: «Secondo te, questa sarebbe una grande serata in città?»
«Qualunque porto va bene nella tempesta», rispose Pitt.
Il proprietario, un uomo con la pelle olivastra, una selva di capelli neri e un paio di baffi enormi, lasciò il banco e si avvicinò. Si fermò a guardarli in silenzio e attese che fossero i primi a parlare.
Pitt alzò due dita e disse: «Birra».
Il padrone annuì e tornò al bar. Giordino lo seguì con gli occhi mentre prendeva due bottiglie di birra tedesca da una ghiacciaia metallica tutta ammaccata e si voltava a guardarli.
«Ti dispiace dirmi come hai intenzione di pagare?» chiese Giordino.
Pitt si chinò sotto il tavolo, si sfilò la Nike sinistra e tolse qualcosa dalla suola. Poi si guardò intorno attentamente. Nessuno degli altri clienti mostrava il minimo interesse per lui e per il suo compagno. Aprì cautamente le mani in modo che soltanto Giordino potesse vedere il fascio di banconote maliane.
«Franchi della Confederazione dell’Africa francese», disse a voce bassa. «L’ammiraglio non dimentica mai niente.»
«Sì, Sandecker ha pensato a tutto», ammise Giordino. «Ma come mai ha affidato i soldi a te e non a me?»
«Io ho i piedi più grandi.»
Il padrone tornò e posò bruscamente sul tavolo le bottiglie di birra. «Dix francs», biascicò.
Pitt gli porse una banconota. Il padrone l’alzò verso una delle lampade, l’osservò, stropicciò sulla stampa il pollice bisunto. Quando vide che il colore non sbavava, annuì e si allontanò.
«Ha chiesto dieci franchi», commentò Giordino, «e tu gliene hai dati venti. Se si convince che siamo ricchi, probabilmente mezzo paese ci aggredirà per rapinarci quando ce ne andremo.»
«È proprio questa l’idea», ribatté Pitt. «È solo questione di tempo prima che il truffatore locale senta l’odore e venga a ronzare intorno alle vittime.»
«Siamo qui per comprare o per vendere?»
«Per comprare. Abbiamo bisogno d’un mezzo di trasporto.»
«Secondo me, dovrebbe avere la precedenza un pasto abbondante. Sono affamato come un orso appena uscito dall’ibernazione.»
«Se vuoi, puoi ordinare qualcosa qui», disse Pitt. «Io preferisco tenermi la fame.»
Erano arrivati alla terza birra quando un giovane non più che diciottenne entrò nel bar. Era alto e snello e aveva le spalle un po’ curve, il viso ovale e gentile, e due grandi occhi tristi. La pelle era quasi nera, i capelli folti e ispidi. Indossava una maglietta gialla e pantaloni kaki sotto un indumento di cotone bianco che sembrava un lenzuolo. Studiò i clienti per qualche istante e fissò Pitt e Giordino.
«La pazienza è la virtù dei mendicanti», mormorò Pitt. «Sta per arrivare la salvezza.»
Il giovane si fermò accanto al tavolo e fece un cenno di saluto. «Bonsoir.»
«Buonasera», rispose Pitt.
Gli occhi malinconici si dilatarono. «Siete inglesi?»
«Neozelandesi», mentì Pitt.
«Io sono Mohammed Digna. Forse posso aiutarvi a cambiare il denaro che avete con voi.»
«Abbiamo valuta locale», disse Pitt alzando le spalle.
«Avete bisogno di una guida, qualcuno che vi aiuti a risolvere problemi con la dogana, la polizia o i funzionali del governo?»
«No, non credo.» Pitt indicò una sedia libera. «Beve qualcosa con noi?»
«Sì, grazie.» Digna disse qualcosa in francese al padrone e sedette.
«Parla molto bene l’inglese», disse Giordino.
«Ho fatto le elementari a Gao e poi ho studiato al college nella capitale, Bamako. Ero il primo della classe», disse Digna in tono d’orgoglio. «So parlare quattro lingue: il bambara, che è la mia lingua madre, il francese, l’inglese e il tedesco.»
«È più bravo di me», esclamò Giordino. «Io conosco appena l’inglese quanto basta per arrangiarmi.»
«Che mestiere fa?» chiese Pitt.
«Mio padre è il capo di un villaggio vicino. Io gestisco i suoi affari e la sua ditta d’esportazioni.»
«Però frequenta i bar e offre i suoi servigi ai turisti», mormorò Giordino in tono sospettoso.
«Mi piace frequentare i forestieri per tenermi in allenamento con le lingue che conosco», rispose Digna senza esitare.
Il padrone tornò e mise una tazzina di tè davanti al giovane.
«Suo padre come trasporta le merci?» chiese Pitt.
«Ha una piccola flotta di camion Renault.»
«È possibile noleggiarne uno?»
«Ha un carico di merce da portare in qualche posto?»
«No, il mio amico e io vorremmo fare una corsa verso il nord per vedere il grande deserto prima di tornare in Nuova Zelanda.»
Digna scosse la testa. «Impossibile. I camion di mio padre sono partiti questo pomeriggio per Mopti con un carico di tessuti e prodotti agricoli. E poi, nessuno straniero può viaggiare nel deserto senza uno speciale lasciapassare.»
Pitt si rivolse a Giordino con un’espressione mesta e delusa. «Che peccato. E pensare che abbiamo fatto il giro del mondo per vedere i nomadi del deserto sui loro dromedari.»
«Non avrò mai il coraggio di guardare in faccia la mia mammina», gemette Giordino. «Ha sacrificato i risparmi di tutta una vita perché potessi fare l’esperienza della vita nel Sahara.»
Pitt batté la mano sul tavolo e si alzò. «Be’, allora torniamo all’aeroporto di Timbuctu.»
«Avete una macchina?» chiese Digna.
«No.»
«E come siete arrivati fin qui?»
«Con l’autobus», rispose Giordino in tono esitante, come se facesse una domanda.
«Vuol dire un camion che trasporta passeggeri.»
«Appunto», esclamò Giordino.
«Non troverete mezzi che partano per Timbuctu prima di domani a mezzogiorno», disse Digna.
«Ci sarà pure, a Bourem, un veicolo in buono stato che possiamo prendere a nolo», incalzò Pitt.
«Bourem è un villaggio molto povero. Quasi tutti gli abitanti vanno a piedi o in motocicletta. Poche famiglie possono permettersi automobili che non abbiano bisogno di continue riparazioni. L’unico veicolo in buone condizioni che si trova a Bourem in questo momento è la macchina personale del generale Zateb Kazim.»
Fu come se Digna avesse pungolato con un forcone due tori aggiogati. La mente di Pitt e quella di Giordino funzionavano sulla stessa lunghezza d’onda. Si irrigidirono entrambi, ma subito si rilassarono. Si guardarono e sorrisero.
«E cosa ci fa qui la sua macchina?» chiese Giordino con aria innocente. «Proprio ieri l’abbiamo visto a Gao.»
«Il generale va dappertutto con gli elicotteri e i jet militari», rispose Digna. «Ma vuole che la sua auto e il suo autista personale lo trasportino attraverso le città e i villaggi. L’autista stava spostando la macchina sull’autostrada nuova da Bamako a Gao; ma si è rotta a pochi chilometri da Bourem e l’hanno rimorchiata qui per le riparazioni.»
«Ed è stata riparata?» chiese Pitt mentre beveva un sorso di birra per ostentare indifferenza.
«Il meccanico ha finito tardi di lavorare, questa sera. Un sasso aveva perforato il radiatore.»
«E l’autista è ripartito per Gao?» chiese Giordino.
Digna scosse la testa. «La strada da qui a Gao è ancora in costruzione e viaggiare di notte può essere pericoloso. L’autista non vuole correre il rischio di danneggiare ancora la macchina del generale Kazim. Ha deciso di partire appena farà giorno.»
Pitt lo fissò: «Come fa a saperlo?»
Digna sorrise. «L’officina è di mio padre, e io la dirigo. Ho cenato con l’autista.»
«E adesso dov’è?»
«È ospite a casa di mio padre.»
Pitt cambiò argomento. «C’è qualche azienda chimica da queste parti?» chiese.
Digna rise. «Bourem è troppo povera per produrre altro che manufatti e tessuti.»
«Non c’è una discarica di rifiuti tossici?»
«A Fort Foureau. Ma è qualche centinaio di chilometri più a nord.»
Vi fu un breve silenzio, poi Digna chiese all’improvviso: «Quanti soldi avete con voi?»
«Non lo so», rispose sinceramente Pitt. «Non li ho contati.»
Poi vide che Giordino lo fissava in modo strano e subito dopo lanciava uno sguardo verso quattro uomini seduti a un tavolo d’angolo. Li guardò e si accorse che si giravano dall’altra parte. Doveva essere un agguato, pensò. Scrutò il padrone che era appoggiato al banco e leggeva il giornale; escluse che potesse essere uno dei rapinatori. Un’occhiata agli altri clienti lo convinse che badavano solo a chiacchierare. Erano due contro cinque. Niente male davvero, pensò.
Finì la birra e si alzò. «Dobbiamo andare.»
«Saluti il capo da parte mia», disse Giordino stringendo la mano di Digna.
Il giovane non smise di sorridere, ma i suoi occhi s’indurirono. «Non potete andarvene.»
«Non si preoccupi per noi.» Giordino fece un cenno di saluto. «Dormiremo lungo la strada.»
«Datemi i soldi», ordinò Digna senza alzare la voce.
«Il figlio d’un capo che mendica», commentò Pitt in tono asciutto. «Devi essere un grave motivo d’imbarazzo per il tuo vecchio.»
«Non offendermi», disse freddamente Digna. «Consegnatemi tutti i soldi o il vostro sangue scorrerà sul pavimento.»
Giordino si comportò come se lo ignorasse. Si spostò verso un angolo del bar. I quattro si erano alzati e sembravano attendere il segnale di Digna. Ma il segnale non venne. I maliani parevano confusi perché le vittime potenziali non mostravano la minima paura.
Pitt si sporse sopra il tavolo e affrontò Digna a faccia a faccia. «Sai cosa facciamo il mio amico e io ai mascalzoni come te?»
«Non potete insultare Mohammed Digna e continuare a vivere», ringhiò il giovane in tono sprezzante.
«Noi», continuò Pitt con la massima calma, «li seppelliamo con una fetta di prosciutto in bocca.»
Per un musulmano devoto, il contatto con un maiale è l’abominio peggiore. Lo considerano la più immonda delle creature, e il solo pensiero di trascorrere l’eternità in una tomba in compagnia di una fetta di prosciutto basta a ispirare gli incubi più atroci. Pitt sapeva che la minaccia equivaleva a un paletto di legno puntato al cuore d’un vampiro.
Per cinque secondi Digna rimase immobile, rantolando come se si sentisse strangolare. I muscoli della faccia si contrassero, i denti si scoprirono in una smorfia di rabbia irrefrenabile. Poi si alzò in piedi ed estrasse dalla veste un lungo coltello.
Ma s’era mosso in ritardo.
Pitt gli piazzò un pugno al mento con la forza d’un pistone. Il maliano barcollò all’indietro, piombò sul tavolo dove sedevano i giocatori di domino, rovesciò i pezzi e stramazzò privo di sensi sul pavimento. I suoi complici si lanciarono contemporaneamente verso Pitt e gli girarono intorno, guardinghi. Tre di loro sfoderarono lunghi coltelli a lama curva, mentre il quarto brandiva una scure.
Pitt afferrò la sedia e la scagliò sul primo assalitore, fracassandogli il braccio destro e la spalla. Risuonò un grido di dolore, e nel locale esplose la confusione. I clienti, sbalorditi, si accalcarono per fuggire dalla porta e mettersi al sicuro. Un’altra esclamazione di sofferenza uscì dalle labbra dell’uomo con la scure quando una bottiglia di whisky, lanciata da Giordino, lo colpì alla faccia con un rumore agghiacciante.
Pitt sollevò il tavolo sopra la testa stringendolo per due gambe. Nello stesso istante risuonò il rumore del vetro spaccato, e Giordino gli venne accanto con la mano protesa che stringeva il collo acuminato d’una bottiglia.
Gli aggressori si fermarono di colpo a guardare i due complici: uno si dondolava sulle ginocchia, gemeva e si stringeva il braccio, l’altro era sul pavimento a gambe incrociate e si copriva la faccia mentre il sangue gli scorreva fra le dita. Lanciarono un’altra occhiata al capo ancora privo di sensi e cominciarono ad arretrare verso la porta. Sparirono in un batter d’occhio.
«Non è stato gran che, come esercizio», borbottò Giordino. «Per le strade di New York, quelli non sopravvivrebbero neppure cinque minuti.»
«Tieni d’occhio la porta», disse Pitt. Si rivolse al padrone che era rimasto impassibile e girava le pagine del giornale come se considerasse le risse nel suo locale uno spettacolo normalissimo. «Le garage?» chiese Pitt.
Il padrone alzò la testa, si tirò i baffi e, in silenzio, puntò il pollice in una direzione vaga, oltre la parete sud del bar.
Pitt buttò una manciata di banconote sul banco per risarcire i danni e disse: «Merci».
«Questo posto mi è diventato simpatico», commentò Giordino. «Quasi quasi mi dispiace andarmene.»
«Imprimitelo nella memoria.» Pitt diede un’occhiata all’orologio. «Fra quattro ore spunterà il sole. Andiamo via prima che qualcuno dia l’allarme.»
Uscirono dal bar e si avviarono tenendosi nell’ombra e sbirciando a ogni angolo. Era una precauzione eccessiva, pensò Pitt. La mancanza quasi totale di lampioni e le case buie dove la gente dormiva rendevano pressoché nullo il rischio che qualcuno s’insospettisse.
Arrivarono a uno degli edifici più solidi del paese, una specie di magazzino con un grande cancello metallico davanti e una porta a due battenti sul retro. Il cortile cintato dalla rete metallica sembrava il deposito d’uno sfasciacarrozze. Almeno trenta vecchie macchine erano parcheggiate in fila, smantellate e ridotte alla carrozzeria e alle strutture. Le ruote e i motori sporchi erano accatastati in un angolo del cortile, accanto a numerosi bidoni. Le trasmissioni e i differenziali erano appoggiati al muro e, tutto intorno, il terreno era intriso dall’olio filtrato per anni e anni.
Trovarono un cancelletto nella recinzione: era legato con una corda. Giordino raccattò una pietra affilata, tranciò il nodo e aprì. Si avviarono verso la porta, soffermandosi per sentire se c’era un cane da guardia e controllare l’eventuale presenza di un sistema d’allarme. Ma non doveva esserci bisogno di prevenire i furti, concluse Pitt. In paese le macchine erano troppo poche, e se qualcuno avesse rubato un pezzo per riparare un veicolo privato avrebbe attirato subito i sospetti di tutti.
I due battenti erano chiusi da un lucchetto arrugginito. Giordino l’afferrò con le mani massicce e diede uno strattone. Quando il gancio cedette, guardò Pitt e sorrise.
«È stato uno scherzo. Era vecchio e corroso.»
«Se pensassi che abbiamo qualche speranza di uscire vivi da questo posto», disse Pitt in tono acido, «ti proporrei per una medaglia.»
Aprì adagio uno dei battenti, quanto bastava per poter entrare. In fondo all’officina c’era una fossa dove i meccanici potevano lavorare stando sotto le macchine. Poi c’erano un piccolo ufficio e una stanza piena di utensili e macchinari. Il resto dello spazio era occupato da tre automobili e da un paio di camion più o meno smontati. Ma ad attirare l’attenzione di Pitt fu la macchina al centro del garage. Infilò la mano nel finestrino aperto di un camion e fece scattare l’interruttore dei fari, illuminando una vecchia automobile anteriore alla seconda guerra mondiale, dalle linee eleganti e dai colori vivaci, rosso-magenta.
«Mio Dio», mormorò sbalordito Pitt. «Un’Avions Voisin.»
«Che cosa?»
«Una Voisin. Vennero costruite in Francia dal 1919 al 1939 da Gabriel Voisin. È una macchina rarissima.»
Giordino girò da un paraurti all’altro e studiò le linee della macchina. Notò le maniglie fuori del comune, i tre tergicristallo montati sul parabrezza, i tiranti cromati che andavano dai parafanghi anteriori al radiatore, e il simbolo alato sul tappo. «A me sembra molto strana.»
«Stai buono. Questo catorcio di gran lusso è il nostro biglietto per uscire da qui.»
Pitt si mise al volante, che era a destra, e si assestò sul sedile stile art déco. La chiave era nell’accensione. La girò e seguì con gli occhi l’ago dell’indicatore del carburante che saliva fino alla linea del pieno. Poi premette il pulsante che metteva in funzione il motorino elettrico in fondo al radiatore e che serviva come avviamento e come generatore. Non si avvertì il minimo suono mentre il motore entrava in funzione. L’unica indicazione fu una specie di colpo di tosse appena udibile, poi uno sbuffo lieve di vapore uscì dal tubo di scappamento.
«È molto silenziosa», commentò Giordino, impressionato.
«Diversamente dalla maggior parte dei motori moderni», commentò Pitt. «Questo è un motore Knight con le valvole a manica, ai suoi tempi famoso per la silenziosità.»
Giordino continuò a guardare con aria scettica la vecchia macchina d’epoca. «Hai davvero intenzione di guidare questa vecchia reliquia attraverso il Sahara?»
«Abbiamo il serbatoio pieno, ed è sempre meglio che viaggiare in groppa a un dromedario. Cerca qualche recipiente pulito, riempilo d’acqua, e vedi se puoi rimediare qualcosa di commestibile.»
«Non credo che in questa officina ci sia un distributore automatico di bibite analcoliche e di tavolette di cioccolato», disse Giordino guardandosi intorno.
«Fai quello che puoi.»
Pitt aprì la porta posteriore del capannone e spinse il cancello quanto bastava per far passare la macchina. Poi la controllò per assicurarsi che ci fossero l’olio e l’acqua e che le gomme, soprattutto quella di scorta, fossero ben gonfiate.
Giordino tornò con una mezza cassetta di bibite analcoliche di produzione locale e diverse bottiglie di plastica piene d’acqua. «Per qualche giorno non soffriremo la sete, ma in fatto di viveri non ho trovato di meglio di due scatole di sardine e un intruglio che sembra una sbobba bollita.»
«È inutile aspettare ancora. Carica il bottino sul sedile posteriore e muoviamoci.»
Giordino obbedì e salì a fianco di Pitt mentre questi azionava la leva del cambio Cotal, una specie d’interruttore montato su un braccio che sporgeva dall’albero. Innestò la prima, premette l’acceleratore e mollò la frizione. La sessantenne Voisin si mosse senza far rumore.
Pitt avanzò fra le macchine demolite, uscì dal cancello e procedette guardingo lungo un vicolo fino a quando arrivò a una stretta strada sterrata che andava verso ovest, in un percorso parallelo a quello del fiume Niger. Svoltò e seguì le tracce senza superare i venticinque chilometri orari, fino a quando non perse di vista la città. Soltanto allora accese i fari e accelerò.
«Sarebbe bello avere una carta stradale», disse Giordino.
«Sarebbe più pratica una carta delle piste per dromedari. Non possiamo correre il rischio di immetterci sull’autostrada.»
«Andrà tutto bene finché questo viottolo continuerà a fiancheggiare il fiume.»
«Appena raggiungeremo la gola dove gli strumenti di Gunn hanno rilevato la contaminazione, svolteremo e là proseguiremo verso nord.»
«Non vorrei essere presente quando l’autista riferirà a Kazim che la sua preziosa macchina è stata rubata.»
«Il generale e Massarde penseranno che siamo diretti verso il confine più vicino, quello con il Niger», disse Pitt in tono sicuro. «L’ultimo posto al mondo dove potrebbero sospettare che siamo andati è il cuore del deserto.»
«Devo dire», borbottò Giordino, «che la prospettiva del viaggio non mi entusiasma.»
Non era entusiasta neppure Pitt. Era un tentativo pazzesco e non garantiva certo speranze di campare fino alla più tarda età. I fari mostravano che il terreno era piatto, cosparso a tratti di piccole rocce brune. I fasci luminosi inquadravano ombre minacciose gettate ogni tanto dagli alberi della manna che sembravano sfrecciare nel buio come fantasmi.
Era un posto molto solitario per morire, pensò Pitt.
Il sole si alzò già caldo; alle dieci c’erano 32 gradi centigradi. Da sud incominciò a soffiare un vento che portò un vantaggio discutibile a Rudi Gunn. La brezza gli rinfrescava la pelle sudata, ma gli riempiva di sabbia il naso e le orecchie. Si avvolse più strettamente il telo intorno alla testa per proteggersi e si assestò gli occhiali scuri per riparare gli occhi. Prese dallo zaino una borraccia di plastica piena d’acqua e ne bevve la metà. Non era necessario razionarla, pensò: aveva visto un rubinetto sgocciolante accanto al terminal.
L’aeroporto sembrava morto come la notte precedente. Sul lato riservato ai militari c’era stato un cambio della guardia, ma negli hangar e sulla pista non si svolgeva nessuna attività. Al terminal commerciale, vide un uomo che arrivava in moto e saliva sulla torre di controllo. Era un buon segno. Nessuno con il cervello a posto sarebbe andato a soffrire in una cabina sopraelevata con le pareti di vetro sotto il sole a picco, a meno che stesse per arrivare un aereo.
Un falco volava in cerchio sopra la postazione di Gunn. Lo seguì per un po’ con lo sguardo prima di ripararsi con qualche asse consunta. Poi scrutò di nuovo l’aeroporto. Un camion s’era fermato sulla pista davanti al terminal. Due uomini scesero e scaricarono una serie di zeppe di legno e le piazzarono a terra per bloccare le ruote dell’aereo dopo l’atterraggio. Gunn s’irrigidì e cominciò a preparare mentalmente un approccio strategico al punto in cui si sarebbe fermato. Si impresse il percorso nella mente, scegliendo come copertura i fossati poco profondi e la vegetazione rada.
Poi si ridistese, deciso a sopportare il caldo crescente, e alzò lo sguardo al cielo. Il falco stava piombando su un piviere che sfrecciava verso il fiume. Poche nuvolette candide veleggiavano nell’immenso cielo azzurro. Gunn si chiese come potevano sopravvivere in quell’atmosfera rovente. Era così intento a guardare le nubi che in un primo momento non sentì il ronzio sordo che segnalava l’arrivo di un reattore. Poi un riflesso attirò il suo sguardo. Si sollevò a sedere. Il sole aveva lampeggiato su un puntolino in movimento nel cielo. Attese e osservò fino a quando il brillio si ripeté: ma questa volta era più basso sull’orizzonte brullo. Era un aereo che si apprestava ad atterrare, ma ancora troppo lontano per essere riconoscibile. Doveva essere commerciale, pensò Gunn, altrimenti non l’avrebbero aspettato nella zona dell’aeroporto riservata al traffico civile.
Rimosse le tavole di legno che lo schermavano dal sole, si caricò lo zaino sulle spalle e si acquattò, pronto ad avvicinarsi furtivamente. Socchiuse gli occhi per scrutare il cielo fino a che l’aereo fu a un chilometro di distanza. Il cuore incominciava a battergli forte per l’ansia. I secondi trascorrevano lentamente: e alla fine riuscì a distinguere il tipo di apparecchio, i simboli e le sigle. Era un airbus civile francese con le fasce verdechiaro e verdescuro dell’Air Afrique.
Il pilota superò il bordo estremo della pista, toccò terra e frenò. Poi proseguì lentamente verso il terminal e si fermò. I motori continuarono a girare mentre i due assistenti a terra spingevano i cunei sotto le ruote e accostavano una scaletta all’uscita principale.
Finalmente il portello anteriore passeggeri si aprì lateralmente, e una hostess scese i gradini. Passò accanto ai due maliani senza guardarli e s’incamminò verso la torre di controllo. I maliani distolsero l’attenzione dall’aereo e si voltarono a osservarla con interesse. Quando la ragazza arrivò alla base della torre, prese dalla borsa a tracolla un piccolo tagliafili e, con la massima calma, tranciò i cavi dell’energia elettrica e delle comunicazioni che andavano dalla torre al terminal. Poi agitò una mano per dare un segnale.
Nella parte posteriore della fusoliera si abbassò all’improvviso una rampa, e il movimento fu accompagnato dal rombo smorzato del motore di una macchina. Poi qualcosa che a Gunn sembrò una dune buggy sfrecciò dalla stiva e scese la rampa. L’autista sterzò e puntò verso la baracca delle guardie, nella parte dell’aeroporto riservata ai militari.
Una volta Gunn aveva fatto parte della squadra di assistenza ai box quando Pitt e Giordino avevano partecipato a una gara per fuoristrada in Arizona; ma non aveva mai visto un veicolo come quello, adatto a ogni tipo di terreno. Non aveva uno chassis o una carrozzeria normale: era un labirinto di supporti tubolari saldati insieme e mossi da un motore sovralimentato V-8 Rodeck da 541 pollici cubi, usato nei dragsters americani. Il guidatore era in un piccolo abitacolo nella parte anteriore, davanti al motore che era montato al centro. Un po’ più in alto stava un artigliere, piazzato a una mitragliatrice leggera a sei canne del tipo Vulcan. Un altro artigliere stava sopra l’asse posteriore: era rivolto all’indietro e aveva una mitragliatrice Stoner 63 da 5,56 millimetri. Quel tipo di veicolo, Gunn lo ricordava, s’era dimostrato molto efficiente durante la guerra nel deserto, dove era stato usato dalle squadre delle forze speciali americane operanti dietro le linee irachene.
Fu subito seguito da un plotone di uomini armati che indossavano uniformi sconosciute e che accerchiarono prontamente i maliani sbalorditi e s’impadronirono del terminal.
Le due guardie dell’Aeronautica del Mali che stavano nella parte riservata ai militari rimasero a guardare mentre lo strano veicolo correva verso di loro. Solo quando fu a meno di cento metri si scossero e compresero che rappresentava un pericolo. Alzarono le armi per sparare, ma furono falciati da una raffica fulminea della Vulcan.
Poi il guidatore sterzò bruscamente e gli artiglieri incominciarono a concentrare il fuoco sugli otto caccia a reazione maliani parcheggiati sulla pista. Gli aerei, poiché non c’erano minacce di situazioni belliche d’emergenza, non erano sparpagliati; bensì disposti in due file ordinate come se attendessero un’ispezione. Il veicolo continuò ad avanzare sparando brevi raffiche devastanti con le armi automatiche. In rapida successione, gli aerei esplosero tra le fiamme e i neri vortici di fumo, mentre torrenti di proiettili martellavano i serbatoi. Nel volgere di un istante, un caccia a reazione dopo l’altro si trasformava in un rottame incendiato.
Gunn assisteva alla scena in preda allo sbalordimento. Stava acquattato dietro un’acacia, come se il tronco esile fosse uno scudo di cemento. L’intera operazione si era svolta in poco più di cinque minuti. Il veicolo armato tornò a tutta velocità verso l’aerobus e si piazzò in posizione all’ingresso del terminal. Poi un uomo in uniforme da ufficiale scese la scaletta. Teneva fra le mani un megafono.
L’ufficiale se lo portò alle labbra e la sua voce echeggiò al di sopra della devastazione fiammeggiante sull’altro lato della pista. «Signor Gunn! Venga avanti, per favore. Non abbiamo molto tempo.»
Gunn era allibito. Esitò. Non riusciva a decidere se quella era una specie di trappola complicata, ma escluse quasi subito quell’eventualità. Il generale Kazim non avrebbe distrutto i propri aerei solo per catturare un uomo. Restava il fatto che non lo entusiasmava l’idea di correre allo scoperto di fronte a quella potenza di fuoco.
«Signor Gunn!» tuonò di nuovo l’ufficiale. «Se mi sente, la prego, si sbrighi o sarò costretto a ripartire senza di lei.»
L’esortazione fu sufficiente. Gunn balzò dal nascondiglio e si mise a correre verso l’airbus agitando le mani e urlando come un pazzo.
«Mi aspetti! Sto arrivando!»
L’ufficiale che l’aveva chiamato camminava avanti e indietro come un passeggero impaziente e irritato dal ritardo del suo volo. Quando Gunn lo raggiunse, lo squadrò come se fosse un mendicante. «Buongiorno. Lei è Rudi Gunn?»
«Sì», rispose Gunn che ansimava per lo sforzo e il caldo. «Lei chi è?»
«Il colonnello Marcel Levant.»
Gunn girò lo sguardo con ammirazione sulla squadra speciale che montava la guardia intorno all’aereo. Sembravano tutti uomini decisi e duri che non esitavano a uccidere. «Che squadra è?»
«Una squadra tattica dell’ONU», rispose Levant.
«Come conosceva il mio nome e il posto dove mi avrebbe trovato?»
«L’ammiraglio James Sandecker ha ricevuto da un certo Dirk Pitt l’informazione che lei si nascondeva nei pressi dell’aeroporto e che era urgente portarla via.»
«È stato l’ammiraglio a mandarla?»
«Con l’approvazione del segretario generale», precisò Levant. «E io come faccio a sapere che è proprio Rudi Gunn?»
Gunn indicò con un gesto il territorio desolato che li circondava. «Quanti Rudi Gunn pensa che si stiano aggirando in questa parte del deserto in attesa di una sua chiamata?»
«Non ha documenti? Nulla che provi la sua identità?»
«I miei documenti personali sono probabilmente in fondo al Niger. Deve credermi sulla parola.»
Levant consegnò l’altoparlante a un subordinato e indicò l’aereo. «Tutti a bordo», ordinò. Si rivolse di nuovo a Gunn e lo guardò con scarsa cordialità. «Salga, signor Gunn. Non abbiamo altro tempo da perdere in conversazioni oziose.»
«Dove mi porta?»
Levant lanciò uno sguardo irritato al cielo. «A Parigi. Poi raggiungerà Washington con il Concorde. È atteso da molte persone importantissime che vogliono parlarle. Non c’è bisogno che lei sappia altro. Si muova, prego. Non c’è tempo.»
«Perché tanta fretta?» chiese Gunn. «È chiaro che avete distrutto le forze aeree maliane.»
«Solo una squadriglia, purtroppo. Ce ne sono altre tre di base intorno a Bamako, la capitale. Una volta messe in allarme, potrebbero ancora intercettarci prima che lasciamo lo spazio aereo del Mali.»
La dune buggy armata era già risalita a bordo, seguita dagli uomini. La hostess che era andata coraggiosamente a tranciare i cavi della torre di controllo prese il braccio di Gunn e lo spinse su per la rampa.
«Non abbiamo la prima classe con buffet di lusso e champagne, signor Gunn», gli disse allegramente. «Però possiamo offrirle birra ghiacciata e sandwich alla mortadella.»
«Uhm, delizioso.» Gunn sorrise.
Avrebbe dovuto provare un profondo senso di sollievo mentre saliva la scaletta; invece fu assalito da un’ondata di angoscia. Grazie a Pitt e a Giordino adesso stava per spiccare il volo verso la libertà. Si erano sacrificati per salvarlo. E non riusciva a immaginare come fossero riusciti a trovare una radio e a contattare Sandecker.
Rimanere in quella terra bruciata era una vera pazzia, pensò. E cercare di trovare la fonte della contaminazione non era un’azione meno delirante. Kazim avrebbe sguinzagliato le sue forze del servizio di sicurezza per stanarli. Se il deserto non avesse divorato Pitt e Giordino, l’avrebbero fatto i maliani.
Esitò prima di entrare nell’aereo, si voltò e girò lo sguardo sulla distesa di sabbia e di rocce. Di lassù si scorgeva il fiume Niger, verso ovest, a poco più di un chilometro.
Dov’erano in quel momento? E in quale situazione si trovavano?
Si voltò ed entrò nella cabina. L’aria condizionata lo investì come un’onda. Gli occhi gli bruciavano mentre l’airbus decollava passando a fianco dei caccia in fiamme.
Il colonnello Levant sedette accanto a lui e notò la sua espressione malinconica. Lo guardò negli occhi ma non trovò una spiegazione. «Non mi sembra molto soddisfatto di uscire da questo pasticcio.»
Gunn guardò dal finestrino. «Stavo pensando ai miei due compagni che sono rimasti qui.»
«Pitt e Giordino. Sono suoi amici?»
«Da molti anni.»
«Perché non sono venuti con lei?» chiese Levant.
«Avevano un lavoro da portare a termine.»
Levant scosse la testa. «Sono molto coraggiosi e molto stupidi.»
«Non sono stupidi», ribatté Gunn. «Non lo sono affatto.»
«Finiranno sicuramente all’inferno.»
«Lei non li conosce.» Gunn sorrise con un certo sforzo. «Se c’è qualcuno che può scendere all’inferno e uscirne con un bicchiere di tequila ghiacciata fra le mani», disse con rinnovata sicurezza, «quello è Dirk Pitt.»
Sei uomini della guardia del corpo personale del generale Kazim scattarono sull’attenti quando Massarde scese dalla lancia e mise piede sul molo. Un maggiore gli andò incontro e salutò militarmente.
«Che cosa c’è?»
«Il generale Kazim mi ha ordinato di accompagnarla immediatamente da lui.»
«Sa che la mia presenza è richiesta a Fort Foureau e che non mi piace cambiare programma?»
Ilmaggiore s’inchinò. «Credo che la richiesta d’un colloquio con lei sia molto urgente.»
Massarde scrollò le spalle e indicò al maggiore di precederlo. «Dopo di lei.»
Il maggiore diede un ordine secco a un sergente. Poi si avviò sul molo traballante verso un grosso magazzino. Massarde lo seguì, circondato dalle guardie.
«Da questa parte, prego», disse il maggiore. Indicò oltre l’angolo del magazzino ed entrò in un vicolo.
Circondato da guardie armate, c’era un grosso camion Mercedes-Benz che il generale Kazim usava come posto di comando mobile e alloggio. Massarde salì i gradini e varcò una portiera che subito si chiuse dietro di lui.
«Il generale Kazim è nel suo ufficio», annunciò il maggiore. Aprì un’altra porta e si tirò in disparte. Dopo il caldo del deserto, l’atmosfera dell’ufficio sembrava quella della banchisa artica: Kazim doveva tenere al massimo l’aria condizionata. Le tende coprivano i vetri antiproiettile e Massarde si fermò per un momento, in attesa che i suoi occhi si abituassero alla relativa oscurità dopo la luce cruda del sole.
«Vieni, Yves, accomodati», disse Kazim dalla scrivania mentre posava il ricevitore d’uno dei quattro telefoni.
Massarde sorrise ma rimase in piedi. «Perché tutte quelle guardie? Prevedi un attentato?»
Kazim sorrise a sua volta. «Considerati gli avvenimenti delle ultime ore, potenziare la sicurezza mi è parsa una precauzione ragionevole.»
«Avete trovato il mio elicottero?» chiese Massarde.
«Non ancora.»
«Come si può perdere un elicottero nel deserto? Aveva carburante per mezz’ora di volo, non di più.»
«A quanto pare i due americani che hai lasciato scappare…»
«La mia houseboat non è attrezzata per custodire prigionieri», l’interruppe Massarde. «Avresti dovuto togliermeli dalle mani quando ne avevi la possibilità.»
Kazim lo guardò dritto negli occhi. «Comunque sia, amico mio, sono stati commessi degli errori. Dopo che gli agenti della NUMA hanno rubato il tuo elicottero, hanno raggiunto Bourem dove ho motivo di credere che l’abbiano affondato nel fiume. Poi hanno raggiunto il villaggio e rubato la mia macchina.»
«La tua vecchia Voisin?»
«Sì», rispose Kazim a denti stretti. «Quei porci americani hanno rubato la mia bella macchina d’epoca.»
«E non li avete ancora trovati? Non li avete presi?»
«No.»
Massarde sedette. La rabbia per la perdita dell’elicottero si mescolò alla soddisfazione divertita di scoprire che a Kazim era stata rubata la preziosa automobile. «E il rendez-vous con un elicottero a sud di Gao?»
«Purtroppo ho creduto alla loro menzogna. Il contingente che avevo piazzato in un’imboscata venti chilometri a sud ha atteso invano, e le mie unità radar non hanno avvistato nessun mezzo aereo. Invece sono atterrati all’aeroporto di Gao con un airbus commerciale.»
«Perché non sei stato avvertito?»
«Non sembrava un problema di sicurezza», rispose Kazim. «Un’ora prima del levar del sole i funzionali dell’Air Afrique di Gao sono stati informati che uno dei loro aerei avrebbe fatto uno scalo fuori programma perché una comitiva di turisti potesse visitare la città e fare una breve crociera sul fiume.»
«E i funzionari della linea aerea l’hanno creduto?» domandò sbalordito Massarde.
«E perché no? Hanno chiesto la conferma alla sede centrale della compagnia aerea ad Algeri e l’hanno ricevuta.»
«Poi cos’è successo?»
«Secondo il controllore di volo dell’aeroporto e gli inservienti a terra, l’aereo che portava le insegne dell’Air Afrique ha dato l’identificazione prima di atterrare. Ma quando è sceso e si è accostato al terminal, un contingente di militari e un veicolo armato sono scesi a terra e hanno falciato le guardie in servizio sul lato dell’aeroporto riservato ai militari prima che potessero opporre resistenza. Poi il veicolo armato ha distrutto una squadriglia di otto caccia a reazione.»
«Sì, le esplosioni hanno svegliato tutti a bordo dell’houseboat», confermò Massarde. «Abbiamo visto il fumo che saliva dalla direzione dell’aeroporto e abbiamo pensato che fosse precipitato un aereo.»
Kazim grugnì. «Era ben diverso.»
«Gli inservienti a terra e il controllore di volo hanno identificato il contingente degli aggressori?»
«Portavano uniformi sconosciute, senza distintivi o mostrine.»
«Quanti dei tuoi sono stati uccisi?»
«Solo due guardie della Sicurezza, per fortuna. Il resto del personale della base, gli addetti alla manutenzione e i piloti erano in licenza per una festa religiosa.»
Massarde si oscurò. «Questa non è una semplice intrusione per scoprire l’inquinamento. Mi sembra piuttosto una scorreria di ribelli: evidentemente l’opposizione è più evidente e organizzata di quanto tu creda.»
Kazim agitò una mano con aria indifferente. «Pochi dissidenti tuareg che combattono con le spade a dorso di dromedario. Non direi che sono forze speciali dotate di armi moderne.»
«Forse hanno assoldato truppe mercenarie.»
«Con quali fondi?» Kazim scosse la testa. «No, era un piano ben ideato e messo in atto da professionisti. La distruzione dei caccia aveva lo scopo di eliminare i mezzi per un contrattacco o un’intercettazione durante la fuga, dopo che avevano preso a bordo uno degli agenti della NUMA.»
Massarde gli lanciò un’occhiata rabbiosa. «Avevi dimenticato di riferirmi questo piccolo particolare, eh?»
«Gli inservienti a terra hanno raccontato che il comandante della squadra ha chiamato con l’altoparlante un certo Gunn, e che questi è arrivato dal deserto dove s’era nascosto. Quando Gunn è salito a bordo sono ripartiti su una rotta verso nord-ovest, puntando verso l’Algeria.»
«Mi sembra la trama di un filmaccio di serie B.»
«Non scherzare.» Il tono di Kazim era calmo ma aveva una sfumatura tagliente. «Tutto indica una cospirazione che va ben oltre le ricerche petrolifere. Sono convinto che i nostri interessi siano minacciati da forze esterne.»
Massarde esitava ad accettare completamente la teoria di Kazim. La scarsa fiducia che esisteva fra loro si basava sul rispetto di ognuno per l’astuzia dell’altro, e sulla paura dei rispettivi poteri. Massarde diffidava del gioco di Kazim, un gioco che poteva finire solo con un guadagno da parte del generale. Ora guardava negli occhi d’uno sciacallo, mentre Kazim guardava negli occhi di una volpe.
«Che cosa ti ha condotto a questa conclusione?» chiese Massarde in tono sarcastico.
«Adesso sappiamo che c’erano tre uomini a bordo dello yacht esploso sul fiume. Sospetto che l’abbiano fatto saltare per creare una diversione. Due sono saliti a bordo della tua houseboat mentre il terzo, evidentemente quel Gunn, ha raggiunto a nuoto la riva e si è diretto all’aeroporto.»
«Il raid e l’evacuazione mi sembrano fin troppo ben concepiti e studiati in modo da coincidere con l’operazione per recuperare Gunn.»
«È successo tutto in fretta perché era stato pianificato e realizzato da professionisti di prim’ordine», rispose Kazim. «La squadra d’assalto era stata informata del luogo e dell’ora dell’incontro con Gunn, e quasi sicuramente a comunicarli è stato l’agente che ha detto di chiamarsi Dirk Pitt.»
«Come fai a saperlo?»
Kazim alzò le spalle. «Un’intuizione.» Fissò Massarde. «Dimentichi che Pitt si è servito del tuo sistema di comunicazioni via satellite per contattare il suo superiore, l’ammiraglio James Sandecker. Ecco perché lui e Giordino sono saliti a bordo della tua houseboat.»
«Ma questo non spiega perché Pitt e Giordino non hanno tentato di fuggire con il loro compagno.»
«Evidentemente li hai sorpresi prima che potessero attraversare il fiume a nuoto e raggiungerlo all’aeroporto.»
«Allora perché non sono fuggiti dopo aver rubato il mio elicottero? Il confine con il Niger è appena a centocinquanta chilometri. Avrebbero quasi potuto farcela con il carburante rimasto nei serbatoi dell’elicottero. Non ha senso addentrarsi nell’interno del Paese, affondare l’elicottero e rubare una vecchia macchina. In quella zona non ci sono ponti che attraversano il fiume, quindi non possono spingersi a sud fino alla frontiera. Dove possono andare?»
Gli occhi di furetto di Kazim lo fissarono con fermezza. «Forse dove nessuno se l’aspetta.»
Massarde aggrottò le sopracciglia. «A nord? Nel deserto?»
«E dove, se no?»
«È assurdo.»
«Sono pronto ad accettare una teoria più convincente.»
Massarde scosse la testa, perplesso. «Per quale ragione due uomini avrebbero rubato una macchina di sessant’anni fa per addentrarsi nel deserto più desolato del mondo? Sarebbe un suicidio.»
«Finora le loro azioni sono risultate inspiegabili», ammise Kazim. «Stavano svolgendo una missione, questo è certo. Non sappiamo ancora che cosa cercassero.»
«Qualche segreto?» suggerì Massarde.
Kazim scosse la testa. «Tutto il materiale riservato relativo al mio programma militare è sicuramente negli archivi della CIA, del KGB e dell’M16. Il Mali non ha progetti segreti che possano interessare un Paese straniero, incluse le nazioni che confinano con noi.»
«Ci sono due progetti che hai dimenticato.»
Kazim fissò Massarde con aria incuriosita. «A che cosa vorresti alludere?»
«Fort Foureau e Tebezza.»
Era possibile, si chiese Kazim, che il progetto per lo smaltimento dei rifiuti tossici e le miniere d’oro avessero qualche cosa a che vedere con gli intrusi? Cercò una spiegazione, ma non la trovò. «Se erano questi i loro obiettivi, perché adesso rimestano nel fango oltre trecento chilometri più a sud?»
«Non sono in grado di risponderti. Ma, come sostiene il mio agente alle Nazioni Unite, cercavano la fonte di una contaminazione chimica che ha origine nel Niger e causa una crescita abnorme delle maree rosse, dopo essere affluita nell’oceano.»
«Mi sembra assurdo. Con ogni probabilità è un falso scopo per nascondere la vera missione.»
«Che potrebbe essere un’infiltrazione a Fort Foureau o una denuncia contro la violazione dei diritti umani a Tebezza», disse Massarde con la massima serietà.
Kazim rimase in silenzio. La sua espressione era dubbiosa.
Massarde continuò: «Supponiamo che Gunn fosse già in possesso di informazioni vitali, quando è stato portato in salvo. Per quale altro motivo avrebbero organizzato un’operazione tanto complessa per recuperarlo mentre Pitt e Giordino sì dirigevano a nord, verso i nostri impianti?»
«Conosceremo le risposte quando li avrò catturati», disse Kazim con voce tesa e incollerita. «Tutte le unità militari e di polizia disponibili hanno già chiuso tutte le strade e le piste che conducono fuori del Paese. Inoltre ho ordinato alle mie forze aeree di effettuare ricognizioni sul deserto settentrionale. Intendo esaminare ogni possibilità.»
«È una saggia decisione», convenne Massarde.
«Senza provviste non resisteranno due giorni al caldo del deserto.»
«Mi fido dei tuoi metodi, Zateb. Sono certo che domani a quest’ora Pitt e Giordino saranno in una delle tue celle per gli interrogatori.»
«Anche prima, credo.»
«Mi sento più tranquillo», disse Massarde con un sorriso.
Ma aveva la sensazione che non sarebbe stato facile prendere Pitt e Giordino.
Il capitano Batutta scattò sull’attenti e salutò il colonnello Mansa che lo ricambiò con un cenno indifferente.
«Gli scienziati dell’OMS sono imprigionati a Tebezza», riferì Batutta.
Un sorriso sfiorò le labbra di Mansa. «Immagino che O’Bannion e Melika siano stati felici di avere altri operai per le miniere.»
Batutta fece una smorfia di disgusto. «Quella Melika è una strega crudele. Non invidio gli uomini che assaggiano la forza della sua cinghia.»
«E neppure le donne», soggiunse Mansa. «Non fa distinzioni, quando si tratta di punire. Penso che entro quattro mesi anche l’ultimo del gruppo del dottor Hopper finirà sepolto sotto la sabbia.»
«Il generale Kazim non piangerà per la loro scomparsa.»
La porta si aprì ed entrò il tenente Djemaa, il pilota maliano che aveva guidato l’aereo degli scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Mansa alzò gli occhi verso di lui. «È andato tutto bene?»
Djemaa sorrise. «Sì, signore. Siamo tornati ad Asselar, abbiamo esumato il numero giusto di cadaveri e li abbiamo caricati sull’aereo. Poi siamo tornati a nord; il secondo pilota e io ci siamo lanciati sull’area designata del deserto di Tanezrouft, a un centinaio di chilometri dalla pista carovaniera più vicina.»
«L’aereo è bruciato dopo essere precipitato?» chiese Mansa.
«Sì, signore.»
«Ha ispezionato il relitto?»
Djemaa annuì. «Dopo l’arrivo dell’autista con il veicolo che lei aveva mandato a prelevarci, abbiamo raggiunto il luogo dell’incidente. Avevo regolato i comandi in modo che l’aereo precipitasse verticalmente. È esploso all’impatto e ha aperto un cratere profondo una decina di metri. A parte i motori, non c’era un rottame più grande d’una scatola da scarpe.»
Mansa sorrise soddisfatto. «Il generale Kazim sarà contento. Tutti e due potete aspettarvi una promozione.» Guardò Djemaa. «E lei, tenente, comanderà le operazioni di ricerca per trovare l’aereo di Hopper.»
«Ma perché dovrei dirigere le ricerche quando so dove si trova?» chiese Djemaa con aria confusa.
«Perché l’avrebbe riempito di cadaveri, altrimenti?»
«Il capitano Batutta non mi ha informato del piano.»
«Fingeremo di aver scoperto i rottami», spiegò Mansa. «E li affideremo alla commissione d’inchiesta internazionale, che non avrà a disposizione resti umani sufficienti per identificare le vittime né le prove della vera causa del disastro.» Fissò Djemaa con fermezza. «Purché il tenente abbia fatto un lavoro completo.»
«Io stesso ho asportato la scatola nera», gli assicurò Djemaa.
«Bene, ora possiamo cominciare a manifestare ai media internazionali la preoccupazione del nostro Paese per la scomparsa dell’aereo degli scienziati dell’OMS e a esprimere il più profondo rammarico per la loro fine.»
Il caldo del pomeriggio era soffocante e riverberava sulla superficie cotta dal sole. Senza gli occhiali scuri la sterminata pianura di sabbia e di rocce, abbagliata dal sole ardente, accecava Pitt che in quel momento era seduto sul fondo ghiaioso di una stretta gola all’ombra della Avions Voisin. A parte le provviste che avevano rubato nel garage di Bourem, possedevano soltanto gli abiti che portavano addosso.
Giordino stava usando gli attrezzi trovati nel portabagagli per togliere la marmitta e il tubo di scappamento, in modo che la macchina non urtasse il suolo. Avevano già ridotto la pressione dei pneumatici per migliorare la trazione nella sabbia. Fino a quel momento la vecchia Voisin s’era mossa in quel panorama inospitale come un’anziana regina di bellezza che si aggira nel Bronx di New York… elegante ma del tutto fuori posto.
Avevano viaggiato durante le ore fresche della notte, sotto la luce delle stelle, procedendo a tentoni sulla distesa brulla a dieci chilometri orari. Ogni ora si erano fermati per alzare il cofano e far raffreddare il motore. Era impossibile pensare di accendere i fari. I fasci luminosi sarebbero stati avvistati facilmente da un osservatore attento a bordo di un aereo anche lontano. Avevano dovuto scendere più volte per esaminare il terreno: in un’occasione per poco non erano finiti in un burrone, e per due volte erano stati costretti a scavare per uscire da tratti di sabbia troppo soffice.
Senza bussola né mappa, dovevano affidarsi alle stelle per identificare la loro posizione mentre seguivano l’antico letto del fiume che, dal Niger, risaliva a nord addentrandosi sempre più nel Sahara. Di giorno s’erano nascosti nelle gole e nei burroni, dove avevano coperto la macchina con uno strato di sabbia e cespugli, perché si confondesse con il fondo del deserto e, dall’alto, sembrasse una piccola duna dove cresceva qualche pianta.
«Vuoi un bel bicchiere d’acqua di fonte del Sahara o una frizzante bibita maliana?» chiese Giordino con un sorriso, mostrando una bottiglietta di bevanda analcolica locale e un bicchiere di liquido tiepido e solforoso prelevato dal rubinetto del garage.
«Non sopporto quel sapore», disse Pitt. Prese il bicchiere e arricciò il naso. «Ma è meglio che beviamo almeno tre litri ogni ventiquattr’ore.»
«Non pensi che dovremmo razionarla?»
«No, finché ne abbiamo una scorta abbondante. La disidratazione sopravverrà più in fretta se beviamo un sorso alla volta. È meglio bere quanto ci serve per placare la sete, e preoccuparci quando avremo finito l’acqua.»
«Gradiresti una sardina per cena?»
«Mi sembra un’ottima idea.»
«L’unica cosa che manca è un’insalata alla Cesare.»
«Tu stai pensando alle acciughe.»
«Non sono mai riuscito a capire la differenza.»
Giordino finì la sardina e si leccò le dita. «Mi sento molto cretino, a starmene qui in mezzo al deserto a mangiar pesce.»
Pitt sorrise. «Ringrazia il cielo perché hai almeno quello.» Poi alzò la testa e ascoltò.
«Senti qualcosa?» chiese Giordino.
«Un aereo.» Pitt si portò le mani dietro le orecchie. «Un reattore a bassa quota, a giudicare dal suono.»
Si issò sul fianco del burrone strisciando bocconi e si nascose dietro un piccolo tamerisco, in modo che la testa e la faccia si confondessero nell’ombra. Poi incominciò a scrutare il cielo con attenzione.
Il rombo gutturale del reattore giungeva molto chiaro, adesso, mentre scrutava nella direzione da cui provenivano le onde sonore. Socchiuse le palpebre per studiare il cielo azzurro ma in un primo momento non vide nulla. Abbassò lo sguardo e scorse un movimento improvviso sul terreno del deserto. Lo riconobbe: era un vecchio Phantom di costruzione americana con le insegne dell’Aeronautica militare del Mali. Era a circa sei chilometri in direzione sud e volava a meno di cento metri d’altitudine. Sembrava un grande avvoltoio bruno che spiccava sul giallo-grigio del paesaggio e volava in grandi cerchi pigri: come se un sesto senso gli dicesse che c’erano prede nelle vicinanze. «Lo vedi?» chiese Giordino.
«Un Phantom F-4», rispose Pitt.
«In quale direzione?»
«Si avvicina da sud volando in cerchio.»
«Credi che ci stia cercando?»
Pitt si voltò a guardare le fronde di palma legate ai paraurti posteriori: quando la macchina era in moto strusciavano per terra e cancellavano le impronte dei pneumatici. I segni impressi nella sabbia al centro della gola erano spariti quasi del tutto. «Una squadra a bordo di un elicottero potrebbe scoprire le nostre tracce… Ma non ci riuscirebbe certo il pilota d’un caccia a reazione. Non può vedere direttamente sotto l’apparecchio, e se vuole osservare qualcosa è costretto a virare. E vola troppo veloce e a quota troppo bassa per scorgere una coppia indistinta di solchi lasciati dalle gomme.»
Il reattore avanzò ruggendo verso la gola. I disegni mimetici chiazzavano l’azzurro puro del cielo. Giordino si infilò sotto la macchina mentre Pitt si tirava sulla testa i rami del tamerisco. Vide il pilota del Phantom compiere una virata e scrutare il mondo apparentemente vuoto del Sahara.
Pitt si tese e trattenne il respiro. Il movimento dell’aereo lo stava portando direttamente sopra la gola. Poi passò saettando su di loro; l’aria turbinò oltre le ali come l’onda tagliata dalla prua di una nave, e sollevò vortici di sabbia. Pitt sentì il caldo ardente passare su di lui. Sembrava che l’apparecchio si fosse quasi materializzato sopra la gola, così basso che Pitt avrebbe potuto centrare con un sasso una delle prese d’aria. E poi sparì.
Pitt temette il peggio quando lo vide allontanarsi. Ma il caccia continuò la ricerca come se il pilota non avesse avvistato nulla d’interessante. Dopo che lo ebbe visto scomparire oltre l’orizzonte, rimase in osservazione ancora per qualche minuto: il pilota poteva aver notato qualcosa di sospetto e aver deciso di compiere un ampio giro prima di passare nuovamente sulla gola nella speranza di cogliere la preda alla sprovvista.
Ma il rombo si perse in lontananza e sul deserto ridiscese un silenzio di morte.
Pitt si lasciò scivolare lungo il pendio e tornò all’ombra della vecchia Voisin, mentre Giordino usciva allo scoperto.
«C’è mancato poco», commentò Giordino scuotendosi da un braccio un plotoncino di formiche.
Pitt scribacchiò sulla sabbia con un fuscello secco. «O non abbiamo imbrogliato Kazim dirigendoci verso nord, oppure ha deciso di non correre rischi.»
«Deve essere fuori di sé all’idea che una macchina colorata come questa risulti introvabile in un deserto, su uno sfondo così piatto e incolore.»
«Non credo stia facendo salti di gioia», riconobbe Pitt.
«Scommetto che è esploso quando ha saputo che era stata rubata e ha capito che i colpevoli eravamo noi», rise Giordino.
Pitt alzò una mano per schermarsi gli occhi e scrutò il sole che declinava a occidente. «Fra un’ora sarà buio e potremo riprendere il viaggio.»
«Come si presenta il terreno più avanti?»
«Quando usciremo dalla gola e torneremo nel letto prosciugato del fiume, non dovremmo incontrare altro che sabbia, ghiaia e qualche macigno. Potremo procedere senza problemi se terremo gli occhi aperti ed eviteremo le pietre aguzze che possono squarciare le gomme.»
«Credi che abbiamo fatto molta strada dopo aver lasciato Bourem?»
«Centosedici chilometri, secondo il contachilometri, ma calcolando in linea d’aria ci siamo allontanati di una novantina.»
«E non ci sono ancora tracce di una produzione chimica o di un deposito di rifiuti.»
«Neanche un bidone vuoto.»
«Non ha senso andare avanti», disse Giordino. «È impossibile che una sostanza chimica possa scorrere per novanta chilometri nel letto asciutto d’un fiume sino a gettarsi nel Niger.»
«Mi sembra una causa persa», ammise Pitt.
«Possiamo ancora tentare di raggiungere il confine con l’Algeria.»
Pitt scosse il capo. «Non ci basterebbe la benzina. Dovremmo percorrere a piedi gli ultimi duecento chilometri fino alla pista Transahariana per trovare qualcuno che ci dia un passaggio e ci porti nel mondo civile. Moriremmo di caldo prima di arrivare a metà percorso.»
«Quindi che possibilità abbiamo?»
«Andiamo avanti.»
«Fin dove?»
«Fino a quando troveremo ciò che stiamo cercando, anche se per farlo dovremo poi tornare indietro.»
«E lasceremo le nostre ossa nel deserto, in un caso come nell’altro.»
«Almeno faremo qualcosa di utile eliminando questo settore del deserto quale possibile fonte della contaminazione.» La voce di Pitt era ferma e l’uomo fissava la sabbia ai suoi piedi come se cercasse di evocare una visione.
Giordino lo guardò. «In tutti questi anni ne abbiamo passate tante insieme. Sarebbe una vergogna crepare in questo remoto angolo del mondo.»
Pitt sorrise ironicamente. «Il vecchio con la falce non è ancora comparso.»
«Sarà una faccenda molto imbarazzante quando finiremo nei necrologi», insistette Giordino in tono pessimistico.
«Perché?»
«Due esponenti della NUMA dispersi e dati per morti in mezzo al Sahara… Chi lo crederebbe?… Ehi, hai sentito?»
Pitt si alzò in piedi. «Sì.»
«Una voce che cantava in inglese. Dio, forse siamo già morti.»
Rimasero a fianco a fianco mentre il sole cominciava a sparire dietro l’orizzonte, e udirono una voce che intonava una vecchia canzone dei pionieri: My darling Clementine. Le parole divennero più nitide quando la voce stonata si fece vicinissima.
«Sei perduta ormai per sempre, infelice Clementine…»
«Sta risalendo la gola», mormorò Giordino, e impugnò una chiave inglese.
Pitt raccolse un mucchio di sassi per usarli come armi. Senza far rumore si appostarono alle due estremità della macchina coperta di sabbia e si acquattarono, pronti ad attaccare, in attesa che lo sconosciuto apparisse alla curva della gola.
«Nella grotta o dentro un canyon, a scavare una miniera…» La figura di un uomo, ombreggiata dalla parete della gola, apparve all’improvviso. Conduceva un animale per le briglie. «… stava un vecchio minatore con la figlia Clementine…»
La voce si smorzò quando l’uomo vide la macchina ammantata di sabbia. Si fermò e studiò il veicolo mimetizzato con aria più incuriosita che sorpresa. Si avvicinò di più, tirando per le briglie l’animale riottoso. Poi si fermò accanto alla macchina, allungò una mano e fece cadere la sabbia sul tettuccio.
Pitt e Giordino si alzarono in piedi lentamente e fronteggiarono lo sconosciuto come se fosse un alieno sbarcato da un altro pianeta. Non era un tuareg che conduceva un dromedario attraverso il deserto natio. Era un’apparizione del tutto incoerente con il Sahara; era nel luogo e nel tempo sbagliati.
«Forse adesso non porta più la falce», borbottò Giordino.
L’uomo era vestito come un vecchio cercatore d’oro del deserto occidentale americano: uno Stetson malridotto sulla testa, pantaloni di denim sostenuti dalle bretelle e rimboccati negli scarponi di cuoio stinto. Un fazzoletto rosso, annodato intorno al collo, gli copriva la metà inferiore del volto e gli dava l’aspetto di un bandito.
L’animale che lo seguiva non era un dromedario ma un asino carico di una soma enorme, oggetti di ogni sorta e provviste, inclusi diverse borracce d’acqua, coperte, scatolette di viveri, un piccone e un badile e un fucile Winchester a leva.
«Lo sapevo», mormorò Giordino in tono di sgomento. «Siamo morti e siamo finiti a Disneyland.»
Lo sconosciuto abbassò il fazzolettone e scoprì la barba e i baffi bianchi. Gli occhi erano verdi, quasi come quelli di Pitt. Le sopracciglia avevano lo stesso colore della barba, ma i capelli che spuntavano dallo Stetson erano ancora grigi, striati di bruno. Era alto, quasi quanto Pitt, ma più pesante. Schiuse le labbra in un sorriso amichevole.
«Spero proprio che parliate la mia lingua», disse calorosamente. «Mi farebbe piacere un po’ di compagnia.»
Pitt e Giordino si guardarono senza capire, poi squadrarono di nuovo il vecchio. Erano certi che doveva trattarsi di un’allucinazione.
«Lei da dove arriva?» chiese Giordino.
«Potrei farvi la stessa domanda», rispose lo sconosciuto. Adocchiò la sabbia che copriva la Voisin. «Siete voi i tipi che l’aereo sta cercando?»
«Perché vuol saperlo?» chiese Pitt.
«Se avete voglia di giocare a domande e risposte, io vado.»
Lo sconosciuto non aveva affatto l’aria del nomade, e dato che sembrava in tutto e per tutto un compatriota, Pitt decise di fidarsi. «Io mi chiamo Dirk Pitt e il mio amico è Al Giordino. Sì, i maliani ci stanno cercando.»
Il vecchio alzò le spalle. «Non mi sorprende. Qui non hanno simpatia per i forestieri.» Guardò la Voisin con aria meravigliata. «Come diavolo avete fatto ad arrivare fin qui in macchina se non ci sono strade?»
«Non è stato facile, signor…»
Lo sconosciuto si avvicinò e tese la mano callosa. «Tutti mi chiamano Kid.»
Pitt sorrise e gli strinse la mano. «Come mai chiamano Kid un uomo della sua età?»
«Molto tempo fa, quando rientravo da un giro di prospezione, andavo sempre al mio bar preferito a Jerome, in Arizona. Mi avvicinavo al banco e i miei amici dicevano: ‘Ehi, il Kid è tornato’. Il nome mi è rimasto appiccicato addosso.»
Giordino non staccava gli occhi dal compagno di Kid. «Un mulo mi sembra così fuori posto in questa parte del mondo. Non sarebbe più utile un dromedario?»
«Tanto per cominciare», disse Kid con un certo risentimento, «Mr Periwinkle non è un mulo, è un asino. È un tipo duro. I dromedari possono resistere di più senz’acqua, ma anche questo asino è cresciuto nel deserto. L’ho trovato otto anni fa, mentre vagava allo stato brado nel Nevada. L’ho domato, e quando sono venuto nel Sahara l’ho spedito qui. È molto meno carogna d’un dromedario, mangia meno e porta lo stesso peso. E poi, siccome è molto più basso, per me è più facile caricargli la roba addosso.»
«Un animale straordinario», commentò Giordino.
«Mi sembra che stiate per ripartire. Speravo che potessimo metterci tranquilli a chiacchierare per un po’. Non ho incontrato anima viva, tranne un arabo che portava due dromedari a Timbuctu, per venderli. È stato tre settimane fa. Non avrei mai pensato di trovare altri americani proprio qui.»
Giordino guardò Pitt. «Potrebbe essere una buona idea fermarci e farci dare informazioni da qualcuno che conosce il territorio.»
Pitt annuì, aprì la portiera posteriore della Voisin e invitò l’uomo a salire. «Le andrebbe di riposare un po’?»
Kid guardò i sedili di pelle come se fossero d’oro. «Non ricordo quand’è stata l’ultima volta che mi sono seduto su una poltrona. Molto obbligato.» Salì in macchina, sedette e sospirò di piacere.
«Abbiamo solo una scatola di sardine, ma saremo felici di spartirla con lei», disse Giordino con una generosità che Pitt aveva avuto raramente modo di osservare.
«No, offro io. Ho una quantità di viveri e sarà una gioia darvene un po’. Va bene lo spezzatino di carne?»
Pitt sorrise. «Non immagina quanto ci faccia piacere accettare l’invito. Le sardine non sono esattamente il nostro pasto ideale nel deserto.»
«E possiamo accompagnare lo spezzatino con le nostre bibite analcoliche», propose Giordino.
«Ne avete? E come state ad acqua?»
«Ne abbiamo abbastanza per qualche giorno», rispose Giordino.
«Se siete a corto, posso indicarvi un pozzo una quindicina di chilometri più a nord.»
«Le siamo grati dell’aiuto», disse Pitt.
«Non immagina neanche quanto», soggiunse Giordino.
Il sole era sceso oltre l’orizzonte e il crepuscolo rischiarava ancora il cielo. Con l’avvicinarsi della sera l’aria ridiventò respiràbile. Kid impastoiò Mr Periwinkle, che incominciò a brucare allegramente l’erba ispida su una piccola duna; poi aggiunse l’acqua allo spezzatino concentrato e, con grande sollievo di Pitt, lo fece cuocere su un fornelletto Coleman assieme alle gallette. Se Kazim avesse mandato un aereo a cercarli di notte, un fuoco acceso, per quanto piccolo e per quanto riparato dalle pareti della gola, li avrebbe traditi. Il vecchio cercatore mise a disposizione anche i piatti di latta e le posate.
Pitt finì lo spezzatino aiutandosi con una galletta e dichiarò che era il pasto più meraviglioso che avesse mai consumato. Era straordinario come un po’ di cibo potesse far rinascere l’ottimismo. Quando ebbero terminato, Kid tirò fuori una bottiglia semipiena di whisky Old Overholt e la porse agli ospiti.
«Be’, adesso, se non vi dispiace, perché non mi spiegate come mai state girando nella parte peggiore del Sahara con una macchina che deve essere vecchia quanto me?»
«Stiamo cercando la fonte di una contaminazione tossica che inquina il Niger e arriva fino al mare», rispose francamente Pitt.
«Questa è nuova. E da dove arriverebbe la robaccia?»
«Da uno stabilimento chimico, oppure da un impianto per lo smaltimento dei rifiuti.»
Kid scosse la testa. «Da queste parti non c’è niente del genere.»
«C’è qualche grosso complesso in questa zona del Sahara?» chiese Giordino.
«Non me ne viene in mente nessuno, tranne Fort Foureau, a nord-ovest.»
«L’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici gestito dai francesi?»
Kid annuì. «Quello è molto grande. Io e Mr Periwinkle ci siamo passati circa sei mesi fa. Ci hanno cacciati via. Ci sono guardie dappertutto. Come se stessero costruendo in segreto le bombe nucleari.»
Pitt bevve un sorso di whishy che gli scese nello stomaco con un piacevole bruciore. Passò la bottiglia a Giordino. «Fort Foureau è troppo lontano dal Niger per inquinarne l’acqua.»
Kid rimase per un momento in silenzio. Alla fine fissò Pitt con una strana luce negli occhi. «Invece è possibile, se il complesso si trova sopra l’Oued Zarit.»
Pitt si tese verso di lui. «L’Oued Zarit?»
«Un fiume leggendario che attraversava il Mali fino a centotrent’anni fa. Poi è sparito nella sabbia. I nomadi della zona, me compreso, credono che lo Zarit scorra sotto terra ancora adesso e si getti nel Niger.»
«Come una falda acquifera.»
«Che cos’è?»
«Uno strato geologico che permette all’acqua di penetrare attraverso le crepe del suolo poroso», rispose Pitt. «Di solito la ghiaia o le caverne calcaree.»
«Io so soltanto che se si scava abbastanza in profondità, si trova l’acqua nel vecchio canale del fiume.»
«Non ho mai saputo che un fiume possa sparire e continuare a scorrere sotto terra», disse Giordino.
«Non è per niente strano», spiegò Kid. «Quasi tutto il corso del fiume Mojave passa sotto il deserto di Mojave in California, prima di gettarsi in un lago. Sembra che un cercatore avesse trovato una grotta che scendeva per decine e decine di metri sino al fiume sotterraneo. E raccontava che, lungo il corso d’acqua, aveva trovato tonnellate e tonnellate d’oro.»
Pitt si voltò a guardare Giordino. «Cosa ne pensi?»
«Penso che Fort Foureau potrebbe essere l’unica possibilità», rispose l’altro.
«Non è molto probabile. Però un fiume sotterraneo che va dall’impianto dei rifiuti tossici fino al Niger potrebbe trasportare il materiale contaminante.»
Kid indicò con un cenno la parte alta della gola. «Voi ragazzi sapete, immagino, che questo canalone finisce nel vecchio letto del fiume.»
«Lo sappiamo», rispose Pitt. «L’abbiamo seguito, partendo dalla riva del Niger, per quasi tutta la notte. Ci siamo rintanati qui nella gola durante le ore più calde per sfuggire ai maliani che ci cercano.»
«A quanto pare, sinora li avete fatti fessi.»
«E lei che cosa fa da queste parti?» chiese Giordino a Kid rendendogli la bottiglia. «Cerca l’oro?»
Kid studiò per un momento la bottiglia come se tentasse di decidere se era il caso di rivelare il motivo della sua presenza. Poi alzò le spalle e scrollò la testa. «Sì, cerco l’oro. Ma non è una prospezione, la mia. Credo che non ci sia niente di male a raccontarvelo, ragazzi. Sto cercando una nave naufragata.»
Pitt lo squadrò, insospettito. «Una nave naufragata… Qui? In mezzo al Sahara?»
«Per la precisione, una corazzata dei confederati.»
Pitt e Giordino rimasero allibiti. Poi cominciarono a rimpiangere di non avere una camicia di forza nel baule della Voisin. Fissarono Kid in modo strano. Ormai era quasi buio, ma riuscirono a scorgere l’espressione seria e convinta dei suoi occhi.
«Non vorrei sembrarle stupido», chiese Pitt in tono scettico, «ma le dispiacerebbe spiegarci come è arrivata qui una corazzata della guerra di secessione?»
Kid bevve una lunga sorsata di whisky e si asciugò la bocca. Poi srotolò una coperta sulla sabbia, si sdraiò e intrecciò le mani sotto la testa. «Successe nell’aprile del 1865, la settimana prima che Lee si arrendesse a Grant. Poche miglia a valle di Richmond, in Virginia, sulla corazzata confederata Texas furono caricati gli archivi della confederazione agonizzante. Almeno, dicevano che erano documenti… In realtà era oro.»
«È sicuro che non sia un mito come tante altre storie di tesori?» chiese Pitt.
«Prima di morire lo stesso presidente Jefferson Davis dichiarò che l’oro degli Stati Confederati era stato stivato nel cuore della notte a bordo della Texas. Lui e i suoi ministri speravano di riuscire a farlo passare oltre il blocco della Marina unionista e di portarlo in un altro Paese, per poter costituire un governo in esilio e continuare a combattere.»
«Ma Davis fu catturato e tenuto prigioniero», obiettò Pitt.
Kid annuì. «E la Confederazione morì e non rinacque mai più.»
«E la Texas?»
«Sostenne una battaglia terribile mentre scendeva il fiume James passando in mezzo a una metà della Marina unionista e ai forti di Hampton Roads, prima di raggiungere la baia di Chesapeake e di fuggire nell’Atlantico. L’ultima volta che la nave fu vista dall’altra parte dell’oceano fu quando scomparve in un banco di nebbia.»
«E lei pensa che la Texas abbia attraversato l’Atlantico e risalito il Niger?» chiese Pitt.
«Sì», rispose Kid con fermezza. «Ho rintracciato notizie degli avvistamenti contemporanei da parte di coloni francesi e di indigeni, che parlavano del mostro senza vele passato davanti ai loro villaggi lungo il fiume. La descrizione della nave e le date in cui fu vista mi assicurano che si trattava della Texas.»
«Com’è possibile che una corazzata di quella stazza sia riuscita a spingersi fino in questa parte del Sahara senza arenarsi?» chiese Giordino.
«A quel tempo non era ancora iniziato il periodo di siccità. Allora pioveva, in questa parte del deserto, e il Niger era molto più profondo di adesso. Uno dei suoi affluenti era l’Oued Zarit che nasceva dai monti dell’Ahaggar a nord-est di qui e, dopo seicento miglia, si gettava nel Niger. I diari degli esploratori francesi e di varie spedizioni militari dicono che era abbastanza profondo per permettere il transito di grosse imbarcazioni. Secondo me, la Texas lasciò il Niger e risalì l’Oued Zarit, quindi si arenò e rimase intrappolata quando il livello dell’acqua incominciò ad abbassarsi con l’arrivo dell’estate.»
«Anche se l’acqua era piuttosto profonda, mi sembra impossibile che una nave pesante come una corazzata potesse arrivare fin qui dal mare.»
«La Texas era stata costruita per svolgere operazioni militari sul fiume James. Aveva il fondo piatto e pescava poco. Non era un problema, per il suo equipaggio, affrontare le anse e la scarsa profondità del fiume. Il miracolo, se mai, era che fosse riuscita ad attraversare l’oceano senza affondare nelle acque agitate e senza farsi abbattere dalle tempeste, come il Monitor.»
«A quell’epoca una nave avrebbe potuto raggiungere moltissime regioni disabitate sulle coste dell’America settentrionale e centrale», obiettò Pitt. «Perché correre il rischio di perdere il carico d’oro navigando in un mare pericoloso e attraversando un territorio più o meno inesplorato?»
Kid pescò un mozzicone di sigaro dal taschino e l’accese con un fiammifero di legno. «Vorrà ammettere che la Marina dell’Unione non avrebbe mai pensato di venire a cercare la Texas risalendo per mille miglia un fiume africano.»
«Probabilmente no. Comunque mi sembra una decisione estrema.»
«Sono d’accordo», disse Giordino. «Perché erano così disperati? Non potevano certo ricostruire un altro governo in mezzo a un deserto.»
Pitt guardò Kid con aria pensierosa. «Un viaggio tanto rischioso doveva avere un altro motivo, oltre al tentativo di portare in salvo l’oro.»
«Correva anche una certa voce.» Il cambiamento di tono era inequivocabile. «Sembra che quando la Texas partì da Richmond portasse a bordo Lincoln.»
«Abraham Lincoln? Nooo…» commentò ironicamente Giordino.
Kid annuì in silenzio.
«E questo chi l’avrebbe inventato?» Pitt rifiutò con un gesto un altro sorso di whisky.
«Il capitano della cavalleria confederata, Neville Brown, poco prima di morire nel 1908 a Charleston, nella Carolina del Sud, fece una dichiarazione al suo medico. Disse che i suoi soldati avevano catturato Lincoln e l’avevano consegnato a bordo della Texas.»
«Il delirio di un moribondo», mormorò Giordino, incredulo. «Lincoln avrebbe dovuto prendere il Concorde per tornare in tempo, in modo che John Wilkes Booth gli sparasse al Ford’s Theatre.»
«Non conosco tutta la storia», ammise Kid.
«È una vicenda fantastica e interessante», disse Pitt. «Ma è difficile prenderla sul serio.»
«Non posso garantire che la leggenda di Lincoln sia vera», riprese Kid, imperturbabile. «Ma sono pronto a scommettere Mr Periwinkle e il resto delle mie provviste che la Texas, le ossa degli uomini del suo equipaggio e il suo carico d’oro sono ancora qui, nella sabbia. Sto girando nel deserto da cinque anni per cercare quel che ne rimane. E, per Dio, la troverò o morirò nel tentativo.»
Pitt guardò con simpatia e rispetto il vecchio cercatore. Aveva visto raramente tanta decisione e tanta dedizione. Kid aveva una sicurezza ardente che gli ricordava il vecchio minatore del Tesoro della Sierra Madre.
«Se è sepolta sotto una duna, come conta di scoprirla?» chiese Giordino.
«Ho un buon metal detector, un Fisher 1265x.»
Pitt non riuscì a trovare altro da aggiungere, quindi si limitò a dire: «Spero che la fortuna la conduca alla Texas, e che trovi tutto quello che spera di trovare».
Kid rimase steso sulla coperta per diversi minuti. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Finalmente Giordino ruppe il silenzio.
«È ora che ce ne andiamo, se vogliamo fare un po’ di strada prima dell’alba.»
Venti minuti più tardi il motore della Voisin era acceso; Pitt e Giordino si congedarono da Kid e da Mr Periwinkle. Il vecchio cercatore aveva insistito perché accettassero qualche confezione di viveri della sua scorta. E aveva anche tracciato una mappa aprossimativa dell’antico letto del fiume, indicando i punti di riferimento e l’unico pozzo nei pressi della pista che conduceva all’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici di Fort Foureau.
«È molto lontano?» chiese Pitt.
Kid alzò le spalle. «Circa centodieci miglia.»
«Cioè centosettantasette chilometri», tradusse Giordino.
«Vi auguro di trovare quel che state cercando.»
Pitt gli strinse la mano e sorrise. «Lo auguro anche a lei.» Salì sulla Voisin e si mise al volante. Gli rincresceva un po’ lasciare il vecchio.
Giordino si trattenne ancora un momento per salutare. «Grazie per l’ospitalità.»
«È stato un piacere.»
«Volevo dirglielo già prima, ma mi sembra che lei abbia una faccia familiare.»
«Non so proprio perché. Non ricordo di avervi mai incontrati, voi due.»
«Si offenderebbe se chiedessi il suo vero nome?»
«No, no. Non mi offendo facilmente. È un nome strano. Non l’ho usato spesso.»
Giordino attese, paziente.
«Clive Cussler.»
Giordino sorrise. «Ha ragione. È un nome strano.»
Si voltò e prese posto accanto a Pitt. Si voltò a salutare mentre Pitt mollava la frizione e la Voisin incominciava a procedere sul fondo piatto della gola. Ma il vecchio e il fedele asino sparirono ben presto nel buio della sera.