Due settimane dopo l’assedio di Fort Foureau, l’ammiraglio Sandecker era seduto al tavolo di una delle sale per conferenze nella sede centrale della NUMA. Con lui c’erano il dottor Chapman, Niram Yaeger e Rudi Gunn, che guardavano il grande schermo televisivo inserito in una parete.
L’ammiraglio indicò con impazienza lo schermo vuoto. «Quando si collegheranno?»
Yeager teneva un telefono accostato all’orecchio e studiava il monitor. «Il satellite dovrebbe trasmetterci il segnale dal Mali da un momento all’altro.»
Prima ancora che finisse di parlare, un’immagine apparve sullo schermo. Pitt e Giordino erano seduti a una scrivania carica di carte e fascicoli, di fronte all’obiettivo. «Ci ricevete bene?» chiese Yaeger.
«Ciao, Niram», rispose Pitt. «È un piacere vederti e sentirti.»
«Qui vi vediamo benissimo. Tutti vogliono parlare con voi.»
«Buongiorno, Dirk», disse Sandecker. «Come vanno le ferite?»
«Qui è quasi sera, ammiraglio. Sto guarendo perfettamente, grazie.»
Dopo che Pitt ebbe scambiato un saluto con Rudi Gunn e il dottor Chapman, l’ammiraglio diede inizio alla discussione. «Abbiamo buone notizie», annunciò con entusiasmo. «Un rilevamento via satellite nell’Atlantico meridionale, analizzato dal computer appena un’ora fa, mostra che la crescita della marea rossa si va riducendo. Tutte le proiezioni di Yaeger indicano che l’espansione sta per interrompersi.»
«Appena in tempo», disse Gunn. «Abbiamo già osservato una diminuzione del cinque per cento nella quantità totale d’ossigeno libero esistente nel mondo. Non sarebbe passato molto tempo prima che cominciassimo a sentirne gli effetti.»
«Tutte le nazioni che collaborano con noi stavano per vietare la circolazione delle automobili, bloccare gli aerei e chiudere le fabbriche», spiegò Yeager. «Ancora un passo, e il mondo si sarebbe fermato.»
«Ma sembra che i nostri sforzi abbiano dato buoni risultati», dichiarò Chapman. «Grazie a te e ad Al, perché avete scoperto e bruciato la fonte dell’aminoacido sintetico che stimolava l’esplosione della popolazione dei dinoflagellati, e grazie ai nostri scienziati, perché hanno scoperto che le care bestiole non si riproducono in presenza di una parte di rame per milione.»
«Avete osservato una caduta significativa nelle sostanze contaminanti che finiscono nel Niger, dopo che abbiamo bloccato il flusso?» chiese Pitt.
Gunn annuì. «Circa il trenta per cento. Avevo sottovalutato la velocità di spostamento delle acque sotterranee dal complesso per lo smaltimento dei rifiuti tossici sino al fiume. Scorre attraverso la sabbia e la ghiaia del Sahara assai più rapidamente di quanto avessi calcolato.»
«Ci vorrà molto tempo prima che l’inquinamento scenda a un livello non pericoloso?»
«Secondo me e il dottor Chapman, passeranno sei mesi prima che la maggior parte del residuo finisca di affluire nell’oceano.»
«Bloccare le sostanze inquinanti è stato un primo passo fondamentale», disse Chapman. «Ci ha dato il tempo di lanciare dall’alto una pioggia di particelle di rame sulla superficie delle maree. Credo di poter affermare che abbiamo evitato un disastro ecologico dalle conseguenze spaventose.»
«Ma la battaglia non è finita», intervenne Sandecker. «Gli Stati Uniti producono appena il cinquantotto per cento dell’ossigeno che consumano, ossigeno liberato soprattutto dal plancton del Pacifico. Fra altri vent’anni, con l’aumento del traffico aereo e automobilistico e la continua devastazione delle foreste e delle paludi del mondo, cominceremo a consumare ossigeno più in fretta di quanto possa fornirlo la natura.»
«E siamo ancora alle prese con il problema attuale dell’avvelenamento chimico degli oceani», rincarò Chapman. «Abbiamo preso uno spavento terribile, ma la mancata tragedia delle maree rosse ha dimostrato che l’umanità e tutte le forme di vita sono molto vicine all’ultima boccata d’ossigeno.»
«Forse d’ora in poi», concluse Pitt, «non daremo più per scontata la nostra riserva d’aria.»
«Sono passate due settimane da quando avete preso la direzione di Fort Foureau», disse Sandecker. «Com’è la situazione?»
«Ottima», rispose Giordino. «Dopo avere interrotto l’arrivo di altri carichi di rifiuti, abbiamo tenuto in funzione giorno e notte il reattore solare. Fra trentasei ore dovrebbero risultare completamente distrutte le sostanze inquinanti industriali che Massarde aveva nascosto nei sotterranei.»
«E il magazzino delle scorie nucleari?» chiese Chapman.
«Quando si sono ripresi dalle conseguenze del soggiorno a Tebezza», spiegò Pitt, «ho invitato gli ingegneri francesi che avevano diretto la costruzione del complesso a ritornare qui. Hanno accettato, e hanno organizzato squadre di operai maliani per continuare a scavare il deposito fino a un chilometro e mezzo.»
«A quella profondità le scorie radioattive saranno abbastanza lontane dagli organismi terrestri? Il plutonio 239, per esempio, ha un periodo di dimezzamento di ventiquattromila anni.»
Pitt sorrise. «Senza saperlo, Massarde aveva scelto il posto più adatto per seppellire le scorie a grandi profondità. Questa parte del Sahara è molto stabile da un punto di vista geologico. Gli strati rocciosi sono rimasti indisturbati per milioni di anni. Non siamo vicini alla costa, e siamo molto al di sotto delle falde acquifere. Nessuno dovrà più temere che le scorie minaccino le forme di vita.»
«Come avete intenzione di isolare le scorie, dopo averle immagazzinate sotto terra?»
«I criteri di sicurezza ideati dagli esperti francesi sono rigorosi. Prima di seppellirle a grandi profondità, le scorie saranno racchiuse nel cemento, quindi in cilindri di acciaio inossidabile, circondati a loro volta da uno strato di asfalto e di ghisa. Infine, intorno al contenitore sarà colato altro cemento, prima che venga inserito nella roccia.»
Chapman sfoggiò un gran sorriso. «Complimenti, Dirk. Avete organizzato un deposito per scorie davvero eccellente.»
«Un’altra notizia interessante», disse Sandecker. «Il nostro governo e quello della Mongolia hanno chiuso gli impianti di smaltimento di Massarde nel deserto di Mojave e in quello del Gobi, dopo che le ispezioni a sorpresa degli esperti hanno rivelato che non erano affatto sicuri.»
«È stata chiusa anche l’installazione nell’entroterra australiano», soggiunse Chapman.
Pitt si assestò sulla sedia e sospirò. «Mi fa piacere che Massarde sia fuori del giro dello smaltimento dei rifiuti.»
«A proposito dello Scorpione», chiese Giordino. «Come sta?»
«L’hanno sepolto ieri a Tripoli», rispose Sandecker. «Gli agenti delle CIA hanno riferito che poco prima di morire è impazzito e ha tentato di divorare un medico.»
«Ha avuto la fine che meritava», borbottò Giordino.
«A proposito», disse Sandecker. «Il presidente vi ringrazia. Dice che firmerà una speciale citazione al merito per quanto avete fatto.»
Pitt e Giordino si guardarono in faccia e scrollarono le spalle per minimizzare.
Sandecker preferì ignorare quell’atteggiamento di modestia. «Forse vi interesserà sapere che per la prima volta in due decenni il nostro Dipartimento di Stato collabora strettamente con il nuovo parlamento maliano. Il miglioramento delle relazioni è dovuto in gran parte al fatto che avete destinato i profitti del complesso al governo per favorirne i programmi sociali.»
«Mi sembra giusto, dato che non potevamo approfittarne noi», dichiarò Pitt.
«C’è il rischio d’un colpo di Stato dell’Esercito?» chiese Gunn.
«Senza Kazim, i suoi ufficiali sono crollati. Si sono buttati in ginocchio e hanno giurato devozione imperitura ai capi del nuovo governo.»
«È quasi un mese che non vi vediamo di persona», disse Sandecker con un sorriso. «Il vostro compito nel Sahara è finito. Quando tornerete a Washington?»
«Persino il chiasso e il caos della capitale sarebbero piacevoli, dopo questi posti», fu d’accordo Giordino.
«Una settimana di vacanza andrebbe bene», rispose Pitt. «Devo spedire qualcosa in patria e sbrigare certe faccende personali. E poi c’è un piccolo progetto storico di cui vorrei occuparmi qui nel deserto.»
«La Texas?»
«Come fa a saperlo?»
«Me l’ha confidato St. Julien Perlmutter.»
«Le sarei grato se mi facesse un favore, ammiraglio.»
Sandecker scrollò le spalle con aria condiscendente. «Credo di doverle un po’ di tempo libero.»
«Mandi Julien nel Mali al più presto possibile.»
«Ma Julien pesa circa centottanta chili», ribatté Sandecker. «Non potrà mai caricarlo su un dromedario.»
«O convincerlo a camminare sulla sabbia rovente sotto il sole a picco», rincarò Gunn.
«Ho ragione di credere», disse Pitt con un’espressione divertita, «che per indurre Julien a percorrere venti passi nel deserto mi basterà una bottiglia di Chardonnay ben ghiacciato.»
«Prima che lo dimentichi», intervenne Sandecker, «gli australiani sono stati felicissimi della scoperta del corpo di Kitty Mannock e del suo aereo. Secondo i giornali di Sidney, voi siete diventati due eroi nazionali.»
«Hanno qualche piano preciso?»
«Un ricco allevatore della città natale di Kitty Mannock si è impegnato a finanziare l’operazione. Farà restaurare l’aereo e lo collocherà in un museo di Melbourne. La squadra addetta al recupero dovrebbe arrivare domani nel posto che avete indicato.»
«E Kitty?»
«Ci sarà una solenne festa nazionale quando la salma tornerà in patria. L’ambasciatore australiano mi ha detto che da ogni parte del Paese giungono offerte per costruire un grande monumento sulla sua tomba.»
«Anche il nostro Paese dovrebbe contribuire. Soprattutto il sud.»
Sandecker s’incuriosì. «Che legame abbiamo con Kitty Mannock?»
«Ci condurrà alla Texas», rispose sbrigativamente Pitt.
Sandecker scambiò rapide occhiate con gli altri seduti intorno al tavolo, poi si rivolse di nuovo al monitor e chiese: «Ci interesserebbe molto sapere in che modo una donna morta da sessantacinque anni può fare una cosa simile».
«Ho trovato il diario di volo di Kitty», rispose Pitt. «Prima di morire descrisse la scoperta di una nave, una nave di ferro, sepolta fra le dune.»
«Buon Dio!» mormorò Perlmutter mentre guardava dall’elicottero il sole che sorgeva sul deserto. «E voi l’avete attraversato a piedi?»
«Per la precisione, questo tratto l’abbiamo percorso con il nostro veicolo a vela», rispose Pitt. «Adesso stiamo facendo la stessa strada all’incontrano.»
Perlmutter aveva raggiunto Algeri con un jet militare, poi aveva preso un aereo commerciale ed era atterrato nella piccola città di Adrar, nell’Algeria meridionale. Pitt e Giordino erano ad attenderlo, e l’avevano fatto salire su un elicottero prestato dalla società di costruzioni francese che lavorava nel complesso.
Dopo aver fatto rifornimento s’erano diretti verso sud; poco prima dell’alba avevano avvistato il veicolo a vela che giaceva rovesciato nel punto in cui l’avevano abbandonato quando erano stati soccorsi dal camionista arabo. Erano atterrati e avevano smantellato l’ala, i cavi e le ruote che li avevano salvati, e avevano legato i pezzi ai pattini dell’elicottero. Poi erano ripartiti con Pitt ai comandi e s’erano diretti verso la gola dove si trovava l’aereo di Kitty Mannock.
Durante il volo, Perlmutter lesse la copia che Pitt aveva fatto del giornale di bordo di Kitty. «Che donna coraggiosa», esclamò in tono d’ammirazione. «Con pochissima acqua, una caviglia fratturata e un ginocchio slogato, aveva percorso quasi sedici chilometri nelle condizioni più sfavorevoli.»
«Sedici chilometri solo all’andata», gli rammentò Pitt. «Dopo aver trovato la nave nel deserto, tornò al suo aereo.»
«Sì, ecco qui», disse Perlmutter, e lesse a voce alta.
Mercoledì 14 ottobre. Caldo tremendo. Sono molto depressa. Ho seguito la gola verso sud fino a quando è sboccata nell’ampio letto d’un fiume prosciugato. Ritengo che sia a circa dieci miglia dall’aereo. La notte, stento a dormire per il freddo. Nel pomeriggio ho trovato una strana nave semisepolta nel deserto. Ho creduto a un’allucinazione, ma, dopo aver toccato le fiancate spioventi di ferro, ho capito che era vera. Sono entrata girando intorno a un vecchio cannone che sporgeva da un’apertura e ho passato la notte al riparo.
Giovedì 15 ottobre. Ho esplorato l’interno della nave. È troppo buio per vedere bene. Ho trovato i resti di molti membri dell’equipaggio, ben conservati. Devono essere morti da parecchio tempo, a giudicare dalle uniformi. È passato un aereo ma non ha visto la nave. Non ce l’ho fatta a uscire in tempo per fare un segnale. Volava in direzione del punto in cui sono precipitata. Qui non mi troveranno mai e ho deciso di tornare all’aereo nella speranza che l’abbiano scoperto. Ora so che è stato un errore allontanarmi. Se i soccorritori trovano l’aereo non potranno seguire le mie tracce. Il vento le ha coperte di sabbia, come la neve in una tormenta. Il deserto gioca secondo le regole e io non posso batterlo.
Perlmutter s’interruppe e alzò gli occhi. «Questo spiega perché avete scoperto il diario nel luogo dell’incidente. Kitty tornò nella vana speranza che i soccorritori avessero trovato il suo aereo.»
«Quali sono state le sue ultime parole?» chiese Giordino, Perlmutter girò una pagina e continuò a leggere.
Domenica 18 ottobre. Sono tornata all’aereo ma non c’è traccia di soccorritori. Sono spacciata. Se mi troverete quando non ci sarò più, perdonate i dispiaceri che ho causato. Un bacio a mamma e papà. Ditegli che ho cercato di morire con coraggio. Non posso più scrivere, la mente non controlla più la mano.
Quando Perlmutter ebbe finito, a bordo dell’elicottero scese un profondo senso di tristezza e di malinconia. Erano tutti commossi dal racconto dell’epica lotta di Kitty per sopravvivere, e dovevano fare uno sforzo per trattenere le lacrime.
«Avrebbe potuto insegnare a molti uomini il significato della parola coraggio», disse Pitt.
Perlmutter annuì. «Grazie alla sua tenacia, forse si potrà risolvere un altro grande mistero.»
«Ci ha dato tutte le indicazioni utili», constatò Pitt. «Non dobbiamo far altro che seguire la gola verso sud, fino a dove sfocia nel letto di un antico fiume. E là potremo incominciare a cercare la corazzata.»
Due ore dopo gli australiani interruppero il compito di smantellare i resti del vecchio Fairchild di Kitty Mannock e alzarono la testa per osservare un elicottero che volava in cerchio sulla gola. Tutti sorrisero quando riconobbero l’ala e il carrello mancanti, legati ai pattini dell’apparecchio.
Pitt regolò i comandi e scese dolcemente sul terreno piatto sopra la gola per non avvolgere gli australiani in una tempesta di polvere e di sabbia. Spense i motori e diede un’occhiata all’orologio. Erano le otto e quaranta del mattino: mancavano poche ore al periodo più caldo della giornata.
St. Julien Perlmutter si spostò sul sedile del copilota e si preparò a scendere. «Non sono fatto per viaggiare su simili trappole», si lagnò, mentre il caldo lo investiva nell’attimo in cui fasciava l’aria condizionata della cabina.
«Sempre meglio che andare a piedi», disse Giordino mentre si guardava intorno. «Credimi, lo so per esperienza.»
Un australiano grande e grosso dalla faccia rubizza salì dalla gola e si avvicinò. «Salve. Lei deve essere Dirk Pitt.»
«Io sono Giordino, Pitt è lui», precisò Giordino indicandolo.
«Sono Ned Quinn e dirigo l’operazione di recupero.»
Pitt trasalì quando la zampa enorme di Quinn quasi gli stritolò la mano. Si massaggiò le nocche e disse: «Abbiamo riportato i pezzi dell’aereo di Kitty che avevamo preso in prestito qualche settimana fa».
«Oh, grazie.» La voce di Quinn strideva come ferro sotto una macina. «Un vero colpo di genio, usare l’ala per navigare attraverso il deserto.»
«St. Julien Perlmutter», si presentò lo storico.
Quinn si batté la mano sulla pancia enorme che debordava dai pantaloni. «Sembra che a tutti e due piaccia molto mangiare e bere, signor Perlmutter.»
«A proposito, non avrebbe un po’ di quella vostra ottima birra australiana?»
«Le piace la nostra birra?»
«Tengo sempre a portata di mano una cassa di Castlemaine di Brisbane per le grandi occasioni.»
«Non abbiamo la Castlemaine», rispose Quinn, visibilmente impressionato. «Ma posso offrirle una Fosters.»
«Le sarei molto obbligato», disse Perlmutter che incominciava a sudare.
Quinn andò a frugare nella cabina di un camion e prese quattro bottiglie da un frigo portatile. Tornò indietro e le distribuì.
«Fra quanto avrete finito?» chiese Pitt.
Quinn si voltò a guardare la gru che stava per sollevare sul camion il motore del vecchio aereo. «Fra tre o quattro ore avremo caricato tutto e ripartiremo per Algeri.»
Pitt prese dalla tasca della camicia il diario di volo e glielo porse. «È il libro di bordo di Kitty. Documenta il suo ultimo volo e la tragica conclusione dell’impresa. L’avevo preso in prestito perché parla di qualcosa che aveva trovato. Penso che a Kitty non sarebbe dispiaciuto.»
«Lo credo anch’io», disse Quinn, accennando alla bara coperta dalla bandiera australiana con la croce di san Giorgio e le stelle della Croce del Sud. «I miei compatrioti hanno un debito con lei e con il signor Giordino che hanno risolto il mistero della sua scomparsa e ci hanno permesso di riportarla in patria.»
«È rimasta lontano per troppo tempo», mormorò Perlmutter.
«Sì», disse Quinn con una sfumatura di reverenza nella voce aspra. «Proprio così.»
Con grande gioia di Perlmutter, Quinn insistette per caricare sull’elicottero dieci bottiglie di birra prima del commiato. Tutti gli australiani vollero esprimere la loro gratitudine e stringere la mano a Pitt e Giordino. Dopo il decollo, Pitt volò in cerchio un’ultima volta intorno al relitto in segno di omaggio, prima di virare per seguire il percorso che Kitty aveva compiuto fino a scoprire la leggendaria nave nel deserto.
L’elicottero, che volava in linea retta sopra la gola tortuosa che aveva significato per Kitty giorni e giorni di sofferenze e di fatiche, raggiunse il letto dell’antico fiume in meno di dodici minuti. Quello che un tempo era stato un corso d’acqua fiancheggiato da una fascia di vegetazione era un uadi ampio e arido, circondato da sabbia instabile.
«L’Oued Zarit», annunciò Perlmutter. «È difficile credere che fosse un fiume navigabile.»
«Oued Zarit», ripeté Pitt. «È così che lo chiamava il vecchio cercatore americano. Ha detto che aveva cominciato a prosciugarsi circa centotrent’anni fa.»
«È vero. Ho fatto qualche ricerca sui rilevamenti compiti dai francesi in quest’area. Un tempo, qui vicino, c’era un porto dove le carovane commerciavano con i mercanti che gestivano una flotta d’imbarcazioni. Ormai è impossibile capire dove fosse. Fu coperto dalle sabbie poco dopo l’inizio della grande siccità, quando l’acqua fu inghiottita dal terreno.»
«Quindi la teoria afferma che la Texas risalì il fiume e si arenò quando rimase in secca.»
«Non è una teoria. Ho trovato in archivio la dichiarazione resa sul letto di morte da un uomo dell’equipaggio, un certo Beecher. Giurò di essere l’unico superstite della Texas e fornì una descrizione particolareggiata dell’ultimo viaggio nella nave attraverso l’Atlantico fino all’affluente del Niger, dove restò bloccata.»
«Come puoi essere sicuro che non fosse il delirio di un moribondo?» chiese Giordino.
«Il racconto era troppo dettagliato per non risultare credibile», rispose con fermezza Perlmutter.
Pitt ridusse la velocità e continuò a scrutare il fiume in secca, «Il cercatore ci ha anche detto che la Texas trasportava l’oro della Confederazione agonizzante.»
Perlmutter annuì. «Anche Beecher parlò dell’oro. E inoltre fornì un indizio interessante che portava alle carte segrete del segretario della Guerra, Edwin Stanton, ancora sigillate…»
«Credo di aver avvistato qualcosa», l’interruppe Giordino indicando. «Là, sulla destra. Una grande duna che trabocca dalla riva ovest.»
«Quella con una roccia in cima?» chiese Perlmutter in tono eccitato.
«Appunto.»
«Prendi il gradiometro Schonstedt che Julien ha portato da Washington», ordinò Pitt a Giordino. «Non appena l’avrai montato, passerò sopra la duna.»
Giordino si affrettò a prendere lo strumento, controllò che fosse collegato alle batterie e ne regolò la sensibilità. «Pronto a calare il sensore.»
«Bene, mi avvicino alla duna alla velocità di dieci nodi», rispose Pitt.
Giordino calò il sensore con un cavo collegato al gradiometro fino a quando rimase sospeso dieci metri sotto il ventre dell’elicottero. Poi, assieme a Perlmutter, studiò con attenzione l’ago sul quadrante della frequenza. Mentre l’elicottero avanzava adagio sopra la duna, l’ago ondeggiò e l’amplificatore sonoro incominciò a ronzare. All’improvviso l’ago si arrestò e sfrecciò dalla parte opposta del quadrante quando il sensore passò sopra la polarità magnetica, da positiva a negativa. Il ronzio divenne un sibilo acuto.
«È fuori scala», gridò soddisfatto Giordino. «Laggiù c’è una massa di ferro enorme.»
«Potrebbe essere causato da quella roccia bruna rotonda in cima alla duna», osservò Perlmutter. «Qui intorno il deserto è pieno di minerali di ferro.»
«Non è una roccia!» esclamò Pitt. «Quella è la parte superiore d’un fumaiolo incrostato di ruggine!»
Mentre Pitt teneva l’elicottero librato sopra la duna, nessuno riuscì a parlare. Fino a quel momento si erano chiesti se esisteva veramente. Ma ormai non avevano più dubbi.
La Texas era stata riscoperta.
La prima ondata di euforia e di esaltazione si spense quando un esame attento dimostrò che, a eccezione di due metri di fumaiolo, l’intera nave era coperta dalla duna. Ci sarebbero voluti giorni e giorni per spalare la sabbia quanto bastava per poter entrare.
«La duna è avanzata sulla casamatta da quando la vide Kitty, sessantacinque anni fa», mormorò Perlmutter. «La nave è sepolta troppo profondamente perché possiamo penetrarvi. Sarebbe possibile solo usando mezzi da scavo molto potenti.»
«Io credo che un sistema ci sia», disse Pitt.
Perlmutter guardò l’enorme duna e scosse la testa. «A me sembra di no.»
«Una draga», esclamò Giordino come se gli si fosse accesa una lampadina nella mente. «Il metodo che usano gli addetti ai recuperi per rimuovere i sedimenti da un relitto.»
«Mi hai letto nel pensiero», rise Pitt. «Anziché un tubo ad alta pressione per scavare, ci fermiamo in verticale con l’elicottero e lasciamo che il movimento dell’aria creato dai rotori soffi via la sabbia.»
«A me sembra una stupidaggine», borbottò Perlmutter con aria pensierosa. «Non potrete mai esercitare una pressione sufficiente per rimuovere molta sabbia senza sollevarci ad alta quota.»
«Le pendici della duna sono molto ripide», osservò Pitt. «Se riusciamo a spianare la sommità di tre metri, si dovrebbe vedere la parte superiore della casamatta.»
Giordino alzò le spalle. «Tentare non costa nente.»
«Anch’io la penso così.»
Pitt portò l’elicottero sopra la duna e applicò la potenza necessaria per mantenerlo statico. La forza dell’aria del rotore sollevò la sabbia sottostante in un turbine frenetico. Per dieci, venti minuti tenne stabile l’elicottero, lottando contro la violenza del movimento dell’aria. Non vedeva nulla; la tempesta artificiale di sabbia nascondeva la vista della duna.
«Ci vorrà ancora molto tempo?» chiese Giordino. «Ho paura che la polvere rovini le turbine.»
«Sono disposto a farle scoppiare, se è necessario», rispose Pitt con ostinata tenacia.
Perlmutter incominciò a essere tormentato dalla prospettiva di finire in pasto agli avvoltoi. Era molto pessimista nei confronti dell’idea pazzesca di Pitt e Giordino, ma rimaneva in silenzio, senza interferire.
Dopo mezz’ora, Pitt fece alzare l’elicottero e lo spostò lateralmente, fino a che la nube di sabbia e di polvere ricadde al suolo. Tutti guardarono in basso. I minuti che seguirono sembrarono interminabili. Poi Perlmutter lanciò un urlo che soffocò il suono delle turbine.
«È allo scoperto!»
Pitt stava dalla parte della cabina opposta alla duna. «Che cosa vedi?» gridò a sua volta.
«Le piastre metalliche e i rivetti di quella che sembra la timoniera.»
Pitt portò l’elicottero più in alto per non smuovere la sabbia. La nuvola era finalmente ricaduta e aveva lasciato allo scoperto la timoniera della corazzata e circa due metri quadrati di ponte sopra la casamatta. Sembrava così innaturale che una nave giacesse sotto il deserto: s’era materializzata come un mostro gigantesco uscito da un film di fantascienza.
Meno di dieci minuti più tardi, dopo che Pitt aveva fatto posare l’elicottero e, con l’aiuto di Giordino, aveva issato l’ansante Perlmutter sul pendio della duna, si trovavano sulla Texas. La timoniera era libera, e i tre intrusi quasi si aspettavano di vedere qualcuno che li sbirciasse attraverso le feritoie.
C’era soltanto un lieve velo di ruggine sul ferro che proteggeva la struttura in legno della casamatta. La corazza mostrava ancora gli squarci e le ammaccature delle cannonate delle navi unioniste.
Il boccaporto d’accesso dietro la piccola struttura era incastrato, ma non poteva resistere alla forza di Pitt, ai muscoli di Giordino e al peso di Perlmutter. Cigolando come se volesse protestare per quell’inattesa forzatura, si aprì di schianto. I tre guardarono la scaletta che scendeva nel buio, poi si scambiarono un’occhiata.
«Credo che l’onore spetti a te, Dirk. Sei stato tu a condurci fin qui.»
Giordino si tolse lo zaino dalle spalle e distribuì le torce elettriche, così potenti che avrebbero potuto illuminare un campo da pallacanestro. L’interno misterioso li attirava. Pitt accese la torcia e scese.
La sabbia penetrata dalle feritoie copriva la tolda fin quasi alla sommità degli stivali di Pitt. La ruota era immobile, come se attendesse con pazienza un timoniere fantasma. I soli altri oggetti visibili erano un gruppo di tubi portavoce e uno sgabello rovesciato in un angolo. Pitt esitò davanti al boccaporto aperto che conduceva al ponte dei cannoni, poi aspirò profondamente e si lasciò cadere nell’oscurità.
Nell’attimo in cui toccò con i piedi il legno del ponte si chinò e girò su se stesso, facendo scorrere il raggio di luce in ogni angolo dell’ambiente immenso. I grandi Blakely da 100 libbre e i due da 9 pollici e 64 libbre erano semisepolti dalla sabbia che era entrata dalle imposte degli oblò. Si avvicinò a uno dei Blakely, ancora montato sull’affusto ligneo. Aveva visto le fotografie dei cannoni della Marina della guerra di secessione scattate da Mathew Brady, ma non aveva mai immaginato che avessero dimensioni così monumentali. Era meravigliato al pensiero della forza degli uomini che un tempo li avevano usati.
L’atmosfera del ponte dei cannoni era opprimente ma stranamente fresca. E c’erano soltanto le grandi armi. Non c’erano secchi per spegnere gli incendi, non c’erano scovoli o munizioni. Sul pavimento non c’era nulla, come se fosse stato spogliato per un intervento di ristrutturazione in cantiere. Pitt si voltò mentre Perlmutter scendeva goffamente la scaletta, seguito da Giordino.
«Che strano», disse Perlmutter guardandosi intorno. «Gli occhi mi tradiscono, oppure il ponte è nudo come un mausoleo?»
Pitt sorrise. «No, ci vedi benissimo.»
«Credevo che l’equipaggio gli avesse dato un aspetto un po’ più… abitato», mormorò Giordino.
«Gli uomini che stavano su questo ponte e i loro cannoni ridussero male metà della flotta dell’Unione», esclamò Perlmutter. «Molti morirono qui. Non ha senso che non sia rimasta traccia della loro esistenza.»
«Kitty Mannock scrisse di aver visto i corpi», gli rammentò Giordino.
«Devono essere qui sotto», disse Pitt. Puntò il fascio luminoso verso una scala che scendeva nello scafo della nave. «Propongo di cominciare dagli alloggi dell’equipaggio a prua e di procedere attraverso la sala macchine, verso la prua e gli alloggi degli ufficiali.»
Giordino annuì. «Va bene.»
Si avviarono, dominati dalla soggezione dell’ignoto. La consapevolezza che si trattava dell’unica corazzata completamente intatta della guerra di secessione con i membri dell’equipaggio ancora a bordo accentuava in loro una reverenza quasi superstiziosa. Pitt aveva la sensazione di aggirarsi in una casa infestata da fantasmi.
Entrarono nell’alloggio dell’equipaggio e si fermarono. Il compartimento era una tomba: c’erano più di cinquanta uomini, pietrificati dalla morte. Quasi tutti erano distesi sulle cuccette. Anche se il rigagnolo che scorreva a quel tempo nel letto quasi prosciugato del fiume forniva ancora acqua da bere, gli stomaci rientranti dei cadaveri mummificati rivelavano che erano stati uccisi dalle malattie e dalla fame. Alcuni erano accasciati intorno a un tavolo, altri sul ponte. Molti erano stati spogliati degli indumenti. Non c’era traccia delle scarpe, dei bauli o degli altri oggetti personali.
«Li hanno ripuliti», mormorò Giordino.
«I tuareg», concluse stancamente Perlmutter. «Beecher dichiarò che i banditi del deserto, come li chiamava, avevano attaccato la nave.»
«Dovevano aver voglia di morire, se avevano attaccato una corazzata con lance e vecchi moschetti», commentò Giordino.
«Volevano l’oro. Beecher disse che il comandante usava l’oro della Confederazione per comprare viveri dalle tribù del deserto. Quando la voce si sparse, probabilmente i tuareg tentarono un paio di assalti inutili contro la nave, prima di farsi furbi e di assediarla tagliando i rifornimenti. Poi attesero fino a quando i membri dell’equipaggio morirono di fame, di febbre tifoide o di malaria. Quando sparirono tutti i segni di resistenza, i tuareg salirono a bordo e saccheggiarono la nave portando via l’oro e tutto il resto. E dopo che per anni tutte le tribù nomadi di passaggio hanno continuato il saccheggio, non è rimasto niente, tranne i cadaveri e i cannoni che erano troppo pesanti perché fosse possibile rimuoverli.»
«Quindi possiamo dimenticarci l’oro», disse pensosamente Pitt. «È sparito da molto tempo.»
Perlmutter annuì. «Oggi non ci arricchiremo certo.»
Nessuno dei tre desiderava trattenersi a lungo in quel compartimento pieno di morti. Si spostarono a poppa, in sala macchine. Il carbone era ammucchiato nei bidoni e c’erano ancora i badili appesi. Senza l’umidità che causasse corrosione, il bronzo dei contatori e degli infissi luccicava ancora sotto il chiarore delle torce. Se non fosse stato per la polvere, le macchine a vapore e le caldaie sarebbero apparse ancora in condizioni ottimali.
Un raggio di luce inquadrò la figura di un uomo curvo su una piccola scrivania. Sotto una mano c’era un foglio ingiallito, accanto a un calamaio che s’era rovesciato quando l’uomo s’era accasciato privo di vita.
Pitt tolse delicatamente il foglio e lesse.
Ho fatto il mio dovere fino all’esaurimento delle forze. Lascio le mie fedeli macchine in condizioni eccellenti. Ci hanno portati attraverso l’oceano senza perdere un colpo e sono forti come il giorno in cui furono installate a Richmond. Lascio al prossimo ufficiale di macchina il compito di far muovere questa nave contro gli odiati yankee. Dio salvi la Confederazione.
«Era un uomo votato al dovere», disse Pitt in tono di approvazione.
«Oggi se ne è perso lo stampo», confermò Perlmutter.
Pitt lasciò O’Hare e passò oltre le due grandi macchine e alle caldaie. Un corridoio portava agli alloggi degli ufficiali e alla mensa, dove trovarono altri quattro cadaveri spogliati, tutti adagiati sulle cuccette delle rispettive cabine. Pitt li degnò appena di un’occhiata prima di fermarsi avanti a una porta di mogano montata nella paratia di poppa.
«La cabina del comandante», disse.
Perlmutter annuì. «Il comandante Mason Tombs. A quanto ho letto dell’audace fuga della Texas da Richmond all’Atlantico, doveva essere un tipo duro.»
Pitt dominò la smania di sapere, girò la maniglia e spalancò la porta. Ma Perlmutter tese la mano e lo trattenne.
«Aspetta!»
Pitt si voltò, sconcertato. «Perché? Di cosa hai paura?»
«Sospetto che troveremo qualcosa che nessuno dovrebbe vedere.»
«Può esserci qualcosa di peggio di quello che abbiamo già visto?» commentò Giordino.
«Che cosa ci nascondi, Julien?» chiese Pitt.
«Io… non vi ho detto che cosa ho scoperto nelle carte segrete di Edwin Stanton.»
«Me lo dirai più tardi», borbottò spazientito Pitt. Si staccò dallo storico, tese la torcia all’interno ed entrò.
La cabina era piccola, secondo i criteri delle navi da guerra contemporanee; ma le corazzate della guerra di secessione non erano state costruite per passare lunghe settimane in mare. Nei combattimenti sui fiumi e nelle rade della Confederazione, raramente si allontanavano dai porti per più di due giorni consecutivi.
Anche lì erano spariti tutti gli oggetti e i mobili che non erano imbullonati. I tuareg, che non erano abili nell’usare gli attrezzi, avevano ignorato tutto ciò che era saldamente fissato. Nella cabina del comandante c’erano ancora le librerie e un barometro rotto. Ma per qualche ragione inesplicabile, come avevano fatto con lo sgabello della timoniera, i tuareg avevano lasciato una sedia a dondolo.
La torcia di Pitt rivelò due corpi. Uno era sdraiato su una cuccetta, l’altro seduto sulla sedia. Il cadavere sulla cuccetta giaceva nudo sul fianco, contro la paratia, nella posizione in cui lo avevano spinto i tuareg quando avevano portato via gli indumenti, le lenzuola e il materasso. La testa e il viso erano ancora coperti dai capelli e dalla barba di color fulvo.
Giordino raggiunse Pitt e studiò la figura sulla sedia a dondolo. Sotto la luce fulgida della torcia, la pelle aveva un colore bruno scuro e appariva coriacea come il cadavere di Kitty Mannock. Il corpo si era ugualmente mummificato nel caldo secco del deserto ed era ancora coperto da un antiquato indumento ottocentesco, che univa maglia e mutandoni in un pezzo unico.
Sebbene fosse seduto, si vedeva che l’uomo era molto alto. La faccia era barbuta, scarna, con le orecchie sporgenti. Gli occhi erano chiusi come se fosse assopito; le sopracciglia folte e stranamente corte sembravano tagliate all’angolo esterno dell’occhio. I capelli e la barba erano nerissimi, spruzzati di grigio.
«È l’immagine sputata di Lincoln», commentò Giordino.
«No. È Abraham Lincoln», disse Perlmutter dalla soglia, con voce smorzata. Si accasciò adagio sul ponte, con la schiena contro la paratia, come una balena che si posa sul fondo marino. Gli occhi erano fissi, ipnoticamente, sul cadavere sulla sedia a dondolo.
Pitt guardò Perlmutter, allarmato e incredulo. «Per essere uno storico famoso hai preso una bella cantonata!»
Giordino s’inginocchiò accanto a Perlmutter e gli porse la borraccia d’acqua. «Il caldo ti avrà dato alla testa, vecchio mio.»
Perlmutter rifiutò l’acqua. «Dio, oh, Dio, non volevo crederlo. Ma il segretario della Guerra di Lincoln, Edwin McMasters Stanton, aveva rivelato la verità nelle sue carte segrete.»
«Quale verità?» chiese incuriosito Pitt.
Perlmutter esitò, poi la sua voce divenne quasi un bisbiglio. «Lincoln non fu ucciso da John Wilkes Booth nel Ford’s Theater. Quello sulla sedia a dondolo è lui.»
Pitt fissò Perlmutter, incapace di credere a ciò che aveva sentito. «L’assassinio di Lincoln fu uno degli eventi più documentati della storia americana. A teatro c’erano più di cento testimoni. Come puoi sostenere che non sia accaduto?»
Perlmutter alzò le spalle. «I fatti andarono come risulta, ma si trattò di un imbroglio tramato e realizzato da Stanton, che si servì di un attore molto somigliante a Lincoln e lo spacciò per lui. Due giorni prima dell’attentato, il vero Lincoln fu catturato dai confederati e condotto di nascosto attraverso le linee unioniste fino a Richmond, dove venne tenuto in ostaggio. Questa parte della vicenda è confermata da un’altra dichiarazione, fatta sul letto di morte dal capitano della cavalleria confederata che diresse la cattura.»
Pitt guardò pensosamente Giordino, poi di nuovo Perlmutter. «Il capitano della cavalleria sudista… per caso, si chiamava Neville Brown?»
Perlmutter lo guardò a bocca aperta. «Come lo sai?»
«Abbiamo incontrato un vecchio cercatore americano deciso a ritrovare la Texas e il suo oro. È stato lui a parlarci della storia di Brown.»
Giordino aveva l’aria di svegliarsi da un brutto sogno. «E noi pensavamo che fosse una favola.»
«Credetemi», disse Perlmutter, che non riusciva a staccare gli occhi dal cadavere. «Non è una favola. L’idea di rapire Lincoln venne a un aiutante del presidente confederato Jefferson Davis, che voleva tentare di salvare ciò che restava del Sud. Grant stava stringendo il cappio intorno a Richmond e Sherman marciava verso nord per attaccare alle spalle l’armata della Virginia del generale Lee: la guerra era perduta e tutti lo sapevano. L’odio del Congresso per gli Stati secessionisti non era un segreto. Davis e il suo governo erano certi che il Nord avrebbe preteso un prezzo terribile quando la Confederazione fosse stata sconfitta definitivamente. L’aiutante, il cui nome è stato dimenticato, fece la proposta folle di catturare Lincoln e di tenerlo in ostaggio perché il Sud se ne servisse per strappare condizioni più favorevoli.»
«Non era una cattiva idea», osservò Giordino mentre sedeva sul pavimento per riposare.
«Ma il vecchio Edwin Stanton rovinò tutto.»
«Rifiutò di lasciarsi ricattare», disse Pitt.
«Rifiutò anche per altre ragioni», confermò Perlmutter. «Bisogna dire, a tutto merito di Lincoln, che aveva voluto Stanton come segretario della Guerra. Lo riteneva l’uomo più adatto per quel ruolo, sebbene Stanton lo detestasse e lo definisse un gorilla. Stanton vide nella cattura del presidente una buona occasione anziché un disastro.»
«In che modo fu sequestrato Lincoln?» chiese Pitt.
«Si sapeva che il presidente faceva tutti i giorni un giro in carrozza nella campagna intorno a Washington. Un drappello della cavalleria confederata con le uniformi unioniste, al comando del capitano Brown, sopraffece la scorta di Lincoln durante una di quelle uscite e portò il presidente al di là del fiume Potomac, nel territorio tenuto dai sudisti.»
Pitt faticava a ricostruire il quadro. Un evento storico nel quale aveva sempre creduto adesso risultava una truffa, e doveva fare appello a tutta la sua forza di volontà per accettare le implicazioni di quella rivelazione. «Quale fu la reazione immediata di Stanton al rapimento di Lincoln?» chiese.
«Purtroppo per Lincoln, Stanton fu il primo a venire informato dalle guardie superstiti. Immaginò il panico in cui sarebbe piombato il Paese non appena si fosse saputo che il presidente era stato catturato dal nemico. Occultò il fatto e inventò una copertura. Arrivò al punto di dire a Mary Todd Lincoln che il marito era in missione segreta presso il quartier generale di Grant e non sarebbe ritornato per diversi giorni.»
«È difficile credere che non vi fosse una fuga di notizie», osservò Giordino in tono scettico.
«Stanton era l’uomo più temuto di Washington. Se ti faceva giurare di mantenere un segreto, tacevi fino alla morte… o a farti tacere provvedeva lui.»
«E non scoppiò la bomba quando Davis comunicò di avere Lincoln in ostaggio e presentò la richiesta di condizioni di resa favorevoli?»
«Stanton era molto astuto. Intuì il complotto confederato qualche ora dopo la cattura di Lincoln. Avvertì il generale unionista che comandava le difese di Washington e quando il corriere di Davis attraversò le linee con la bandiera bianca, venne condotto immediatamente da Stanton. Il vicepresidente Johnson, il segretario di Stato William Henry Seward e gli altri membri del gabinetto di Lincoln non seppero nulla di quanto stava accadendo. Stanton rispose segretamente a Davis rifiutando ogni negoziato e suggerendo che la Confederazione avrebbe fatto un favore a tutti se avesse affogato Lincoln nel fiume James.
«Quando ricevette la risposta di Stanton, Davis rimase allibito. Potete immaginare il dilemma. La Confederazione stava andando a pezzi; aveva prigioniero il presidente dell’Unione. Un pezzo grosso del governo nemico gli aveva detto che non gliene importava nulla, e che per quel che lo riguardava poteva tenersi Lincoln. Davis cominciò a intravedere la possibilità che gli yankee vittoriosi lo impiccassero. Il suo piano per salvare il Sud era andato a rotoli, e non voleva rendersi responsabile della morte di Lincoln: perciò decise di sbarazzarsene temporaneamente facendolo imbarcare come prigioniero sulla Texas. Sperava che la nave sarebbe riuscita a superare il blocco della Marina unionista, a portare in salvo l’oro confederato e a tenere in pugno Lincoln come pedina per i futuri negoziati quando avessero avuto la meglio persone più ragionevoli di Stanton. Purtroppo andò tutto storto.»
«Stanton inscenò l’attentato e la Texas sparì con l’intero equipaggio», concluse Pitt.
«Sì», confermò Perlmutter. «Imprigionato per due anni dopo la guerra, Davis non parlò mai della cattura di Lincoln per timore delle rappresaglie unioniste contro il Sud che stava cercando di rimettersi in piedi.»
«E Stanton, in che modo organizzò l’attentato?» chiese Giordino.
«Non esiste un episodio più strano in tutta la storia americana», rispose Perlmutter, «del complotto che sarebbe costato la vita a Lincoln. La verità, per quanto possa sembrare incredibile, è che Stanton ingaggiò John Wilkes Booth perché gestisse e recitasse la commedia. Booth conosceva un attore che era alto e magro come Lincoln. Stanton si confidò con il generale Grant e insieme diffusero la versione secondo la quale si erano incontrati con il presidente quel pomeriggio e Grant aveva rifiutato l’invito a recarsi al Ford’s Theater. Inoltre, gli agenti di Stanton drogarono Mary Tood Lincoln in modo che, nel momento in cui il falso presidente sarebbe comparso per accompagnarla a teatro, lei fosse troppo stordita per accorgersi che era un impostore, truccato in modo da somigliare a suo marito.
«A teatro, l’attore accolse l’ovazione degli spettatori che erano abbastanza lontani dal palco presidenziale per accorgersi dello scambio di persona. Booth fece la sua commedia, e sparò alla nuca dell’attore ignaro prima di balzare sul palcoscenico. Poi il ferito fu portato nella casa di fronte con un fazzoletto sul viso per ingannare i presenti. E morì, in una scena di cui lo stesso Stanton curò la regia.»
«Ma c’erano testimoni al letto di morte di Lincoln», protestò Pitt. «Medici militari, membri del governo, aiutanti di campo.
«I medici erano amici e agenti di Stanton», rispose stancamente Perlmutter. «Non sapremo mai con certezza in che modo furono ingannati gli altri. Stanton non lo spiega.»
«E la cospirazione per uccidere il vicepresidente Johnson e il segretario di Stato Seward? Anche quella faceva parte del piano di Stanton?»
«Tolti di mezzo loro, Stanton sarebbe giunto a un passo dalla presidenza. Ma gli uomini ingaggiati da Booth rovinarono tutto. Comunque, Stanton si comportò come un dittatore durante le prime settimane che seguirono la morte di Lincoln. Diresse le indagini, l’arresto dei cospiratori e un processo-lampo che si concluse con le impiccagioni. E sparse in tutta la nazione la voce che Lincoln era stato assassinato da agenti di Jefferson Davis in un ultimo, disperato tentativo di salvare la Confederazione.»
«Poi Stanton fece uccidere Booth per impedirgli di parlare?» chiese Pitt.
Perlmutter scosse la testa. «No, nel granaio che bruciò venne ucciso un altro. L’autopsia e l’identificazione furono un altro imbroglio. Booth fuggì e visse ancora a lungo, fino a quando si suicidò a Enid, in Oklahoma, nel 1903.»
«Ho letto da qualche parte che Stanton bruciò il diario di Booth», disse Pitt.
«È vero», rispose lo storico. «Ormai il danno era fatto. Stanton aveva scatenato l’opinione pubblica contro la Confederazione sconfitta. I piani di Lincoln per aiutare il Sud a risorgere furono sepolti con il suo sosia nella tomba di Springfield, Illinois.»
«La mummia sulla sedia a dondolo», mormorò Giordino che la fissava irrigidito, «a bordo di quello che resta di una corazzata confederata sepolta da una duna in mezzo al Sahara è davvero Abraham Lincoln?»
«Ne sono certo», rispose Perlmutter. «Un esame anatomico proverà la sua identità senza lasciar adito a dubbi. Anzi, se lo ricordate, vi furono certi ladri che penetrarono nella tomba ma furono presi prima che potessero rubare la salma. C’è un particolare che non fu mai rivelato: coloro che prepararono il corpo per la nuova sepoltura si accorsero che si trattava di un impostore. Da Washington giunse l’ordine di mettere tutto a tacere e di sistemare le cose in modo che fosse impossibile riaprire la tomba. Cento tonnellate di cemento furono colate sulle bare di Lincoln e del figlio Tad per impedire che in futuro altri profanatori violassero la tomba… o almeno così si disse. In verità, si volevano seppellire tutte le prove del crimine.»
«Ti rendi conto di ciò che significa?» chiese Pitt a Perlmutter.
«Vuoi sapere se me ne rendo conto?» mormorò lo storico.
«Stiamo per cambiare il passato», spiegò Pitt. «Quando annunceremo ciò che abbiamo scoperto, l’evento più tragico della storia degli Stati Uniti verrà riscritto in modo irrevocabile.»
Perlmutter fissò Pitt, quasi inorridito. «Non sai quello che dici. Abraham Lincoln è venerato come un santo nel folklore americano, nei libri di storia, nelle poesie e nei romanzi. La sua morte fece di lui un martire da riverire nei secoli. Se smascherassimo il finto assassinio, la sua immagine andrebbe in pezzi e gli americani ne sarebbero impoveriti.»
Pitt aveva un’aria infinitamente stanca, ma i suoi occhi brillavano d’una luce decisa. «Nessun uomo fu mai ammirato per la sua onestà più di Abraham Lincoln. In quanto a compassione e princìpi morali, non era secondo a nessuno. Il fatto che sia morto in condizioni tanto ingannevoli contrasta con tutto ciò che rappresentava. I suoi resti meritano una sepoltura onorata. Sono convinto che avrebbe voluto che le generazioni future del popolo da lui servito fedelmente conoscessero la verità.»
«Sono d’accordo», dichiarò Giordino. «E sarò felice di essere al tuo fianco quando si alzerà il sipario.»
«Ci sarà un chiasso tremendo.» Perlmutter boccheggiava come se qualcuno gli stringesse la gola. «Mio Dio, Dirk, non capisci? È meglio che non si scopra la verità. La nazione non dovrà mai sapere.»
«Queste sono parole degne di un politico arrogante o di un burocrate che si assume il ruolo di Dio e nasconde la verità al pubblico con il pretesto della sicurezza nazionale o con la balla che non sarebbe nell’interesse del Paese.»
«E così hai intenzione di farlo», disse Perlmutter in tono addolorato. «Hai intenzione di causare un terremoto nazionale in nome della verità.»
«Come gli uomini e le donne del Congresso e della Casa Bianca, Julien, tu sottovaluti il pubblico americano. Accetterà serenamente la rivelazione, e l’immagine di Lincoln brillerà ancora più fulgida. Mi dispiace, amico mio, ma non mi lascerò dissuadere.»
Perlmutter si rese conto che era inutile insistere. Intrecciò le mani sullo stomaco voluminoso e sospirò. «D’accordo, riscriveremo l’ultimo capitolo della guerra di secessione e affronteremo il plotone d’esecuzione insieme.»
Pitt si avvicinò alla figura sgraziata sulla sedia a dondolo, studiò le braccia e le gambe troppo lunghe, la faccia stanca e serena. Poi parlò con voce sommessa, che si udì appena.
«Dopo essere rimasto qui seduto per centotrent’anni, credo sia ora che il vecchio Abraham torni a casa.»
La rivelazione della scoperta di Lincoln e della frode di Stanton elettrizzò il mondo quando la salma fu rimossa dalla corazzata e riportata a Washington da un aereo. In tutte le scuole del Paese gli allievi impararono a memoria e recitarono il Discorso di Gettysburg come avevano fatto i loro nonni.
La capitale organizzò festeggiamenti e cerimonie memorabili. Cinque presidenti viventi si schierarono nella rotonda del Campidoglio per rendere omaggio alla bara scoperta del loro predecessore morto da tanto tempo. I discorsi si protrassero a lungo, e i politici si disputarono l’onore di citare le frasi più significative pronunciate da Lincoln
I resti mortali del sedicesimo presidente non finirono nel cimitero di Springfield. Per ordine presidenziale fu preparata una tomba nel suo mausoleo, ai piedi della famosa statua di marmo candido. Nessuno, neppure i rappresentanti dell’Illinois al Congresso, pensò di protestare.
Fu proclamato un giorno di festa nazionale e milioni di persone, in tutto il Paese, seguirono attraverso la televisione le celebrazioni di Washington e rimasero sbalorditi nel vedere la faccia dell’uomo che aveva guidato gli Stati Uniti durante il periodo più difficile.
Dal mattino a notte non andò in onda altro, e i programmi abituali furono temporaneamente modificati; i cronisti si conquistarono una giornata di gloria descrivendo l’evento mentre tutte le altre notizie passavano in seconda fila.
I leader del Congresso, in un raro sfoggio di disponibilità, votarono gli stanziamenti necessari per recuperare la Texas e trasportarla dal Sahara al Washington Mall, dove sarebbe stata conservata ed esposta permanentemente al pubblico. I membri dell’equipaggio furono sepolti nel cimitero confederato di Richmond, in Virginia. La cerimonia ebbe luogo in un’atmosfera solenne e ricca di commozione.
Kitty Mannock tornò insieme col suo aereo in Australia, dove ricevette un glorioso bentornato. Fu sepolta nel Museo Militare di Canberra, e il suo fedele Fairchild, debitamente restaurato, fu esposto accanto al famoso aereo di sir Charles Kingfors-Smith, il Southern Cross.
Esclusi pochi fotografi e due giornalisti, la cerimonia che si svolse per onorare il contributo dato da Hala Kamil e dall’ammiraglio Sandecker per arrestare la marea rossa e scongiurare la temuta estinzione della vita sulla Terra passò quasi inosservata. Il presidente, fra un discorso e l’altro, li insignì delle medaglie d’onore accordate con un atto speciale del Congresso. Più tardi Hala tornò a New York e all’ONU, dove era stata convocata una speciale seduta dell’Assemblea Generale per renderle omaggio. Hala finì per cedere all’emozione durante l’ovazione più lunga che si fosse mai registrata alle Nazioni Unite.
Sandecker tornò nel suo ufficio della NUMA, fece ginnastica nella palestra privata e incominciò a preparare i piani per un nuovo progetto sottomarino come se nulla fosse accaduto.
Anche se alla fine non lo vinsero, il dottor Darcy Chapman e Rudi Gunn furono candidati congiuntamente al premio Nobel. Senza far caso al chiasso generale, tornarono insieme nell’Atlantico meridionale per analizzare gli effetti della ciclopica marea rossa sulla fauna marina. Il dottor Frank Hopper li raggiunse, dopo aver lasciato di nascosto l’ospedale ed essere stato trasportato a bordo della nave addetta alle ricerche. Hopper giurava che sarebbe guarito prima se fosse tornato al lavoro per studiare la tossicità dei dinoflagellati.
Hiram Yaeger ricevette una cospicua gratifica dalla NUMA e dieci giorni di ferie pagate oltre a quelle che gli spettavano di diritto. Condusse la famiglia a Disneyland; e mentre i suoi si divertivano, partecipò a un seminario sui sistemi d’archivio computerizzati.
Il generale Hugo Bock, dopo essersi assicurato che i superstiti e i parenti dei caduti dell’ormai leggendaria battaglia di Fort Foureau avessero ricevuto onorificenze e sostanziosi benefici finanziari, decise di dimettersi dall’UNICRATT quando era al culmine della gloria, e andò a vivere in un piccolo villaggio delle Alpi bavaresi.
Come aveva auspicato Pitt, il colonnello Levant fu promosso generale, insignito di una medaglia dell’ONU per il contributo dato al mantenimento della pace e chiamato a occupare il posto di Bock.
Dopo essere guarito dalle ferite nel maniero di famiglia in Cornovaglia, il capitano Pembroke-Smythe fu promosso maggiore e tornò al suo vecchio reggimento. La regina lo insignì di un riconoscimento altissimo, il Distinguished Service Order. Attualmente fa parte di un’unità speciale di commando.
Al Giordino rintracciò la bella pianista che aveva visto sul Niger, a bordo dell’houseboat di Yves Massarde. Per fortuna, non solo lei non era sposata, ma lo trovò anche simpatico (un fatto, questo, che Pitt giudicò inspiegabile); quindi accettò di accompagnarlo in vacanza sul mar Rosso.
In quanto a Dirk Pitt ed Eva Rojas…
Giugno segnava il culmine della stagione turistica nella penisola di Monterey. I visitatori arrivavano con veicoli d’ogni tipo in file interminabili sul panoramico Seventeen-Mile Drive fra Monterey e Carmel. Lungo Cannery Row c’era una folla di gente che si divideva fra gli acquisti e i pranzi nei pittoreschi ristoranti di mare affacciati sull’acqua.
Venivano per giocare a golf a Pebble Beach, vedere Big Sur e fotografare i tramonti di Point Lobos. Si aggiravano fra le aziende produttrici di vino, ammiravano gli antichi cipressi, passeggiavano lungo le spiagge e si emozionavano alla vista dei pellicani in volo, delle foche che latravano e delle onde che si infrangevano.
I genitori di Eva stavano diventando indifferenti a quell’ambiente spettacolare dopo aver abitato nella stessa casa di Pacific Grove per più di trentadue anni. Spesso davano per scontata la fortuna di vivere in una parte tanto bella della costa californiana. Ma i paraocchi sparivano ogni volta che Eva tornava a casa. Lei non mancava mai di vedere la penisola con gli occhi di un’adolescente, come se la scoprisse per la prima volta.
Quando tornava a casa, sottraeva sempre i genitori alla loro tranquilla routine e faceva loro apprezzare le semplici bellezze della comunità in cui vivevano. Ma stavolta era diverso. Non era in condizioni di farli montare sulle biciclette o di nuotare nell’acqua del Pacifico. E aveva soltanto voglia di restare in casa a ciondolare.
Era uscita dall’ospedale da appena due giorni ed era costretta su una sedia a rotelle, convalescente dalle lesioni subite a Fort Foureau. L’organismo debilitato dalle fatiche e dalle privazioni nelle miniere di Tebezza si era rinvigorito grazie alle robuste porzioni di cibo sano che le avevano allargato d’un paio di centimetri la vita sottile: una situazione che il moto non avrebbe potuto rimediare fino a che le ossa non si fossero saldate e non le avessero tolto il gesso.
Stava guarendo a poco a poco nel corpo, ma la sua mente soffriva perché non aveva notizie di Pitt. Da quando era stata evacuata con un elicottero dalle rovine del vecchio forte della Legione Straniera e trasportata in Mauritania, e da qui all’ospedale di San Francisco, era come se Pitt si fosse perduto nello spazio. Un telefonata all’ammiraglio Sandecker era servita soltanto a rivelarle che Pitt era ancora nel Sahara e non era tornato a Washington con Giordino.
«Perché stamattina non vieni con me al campo di golf?» le chiese il padre. «Ti farà bene uscire un po’ di casa.»
Eva alzò lo sguardo verso gli occhi grigi del padre e sorrise nel vedere che era spettinato come sempre. «Non credo d’essere in condizioni di colpire la palla», disse con un sorriso.
«Pensavo che ti sarebbe piaciuto girare con me sul cart.»
Eva rifletté per qualche istante e annuì. «Perché no?» Tese il braccio illeso e agitò le dita del piede destro. «Ma solo se mi lasci guidare.»
La madre l’aiutò a salire sulla Chrysler. «Stai attento che non si faccia male», raccomandò al marito.
«Prometto che te la riporterò nelle stesse condizioni in cui l’ho trovata», rispose lui con fare scherzoso.
Il signor Rojas lanciò la palla alla quarta buca del Pacific Grove Municipal Golf Course lungo le fairways che si estendevano intorno al faro di Point Pinos. Vide la palla che finiva nella sabbia, scosse la testa e rimise la mazza nella sacca.
«Non sono abbastanza forte», borbottò insoddisfatto.
Eva, seduta al volante del cart, indicò una panchina del belvedere affacciato sul mare. «Ti dispiace, papà, se mi metto lì seduta per le prossime cinque buche? È una giornata così bella. Vorrei stare tranquilla a guardare l’oceano.»
«Ma certo, tesoro. Passerò a riprenderti prima di andare alla clubhouse.»
Quando l’ebbe aiutata a sistemarsi comodamente sulla panchina, il signor Rojas fece un gesto di saluto e scese con il cart lungo la fairway in direzione del green, seguito da tre amici che viaggiavano su un’altra vetturetta.
C’era una nebbiolina leggera che aleggiava sull’acqua, ma Eva poteva vedere l’ampia riva della baia che s’incurvava, giungeva alla città di Monterey e proseguiva verso nord in linea retta. Il mare era calmo e le onde si muovevano come animali rintanati sotto i grandi campi di alghe. Aspirava l’aria carica dell’odore pungente delle alghe che seccavano sulla riva rocciosa e seguiva con lo sguardo le evoluzioni d’una lontra marina che caprioleggiava nell’acqua.
All’improvviso Eva alzò gli occhi quando un gabbiano passò stridendo sopra di lei. Girò lentamente la testa per seguirne il volo e all’improvviso si trovò a guardare negli occhi un uomo che stava un po’ a lato della macchina.
«Tu, io e la baia di Monterey», disse l’uomo a voce bassa.
Pitt sorrideva affettuosamente mentre Eva lo fissava per un lungo momento, sopraffatta dalla gioia e dall’incredulità. Poi le fu accanto e la prese fra le braccia.
«Oh, Dirk, Dirk! Non ero sicura che saresti venuto. Temevo che fosse finita…»
S’interruppe quando Pitt la baciò e la guardò nei lucenti occhi, azzurri come porcellana di Dresda, velati dalle lacrime che le scorrevano sulle guance.
«Avrei dovuto mettermi in contatto con te», si scusò. «Ma la mia vita è stata un caos fino a due giorni fa.»
«Ti perdono», disse lei allegramente. «Ma come hai fatto a sapere dove trovarmi?»
«Me l’ha detto tua madre. È così simpatica. Mi ha mandato qui. Ho preso a nolo un cart e ho girato per tutto il campo fino a quando ho visto una povera creatura solitaria con tante ossa rotte che guardava tristemente il mare.»
«Sei matto», disse lei, felice, e tornò a baciarlo.
Pitt la sollevò delicatamente fra le braccia. «Vorrei aver il tempo di ammirare le onde, ma dobbiamo muoverci. Mio Dio, tutto questo gesso ti appesantisce.»
«Dove dobbiamo andare?»
«Dobbiamo preparare le tue valigie e prendere un aereo», rispose Pitt mentre la sistemava sul cart.
«Un aereo? Per andar dove?»
«In un villaggio di pescatori sulla costa occidentale del Messico.»
«Vuoi portarmi in Messico?» Eva sorrise fra le lacrime.
«Per imbarcarci su una barca che ho noleggiato.»
«Vuoi fare una crociera?»
«Più o meno», spiegò Pitt con un sorriso. «Andremo in un posto che si chiama Clipperton Island a cercare un tesoro.»
Mentre Pitt si dirigeva verso il parcheggio accanto alla clubhouse, Eva disse: «Credo che tu sia l’uomo più subdolo e astuto che abbia mai conosciuto…» S’interruppe quando si fermarono accanto a una strana automobile dipinta di un vivace color fucsia. «E questa cos’è?» chiese sbalordita.
«Un’auto.»
«Lo vedo. Ma di che genere?»
«Un’Avions Voisin. È un regalo del mio vecchio amico Zateb Kazim.»
Eva lo fissò, sbalordita. «Te la sei fatta spedire dal Mali?»
«A bordo di un aereo militare», rispose Pitt con noncuranza. «Il presidente aveva un grosso debito con me. E così ho fatto una richiesta molto semplice.»
«E dove la lascerai, se dobbiamo prendere l’aereo?»
«Ho convinto tua madre a tenerla in garage fino al concorso di Pebble Beach, il prossimo agosto.»
Eva scosse la testa. «Sei incorreggibile.»
Pitt le prese con delicatezza il viso fra le mani, sorrise e disse: «Per questo sono tanto divertente».