Dopo aver viaggiato nel deserto per giorni o settimane senza vedere un animale o incontrare esseri umani, la civiltà, per quanto limitata o primitiva, costituisce una sorpresa sensazionale. Per le undici persone a bordo delle cinque Land Rover e per i cinque autisti-guide, la vista di un habitat artificiale fu un grande sollievo. Accaldati e sporchi, esausti dopo una settimana di viaggio in mezzo alla desolazione, gli avventurosi turisti che partecipavano ai dodici giorni del «Safari nel Sahara» organizzato dalla Backworld Explorations erano sin troppo felici di vedere altri esseri umani e di trovare acqua a sufficienza per un bagno ristoratore.
Avvistarono il villaggio di Asselar, isolato nella regione del Sahara centrale, nella nazione africana del Mali. Un gruppo di case di argilla raccolte intorno a un pozzo sul fondo asciutto di quello che doveva essere stato anticamente il letto di un fiume. Sparse intorno alla periferia c’erano le rovine sgretolate di altre cento o più case abbandonate e, più oltre, le basse scarpate che scendevano al di sotto della piana alluvionale. Da una certa distanza era quasi impossibile vedere il villaggio, perché gli edifici usurati dal tempo si fondevano perfettamente con il paesaggio austero e incolore.
«Bene, eccola là», disse il maggiore Ian Fairweather, responsabile del safari, ai turisti stanchi e impolverati che scendevano dalle Land Rover e si raccoglievano intorno a lui. «A guardarla non direste mai che Asselar era un tempo un crocevia culturale dell’Africa occidentale. Per cinque secoli fu una tappa importante per le grandi carovane di mercanti e di schiavisti che passavano per raggiungere il nord e l’est.»
«Qual è stata la causa del declino?» chiese una graziosa canadese in prendisole e calzoncini.
«Una combinazione di guerre e conquiste da parte dei mori e dei francesi, l’abolizione dello schiavismo, ma soprattutto il fatto che i percorsi commerciali si spostarono verso sud e verso ovest, in direzione delle coste. Il colpo mortale venne una quarantina d’anni fa, quando i pozzi cominciarono a inaridirsi. L’unico ancora in funzione che serve la cittadina ha una profondità di circa cinquanta metri.»
«Non è esattamente un paradiso metropolitano», mormorò un uomo grasso dall’accento spagnolo.
Il maggiore Fairweather sorrise con uno sforzo. Era un ex Royal Marine, alto e magro; fumava di continuo lunghe sigarette con filtro e parlava in toni secchi, come se ripetesse frasi imparate a memoria. «Oggi ad Asselar risiedono solo poche famiglie di tuareg che hanno rinunciato al nomadismo. Vivono soprattutto grazie a piccole greggi di capre, tratti di terreno sabbioso irrigati a mano con l’acqua del pozzo, e qualche manciata di gemme trovate nel deserto, che lavorano e portano a dorso di dromedario nella città di Goa, dove le vendono come souvenir.»
Un elegante avvocato londinese, impeccabile nella sahariana e nel casco tropicale, puntò il bastone d’ebano verso il villaggio. «Sembra abbandonato. Mi sembra di ricordare che il dépliant promettesse alla nostra comitiva ‘il fascino romantico della musica del deserto e delle danze indigene intorno ai fuochi da campo di Asselar’.»
«Il nostro scout ha sicuramente preso tutti gli accordi necessari per il comfort e gli svaghi degli ospiti», assicurò Fairweather con disinvolta sicurezza. Per un attimo fissò il sole che calava dietro il villaggio. «Fra poco sarà buio. È meglio che ci affrettiamo.»
«C’è un albergo?» chiese la signora canadese.
Fairweather represse a stento una smorfia. «No, signora Lansing. Ci accamperemo fra le rovine appena oltre l’abitato.»
I turisti gemettero all’unisono. Avevano sperato di trovare letti soffici e bagni… Lussi che probabilmente Asselar non aveva mai conosciuto.
Risalirono sui veicoli, e percorsero una pista che si addentrava nella valle fino alla via principale attraverso il villaggio. Più si avvicinavano e più diventava difficile immaginare un passato glorioso. Le strade erano vicoli stretti e sabbiosi. Sembrava un villaggio morto, dominato dall’odore della sconfitta. Nell’imbrunire non si scorgeva una luce, e non si sentiva neppure l’abbaiare di un cane. Nelle costruzioni d’argilla non si vedevano segni di vita. Era come se gli abitanti avessero portato via tutto ciò che possedevano e fossero spariti nel deserto.
Fairweather incominciava a sentirsi a disagio. C’era qualcosa che non andava. Non c’era traccia dello scout che li aveva preceduti. Per un momento intravide un grosso quadrupede che spariva oltre una porta. Ma fu un’impressione fuggevole, e Fairweather pensò che fosse semplicemente l’ombra delle Land Rover.
Quella sera i suoi clienti avrebbero mugugnato, pensò. La colpa era dei pubblicitari che esageravano il fascino del deserto. «L’occasione eccezionale di una spedizione attraverso le sabbie del Sahara», recitò sottovoce. Sarebbe stato pronto a scommettere un anno di stipendio che l’autore del testo non si era mai avventurato oltre la costa di Dover.
Erano a un’ottantina di chilometri dalla Transahariana e a duecentoquaranta dalla città di Gao, sul fiume Niger. La comitiva trasportava viveri, acqua e carburante più che sufficienti per il resto del viaggio, quindi Fairweather teneva presente la possibilità di aggirare Asselar, se fosse sorto un problema imprevisto. La sicurezza dei clienti della Backworld Explorations veniva al primo posto; in ventotto anni di attività non ne avevano mai perduto uno, a meno di considerare quell’idraulico americano in pensione che aveva fatto indispettire un dromedario e per la sua stupidità s’era buscato un calcio in testa.
Fairweather incominciò a chiedersi perché non si vedevano in giro né dromedari né capre. Non c’erano neppure orme nelle vie sabbiose, ma soltanto strani segni di artigli e di solchi rotondi che procedevano paralleli, come se qualcuno avesse trainato tronchi gemelli. Le casette della tribù, costruite in pietra e rivestite di fango rossastro, sembravano più malconce dall’ultima volta che Fairweather era passato di fi durante l’ultimo safari, non più di due mesi prima.
Sì, assolutamente, c’era qualcosa che non andava. Anche se, per qualche strana ragione, gli abitanti avessero deciso di abbandonare il villaggio, il suo scout avrebbe dovuto essere lì ad attendere. In tutti gli anni in cui avevano viaggiato insieme nel Sahara, Ibn Hajib non l’aveva mai deluso. Decise di lasciare che i suoi clienti riposassero un po’ accanto al pozzo e si ripulissero, prima di proseguire per un tratto nel deserto e accamparsi. Meglio essere prudenti, pensò, mentre prendeva il vecchio semiautomatico Patchett da uno scomparto fra i sedili e se lo piazzava fra le ginocchia. Avvitò alla canna un silenziatore Invicta che dava all’arma l’aspetto di un tubo allungato con un caricatore curvo.
«Qualcosa non va?» chiese la signora Lansing, che viaggiava insieme col marito sulla Land Rover di Fairweather.
«Una semplice precauzione per mettere in fuga i mendicanti», mentì il maggiore.
Fermò il fuoristrada e tornò indietro a piedi per avvertire gli altri autisti di tenere gli occhi aperti. Poi risalì a bordo e proseguì fino al centro del villaggio, passando per le viuzze disposte senza un ordine particolare. Alla fine si fermò sotto una solitaria palma da dattero al centro della piazza del mercato, presso un pozzo di pietra di quattro metri di diametro.
Fairweather studiò nell’ultima luce del giorno il terreno sabbioso intorno al pozzo. Era circondato dalle stesse tracce stranissime che aveva notato nelle strade. Scrutò l’interno del pozzo e scorse appena un minuscolo riflesso nelle viscere dell’arenaria. Ricordava che l’acqua aveva un alto contenuto di minerali, che questo le dava un gusto metallico e la colorava di un verde lattiginoso. Tuttavia aveva placato la sete di molti esseri viventi, umani e animali, nel corso dei secoli. Non lo preoccupava che fosse o no igienica per gli stomaci dei suoi clienti: tanto, doveva servire soltanto per ripulirsi dal sudore e dalla polvere, non certo per bere.
Ordinò agli autisti di stare in guardia, poi mostrò ai turisti come dovevano calare il secchio di pelle per mezzo di un antico argano a mano legato a una corda sfrangiata. I turisti dimenticarono l’immagine esotica della musica e delle danze nel deserto alla luce dei fuochi dei bivacchi mentre ridevano e sguazzavano come ragazzini sotto un’innaffiatrice in un caldo pomeriggio estivo. Gli uomini si spogliarono fino alla cintura e si versarono l’acqua sulla pelle nuda; le donne pensavano soprattutto a lavarsi i capelli.
La scena piuttosto comica era illuminata bizzarramente dai fari delle Land Rover che, come proiettori cinematografici, gettavano ombre guizzanti sui muri silenziosi del villaggio. Mentre gli autisti assistevano ridendo a quello spettacolo, Fairweather si avviò lungo una delle vie ed entrò in una casa accanto alla moschea. I muri erano vecchi, usurati dal tempo. L’entrata conduceva attraverso una breve galleria ad arco fino a un cortile talmente ingombro di rifiuti che faticò a superarlo.
Fairweather girò il fascio di luce della torcia elettrica intorno alla stanza principale dell’edificio. Le pareti erano d’un bianco polveroso, il soffitto era alto, con le travature scoperte sopra le stuoie come il latilla viga dei soffitti delle costruzioni di Santa Fe nel sud-ovest americano. Nei muri c’erano numerose nicchie per riporvi gli oggetti; ma erano tutte vuote. Il pavimento era completamente coperto di cocci e frammenti e i mobili erano in disordine.
A quanto pareva, non mancava nulla; sembrava più probabile che i vandali si fossero limitati a devastare la casa dopo che gli abitanti erano fuggiti abbandonando tutto. Poi scorse un mucchio d’ossa in un angolo. Quando si accorse che erano umane, incominciò a sentirsi profondamente inquieto.
Nella luce della torcia elettrica le ombre si formavano e giocavano strani scherzi alla vista. Avrebbe giurato di scorgere un grosso animale che passava rapidamente al di là di una finestra, nel cortile. Tolse la sicura del Patchett, non tanto per la paura quanto per un sesto senso che gli faceva presagire un pericolo in agguato nei vicoli ormai bui.
Un fruscio gli giunse da una porta chiusa e affacciata su una piccola terrazza. Fairweather si avvicinò senza far rumore, muovendosi in punta di piedi sul ciarpame. Se c’era qualcosa che si nascondeva là dentro, era silenzioso. Fairweather puntò il raggio della torcia davanti a sé con una mano, e con l’altra strinse il fucile semiautomatico. Poi sferrò un calcio alla porta, che si staccò dai cardini e piombò sul pavimento sollevando una nuvola di polvere.
C’era veramente qualcuno… o qualcosa? Aveva la pelle scura e sembrava un demone fuggito dall’inferno, un essere subumano, animalesco, che si dondolava sulle mani e sulle ginocchia fissando il raggio di luce con occhi folli, rossi come braci.
Fairweather indietreggiò d’istinto. L’essere si sollevò sulle ginocchia e si avventò. Con calma, il maggiore premette il grilletto, tenendo il calcio dell’arma contro i muscoli tesi dello stomaco. Una raffica di proiettili da nove millimetri a punta rotonda scaturì dalla canna con il suono soffocato del popcorn che scoppia.
L’essere mostruoso emise un suono orrendo come un conato di vomito e si accasciò con il torace squarciato. Fairweather si avvicinò, si chinò e puntò il fascio di luce. Il corpo era lurido, del tutto nudo. Gli occhi folli erano sbarrati, completamente rossi. La faccia era quella d’un ragazzo non più che quindicenne.
La paura assalì Fairweather con violenza accecante. Per lunghi attimi rimase stordito dalla consapevolezza del pericolo. Ora sapeva che cosa aveva lasciato le strane tracce sulla sabbia. Doveva esserci un’intera colonia di quegli esseri che si aggirava nel villaggio. Girò sui tacchi e corse verso la piazza del mercato. Ma ormai era troppo tardi.
Un’orda di demoni urlanti eruppe dal buio della sera e si avventò contro i turisti ignari. Gli autisti furono sommersi dall’ondata prima di poter lanciare un grido d’allarme o di tentare un gesto di difesa. I selvaggi avanzarono carponi, come sciacalli, si avventarono sui turisti inermi e li azzannarono.
L’incubo orribile, illuminato dai fari delle Land Rover, divenne una calca frenetica di corpi brulicanti in cui le urla atterrite dei turisti si mescolavano alle strida degli aggressori. La signora Lansing gettò un grido lancinante e sparì sotto un groviglio di corpi. Il marito tentò di inerpicarsi sul cofano di uno dei veicoli, ma fu trascinato nella polvere e mutilato come uno scarafaggio assalito da un esercito di formiche.
Il londinese svitò il pomo del bastone ed estrasse una corta lama. Incominciò a sferrare colpi rabbiosi e per un po’ riuscì a tenere a bada l’orda. Ma sembrava che i selvaggi non avessero paura. In pochi minuti lo sopraffecero.
L’area intorno al pozzo era occupata da corpi che lottavano. Lo spagnolo grasso, coperto di morsicature grondanti sangue, si lanciò nel pozzo per salvarsi, ma quattro degli assalitori impazziti lo seguirono.
Fairweather accorse sparando raffiche contro gli attaccanti e cercando di non colpire i suoi. L’orda, che non poteva sentire gli spari dato che l’arma aveva il silenziatore, ignorò l’intervento inaspettato: erano tutti troppo impazziti o troppo indifferenti per accorgersi dei loro compagni che venivano falciati tutt’intorno.
Fairweather riuscì a uccidere una trentina di mostri prima di esaurire i colpi. Rimase immobile, ignorato da tutti, mentre il massacro incontrollato rallentava e cessava via via che gli autisti e i clienti venivano sterminati. Non riusciva a rendersi conto della subitaneità che aveva trasformato la piazza del mercato in un mattatoio.
«Oh, Dio», mormorò con voce soffocata mentre, agghiacciato per l’orrore, guardava i selvaggi che si avventavano sui cadaveri in preda a una smania cannibalesca e azzannavano la carne delle vittime. Rimase a osservare, in preda a una sorta di morboso incantesimo che lentamente si trasformò in rabbia e indignazione per la tragedia che stava avvenendo sotto il suo sguardo. Sopraffatto dall’incubo, non riusciva a far altro che osservare l’atroce scena.
I selvaggi che non erano impegnati a dilaniare i turisti stavano già fracassando le Land Rover, sfondavano i finestrini a sassate, sfogavano la furia insaziabile su tutto ciò che appariva loro estraneo.
Fairweather indietreggiò nell’ombra, agghiacciato al pensiero di essere responsabile della morte dei suoi collaboratori e dei clienti. Non era riuscito a garantire la loro sicurezza e, inconsapevolmente, li aveva guidati verso il disastro. Imprecò contro se stesso perché non era riuscito a salvarli e non aveva avuto il coraggio di morire con loro.
Con un immane sforzo di volontà distolse l’attenzione dalla piazza e corse per le viuzze, attraversò la periferia in rovina e avanzò nel deserto. Per avvertire gli altri viaggiatori del massacro che li attendeva ad Asselar, doveva innanzi tutto salvare se stesso. La distanza che lo separava dal primo villaggio a sud era troppo grande perché potesse raggiungerlo senza acqua. Si diresse verso la pista, a est, nella speranza di trovare un veicolo di passaggio o una pattuglia governativa prima di morire sotto il sole sfolgorante.
Si orientò con la stella polare e si avviò ad andatura sostenuta attraverso il deserto. Sapeva di avere pochissime probabilità di sopravvivere. Non si voltò indietro a guardare. Rivedeva la scena con il pensiero e nelle sue orecchie echeggiavano ancora le urla strazianti delle vittime.
Le sabbie bianche della spiaggia deserta lampeggiavano sotto i piedi scalzi di Eva Rojas, e i granelli finissimi le scorrevano fra le dita. Si fermò a guardare il Mediterraneo. L’acqua profonda era color cobalto che diventava smeraldino e poi acquamarina quando le onde raggiungevano la riva.
Eva aveva guidato per oltre cento chilometri la macchina presa a nolo, dirigendosi a ovest di Alessandria, prima di fermarsi in un tratto deserto della spiaggia, non lontano dalla cittadina di El Alamein, dove era stata combattuta una delle battaglie più famose della seconda guerra mondiale. Aveva parcheggiato nei pressi della strada costiera, aveva preso la borsa e s’era avviata a piedi fra le dune basse, verso il mare.
Eva indossava un costume da bagno intero color corallo che le aderiva addosso come una seconda pelle. Le braccia e le spalle erano coperte da un giubbino in tinta. Aggraziata e leggera, aveva una figura ben proporzionata, gli arti snelli e abbronzati. I capelli d’oro rosso erano legati in una lunga treccia che le scendeva sul dorso fin quasi alla cintura e luccicava al sole come rame. Gli occhi, d’un azzurro carico, splendevano nel viso dalla pelle levigata e dagli zigomi alti. Aveva trentotto anni ma non ne dimostrava più di trenta. Non sarebbe mai finita sulla copertina di Vogue; ma era graziosa, e aveva un’aria sana e vibrante che gli uomini, anche molto più giovani di lei, trovavano affascinante.
La spiaggia sembrava deserta. Eva girò la testa e guardò avanti e indietro, lungo la costa, come una cerbiatta diffidente. L’unico segno di vita, oltre a lei, era una jeep Cherokee turchese con le lettere NUMA dipinte sulla portiera, situata a un centinaio di metri di distanza lungo la strada. L’aveva superata prima di parcheggiare. L’occupante della Cherokee non si vedeva.
Il sole mattutino aveva già scaldato la sabbia che le scottava i piedi scalzi mentre si avviava verso l’acqua. Si fermò a pochi metri dalla battigia e stese sulla sabbia un telo da spiaggia. Guardò l’ora prima di lasciar cadere l’orologio nella borsa. Si spalmò di lozione solare a fattore di protezione venticinque, poi si stese supina, sospirò e incominciò a crogiolarsi sotto il sole africano.
Soffriva ancora dell’effetto del jet lag dopo il lungo volo da San Francisco al Cairo, e delle conseguenze di quattro giorni di discussioni ininterrotte con medici e colleghi biologi sulle strane epidemie di disturbi nervosi scoperte di recente nel Sahara meridionale. S’era concessa una pausa fra una conferenza e l’altra, e adesso non chiedeva altro che immergersi in qualche ora di riposo e di solitudine prima di viaggiare nel deserto immenso per una missione di ricerca. Mentre la brezza marina le accarezzava la pelle, chiuse gli occhi e si assopì.
Quando si svegliò, consultò di nuovo l’orologio. Erano le undici e venti. Aveva dormito un’ora e mezzo. La lozione le aveva protetto la pelle, che era appena rosata. Si girò sullo stomaco e guardò la spiaggia. Due uomini in camicie a maniche corte e calzoncini kaki venivano nella sua direzione lungo la battigia. Si fermarono non appena si accorsero che li stava osservando, e si voltarono come per guardare una nave di passaggio. Erano ancora lontani duecento metri, ed Eva non badò a loro.
All’improvviso, tuttavia, qualcosa attirò la sua attenzione verso l’acqua, qualcosa che era a una certa distanza dalla riva. Una testa dai capelli neri era affiorata in superficie. Eva si riparò gli occhi dal sole con una mano e socchiuse le palpebre. Un uomo con la maschera e le pinne stava nuotando da solo nell’acqua profonda, al di là dei frangenti. Sembrava che stesse praticando la pesca subacquea. Eva lo vide reimmergersi e rimanere sott’acqua tanto a lungo da farle pensare che stesse annegando. Invece l’uomo risalì, poi continuò la caccia. Dopo diversi minuti nuotò verso la riva approfittando di un’onda favorevole per accostarsi prima di alzarsi in piedi.
Stringeva uno strano fucile subacqueo con una lunga fiocina acuminata e cerotti fissati alle estremità. Con l’altra mano reggeva un gruppo di pesci, ognuno dei quali pesava almeno un chilo e mezzo, fissati da un anello di acciaio inossidabile infilato attraverso le branchie.
Nonostante l’abbronzatura, il viso energico non aveva lineamenti arabi. I folti capelli d’ebano erano incollati alla testa dall’acqua salata e il sole faceva brillare le gocce impigliate nel pelo del petto. Era alto, solido, con le spalle ampie, e camminava con una scioltezza elegante impossibile per la maggior parte degli uomini. Eva calcolò che doveva essere prossimo alla quarantina.
Quando le passò accanto, l’uomo le lanciò un’occhiata impassibile. Era abbastanza vicino perché Eva vedesse che gli occhi distanti erano di un verde opalino, un colore che spiccava in contrasto con il bianco. La guardò con una franchezza che sembrò penetrare nella sua mente e ipnotizzarla. Una parte del suo essere temeva che l’uomo si fermasse e dicesse qualcosa, un’altra parte si augurava che lo facesse. Ma i denti candidi lampeggiarono in un sorriso affascinante mentre l’uomo le rivolgeva un cenno e proseguiva verso la strada.
Eva lo seguì con lo sguardo fino a quando sparì oltre le dune, nell’area dove stava la Cherokee della NUMA. Cosa mi ha preso? si domandò. Avrei dovuto almeno ricambiare il suo sorriso. Poi lo scacciò dalla mente; tanto, sarebbe stato tempo sprecato perché probabilmente l’uomo non conosceva l’inglese. Eppure, gli occhi le brillavano d’una luce che non vi era comparsa da molto tempo. Era strano, pensò, sentirsi di nuovo giovane ed eccitata da un maschio sconosciuto che l’aveva sbirciata solo per un attimo e che non avrebbe mai più incrociato la sua strada.
Avrebbe voluto buttarsi in acqua per rinfrescarsi; ma i due uomini che prima avevano passeggiato sulla spiaggia s’erano avvicinati e stavano transitando fra lei e il mare; perciò decise di aspettare che si fossero allontanati. Non avevano i lineamenti fini degli egiziani ma il naso piatto, la carnagione più scura, quasi nera, e i capelli ricciuti degli abitanti del margine meridionale del Sahara.
I due si fermarono e per l’ennesima volta scrutarono furtivamente la spiaggia in entrambe le direzioni. Poi si avventarono su di lei.
«Andate via!» urlò Eva d’istinto. Cercò disperatamente di lottare; ma uno dei due, un individuo dalla faccia di topo, gli occhi subdoli e i folti baffi neri, l’afferrò brutalmente per i capelli e la fece cadere riversa. Una paura gelida s’impadronì di Eva mentre l’altro uomo, con i denti macchiati di nicotina scoperti in un ghigno sadico, si lasciava cadere in ginocchio sopra le sue cosce. L’aggressore dalla faccia da topo le piombò a cavalcioni sul petto, le bloccò le braccia con le gambe e la immobilizzò sulla sabbia. Eva era prigioniera e non poteva muovere altro che le dita delle mani e i piedi.
Stranamente, non c’era libidine nei loro occhi. Nessuno dei due cercò di strapparle il costume. Non si comportavano come se avessero intenzione di violentarla. Eva urlò di nuovo, con voce alta e stridula. Ma le rispose soltanto il suono monotono della risacca.
Oltre a lei e agli assalitori, sulla spiaggia non c’era anima viva.
Poi le mani dell’uomo dalla faccia di topo le coprirono il naso e la bocca e incominciarono a soffocarla, con calma ma con decisione inflessibile. Il peso che le gravava addosso contribuiva a toglierle il respiro, e l’aria non le arrivava più ai polmoni.
In un momento di terrore ipnotico e d’incredulità, Eva si rese conto che intendevano ucciderla. Tentò di urlare di nuovo, ma la voce era smorzata. Non provava alcun dolore, ma soltanto un panico cieco e la paralisi dello shock.
Cercò disperatamente di liberarsi dalla pressione implacabile sul volto, ma aveva le braccia e le mani strette in una morsa. I suoi polmoni invocavano l’aria che non c’era. La vista cominciò a offuscarsi. Si aggrappava con angoscia alla lucidità, ma sentiva che le stava sfuggendo. Vide che l’uomo che le bloccava le cosce sbirciava al di sopra della spalla di quello che stava per ucciderla; e pensò che quella faccia ghignante sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua.
Chiuse gli occhi, ormai sull’orlo di un abisso di tenebra. Le balenò nella mente il pensiero che doveva trattarsi di un incubo, e che se avesse aperto gli occhi tutto sarebbe svanito. Dovette compiere uno sforzo immenso per alzare le palpebre e guardare per l’ultima volta la realtà.
Era davvero un incubo, pensò quasi con gioia. L’uomo dai denti macchiati non ghignava più. Una sottile asta metallica gli spuntava dalle tempie, come le frecce che si acquistano nei negozi di scherzi di carnevale, e si mettono sulla testa per dare l’impressione di avere il cranio trapassato. La faccia dell’assalitore si contrasse: un attimo dopo cadde riverso sui piedi di Eva, con le braccia spalancate.
L’altro, l’uomo dalla faccia di topo, era così intento a soffocare Eva che non si accorse neppure di quanto era accaduto al compagno. Poi, per un secondo o due, restò immobile mentre due mani robuste si materializzavano e lo stringevano, una intorno al mento, l’altra sulla fronte. Eva sentì la pressione sul naso e sulle labbra cessare di colpo quando l’uomo che aveva tentato di assassinarla alzò le braccia e cercò furiosamente di liberarsi dalla stretta. Il nuovo sviluppo inaspettato contribuì a rendere ancora più irreale l’incubo agli occhi di Eva.
Prima che il buio la inghiottisse, sentì uno scricchiolio simile a quello di una persona che stritola fra i denti un cubetto di ghiaccio, ed ebbe la visione fuggevole degli occhi dell’aggressore, spalancati, sporgenti e sbarrati nella testa che era stata girata di 360 gradi.
Eva rinvenne. Il sole caldo le batteva sul viso. Rinvenne e sentì il suono delle onde che battevano sulla spiaggia africana. Quando aprì le palpebre, vide lo spettacolo più bello di tutta la sua vita.
Si scosse con un gemito e socchiuse gli occhi per scrutare la spiaggia abbagliante, il magnifico panorama assolato e tranquillo. Si levò a sedere di scatto e spalancò gli occhi per la paura, terrorizzata al ricordo improvviso dell’aggressione. Ma i mancati assassini non c’erano più. Erano esistiti davvero? Incominciò a chiedersi se si era trattato di un’allucinazione.
«Bentornata», disse una voce maschile. «Avevo paura che fosse in coma.»
Eva si voltò e vide la faccia sorridente del sub che stava inginocchiato dietro di lei.
«Dove sono gli uomini che hanno cercato di uccidermi?» chiese in tono spaventato.
«Se ne sono andati con la marea», rispose lo sconosciuto con gelida gaiezza.
«La marea?»
«Mi è stato insegnato a non lasciare mai i rifiuti su una spiaggia. Ho rimorchiato i cadaveri oltre la fascia della risacca. L’ultima volta che li ho visti, andavano alla deriva verso la Grecia.»
Eva lo fissò, scossa da un brivido. «Li ha uccisi.»
«Non erano due tipi per bene.»
«Li ha uccisi», ripeté Eva, stordita. Era cinerea in viso e sembrava sul punto di vomitare. «Ha ucciso a sangue freddo, proprio come loro.»
L’uomo si accorse che Eva era ancora sotto l’effetto dello shock e che la sua mente era ancora sconvolta. La donna aveva gli occhi colmi di ripugnanza. Lui alzò le spalle e chiese, semplicemente: «Avrebbe preferito che non intervenissi?»
La paura e la ripugnanza sparirono dagli occhi di Eva e lasciarono il posto all’apprensione. Impiegò almeno un minuto per rendersi conto che lo sconosciuto l’aveva salvata da una morte violenta. «No, la prego, mi perdoni. Mi comporto da stupida. Le devo la vita e non so neppure come si chiama.»
«Dirk Pitt.»
«E io, Eva Rojas.» Eva si sentiva stranamente agitata mentre l’uomo le sorrideva cordialmente e le stringeva la mano. Lesse nei suoi occhi una premura sincera, e anche l’apprensione l’abbandonò. «È americano?»
«Sì, e faccio parte della NUMA, la National Underwater and Marine Agency. Stiamo effettuando un’esplorazione archeologica del fiume Nilo.»
«Credevo che se ne fosse andato prima che mi aggredissero.»
«Stavo per andarmene, infatti, ma i suoi amici mi avevano incuriosito. Mi sembrava strano che avessero parcheggiato la macchina a un chilometro di distanza e si fossero avviati a piedi lungo una spiaggia deserta per venire nella sua direzione. Quindi mi sono soffermato per vedere che intenzioni avessero.»
«È stata una fortuna, per me, che lei sia un tipo sospettoso.»
«Ha un’idea del motivo per cui volevano ucciderla?» chiese Pitt.
«Dovevano essere banditi che uccidono i turisti per rapinarli.»
Pitt scosse la testa. «Il movente non era la rapina. Non erano armati. Quello che ha cercato di strangolarla usava le mani, non una corda o un pezzo di stoffa. E non hanno tentato di violentarla. Non erano sicari professionisti, altrimenti saremmo morti entrambi. È molto strano. Scommetterei un mese di stipendio che erano manovali assoldati da qualcuno che la voleva morta. L’hanno seguita in questo posto isolato con l’intenzione di assassinarla e poi di versarle in gola e nel naso l’acqua marina. Poi avrebbero abbandonato il suo corpo sulla linea dell’alta marea per far credere che si fosse trattato di un annegamento. E questo spiegherebbe perché volevano soffocarla.»
Eva rispose esitando: «Non riesco a crederlo. Mi sembra così assurdo. Non ha senso. Sono soltanto una biochimica, specializzata negli effetti delle sostanze tossiche sugli esseri umani. Non ho nemici. Perché qualcuno dovrebbe volere la mia morte?»
«Dato che ci siamo appena conosciuti, non riesco a immaginarlo.»
Eva si massaggiò leggermente le labbra doloranti. «È davvero pazzesco.»
«È in Egitto da molto tempo?»
«Da pochi giorni.»
«Deve aver fatto qualcosa che ha mandato in bestia qualcuno.»
«Non ho fatto niente a nessun nordafricano», disse Eva. «Se mai, sono venuta ad aiutarli.»
Pitt fissò pensosamente la sabbia. «Allora non è qui in vacanza.»
«No, sono venuta per lavoro», rispose Eva. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata informata di certe strane anormalità fisiche e di certi disturbi psicologici fra i popoli nomadi del Sahara meridionale. Faccio parte di un team internazionale di scienziati che sono stati mandati a indagare.»
«Non mi sembra un movente per un omicidio», ammise Pitt.
«Sì, è sconcertante. I miei colleghi e io siamo venuti per salvare vite umane. Non rappresentiamo un pericolo.»
«Ritiene che l’epidemia diffusa nel deserto sia dovuta alle tossine?»
«Ancora non lo sappiamo. Non disponiamo di dati sufficienti per giungere a una conclusione. In apparenza la causa sembra un disturbo da contaminazione, ma la fonte è un mistero. Non esistono fabbriche di prodotti chimici o depositi di rifiuti pericolosi in un raggio di centinaia di chilometri dalle zone in cui vengono segnalati i sintomi.»
«È un problema molto diffuso?»
«Negli ultimi dieci giorni si sono avuti più di ottomila casi nelle nazioni africane del Mali e del Niger.»
Pitt inarcò le sopracciglia. «È un numero incredibile per un periodo di tempo così breve. Come fate a sapere che non siano dovuti a batteri o a virus?»
«Gliel’ho già detto: la fonte è ancora sconosciuta.»
«È strano che i mass media non ne abbiano parlato.»
«L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto di mantenere il silenzio fino a che non sarà stata accertata la causa. Immagino che l’abbia fatto per evitare i sensazionalismi e il diffondersi del panico.»
Pitt aveva continuato a lanciare occhiate sulla spiaggia, di tanto in tanto. Notò un movimento al di là delle dune basse che orlavano la strada. «Che progetti avete?»
«Il mio team partirà domattina per il Sahara. Cominceremo le indagini sul campo.»
«Saprete, spero, che il Mali è sull’orlo di quella che potrebbe diventare una sanguinosa guerra civile.»
Eva alzò le spalle, noncurante. «Il governo si è impegnato a proteggere i nostri ricercatori.» S’interruppe e lo fissò per un lungo istante. «Perché mi fa tutte queste domande? Si comporta come un agente segreto.»
Pitt rise. «Sono soltanto un ingegnere marittimo molto curioso che detesta chi va in giro cercando di assassinare le belle donne.»
«Potrebbe essersi trattato di uno sbaglio di persona?» chiese lei, speranzosa.
Pitt la scrutò dai piedi alla testa e la fissò negli occhi. «Non lo credo possibile…» All’improvviso si tese e si alzò, osservando le dune. Contrasse i muscoli, poi si chinò, afferrò Eva per un polso e la fece alzare. «Andiamo», disse, e la trascinò di corsa attraverso la spiaggia.
«Che cosa fa?» chiese Eva, mentre lo seguiva incespicando.
Pitt non rispose. Il movimento dietro le dune s’era trasformato in un filo di fumo che si addensava e saliva nel cielo del deserto. Era evidente che un altro delinquente, o forse più d’uno, aveva dato fuoco alla macchina noleggiata da Eva per tenerli bloccati in attesa dei rinforzi.
Adesso si vedevano le fiamme. Se avesse preso il fucile subacqueo…? No, non si faceva illusioni. Non gli sarebbe servito per tener testa a un’arma da fuoco. L’unica, esile speranza era che anche il complice degli assassini fosse disarmato e non avesse visto la Cherokee.
Aveva ragione per quanto riguardava la prima supposizione, e torto per la seconda. Quando superarono l’ultima duna, Pitt vide un uomo dalla pelle scura che stringeva in mano un giornale acceso e arrotolato a mo’ di torcia. Lo sconosciuto stava sfondando a calci il parabrezza per appiccare il fuoco all’interno della jeep. Non era vestito come gli altri: portava un complicato copricapo avvolto in modo da lasciar scoperti soltanto gli occhi, ed era avviluppato in una specie di caffettano fluente che gli ondeggiava intorno ai sandali. Non si accorse che Pitt si avvicinava rimorchiando Eva.
Pitt si fermò e le bisbigliò all’orecchio: «Se non ce la faccio, corra alla strada e chieda un passaggio alla prima macchina che passa». Poi, a voce alta: «Fermo!»
Sbalordito, l’uomo si voltò di scatto con un’espressione sorpresa ma minacciosa negli occhi. Nello stesso attimo in cui lanciò il grido, Pitt abbassò la testa e si buttò alla carica. L’uomo tese davanti a sé il giornale incendiato, ma Pitt l’aveva già colpito al petto con una testata. Lo sterno si spezzò e si sentì lo scricchiolio delle costole fratturate. Contemporaneamente, Pitt sferrò il pugno destro contro l’inguine dell’avversario.
Negli occhi dello sconosciuto la minaccia lasciò il posto allo shock. Poi un rantolo di sofferenza gli uscì dalla bocca spalancata assieme all’aria contenuta nei polmoni. L’attacco lo spinse all’indietro e lo fece volare in aria.
La torcia accesa passò roteando sopra il dorso di Pitt e piombò nella sabbia. L’espressione dell’uomo passò dallo shock alla sofferenza e al terrore. La faccia divenne di colpo paonazza e congestionata. Appena toccò il suolo, Pitt gli si inginocchiò accanto e gli frugò le tasche. Non trovò nulla: né armi, né documenti d’identità. Neppure qualche spicciolo o un pettinino.
«Chi ti ha mandato, amico?» chiese Pitt, mentre lo afferrava per la gola e lo scuoteva come un dobermann che ha catturato un sorcio.
La reazione non fu quella che si aspettava. Nonostante la sofferenza atroce, l’uomo gli lanciò uno sguardo sinistro… Uno sguardo che, stranamente, era quello di chi è riuscito ad avere l’ultima parola. Poi sogghignò mettendo in mostra una chiostra di denti bianchi… Ma un dente mancava. Le mascelle si aprirono leggermente, quindi si strinsero. Troppo tardi, Pitt comprese che aveva addentato una letale compressa di cianuro rivestita di gomma, nascosta sotto forma di un dente falso.
La schiuma filtrò dalle labbra dell’uomo. Il veleno era potentissimo; la morte fu rapida. Pitt ed Eva rimasero ad assistere, impotenti, mentre le forze lo abbandonavano. Gli occhi rimasero spalancati, resi vitrei dalla morte.
«È…?» Eva s’interruppe e ritentò. «È morto?»
«Credo si possa dire che è spirato», rispose Pitt senz’ombra di rimorso.
Eva gli si aggrappò al braccio per sostenersi. Nonostante il sole africano aveva le mani gelide e rabbrividiva. Era sconvolta. Non aveva mai visto morire nessuno. Si sentì assalire dalla nausea ma riuscì a dominare i conati di vomito.
«Ma perché si è ucciso?» mormorò. «A che scopo?»
«Per proteggere altri coinvolti nel fallito tentativo di assassinarla», rispose Pitt.
«Si è ucciso per non parlare?» chiese lei, incredula.
«Un fanatico, fedele al suo padrone», spiegò Pitt a voce bassa. «Sospetto che, se non avesse preso il cianuro di sua volontà, qualcuno l’avrebbe aiutato a farlo.»
Eva scosse la testa. «È una pazzia. Lei sta parlando d’una cospirazione.»
«Si renda conto della realtà, mia cara. Qualcuno si è dato molto da fare per eliminarla.» Pitt la fissò: gli sembrava una bambina spersa in una grande città. «Ha un nemico che non la vuole in Africa; e se desidera continuare a vivere, le consiglio di salire sul primo aereo in partenza per gli Stati Uniti.»
Eva lo guardò, stordita. «No, finché qui c’è gente che muore.»
«È dura da convincere, eh?» commentò lui.
«Si metta nei miei panni.»
«Meglio ancora, nei panni dei suoi colleglli. È possibile che anche loro siano nell’elenco delle persone da eliminare. Sarà meglio che torniamo al Cairo e li avvertiamo. Se questa storia ha qualche legame con le vostre ricerche e le vostre indagini, anche loro sono in pericolo.»
Eva abbassò lo sguardo sul morto. «Cosa intende fare di costui?»
Pitt alzò le spalle. «Buttarlo nel Mediterraneo con i suoi amici.» Poi un sorriso diabolico gli spuntò sul viso rude. «Mi piacerebbe vedere la faccia del mandante quando saprà che i suoi sicari sono spariti senza lasciar traccia e che lei continua ad andare in giro come se niente fosse.»
I funzionari della sede della Backworld Expeditions al Cairo compresero che doveva essere successo qualcosa quando la comitiva di turisti partita per il «Safari nel Sahara» non arrivò puntuale alla favolosa città di Timbuctu. Ventiquattr’ore più tardi, i piloti degli aerei noleggiati per riportare i turisti a Marrakesh in Marocco incominciarono i voli di ricerca al nord, ma non videro traccia dei veicoli.
I timori si aggravarono quando, dopo tre giorni, continuarono a non arrivare notizie del maggiore Fairweather. Le autorità governative del Mali furono avvertite e collaborarono in pieno, inviando pattuglie di veicoli motorizzati e aerei a seguire il percorso attraverso il deserto previsto per il convoglio.
Il panico incominciò a regnare quando, nel corso di una ricerca intensiva che si protrasse per quattro giorni, i maliani non avvistarono anima viva e neppure le Land Rover. Un elicottero militare sorvolò Asselar e riferì di non aver visto altro che un villaggio morto e abbandonato.
Poi, il settimo giorno, una squadra di francesi che stava svolgendo una prospezione petrolifera in direzione sud, lungo la pista Transahariana, incontrò il maggiore Ian Fairweather. Il cielo era vuoto sopra la piana rocciosa. Il sole bruciava la sabbia e le onde di calore tremolavano nell’aria. I geologi francesi rimasero sbalorditi quando una apparizione confusa si presentò in mezzo al miraggio. Per un momento l’immagine parve aleggiare, poi ingrandì e rimpicciolì, assumendo proporzioni grottesche nell’aria rovente e capricciosa.
Quando le distanze si ridussero, i francesi distinsero qualcuno che agitava le braccia come un pazzo e veniva barcollando verso di loro. Poi l’uomo si fermò, ondeggiò come un turbine di vento e si accasciò lentamente sulla sabbia. Sconvolto, l’autista del camion Renault rischiò di frenare troppo tardi e fu costretto a sterzare per evitarlo. Si fermò in un vortice di polvere.
Fairweather era più morto che vivo. Era gravemente disidratato e il sudore gli si era incrostato addosso in uno strato sottile di cristalli di sale. Riprese i sensi quasi subito, quando i francesi riuscirono a versargli un po’ d’acqua nella bocca gonfia. Quattro ore più tardi, reidratato dall’ingestione di quasi dieci litri d’acqua, riuscì a raccontare con voce spezzata come era scampato al massacro di Asselar.
All’unico francese della squadra che capiva l’inglese, il racconto sembrava l’invenzione di un ubriaco… ma la convinzione con cui il maggiore si esprimeva sembrava incrollabile. Dopo una breve discussione, i soccorritori caricarono con cura Fairweather a bordo del camion e si diressero verso Gao. Arrivarono poco prima di notte e raggiunsero subito l’ospedale.
Dopo essersi assicurati che Fairweather fosse sistemato in un letto e assistito da un medico e da un’infermiera, i francesi giudicarono doveroso informare il capo delle forze della sicurezza locali; fu loro chiesto di scrivere un rapporto particolareggiato mentre il colonnello che comandava la sede di Gao avvertiva i suoi superiori a Bamako, la capitale.
Con loro grande sorpresa e indignazione, i francesi furono arrestati e incarcerati. La mattina dopo arrivò da Bamako un team di agenti che li interrogarono separatamente sul loro incontro con Fairweather. Le loro richieste di mettersi in contatto con il consolato francese furono ignorate. Quando i geologi rifiutarono di collaborare, l’interrogatorio assunse una piega sgradevole.
I francesi non erano i primi uomini che erano entrati nella sede cittadina dei servizi di sicurezza e che nessuno aveva mai più rivisto.
Quando i dirigenti della compagnia petrolifera, a Marsiglia, non ricevendo comunicazioni dalla loro squadra, si preoccuparono, pretesero che venisse effettuata una ricerca. Le forze della sicurezza maliane si affrettarono a rastrellare di nuovo il deserto, ma riferirono di aver trovato soltanto il camion Renault abbandonato.
I nomi dei geologi francesi e dei turisti dispersi della Backworld Expeditions furono semplicemente aggiunti all’elenco degli stranieri scomparsi e periti nell’immenso deserto.
Il dottor Haroun Madani stava sulla scalinata dell’ospedale di Gao, sotto il portico di mattoni ornato da fregi indecifrabili. Guardava nervosamente la strada polverosa che passava fra le vecchie costruzioni coloniali e le case a un solo piano di mattoni d’argilla. La brezza del nord portava un velo di sabbia sulla città che un tempo era stata capitale di tre grandi imperi, ma che adesso era soltanto la reliquia decaduta del colonialismo francese.
La chiamata alla preghiera della sera scendeva sulla città dai minareti della moschea. I fedeli non venivano più invitati alle devozioni da un muezzin che saliva la stretta scala del minareto e salmodiava dall’alto della balconata. Adesso il muezzin restava al piano terreno e innalzava le preghiere ad Allah e al profeta Maometto per mezzo di microfoni e altoparlanti.
A poca distanza dalla moschea, la luna a tre quarti si specchiava nel Niger. Ampio, spettacolare, con la corrente lenta e dolce, il fiume non era che l’ombra del suo corso d’un tempo. Era stato possente e profondo, ma i decenni di siccità ne avevano ridotto la portata, e adesso era un corso d’acqua relativamente modesto, solcato da flotte di piccole imbarcazioni a vela chiamate pinnaces. Una volta le sue acque avevano lambito la base della moschea; adesso fluivano torpide a circa due isolati di distanza.
Il popolo del Mali era un miscuglio dei discendenti dei francesi e dei berberi, che avevano la pelle più chiara degli arabi e dei mori del deserto dalla carnagione bruna, e degli africani, neri. Il dottor Madani era nero come il carbone. Aveva lineamenti negroidi, con gli occhi d’ebano incassati profondamente e il naso largo e schiacciato. Era un uomo sulla cinquantina, possente ma un po’ ingrassato in vita, con la testa massiccia e la mascella quadrata.
I suoi antenati erano schiavi mandingo, portati al nord dai marocchini che avevano invaso il territorio nel 1591. Quand’era bambino, i suoi genitori avevano coltivato le ricche terre a sud del Niger. Era stato allevato da un maggiore della Legione Straniera francese che l’aveva fatto studiare a Parigi, alla facoltà di medicina. Madani non aveva mai saputo perché e come fosse avvenuto tutto questo.
Il medico si irrigidì quando vide apparire in fondo alla strada i fari gialli di una automobile vecchia e rarissima. La macchina avanzò lungo la strada dissestata; l’elegante carrozzeria rosso-magenta offriva uno strano contrasto con le squallide, austere strutture di argilla. La Sédan Avions Voisin del 1936 aveva un’aria di dignitosa eleganza. La linea era una bizzarra combinazione di aerodinamica pre-seconda guerra mondiale, arte cubista e stile Frank Lloyd Wright. Era alimentata da un motore a sei cilindri silenzioso e resistente. Era un capolavoro dell’ingegneria, e un tempo era appartenuta al governatore generale, quando il Mali faceva parte dell’Africa occidentale francese.
A Madani quell’auto era assai familiare. Quasi tutti gli abitanti delle città del Mali conoscevano la macchina e il suo padrone, e rabbrividivano innervositi nel vederla passare. Il medico notò che era seguita da un’ambulanza militare e sospettò che ci fosse qualche problema. Si avvicinò e aprì la portiera posteriore mentre l’autista si fermava senza far rumore.
Un ufficiale d’alto rango si alzò dal sedile e scese. Era magro e indossava un’uniforme confezionata su misura, con le pieghe taglienti come lame. Diversamente da altri pezzi grossi africani sbilanciati da una massa enorme di medaglie e decorazioni, il generale Zateb Kazim sfoggiava solo un nastrino vede e oro sul petto della giacca. Intorno alla testa portava una versione ridotta del litham, il velo color indaco dei tuareg. Il viso aveva la carnagione color cioccolata e i lineamenti scolpiti dei mori, e gli occhi erano minuscoli punti di topazio circondati da oceani bianchi. Sarebbe parso quasi bello, se non fosse stato per il naso: anziché essere diritto e regolare, terminava in una punta rotonda e spiovente sui baffi radi che si prolungavano sino ai lati delle guance.
Il generale Zateb Kazim sembrava un cattivo uscito da un vecchio cartone animato della Warner Brothers. Non c’erano altri modi per descriverlo.
Con aria solenne e pomposa si tolse dall’uniforme un invisibile granello di polvere. Poi si degnò di prendere atto della presenza del dottor Madani con un vago cenno del capo.
«È pronto per il trasferimento?» chiese in tono misurato.
«Il signor Fairweather si è ripreso completamente dalla brutta avventura», rispose Madani. «Ora è sotto l’effetto dell’anestetico.»
«Ha visto o parlato con qualcuno da quando i francesi l’hanno portato qui?»
«L’abbiamo assistito soltanto io e un’infermiera d’una tribù di Tukulor che parla esclusivamente dialetto fulah. Non ha avuto altri contatti. Ho eseguito gli ordini ricevuti e l’ho fatto sistemare in una stanza privata, togliendolo dalla corsia. Posso aggiungere che tutta la documentazione relativa alla sua permanenza è stata distrutta.»
Kazim sembrava soddisfatto. «Grazie, dottore. Le sono riconoscente per la collaborazione.»
«Posso chiedere dove lo porterà?»
Il sorriso di Kazim sembrava il ghigno d’un teschio. «A Tebezza.»
«Non dirà sul serio!» mormorò Madani. «Non lo porterà nelle miniere d’oro della colonia penale di Tebezza! Solo i traditori e gli assassini vi vengono mandati a morire. Quell’uomo è un cittadino straniero. Cos’ha fatto per meritare una morte lenta nelle miniere?»
«Non ha molta importanza.»
«Che reato ha commesso?»
Kazim squadrò il suo interlocutore come se lo giudicasse un insetto fastidioso. «Non lo chieda», disse freddamente.
Un pensiero agghiacciante passò nella mente di Madani. «E i francesi che hanno incontrato Fairweather e l’hanno portato qui?»
«Hanno avuto lo stesso destino.»
«Nessuno di loro sopravvivrà più di qualche settimana nelle miniere.»
«È meglio che limitarsi a giustiziarli», rispose Kazim alzando le spalle. «È meglio che lavorino per quel po’ di vita che gli resta, così almeno fanno qualcosa di utile. Una riserva aurea è importante per la nostra economia.»
«Lei è un uomo molto pratico, generale», disse Madani. Sentiva in bocca l’amaro di quelle parole servili. Il potere sadico di Kazim, giudice, giuria e boia, era una realtà ben nota della vita del Mali.
«Mi fa piacere che sia d’accordo, dottore.» Kazim fissò Madani come se fosse un detenuto sul banco degli imputati. «Per la sicurezza del nostro Paese le consiglio di dimenticare il signor Fairweather e di cancellare ogni ricordo della sua presenza.»
Madani annuì. «Come desidera.»
«Le auguro che nessun male colpisca la sua gente e i suoi averi.»
Il medico aveva capito alla perfezione il pensiero di Kazim Le parole del saluto rituale dei nomadi avevano colpito nel segno. Madani aveva una famiglia numerosa. Finché fosse stato zitto, tutti sarebbero vissuti in pace. L’alternativa… era meglio non pensarci.
Qualche minuto più tardi Fairweather, debitamente anestetizzato, fu portato fuori dell’ospedale su una barella sorretta da due agenti del servizio di sicurezza e caricato a bordo dell’ambulanza. Il generale rivolse a Madani un saluto distratto e salì a bordo della Citroen.
Mentre i due veicoli si allontanavano nella notte, una paura agghiacciante scorse nelle vene del dottor Madani. Si sorprese a domandarsi a quale terribile tragedia aveva partecipato involontariamente. Poi si augurò di non saperlo mai.
In una delle suite affrescate del Nile Hilton, seduto su un divano di cuoio, il dottor Frank Hopper ascoltava con attenzione. Sulla poltrona al di là del tavolino, Ismail Yerli fumava pensosamente una pipa di schiuma con il fornello intagliato a forma di una testa inturbantata di sultano.
Nonostante i rumori del traffico del Cairo che filtravano attraverso le finestre chiuse, Eva non riusciva ancora ad accettare l’incubo dell’a faccia a faccia con la morte. Il subconscio aveva già cominciato a offuscare il ricordo. Ma la voce del dottor Hopper la riportò al presente, alla realtà della sala per le conferenze.
«Sei assolutamente sicura che quegli uomini volessero ucciderti?»
«Assolutamente», rispose Eva.
«Secondo la tua descrizione, erano negri africani», disse Ismail Yerli.
Eva scosse la testa. «Non ho detto che erano negri, ma solo che avevano la pelle scura. I lineamenti del viso erano più aguzzi, più definiti… Sembravano ibridi fra arabi e indiani. Quello che ha incendiato la mia macchina indossava una tunica sciolta e un copricapo complicato. Ho potuto vedere soltanto gli occhi d’ebano e il naso aquilino.»
«Il copricapo era di cotone, avvolto diverse volte intorno alla testa e al mento?» chiese Yerli.
Eva annuì. «Sembrava un pezzo di stoffa molto lungo.»
«E il colore?»
«Azzurro. Un azzurro cupo, quasi come l’inchiostro.»
«Indaco?»
«Sì», rispose Eva. «Direi che indaco è la parola esatta.»
Per qualche istante Ismail Yerli rimase chiuso in una riflessione silenziosa. Era il coordinatore e l’esperto di logistica del team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Magro e solido, efficiente, con un amore quasi patologico per i dettagli, era un individuo abile e dotato di una grande esperienza politica. Veniva dalla città portuale mediterranea di Antalya, in Turchia, e vantava di avere nelle vene sangue curdo, perché era nato e cresciuto in Cappadocia. Era musulmano ma non molto osservante: da anni non metteva piede in una moschea. Come molti altri turchi aveva una folta, ruvida capigliatura nera, accompagnata da sopracciglia ispide che si congiungevano sopra il naso e da un paio di baffi enormi. Aveva un’indole spiritosa che non l’abbandonava mai, ma la bocca, sempre schiusa in un sorriso, nascondeva un temperamento molto serio.
«Tuareg», sentenziò alla fine.
Aveva parlato a voce così bassa che Hopper si tese per sentire meglio. «Chi?»
Yerli alzò gli occhi verso il canadese che era responsabile del team. Hopper era un uomo tranquillo che parlava poco e ascoltava molto: il suo esatto contrario, pensò il turco. Hopper era grande e grosso, con la faccia rubizza e una gran barba. Per sembrare il vichingo Erik il Rosso gli mancavano soltanto la scure da combattimento e l’elmo conico ornato di corna. Scrupoloso e ricco di risorse, era considerato, dagli esperti internazionali del suo campo, uno dei due massimi tossicologi del mondo.
«Tuareg», ripeté Yerli. Un tempo erano stati i potenti guerrieri nomadi del deserto e avevano vinto grandi battaglie contro gli eserciti dei francesi e dei mori. E forse erano stati anche i più grandi banditi romantici. Ma ora non facevano più scorrerie: allevavano capre e mendicavano nelle città ai margini del Sahara per poter sopravvivere. Diversamente dagli arabi musulmani, fra loro erano gli uomini a portare il velo, un drappo che misurava più d’un metro di lunghezza.
«Ma perché una tribù nomade del deserto voleva eliminare Eva?» chiese Hopper. «Non ne vedo il motivo.»
Yerli scosse la testa. «Sembra che almeno uno di loro non la voglia qui. E, inoltre, non dimentichiamo un particolare importante: gli altri team che stanno indagando sugli avvelenamenti da tossine nel deserto sud-occidentale.»
«A questo punto del nostro progetto», disse Hopper, «non sappiamo neppure se la colpa sia della contaminazione. La malattia misteriosa potrebbe avere una causa virale o batterica.»
Eva annuì. «È quel che ha detto anche Pitt.»
«Chi?» domandò Hopper per la seconda volta.
«Dirk Pitt, l’uomo che mi ha salvato la vita. Anche lui ha detto che qualcuno non mi vuole in Africa. E anche che tutti voi potreste figurare nell’elenco delle persone da eliminare.»
Yerli alzò le mani. «Incredibile. Quello pensa che abbiamo a che fare con la mafia.»
«È stata una fortuna che fosse nelle vicinanze», commentò Hopper.
Yerli lanciò una nuvola di fumo azzurrino dalla pipa di schiuma e la fissò con aria assorta. «È stata una coincidenza più che opportuna, tenendo conto che era l’unico estraneo presente su quel lungo tratto di costa e che ha avuto il coraggio di affrontare un terzetto di assassini. È stato quasi un miracolo oppure…» Yerli prolungò di proposito la pausa. «Oppure una presenza premeditata.»
Eva sgranò gli occhi con un’espressione scettica. «Se stai pensando che si sia trattato d’una messa in scena, Ismail, puoi scordartelo.»
«Forse ha inscenato la commedia per spaventarti e convincerti a tornare negli Stati Uniti.»
«L’ho visto uccidere tre uomini. Credetemi, non è stata una commedia.»
«Si è fatto vivo con te dopo averti accompagnata all’albergo?» chiese Hopper.
«Ha lasciato soltanto un messaggio per invitarmi a cenare con lui questa sera.»
«E tu continui a credere che fosse un buon samaritano di passaggio», insistette Yerli.
Eva non gli badò. Si rivolse a Hopper. «Pitt mi ha detto di essere in Egitto per un’esplorazione archeologica del Nilo organizzata dalla National Underwater and Marine Agency. Non ho molti motivi per dubitarne.»
Hopper si rivolse a Yerli. «Questo dovrebbe essere piuttosto facile da accertare.»
Yerli annuì. «Telefonerò a un amico; è un biologo marino della NUMA.»
«Ma l’interrogativo continua a essere uno: perché?» mormorò Hopper, quasi distrattamente.
Il turco scrollò le spalle. «Se il tentativo di uccidere Eva faceva parte di una cospirazione, può darsi che si inserisca in un piano per spaventarci e costringerci a rinunciare alla missione.»
«Sì, ma abbiamo cinque diversi team di ricercatori, ognuno composto da sei membri, che si stanno dirigendo verso il deserto meridionale. Si sparpaglieranno in cinque nazioni, dal Sudan alla Mauritania. Nessuno ha imposto la nostra presenza: sono stati i rispettivi governi a chiedere aiuto per trovare una soluzione alla strana malattia che dilaga nelle loro terre. Siamo stati invitati come ospiti, non siamo nemici indesiderati.»
Yerli lo fissò. «Stai dimenticando una cosa, Frank. C’era un governo che non voleva saperne di noi.»
Hopper annuì, scuro in volto. «Hai ragione. Avevo dimenticato il presidente Tahir del Mali. Ha esitato molto prima di permetterci di varcare i suoi confini.»
«Probabilmente è stato il generale Kazim», disse Yerli. «Tahir è un presidente-fantoccio. È Zateb Kazim, l’uomo che detiene veramente il potere.»
«E che cos’ha contro un gruppo di innocui biologi che cercano solo di salvare vite umane?» chiese Eva.
Yerli allargò le braccia. «Forse non lo sapremo mai.»
«Mi sembra una coincidenza significativa», disse Hopper a bassa voce, «il fatto che molte persone, soprattutto europei, siano sparite con troppa regolarità, durante l’ultimo anno, nel deserto del Mali settentrionale.»
«Come la comitiva di turisti di cui parlano i giornali», commentò Eva.
«La loro sorte è ancora un mistero», soggiunse Yerli.
«Non posso credere che ci sia un legame fra quella tragedia e l’aggressione contro Eva», disse Hopper.
«Ma se supponiamo che nel caso di Eva il mandante sia il generale Kazim, sarebbe logico che le sue spie avessero scoperto che fa parte del team di biologi assegnato al Mali. E una volta accertato questo fatto, Kazim potrebbe aver ordinato di ucciderla per convincere il resto del team a stare alla larga dal suo territorio.»
Eva rise. «Con un’immaginazione come la tua, Ismail, potresti fare fortuna a Hollywood come sceneggiatore.»
Yerli aggrottò le folte sopracciglia nere. «Penso che dovremmo essere cauti e tenere al Cairo il team del Mali fino a che le indagini saranno completate e il mistero risolto.»
«Questa è una reazione esagerata», disse Hopper a Yerli. «Che cosa consigli, Eva? Annullare la missione o procedere?»
«Io rischierei», rispose la donna. «Ma non posso parlare a nome degli altri componenti del team.»
Hopper fissò il pavimento e annuì. «Allora chiederemo volontari. Non me la sento di annullare la missione in Mali quando laggiù vi sono centinaia e forse migliaia di persone che muoiono d’un male inspiegabile. Io stesso guiderò il team.»
«No, Frank!» esclamò Eva. «E se succedesse il peggio? Sei troppo prezioso perché possiamo permetterci di perderti.»
«È vostro dovere riferire l’accaduto alla polizia prima di partire alla cieca», insistette Yerli.
«Sii serio, Ismail», disse Hopper in tono spazientito. «Se ci rivolgiamo alla polizia locale, quelli sono capaci di trattenerci e di ritardare l’intera missione. Potremmo trovarci impegolati per un mese con una montagna di pretesti. Non ho nessuna intenzione di finire nelle grinfie di una burocrazia meridionale!»
«Le mie conoscenze potrebbero abbreviare tutte le pratiche», protestò il turco.
«No», dichiarò Hopper, irriducibile. «Voglio che tutti i team salgano sugli aerei che abbiamo noleggiato e partano come stabilito per le rispettive destinazioni.»
«Allora andremo domattina», disse Eva.
Hopper annuì. «Niente ripensamenti e niente scuse. Domattina entreremo in azione.»
«E così metterai in pericolo molte vite», mormorò Yerli.
«No, se provvederò ad assicurarmi.»
Il turco lo guardò senza capire. «Di che assicurazione stai parlando?»
«Una conferenza stampa. Prima di partire, convocherò tutti i corrispondenti stranieri e tutte le agenzie di notizie del Cairo e spiegherò i nostri progetti con particolare riferimento al Mali. Naturalmente accennerò ai pericoli potenziali. E allora, in considerazione della pubblicità internazionale che circonderà la nostra presenza nel Paese, il generale Kazim ci penserà due volte prima di minacciare le vite di un gruppo di scienziati impegnati in una missione di solidarietà.»
Yerli sospirò. «Mi auguro che vada proprio così, per il vostro bene. Me lo auguro sinceramente.»
Eva gli sedette accanto. «Andrà tutto bene», dichiarò con calma. «Non ci accadrà niente.»
«Davvero non posso far niente per dissuadervi? Dovete proprio partire?»
«Migliaia di esseri umani potrebbero morire, se non andassimo», disse Hopper.
Yerli li guardò tristemente, poi chinò la testa, rassegnato. Era impallidito.
«Allora spero che Allah vi protegga. Se non lo farà, per voi sarà sicuramente la fine.»
Pitt era nell’atrio del Nile Hilton quando Eva uscì dall’ascensore. Indossava un completo di popeline nocciola con la giacca a doppio petto; la camicia era celeste, e la cravatta, elegantissima, di seta blu a fregi minutissimi neri e dorati.
Con aria disinvolta, le mani strette dietro la schiena, la testa leggermente inclinata, Pitt stava studiando una bella e giovane egiziana dai capelli corvini e dall’abito aderentissimo di lustrini dorati che attraversava sfolgorando l’atrio al braccio di un uomo tre volte più vecchio di lei, e chiacchierava incessantemente. Il didietro abbondante oscillava come un melone appeso a un pendolo.
Nell’espressione di Pitt non c’era nulla che facesse pensare al desiderio: osservava la scena con distaccata curiosità. Eva gli andò alle spalle e gli posò la mano sul gomito. «Ti piace?» domandò con un sorriso.
Pitt si voltò a guardarla con gli occhi più verdi che lei avesse mai visto, e incurvò le labbra in un sorriso un po’ sghembo che la colpì dritta al cuore. «Diciamo che fa capire a tutti che cos’è.»
«È il tuo tipo?»
«No. Preferisco le donne serie e intelligenti.»
Ha una voce profonda e gentile, pensò Eva. Aspirò un vago sentore di colonia per uomo: non il tipo pungente prodotto dalle aziende francesi per le etichette degli stilisti famosi, ma un profumo più mascolino. «Spero di poterlo interpretare come un complimento.»
«Lo è.»
Eva arrossì e abbassò istintivamente gli occhi. «Domattina partirò presto con l’aereo e quindi non posso fare tardi, stasera.» Dio, pensò, è spaventoso. Mi comporto come una ragazzina che incontra il suo cavaliere al ballo delle matricole.
«È un vero peccato. Avevo in progetto di stare in giro tutta la notte e di mostrarti ogni covo d’iniquità e ogni tana del peccato di tutto il Cairo. Tutti i posti esotici che i turisti non frequentano.»
«Dici sul serio?»
Pitt rise. «Non proprio. Anzi, pensavo che sarebbe meglio cenare nel tuo albergo e tenerci lontani dalle strade. I tuoi amici potrebbero riprovarci.»
Eva girò lo sguardo nell’atrio affollato. «C’è parecchia gente. Saremmo fortunati se trovassimo un tavolo libero.»
«Ho prenotato», disse Pitt. La prese per mano e la condusse nell’ascensore che saliva al lussuoso ristorante all’ultimo piano dell’hotel.
Come molte altre donne, Eva apprezzava gli uomini capaci di tenere in pugno una situazione. E le piaceva il modo in cui Pitt le teneva stretta la mano durante la salita: con delicatezza ma anche con decisione.
Il maître li scortò a un tavolo accanto a una vetrata che offriva una veduta spettacolosa del Cairo e del Nilo. Un universo di luci brillava nella foschia serotina. I ponti sul fiume erano intasati da automobili strombazzanti che si riversavano per le vie e si mescolavano ai furgoni a cavalli per le consegne e alle carrozzelle per turisti.
«Se non preferisci un cocktail», disse Pitt, «propongo di optare per il vino.»
Eva annuì con un sorriso soddisfatto. «D’accordo. Perché non ordini anche le portate?»
«Mi piacciono le anime avventurose», rispose lui. Studiò per qualche attimo la lista dei vini. «Proviamo una bottiglia di Grenaclis Village.»
«È ottimo», assicurò il cameriere. «È uno dei nostri migliori vini bianchi secchi di produzione locale.»
Pitt ordinò come antipasti una salsa di semi di sesamo macinati accompagnata da melanzane fritte, un piatto a base di yogurt chiamato leban zabadi e un vassoietto di verdure in salamoia con un cestino di pane integrale, il pita.
Quando arrivò il vino, Pitt alzò il bicchiere. «Brindo a una spedizione fortunata e senza incidenti. E ti auguro di trovare tutte le spiegazioni che state cercando.»
«Alle tue esplorazioni nel fiume», replicò Eva mentre brindavano. Nei suoi occhi apparve un’espressione incuriosita. «Che cosa state cercando?»
«Relitti di antichi naufragi. Uno in particolare, un vascello funerario.»
«Mi sembra interessante. Si tratta di un personaggio che conosco?»
«Un re dell’Antico Impero che si chiamava Menkaurê, meglio noto come Micerino, se preferisci la traslitterazione greca. Apparteneva alla Quarta Dinastia e costruì la più piccola delle tre piramidi di El Giza.»
«Non fu sepolto nella sua piramide?»
«Nel 1830 un colonnello dell’esercito britannico scoprì una salma in un sarcofago della camera sepolcrale, ma un’analisi dei resti dimostrò che proveniva dal periodo romano o al massimo da quello greco.»
Erano arrivati gli antipasti, e Pitt ed Eva li guardarono con interesse. Intinsero le fette di melanzana fritta nella salsa di sesamo e gustarono le verdure in salamoia. Al cameriere in attesa, Pitt ordinò le pietanze.
«Perché pensi che Menkauré sia finito nel fiume?» chiese Eva.
«Le iscrizioni geroglifiche su una stele scoperta di recente in una vecchia cava presso il Cairo indicano che il suo vascello funerario s’incendiò e affondò nel fiume fra l’antica capitale, Menfi, e la piramide di El Giza. Secondo la stele, il vero sarcofago, che conteneva la mummia e un’immensa quantità di oggetti d’oro, non fu mai recuperato.»
Arrivò lo yogurt, denso e cremoso, ed Eva lo scrutò con aria esitante.
«Assaggialo», invitò Pitt. «Il leban zabadi non è soltanto più gustoso dello yogurt americano, ma mette in sesto l’intestino.»
«Vorrai dire che lo mette sottosopra.» Eva assaggiò con la punta della lingua una minuscola quantità di yogurt che aveva preso con il cucchiaio e poi, favorevolmente impressionata, incominciò a mangiarlo di gusto. «E cosa succederà se troverete il vascello funerario? Potrete tenere l’oro?»
«Oh, no», rispose Pitt. «Quando i nostri strumenti avranno indicato un bersaglio promettente, marcheremo la posizione e la segnaleremo agli archeologi dell’Intendenza egiziana per le antichità. Loro si procureranno i fondi necessari e provvederanno a effettuare gli scavi o, in questo caso, il dragaggio.»
«Il relitto non giace sul fondo del fiume?» chiese Eva.
Pitt scosse la testa. «È stato interamente coperto dai sedimenti di quarantacinque secoli.»
«E a che profondità pensi che si trovi?»
«Non saprei dirlo con esattezza. I dati storici e geologici indicano che il canale principale della sezione del fiume dove effettuiamo i rilevamenti si è spostato di un centinaio di metri verso est dopo il 2400 avanti Cristo. Se l’imbarcazione si trova nei pressi di una riva, potrebbe essere sotto uno strato di sabbia e fango profondo dai tre ai dieci metri.»
«Ho fatto bene a darti ascolto, lo yogurt è molto buono.»
Il cameriere ritornò con diversi piatti da portata ovali su un grande vassoio d’argento. Gli spiedini d’agnello alle spezie e i gamberi grigliati furono serviti con una verdura simile agli spinaci e a un saporitissimo pilaf di carne bovina, riso, uva passa e noci. Dopo aver consultato il cameriere fin troppo premuroso, Pitt ordinò alcune salse piccanti.
«Dunque, quali strani disturbi intendi studiare nel deserto?» chiese poi mentre il cameriere riempiva i loro piatti.
«Le segnalazioni arrivate dal Mali e dalla Nigeria sono troppo frammentarie per poter dare un giudizio. Abbiamo sentito parlare dei soliti sintomi di tossicosi. Neonati con menomazioni gravi, convulsioni, crisi epilettiche, coma e morte. E notizie di disturbi psichici e di comportamenti bizzarri. L’agnello è davvero squisito.»
«Prova una delle salse. Questa è di bacche fermentate e si armonizza alla perfezione con l’agnello.»
«Cos’è quella verde?»
«Non lo so esattamente. Ha un gusto dolce e piccante al tempo stesso. Prova a intingervi i gamberi.»
«Deliziosa», esclamò Eva. «Tutto quanto ha un sapore meraviglioso. A parte quella specie di spinaci. Sono troppo forti.»
«Si chiamano moulukeyeh. Bisogna farci la bocca, per apprezzarli. Ma, per tornare alla tossicosi… Che genere di comportamento bizzarro?»
«Le vittime si strappano i capelli, battono la testa contro il muro, immergono le mani nel fuoco. Si aggirano nude come animali, corrono carponi, e divorano i loro morti, come se fossero diventate cannibali. Questo riso è molto buono. Come si chiama?»
«Khalta.»
«Mi piacerebbe avere la ricetta dallo chef.»
«Credo che sia possibile», disse Pitt. «Ho capito bene? Le persone contagiate mangiano carne umana?»
«La reazione dipende molto dalla cultura», spiegò Eva mentre affrontava il khalta. «Gli abitanti del Terzo Mondo, per esempio, sono abituati agli animali macellati più di quanto lo sia la gente degli Stati Uniti e dell’Europa. Oh, sicuro, ogni tanto noi vediamo qualche incidente d’auto, ma loro vedono gli animali scuoiati e appesi nei mercati, o assistono mentre i padri macellano le capre e le pecore della tribù. I bambini imparano presto a catturare e a uccidere conigli, scoiattoli o uccelli; li spellano e li sventrano per metterli a cuocere. La crudeltà primitiva e la vista del sangue e degli intestini sono fatti quotidiani per coloro che vivono in povertà. Devono uccidere per sopravvivere. Ma poi, un quantitativo anche minuscolo di tossine letali, quando viene digerito e assorbito dal loro organismo per un lungo periodo di tempo, causa un deterioramento del cervello, del cuore e del fegato, degli intestini e persino del codice genetico. I sensi si offuscano e sopravviene la schizofrenia. I codici morali e i modelli di comportamento si disgregano. Non agiscono più come esseri umani normali. Per loro, uccidere e divorare un parente appare di colpo accettabile come tirare il collo a una gallina e prepararla per la cena. Deliziosa, la salsa dal sapore di chutney.»
«Sì, è molto buona.»
«Soprattutto con il khalta. Noi esseri civili, d’altra parte, compriamo la carne già tagliata e preparata nei supermercati. Non vediamo i bovini uccisi con un maglio elettronico, le pecore e i maiali con la gola tagliata. Ci perdiamo il divertimento. Quindi siamo più condizionati a esprimere semplicemente paura, ansia e infelicità. Qualcuno, magari, può far saltare in aria una casa e ammazzare i vicini in una crisi di pazzia. Ma non mangeremmo mai un altro essere umano.»
«Che tipo di tossine esotiche può causare questi problemi?» chiese Pitt.
Eva bevve il vino e attese che il cameriere le riempisse di nuovo il bicchiere. «Non è necessario che siano esotiche. Anche il comune avvelenamento da piombo può spingere la gente a fare cose strane. Inoltre fa scoppiare i capillari e diventare rosso-barbatietola il bianco degli occhi.»
«Hai un po’ di spazio per il dessert?» chiese Pitt.
«È tutto così buono… Un po’ di spazio lo troverò.»
«Caffè o tè?»
«Caffè all’americana.»
Pitt fece un cenno al cameriere che accorse come uno sciatore lanciato sulla neve fresca. «Un Um Ali per la signora e due caffè. Uno americano, uno egiziano.»
«Cos’è l’Um Ali?» volle sapere Eva.
«Un budino caldo di pane impastato con il latte e guarnito di pinoli. Assesta lo stomaco dopo un pasto pesante.»
«Mi sembra l’ideale.»
Pitt si appoggiò alla spalliera della sedia con un’espressione preoccupata. «Hai detto che partirai domani. Hai dunque ancora intenzione di andare nel Mali?»
«Insisti nel recitare il ruolo di protettore?»
«Viaggiare nel deserto può essere molto pericoloso. Il caldo non sarà l’unico nemico. Là fuori c’è qualcuno che vuole uccidere te e i tuoi generosi colleghi.»
«E il mio prode cavaliere dall’armatura splendente non sarà lì a salvarmi», obiettò Eva con una punta di sarcasmo. «Non mi spaventi. So badare a me stessa.»
Pitt la fissò con una sfumatura di tristezza negli occhi. «Non saresti la prima donna che dopo aver detto così è finita all’obitorio.»
In una sala da ballo, in un’altra parte dell’albergo, il dottor Frank Hopper stava per concludere la conferenza stampa. C’era parecchia gente: un piccolo esercito di corrispondenti che rappresentavano i quotidiani occidentali e quattro agenzie stampa lo tempestava di domande sotto i riflettori della televisione egiziana.
«Ritiene che l’inquinamento sia molto diffuso, dottor Hopper?» chiese una inviata della Reuters.
«Non lo sapremo fino a che i nostri team non saranno sul posto e non avranno avuto il modo di studiare l’epidemia.»
Un uomo armato di registratore alzò la mano. «Si conosce la fonte del contagio?»
Hopper scosse la testa. «In questo momento non sappiamo da dove provenga.»
«È possibile che sia dovuto all’impianto francese di smaltimento di rifiuti tossici che si trova nel Mali?»
Hopper si accostò a una carta geografica del Sahara meridionale appoggiata a un grande cavalletto, prese una bacchetta, la puntò su una desolata regione desertica nella zona nord del Mali. «L’impianto francese si trova qui, a Fort Foureau, a oltre duecento chilometri dall’area più vicina in cui sono stati segnalati casi di contaminazione. È troppo lontano perché possa essere la fonte diretta.»
Si alzò il corrispondente dello Spiegel. «L’inquinamento non potrebbe essere portato dai venti?»
Hopper scosse la testa. «Non è possibile.»
«Come fa a esserne sicuro?»
«Durante le fasi della progettazione e della costruzione, i miei colleghi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e io siamo stati consultati dagli ingegneri della Massarde Entreprises de Energie Solaire, proprietaria dell’impianto. Tutti i rifiuti pericolosi vengono distrutti mediante l’energia solare e ridotti in vapori innocui. La produzione viene controllata di continuo. Non restano emissioni tossiche che possano venire trasportate dal vento e giungere a causare infezioni a centinaia di chilometri di distanza.»
Un giornalista della televisione egiziana allungò il microfono verso Hopper. «Avete la collaborazione delle nazioni del deserto in cui contate di operare?»
«Quasi tutte ci hanno invitati a braccia aperte», fu la risposta di Hopper.
«Poco fa ha accennato a una certa riluttanza da parte del presidente Tahir del Mali a concedere al suo team il permesso di operare nel Paese.»
«È vero. Ma quando saremo sul posto e daremo prova delle nostre intenzioni umanitarie, prevedo che cambierà idea.»
«Quindi non teme di esporsi a pericoli curiosando negli affari del governo di Tahir?»
La voce di Hopper si caricò di collera. «Il vero pericolo sta nella mentalità sbagliata dei suoi consiglieri, i quali fingono che la malattia non esista per il semplice fatto che ufficialmente la ignorano.»
«Tuttavia lei pensa che il suo team non correrà rischi viaggiando nel Mali?» chiese la corrispondente della Reuters.
Hopper sorrise soddisfatto. Le domande dei giornalisti avevano assunto la direzione che sperava. «Se dovesse accadere una tragedia, signore e signori dei media, sono certo che provvederete a indagare e ad additare i colpevoli allo sdegno e alla riprovazione del mondo.»
Dopo cena, Pitt accompagnò Eva fino alla porta della sua stanza. Lei pasticciò nervosamente con la chiave. Si sentiva insicura. Aveva un motivo, si disse, per invitarlo a entrare. Glielo doveva… e lo desiderava. Ma seguiva i princìpi della vecchia scuola, e le era difficile correre a letto con ogni uomo che mostrava interesse per lei, anche se quest’uomo le aveva salvato la vita.
Pitt notò il lieve rossore che le saliva dal collo al volto, e la guardò negli occhi, azzurri come i deli dei mari del Sud. La prese per le spalle e l’attirò dolcemente a sé. Eva si tese un po’ ma non resistette. «Rimanda la partenza.»
Eva girò la testa. «Non posso.»
«Forse non ci rivedremo più.»
«Sono legata al mio lavoro.»
«E quando sarai libera?»
«Tornerò dalla mia famiglia a Pacific Grove, in California.»
«È una zona molto bella. Ho partecipato spesso con una macchina d’epoca al concorso d’eleganza di Pebble Beach.»
«In giugno è splendido», disse Eva. Le tremava un po’ la voce.
Pitt sorrise. «Allora saremo tu, io e la baia di Monterey.»
Era come se fossero diventati amici durante un viaggio in mare: un breve interludio che aveva gettato i semi di un’attrazione reciproca. Pitt la baciò dolcemente e indietreggiò. «Stai alla larga dai guai. Non voglio perderti.»
Poi si girò e si avviò verso gli ascensori.
Da secoli e secoli gli egiziani e la vegetazione combattono per conservare una fascia preziosa di territorio fra le acque azzurro-peltro del Nilo e le sabbie giallobrunastre del Sahara. Fra tutti i grandi fiumi del mondo, il Nilo, che scorre per 6500 chilometri dalle sorgenti nell’Africa centrale fino al Mediterraneo, è l’unico che fluisca verso nord. Antichissimo, onnipresente, sempre vivo, il Nilo è estraneo nell’arido paesaggio nordafricano come potrebbe esserlo nell’atmosfera fumante del pianeta Venere.
Lungo il fiume era arrivata la stagione torrida. Il caldo pesava sull’acqua come una coltre opprimente che avanzava dall’immenso deserto occidentale. All’alba, il sole saliva dall’orizzonte con l’affondo rovente di un attizzatoio e spandeva una leggera brezza simile al soffio uscito da una fornace aperta.
La serenità del passato incontrò la tecnologia del presente quando una feluca a vela latina, con quattro ragazzi a bordo, incrociò l’agile imbarcazione da ricerca dotata degli apparecchi elettronici più sofisticati. Per nulla infastiditi dal caldo, i ragazzi risero e si sbracciarono per salutare l’imbarcazione color turchese che discendeva il fiume.
Pitt alzò gli occhi dallo schermo ad alta risoluzione del subbottom profiler e rispose al saluto affacciandosi dal grande oblò. Il tremendo caldo esterno non lo infastidiva: l’interno del vascello per le ricerche aveva l’aria condizionata, e lui stava comodamente seduto davanti agli apparecchi di rilevamento computerizzati, bevendo un tè freddo. Seguì con lo sguardo la feluca per qualche istante e provò quasi un senso d’invidia per i ragazzi che si muovevano svelti sul ponte e spiegavano la vela per approfittare della brezza che soffiava in senso contrario alla corrente.
Poi concentrò di nuovo l’attenzione sul monitor quando un’anomalia incominciò a insinuarsi sullo schermo in immagini colorate. Il sensore verticale del subbottom profiler registrava un contatto a una certa profondità, sotto i sedimenti del fondo. In un primo momento apparve come un grumo indistinto, ma quando l’immagine fu ingrandita automaticamente incominciò a delinearsi il contorno di una nave antica.
«Siamo sul bersaglio», riferì Pitt. «Segna: numero novantaquattro.»
Al Giordino batté un codice sulla console. Immediatamente la configurazione del fiume, le costruzioni artificiali e le caratteristiche naturali oltre la riva apparvero sul display. Un altro codice, e il sistema di posizionamento laser via satellite indicò con estrema precisione l’ubicazione dell’immagine in rapporto al paesaggio circostante.
«Numero novantaquattro tracciato e registrato», annunciò Giordino.
Basso, bruno, compatto come una colonna di cemento, Albert Giordino aveva due scintillanti occhi color noce sotto una criniera disordinata di riccioli neri. Se avesse avuto una barba fluente e un sacco di giocattoli, pensava spesso Pitt, Giordino avrebbe potuto essere la versione etnisca di un giovane Babbo Natale.
Era straordinariamente svelto per un uomo così muscoloso e sapeva battersi come una tigre; tuttavia soffriva le pene dell’inferno quando era costretto a chiacchierare con le donne. Giordino e Pitt si conoscevano dai tempi in cui avevano frequentato insieme le medie superiori; poi avevano giocato a rugby all’Accademia Aeronautica e avevano prestato servizio nelle ultime fasi della guerra del Vietnam. A un certo momento della loro carriera, su richiesta dell’ammiraglio James Sandecker, direttore capo della National Underwater and Marine Agency, erano stati prestati temporaneamente alla NUMA… Un «prestito» che ormai durava da nove anni.
Nessuno dei due ricordava quante volte aveva salvato la vita all’altro o almeno l’aveva tolto da una situazione imbarazzante, magari in conseguenza di qualche bravata. Ma le loro imprese, sopra e sotto il mare, erano diventate leggendarie e avevano dato a entrambi una fama che non li entusiasmava.
Pitt si tese per mettere a fuoco uno schermo isometrico digitale. Il computer fece ruotare l’immagine tridimensionale e mostrò nei minimi particolari la nave sepolta. La sagoma e le dimensioni furono registrate e comunicate a un data processor, che le comparò con i fattori noti sulle imbarcazioni antiche del Nilo egiziano. In pochi secondi il computer analizzò il profilo e nella parte inferiore dello schermo comparvero i dati sulla costruzione del vascello.
«Sembra una nave da carico della Sesta Dinastia», disse Pitt. «Costruita fra il 2000 e il 2200 avanti Cristo.»
«In che condizioni è?» chiese Giordino.
«Ottime», rispose Pitt. «Come le altre che abbiamo trovato, è stata ben conservata dai sedimenti. Lo scafo e il timone sono ancora intatti, e riesco a distinguere l’albero steso attraverso il ponte. A che profondità si trova?»
Giordino studiò lo schermo. «Sotto due metri d’acqua e otto di sedimenti.»
«Metalli?»
«Niente che il magnetometro a protoni riesca a individuare.»
«Non mi meraviglia affatto, dato che il ferro rimase sconosciuto in Egitto fin verso il dodicesimo secolo avanti Cristo. Vedi qualcosa sullo scan dei metalli non ferrosi?»
Giordino regolò una manopola della console. «Non molto. Qualche infisso di bronzo. Con ogni probabilità è un relitto abbandonato.»
Pitt studiò l’immagine della nave che era affondata nel fiume quaranta secoli prima. «È interessante: la linea di questi vascelli è rimasta in pratica immutata per tremila anni.»
«Come la loro arte», commentò Giordino.
Pitt si voltò a guardarlo. «L’arte?»
«Hai mai notato che il loro stile artistico rimase sempre lo stesso dalla prima alla Trentesima Dinastia?» pontificò Giordino. «Persino le posizioni delle figure non cambiarono. Diavolo, in tutto quel tempo non capirono mai che potevano rappresentare un occhio umano da un lato disegnandolo a metà. E poi parlano di tradizione! In questo gli egizi erano maestri.»
«Da quando sei diventato esperto di egittologia?»
Giordino alzò le spalle con aria saputa. «Oh, ho imparato un po’ qua e un po’ là.»
Pitt non si lasciò ingannare. Giordino aveva un occhio molto attento ai particolari: difficilmente gli sfuggiva qualcosa, come dimostrava la sua osservazione sull’arte egiziana a proposito di un elemento che il novantanove per cento dei turisti non notava e che le guide non nominavano mai.
Giordino finì la birra e si passò sulla fronte la bottiglia ancora fredda. Puntò l’indice sul relitto quando il battello da ricerca vi passò sopra e l’immagine incominciò a uscire dallo schermo. «È difficile credere che abbiamo trovato novantaquattro imbarcazioni affondate dopo aver esplorato poco più di tre chilometri di fiume. Ce ne sono addirittura a strati di tre, una sopra l’altra.»
«Non è incredibile, se pensi per quante migliaia di anni si è navigato sul Nilo», osservò Pitt. «Le imbarcazioni di tutte le civiltà, se erano fortunate, resistevano vent’anni prima di venire distrutte da tempeste, incendi o collisioni. E quelle sopravvissute di solito finivano per marcire dimenticate da tutti. Fra il delta e Khartum, il Nilo conta più vascelli affondati per chilometro quadrato di qualunque altro luogo della terra. E per la felicità degli archeologi, i relitti si sono conservati perché i sedimenti li hanno coperti. Potrebbero durare altri quattromila anni prima di venire ripescati.»
«Non c’è traccia di carico», notò Giordino mentre sbirciava al di sopra della spalla di Pitt la nave che spariva. «Come hai detto tu, è probabile che non servisse più a niente e che i proprietari la lasciassero marcire e affondare.»
Il pilota dell’imbarcazione addetta alle ricerche, Gary Marx, continuava a tener d’occhio l’ecoscandaglio mentre scrutava il fiume. Alto, biondo, con un paio di limpidi occhi celesti, indossava soltanto calzoncini, sandali e un cappellaccio di paglia. Girò la testa e annunciò, storcendo la bocca: «Abbiamo finito la corsa, Dirk».
«Benissimo», rispose Pitt. «Torna indietro. Facciamo un altro passaggio, il più possibile vicino alla riva.»
«Stiamo quasi toccando il fondo», osservò Marx, per nulla preoccupato. «Se ci avviciniamo ancora, saremo costretti a farci rimorchiare da un trattore.»
«Non è il caso di diventare isterici», disse Pitt in tono asciutto. «Torna indietro, procedi rasente la riva e stai attento che il sensore non si impigli.»
Marx portò l’imbarcazione nel canale principale, eseguì un’ampia virata a U, e la condusse parallela alla riva, a una distanza non superiore a cinque-sei metri. Quasi immediatamente i sensori individuarono un altro relitto. Il profilo dato dal computer indicava che si trattava della nave personale di un nobile del Medio Regno, durato dal 2052 al 1786 avanti Cristo.
Lo scafo era più snello di quello dei mercantili, e nella parte posteriore c’era un’elegante cabina. Erano visibili i resti del parapetto che circondava il ponte; sul lato di tribordo un ampio squarcio rivelava che il vascello era affondato dopo una collisione.
Altre otto navi antiche furono scoperte sotto i sedimenti e debitamente registrate prima che i sensori facessero centro.
Pitt si raddrizzò e fissò attentamente un’immagine, molto più grande di tutte le precedenti, che stava scivolando attraverso il monitor. «Abbiamo trovato una nave reale!» esclamò.
«Segno la posizione», disse Giordino. «Sei sicuro che ci sia scritto sopra ‘faraone’?»
«In questo momento abbiamo l’immagine più chiara. Dai un’occhiata.»
Giordino studiò la sagoma che ingrandiva. «Mi pare promettente. Non c’è traccia di un albero, ed è troppo grande per poter essere appartenuta a qualcuno che non fosse un re.»
Lo scafo era lungo e affusolato alle due estremità. La poppa era scolpita a forma di testa di falco, l’emblema del dio egizio Horus, ma l’estrema sezione della prua mancava. L’ingrandimento ad alta risoluzione offerto dal computer rivelava che le fiancate erano ornate da più di mille geroglifici incisi. Anche la cabina reale era scolpita sontuosamente, e dai lati spuntavano file di remi spezzati. Il timone era massiccio, simile a una gigantesca pagaia fissata al fianco della poppa. Ma l’oggetto che colpiva di più l’attenzione era la grande forma rettangolare sulla piattaforma centrale. Anche quella era scolpita.
I due uomini trattennero il respiro mentre il computer continuava a ronzare. Poi il profilo si compose sullo schermo.
«Un sarcofago di pietra», esclamò Giordino in uno slancio inconsueto di eccitazione. «Abbiamo trovato un sarcofago.» Tornò in fretta alla sua console e controllò i dati. «Lo scan dei metalli non ferrosi segnala quantità ingenti di metallo all’interno della cabina e del sarcofago.»
«L’oro del faraone Macerino», mormorò Pitt.
«La data?»
«2600 avanti Cristo. La configurazione corrisponde», annunciò Pitt con un gran sorriso. «E l’analisi del computer mostra la presenza di legno bruciato nella parte anteriore: la prua era bruciata.»
«Allora abbiamo trovato la nave funeraria di Menkaurê.»
«Non scommetterei certo il contrario», disse Pitt, con aria esultante.
Marx ancorò il vascello da ricerca sopra il punto del naufragio. Per sei ore Pitt e Giordino assoggettarono la nave funeraria a tutta una serie di rilevamenti elettronici e accumularono un’ampia documentazione sulle sue condizioni e sulla posizione per riferire alle autorità egiziane.
«Dio, vorrei tanto che potessimo far entrare una telecamera nella cabina e nel sarcofago.» Giordino stappò un’altra birra; ma era così emozionato che dimenticò di berla.
«Le bare interne del sarcofago dovrebbero essere intatte», rifletté Pitt. «Ma è molto probabile che l’umidità abbia rovinato la mummia. In quanto ai manufatti… Chissà? Potrebbero equivalere ai tesori di Tutankhamon.»
«Menkaurè era molto più importante di lui. Dovette portarsi nell’aldilà ben altre ricchezze.»
«Be’, tanto noi non le vedremo», disse Pitt, stiracchiandosi. «Saremo morti e sepolti da un pezzo prima che gli egiziani stanzino la somma necessaria per recuperare e conservare il relitto nel museo del Cairo.»
«Abbiamo visite», li avvertì Marx. «Una nave del servizio fluviale egiziano si sta avvicinando.»
«Qui le notizie si diffondono molto presto», commentò Giordino con aria incredula. «Chi può averli avvertiti?»
«È un normale controllo», disse Pitt. «Passeranno al centro del canale navigabile.»
«Stanno puntando diritti verso di noi», li informò Marx.
«Alla faccia del normale controllo», borbottò Giordino.
Pitt si alzò e prese un raccoglitore da uno scaffale. «Sono venuti a ficcanasare. Salirò sul ponte per mostrargli i permessi dell’Intendenza.»
Uscì dalla cabina nell’aria rovente e si fermò sul ponte scoperto di poppa. La spuma dell’onda di prua si smorzò in una serie di increspature, il rombo metallico dei diesel gemelli passò al folle, la motovedetta grigia si affiancò a meno d’un metro di distanza.
Pitt si aggrappò alla ringhiera mentre l’onda faceva dondolare il vascello e rimase a guardare con noncuranza: due marinai, con l’uniforme della Marina egiziana, si sporsero dalla fiancata, tenendo a distanza la motovedetta con i grappini imbottiti. Scorse il capitano all’interno della timoniera e rimase un po’ sorpreso nel vedere che alzava una mano in un saluto amichevole ma non accennava a salire a bordo. La sua sorpresa si trasformò in sbalordimento quando un ometto magro e solido balzò dalla frisata e atterrò sul ponte davanti a lui.
Pitt lo guardò, incredulo. «Rudi! Da dove diavolo arrivi?»
Rudi Gunn, il vicedirettore della NUMA, sorrise e gli strinse energicamente la mano. «Da Washington. Sono atterrato all’aeroporto del Cairo meno di un’ora fa.»
«E che cosa ti porta sul Nilo?»
«Mi ha mandato l’ammiraglio Sandecker per togliere te e Al dal progetto in corso. Un aereo della NUMA ci aspetta per condurci a Port Harcourt, dove incontreremo l’ammiraglio.»
«Dov’è Port Harcourt?» chiese Pitt.
«Sul delta del Niger. In Nigeria.»
«Che fretta c’è? Potevi informarci via satellite. Perché ti sei precipitato a venire qui di persona?»
Gunn agitò le mani. «Non lo so. L’ammiraglio non mi ha spiegato il motivo della segretezza e neppure di questa urgenza diabolica.»
E se Rudi Gunn non sapeva cosa aveva in mente Sandecker, allora non lo sapeva nessuno. Efficiente, esperto di logistica, Gunn si era diplomato all’accademia di Annapolis ed era stato comandante di Marina. Poi era passato alla NUMA contemporaneamente a Pitt e Giordino. Magro, le spalle strette, Gunn scrutava il mondo attraverso un paio di occhiali dalla montatura d’osso e sfoggiava quasi sempre un sorriso malizioso. Giordino lo paragonava a un agente del fisco sul punto di incastrare un evasore.
«Sei arrivato al momento giusto», disse Pitt. «Entra, qui c’è troppo caldo. C’è qualcosa che voglio mostrarti.»
Giordino voltava le spalle alla porta quando Pitt e Gunn entrarono. «Cosa volevano quei rompiscatole?» chiese in tono irritato.
«Volevano che tu crepassi», rispose Gunn ridendo.
Giordino si girò di scatto, riconobbe il visitatore e lo squadrò, sbalordito. «Oh, santo cielo!» Si alzò e strinse la mano a Gunn. «Cosa sei venuto a fare?»
«Sono venuto a trasferirvi a un altro progetto.»
«Che tempismo!»
«Lo penso anch’io», esclamò Pitt sorridendo.
«Salve, signor Gunn», disse Gary Marx affacciandosi nella cabina. «Lieto di averla a bordo.»
«Salve, Gary.»
«Sono trasferito anch’io?»
Gunn scosse la testa. «No, lei deve continuare a occuparsi di questo lavoro. Dick White e Stan Shaw arriveranno domani per rimpiazzare Dirk e Al.»
«È tempo sprecato», disse Marx. «Qui siamo pronti a concludere.»
Gunn guardò Pitt con aria interrogativa; poi comprese e sgranò gli occhi. «La nave funeraria del faraone?» mormorò. «L’avete trovata?»
«Un colpo di fortuna», spiegò Pitt. «Appena al secondo giorno di lavoro.»
«Dove?» chiese Gunn.
«Ci stai sopra in questo momento, in un certo senso. La nave è nove metri sotto la nostra chiglia.»
Pitt mostrò il modello digitale isometrico del relitto sul monitor del computer. Le ore necessarie a definire l’immagine colorata si concretizzarono in una visione vivida e particolareggiata di ogni metro quadrato della nave millenaria.
«Indescrivibile», mormorò Gunn, affascinato.
«Abbiamo registrato anche la posizione di oltre cento relitti che vanno dal 2800 avanti Cristo al 1000 della nostra era», soggiunse Giordino.
«Congratulazioni a tutti e tre», esclamò soddisfatto Gunn. «Avete ottenuto risultati straordinari, degni di comparire sui libri di storia. Il governo egiziano vi coprirà di medaglie.»
«E l’ammiraglio?» chiese Giordino. «Lui di cosa ci coprirà?»
Gunn distolse gli occhi dal monitor e li guardò con un’espressione divenuta di colpo serissima. «Vi affibbierà un lavoro rognoso, sospetto.»
«Non ha lasciato capire di cosa si tratta?» insistette Pitt.
«Non ha detto niente che avesse un senso preciso.» Gunn fissò il soffitto e si concentrò. «Quando gli ho chiesto la ragione di tanta urgenza, ha citato qualche verso. Non ricordo le parole esatte. Parlava dell’ombra di una nave e di rossa acqua stregata…»
«’I suoi bagli irridevano il mare afoso’», citò Pitt. «’Come la brina d’aprile: ma come s’estendeva l’ombra immane della nave, l’acqua incantata bruciava d’un rosso spaventoso.’ È una strofa della Ballata del vecchio marinaio di Samuel Coleridge.»
Gunn guardò Pitt con aria di rispetto. «Non sapevo che conoscessi così bene le poesie.»
Pitt rise. «Ho semplicemente imparato a memoria qualche verso, ecco tutto.»
«Chissà cos’ha in mente quel diavolo di Sandecker?» rifletté Giordino. «Fare il misterioso non è nello stile del vecchio avvoltoio.»
«No», ammise Pitt, un po’ a disagio. «Non è affatto nel suo stile.»
Il pilota dell’elicottero della Massarde Entreprises si stava dirigendo a nord-est dopo essere partito dalla capitale, Bamako. Per due ore e mezzo il territorio desolato continuò a scorrere sotto di lui come uno scenario in miniatura incollato su un rotolo. Dopo due ore notò il riflesso del sole, in lontananza, sui binari d’acciaio. Si abbassò e incominciò a seguire le rotaie che sembravano proseguire verso il nulla.
La ferrovia, completata appena il mese prima, terminava nell’immenso stabilimento di smaltimento di rifiuti tossici che sorgeva nel cuore del deserto maliano. L’impianto si chiamava Fort Foureau, come un fortino della Legione Straniera francese abbandonato da molto tempo e situato a parecchi chilometri di distanza. Dal luogo dello stabilimento, i binari si estendevano per milleseicento chilometri quasi in linea retta, superavano il confine ed entravano in Mauritania prima di terminare nel porto artificiale di Capo Tafarit sull’oceano Atlantico.
Il generale Kazim, nel lussuoso comfort dell’elicottero, guardava la scena dall’alto mentre il pilota raggiungeva e superava un lungo convoglio di vagoni sigillati per il trasporto di rifiuti tossici, trainato da due motrici diesel. Il treno era diretto verso la Mauritania, dopo aver vuotato il suo carico mortale.
Il generale sorrise subdolamente, distolse lo sguardo dal treno e fece un cenno allo steward che gli riempì di nuovo il bicchiere di champagne e gli porse un vassoio di hors d’œuvres.
I francesi, pensò Kazim, non restavano mai a corto di champagne, tartufi e pâté. Li considerava una razza piuttosto ottusa che aveva cercato, senza troppa convinzione però, di costruire e mantenere un impero. La maggioranza della popolazione doveva aver sospirato di sollievo quando era stata costretta a rinunciare ai suoi avamposti in Africa e in Estremo Oriente. In fondo lo irritava che i francesi non fossero spariti completamente dal Mali. Anche se, nel 1960, avevano tagliato il guinzaglio, la loro influenza e il dominio sull’economia erano rimasti intatti: i francesi esercitavano un controllo foltissimo sulla maggior parte delle attività minerarie e industriali, sui trasporti e sull’energia. Molti uomini d’affari francesi prevedevano di fare buoni investimenti e acquistavano cospicue partecipazioni nelle iniziative maliane. Ma nessuno aveva affondato il badile nelle sabbie del Sahara più profondamente di Yves Massarde.
Massarde, che un tempo era stato il mago delle rappresentanze commerciali dell’Oltremare francese, si era creato una nicchia molto redditizia sfruttando i suoi contatti e la sua influenza per impadronirsi delle società più malandate dell’Africa occidentale. Era un negoziatore abile e duro che usava metodi da tagliagola; a quanto si diceva, non era alieno dal ricorrere alle tattiche più brutali per concludere un affare. Si calcolava che la sua ricchezza ammontasse a due o forse tre miliardi di dollari, e il progetto per lo smaltimento dei rifiuti tossici a Fort Foureau nel Sahara era la colonna portante del suo impero.
L’elicottero arrivò sopra l’immenso complesso, e il pilota girò intorno al perimetro perché Kazim potesse osservare dall’alto gli impianti di smaltimento di rifiuti tossici e la sterminata distesa degli specchi parabolici che raccoglievano l’energia solare e la convogliavano nei ricevitori, creando sessantamila incredibili soli con temperature che salivano fino a 5000 gradi centigradi. L’energia fotonica surriscaldata veniva poi diretta ai reattori fotochimici che distruggevano le molecole delle sostanze pericolose.
Il generale aveva visto tutto già diverse volte, e adesso era interessato soprattutto a scegliere un altro bocconcino di pâté di fegato d’oca tartufato. Stava finendo il sesto bicchiere di Veuve Clicquot quando finalmente l’elicottero si posò davanti agli uffici tecnici dell’impianto.
Kazim scese a terra e salutò Félix Verenne, l’assistente personale di Massarde, che attendeva sotto il sole. Era una soddisfazione vedere che il francese soffriva terribilmente il caldo. «Félix, è stato molto gentile a venire a ricevermi», disse mostrando i denti in un sorriso incorniciato dai baffi.
«È stato un viaggio piacevole?» chiese Verenne con aria di sufficienza.
«Il pâté non era all’altezza della fama del suo chef.»
Verenne, un uomo alto e calvo poco oltre la quarantina, ostentò un sorriso per nascondere il disprezzo che provava per Kazim. «Farò in modo che il pâté che le sarà servito durante il volo di ritorno sia degno della sua approvazione.»
«E come sta monsieur Massarde?»
«L’aspetta nella sua suite.»
Verenne si avviò lungo un passaggio coperto da una pensilina ed entrò in una costruzione di vetro nero a tre piani, con gli angoli arrotondati. Attraversarono un atrio di marmo presidiato da una sola guardia del servizio di sicurezza ed entrarono in un ascensore. Le porte si riaprirono in un corridoio dalle pareti a pannelli di tek che conduceva alla suite principale, adibita a residenza e ufficio. Verenne fece entrare Kazim in un piccolo studio lussuosamente arredato e indicò un divano di cuoio Roche Bobois.
«Si accomodi, prego. Monsieur Massarde verrà subito…»
«Félix, sono già qui», disse una voce che proveniva dalla porta di fronte. Massarde si avvicinò a Kazim e l’abbracciò. «Zateb, amico mio, sei stato molto gentile a venire.»
Yves Massarde aveva gli occhi azzurri, le sopracciglia nere e i capelli rossicci, il naso affilato e la mascella squadrata. Era magro, ma aveva un accenno di pancia. Non c’era nulla, in lui, che si armonizzasse veramente. Tuttavia, non era il suo aspetto fisico ciò che restava impresso nella memoria di quanti lo incontravano bensì l’intensità che si irradiava dal suo essere come una scarica di elettricità statica.
Massarde lanciò un’occhiata a Verenne, che annuì, lasciò la stanza senza far rumore e si chiuse la porta alle spalle.
«Dunque, Zateb, i miei agenti al Cairo mi hanno informato che i tuoi non sono riusciti a dissuadere l’Organizzazione Mondiale della Sanità dal venire a ficcare il naso qui nel Mali.»
«Una circostanza spiacevole.» Kazim scrollò le spalle con indifferenza. «I motivi non sono chiari.»
Massarde fissò duramente il generale. «Secondo i miei informatori, i tuoi sicari sono scomparsi durante un tentativo abortito di uccidere la dottoressa Eva Rojas.»
«Una giusta punizione per la loro inefficienza.»
«Li hai fatti giustiziare?»
«Non tollero insuccessi da parte dei miei», mentì Kazim. Il fatto che i suoi uomini non fossero riusciti a uccidere Eva Rojas e fossero scomparsi in modo così strano lo aveva sconcertato. Per la rabbia, aveva ordinato di uccidere l’ufficiale che aveva progettato l’omicidio, accusando lui e gli altri di non aver eseguito i suoi ordini.
L’immenso potere di Massarde si fondava anche sul suo straordinario acume nel giudicare le personalità altrui. Conosceva abbastanza Kazim per sospettare che stesse alzando una cortina fumogena. «Se abbiamo nemici all’esterno, sarebbe un errore gravissimo ignorarli.»
«È stata una cosa da nulla», rispose Kazim accantonando l’argomento. «Il nostro segreto è ben protetto.»
«Come puoi dire una cosa simile quando fra meno di un’ora un team di esperti dei problemi di contaminazione, inviato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, atterrerà a Gao? Non prendere questa faccenda alla leggera, Zateb. Se accerteranno che la sorgente è qui…»
«Non troveranno altro che sabbia e caldo», l’interruppe Kazim. «Lo sai meglio di me, Yves: ciò che causa la stranissima malattia nei pressi del Niger non può provenire da qui. Non so proprio come il tuo impianto possa essere responsabile dell’inquinamento che si verifica centinaia di chilometri più a sud-est.»
«Questo è vero», disse Massarde in tono pensieroso. «I nostri sistemi di monitoraggio dimostrano che i rifiuti da noi bruciati per salvare le apparenze restano entro i limiti tassativi fissati dagli organi internazionali di controllo.»
«E allora non abbiamo motivo di preoccuparci», commentò Kazim con un moto d’insofferenza.
«Certo, purché le nostre spalle siano ben coperte.»
«Il team dei ricercatori dell’OMS puoi lasciarlo a me.»
«Non intralciarli», raccomandò Massarde.
«Il deserto elimina gli intrusi.»
«Se li uccidessi, il Mali e la Massarde Entreprises rischierebbero grosso. Il capo della missione, il dottor Hopper, ha indetto una conferenza stampa al Cairo e ha sottolineato la mancanza di collaborazione da parte del tuo governo. Poi ha dichiarato ufficialmente che il suo team di ricercatori potrebbe incontrare seri pericoli dopo l’arrivo. Se spargerai le loro ossa nel deserto, amico mio, piomberà qui un esercito di giornalisti e di investigatori dell’ONU.»
«Non avevi sollevato tante obiezioni all’idea di togliere di mezzo la dottoressa Rojas.»
«È vero: ma il tentativo non è stato commesso nel cortile di casa nostra. Nessuno, quindi, poteva sospettare che fossimo coinvolti.»
«E non ti sei preoccupato quando metà dei tuoi ingegneri e le rispettive mogli sono andati a fare una gita fra le dune e sono spariti.»
«La loro scomparsa era necessaria per proteggere la seconda tase della nostra operazione.»
«Per te è stata una fortuna che io sia riuscito a insabbiare la faccenda senza che la storia finisse sulle prime pagine dei giornali parigini e senza l’intervento di agenti del governo francese.»
«Hai agito benissimo», sospirò Massarde. «Non so come farei senza la tua preziosa collaborazione.» Come gran parte dei suoi compatrioti, Kazim aveva bisogno di ricevere continui complimenti per la sua genialità. Massarde lo detestava: eppure, senza di lui, l’operazione clandestina non sarebbe stata possibile. Era un contratto concluso all’inferno fra due individui spietati, e Massarde ne ricavava i maggiori vantaggi. Poteva permettersi di sopportare quello «stronzo di dromedario», come chiamava Kazim a insaputa dell’interessato. Dopotutto, una tangente di cinquantamila dollari americani al mese era una miseria in confronto ai due milioni di dollari al giorno che Massarde guadagnava grazie all’impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici.
Kazim si avvicinò al fornitissimo bar e si servì un cognac. «Allora, come ci consigli di trattare il dottor Hopper e i suoi collaboratori?»
«Sei tu l’esperto di queste cose», rispose Massarde con garbo untuoso. «Lascio a te decidere.»
Kazim inarcò un sopracciglio in un’espressione orgogliosa e soddisfatta. «Elementare, amico mio. Eliminerò il problema che sono venuti a risolvere.»
Massarde s’incuriosì. «E come farai?»
«Ho già incominciato», rispose Kazim. «Ho mandato la mia brigata personale a rastrellare, uccidere e seppellire le vittime del contagio.»
«Vuoi dire che fai massacrare i tuoi compatrioti?» La voce di Massarde era ironica.
«È il mio dovere di patriota estirpare un’epidemia nazionale», rispose Kazim, indifferente.
«Usi metodi piuttosto radicali.» Una ruga di preoccupazione apparve sul volto di Massarde. «Stai in guardia, Zateb: non provocare uno scandalo. Se il mondo dovesse scoprire casualmente ciò che abbiamo qui, un tribunale internazionale ci manderebbe entrambi sulla forca.»
«Non potrà mai farlo, senza prove e senza testimoni.»
«E quei diavoli mutanti che hanno massacrato i turisti ad Asselar? Hai fatto scomparire anche quelli?»
Kazim sorrise. «No, si sono uccisi e divorati fra di loro. Ma ci sono altri villaggi colpiti dagli stessi disturbi. Se il dottor Hopper e i suoi collaboratori diventassero troppo fastidiosi, potrei fare in modo che partecipassero personalmente a un massacro.»
Massarde non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni. Aveva letto il rapporto segreto di Kazim sul massacro di Asselar. Immaginava senza difficoltà i nomadi impazziti che sbranavano i ricercatori dell’OMS come avevano fatto con i turisti.
«È un metodo molto efficiente per eliminare un pericolo», disse a Kazim. «Risparmia le spese del funerale.»
«Sono d’accordo.»
«Ma cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a sopravvivere e tentasse di tornare al Cairo?»
Kazim alzò le spalle. Le labbra sottili ed esangui si chiusero in un sorriso perfido. «Comunque muoiano, le loro ossa non lasceranno il deserto.»
Diecimila anni or sono gli aridi uadi della repubblica del Mali erano colmi d’acqua e i bassipiani brulli erano coperti da foreste popolate da centinaia di specie vegetali. Le pianure fertili e le montagne erano abitate dagli uomini prima che questi si lasciassero alle spalle l’età della pietra e diventassero pastori e allevatori. Poi, per settemila anni, le tribù vissero cacciando antilopi, elefanti e bufali, mentre nel contempo portavano da un pascolo all’altro le mandrie di bovini dalle lunghe corna.
Con il passare del tempo, la diminuzione delle piogge e l’eccessiva abbondanza di bestiame al pascolo inaridirono il Sahara, che divenne il deserto oggi noto a tutti e continuò a espandersi fino a infiltrarsi nelle terre tropicali più lussureggianti del continente. A poco a poco le grandi tribù abbandonarono la regione lasciando un’area desolata e quasi totalmente priva d’acqua alle poche bande di nomadi che tuttora vi resistono.
I romani, quando scoprirono l’incredibile resistenza dei dromedari, furono i primi a conquistare il deserto, e si servirono di questi animali per trasportare schiavi, oro, avorio e bestie selvatiche da inviare nei circhi. Per otto secoli, le loro carovane attraversarono il nulla dal Mediterraneo alle rive del Niger. E quando la potenza di Roma tramontò, fu il dromedario ad aprire la frontiera del Sahara agli invasori berberi dalla pelle chiara, seguiti poi dagli arabi e dai mori.
Il Mali rappresenta la conclusione di una linea di imperi potenti, scomparsi da molto tempo, che avevano dominato l’Africa nera. All’inizio del Medioevo, il regno del Ghana estese le grandi piste carovaniere tra il fiume Niger, l’Algeria e il Marocco. Nel 1240 dopo Cristo, il Ghana fu annientato dai mandingo del sud, che si affermarono creando un impero ancora più grande chiamato Malinke, da cui derivò il nome Mali. Il regno raggiunse una notevole prosperità e le città di Gao e di Timbuctu divennero famose come centri della cultura islamica.
Nacquero molte leggende sulle incredibili ricchezze trasportate dalle carovane dell’oro, e la fama dell’impero dilagò nel Medio Oriente. Ma dopo due secoli, l’impero decadde: i nomadi tuareg e fulane vi si insediarono penetrando dal nord. A est i songhai assunsero gradualmente il potere e regnarono fino a che i sultani marocchini inviarono i loro eserciti i quali si spinsero fino al Niger e causarono le grandi devastazioni del 1591. Quando i francesi diedero l’avvio alla loro avanzata coloniale verso sud, all’inizio dell’Ottocento, i vecchi imperi del Mali erano quasi completamente dimenticati.
Con il nuovo secolo i francesi unificarono i territori dell’Africa occidentale in quello che fu chiamato Sudan Francese. Nel 1960 il Mali si proclamò indipendente, varò una costituzione e si diede un governo. Il primo presidente della repubblica fu spodestato da un gruppo di ufficiali dell’esercito guidati dal tenente Moussa Traoré. Nel 1992, dopo numerosi tentativi di colpi di Stato, tutti falliti, il presidente generale Traoré fu rovesciato dal maggiore Zateb Kazim.
Kazim si rese conto molto presto che come dittatore militare non avrebbe ottenuto aiuti e prestiti stranieri; perciò scelse di rimanere nell’ombra e nominò Tahir capo dello Stato. Poi, astutamente, infiltrò nella legislatura una nutrita schiera di fedelissimi e mantenne una posizione equidistante fra Unione Sovietica e Stati Uniti, conservando stretti rapporti con la Francia.
Non impiegò molto tempo per imporsi come supervisore di tutti i traffici interni ed esteri e impinguò i numerosi conti segreti che aveva aperto presso le banche di tutto il mondo. Si dedicò a numerosi progetti di sviluppo e, sebbene avesse ordinato rigorosi controlli doganali, incominciò a guadagnare parecchio sottobanco, grazie al contrabbando. Le tangenti che i francesi gli pagavano per la sua collaborazione, come faceva anche Yves Massarde, l’avevano reso multimilionario. Grazie alla corruzione di Kazim e all’avidità dei suoi funzionari, non c’era da stupirsi che il Mali fosse una delle nazioni più povere del mondo.
Il Boeing 737 dell’ONU virò a quota così bassa da far temere a Eva che la punta dell’ala scavasse un solco fra le case d’argilla e di legno. Poi il pilota si riportò in assetto orizzontale per atterrare nel primitivo aeroporto della favolosa città di Timbuctu e si posò con un secco sobbalzo. Eva guardò dal finestrino e pensò che era molto difficile credere che quel misero paese fosse stato un tempo il grande centro carovaniero degli imperi del Ghana, del Malinke e del Songhai, abitato da centomila persone. Fondato dai nomadi tuareg come accampamento stagionale nel 1100 dopo Cristo, era diventato uno dei mercati più floridi dell’Africa occidentale.
Eva stentava a immaginare un passato glorioso per Timbuctu. Se tre delle antiche moschee erano ancora in piedi, restavano ben pochi segni dello splendore d’un tempo. La città sembrava morta e abbandonata, le strade erano strette e tortuose e parevano perdersi nel nulla. Il suo legame con la vita era tenue e sterile.
Hopper non perse tempo. Varcò il portello della cabina e scese a terra prima ancora che si spegnesse il sibilo dei motori a reazione. Un ufficiale con il tipico copricapo color indaco della guardia personale di Kazim gli andò incontro e lo salutò militarmente, poi gli rivolse la parola in inglese con uno spiccato accento francese.
«Il dottor Hopper, suppongo.»
«E lei deve essere il signor Stanley», rispose Hopper con l’abituale umorismo pungente.
L’ufficiale maliano non sorrise. Gli lanciò uno sguardo ostile e sospettoso. «Sono il capitano Mohammed Batutta. La prego di seguirmi al terminal.»
Hopper guardò il terminal: era poco più di una baracca metallica. «Oh, d’accordo, se è quanto di meglio può offrirmi», disse in tono asciutto e privo di deferenza.
Raggiunsero il terminal ed entrarono in un piccolo ufficio caldo come un forno e arredato con un tavolo di legno malconcio e due sedie. Dietro il tavolo era seduto un ufficiale di grado superiore a Batutta e sembrava passarsela piuttosto male. L’ufficiale squadrò Hopper con malcelato disprezzo.
«Sono il colonnello Nohoum Mansa. Posso vedere il suo passaporto, per favore?»
Hopper non si lasciò cogliere di sorpresa e gli tese sei passaporti, uno per ogni membro del suo team. Mansa li scartabellò con aria distratta, fermandosi solo a controllare le nazioni d’origine.
«Per quale motivo siete nel Mali?» chiese infine.
Hopper non era certo un novellino e, per di più, non sopportava quelle ridicole procedure burocratiche.
«Penso che lei sia a conoscenza del motivo della nostra visita.»
«Risponda alla domanda.»
«Apparteniamo all’Organizzazione Mondiale della Sanità e costituiamo un gruppo di ricerca venuto a studiare un’epidemia che si sta diffondendo tra il suo popolo.»
«Tra il mio popolo non c’è nessuna epidemia», sentenziò il colonnello.
«Allora non avrete niente da ridire se analizziamo le scorte d’acqua e preleviamo qualche campione di aria dei paesi e delle città lungo il Niger.»
«Gli stranieri che cercano di rilevare manchevolezze nel nostro Paese non ci sono particolarmente graditi.»
Hopper non era certo il tipo da arrendersi di fronte alla stupidità di un ufficiale. «Siamo qui per salvare delle vite umane. Suppongo che il generale Kazim lo apprezzi.»
Mansa s’irrigidì. Il fatto che Hopper avesse tirato fuori il nome di Kazim invece di quello del presidente Tahir l’aveva colto del tutto alla sprovvista. «Il generale Kazim… ha autorizzato la vostra visita?»
«Perché non lo chiama per chiederglielo?» Era un bluff, ma Hopper non aveva niente da perdere.
Il colonnello Mansa si alzò e si avviò alla porta. «Aspetti qui», ordinò in tono brusco.
«La prego di dire al generale», l’avvertì Hopper, «che i Paesi limitrofi hanno invitato gli scienziati dell’ONU perché li aiutino a individuare la fonte della contaminazione. Se rifiuterà al mio team l’ingresso nel Mali, perderà la faccia di fronte alle nazioni del mondo.»
Senza rispondere, Mansa uscì dalla stanzetta soffocante.
Mentre attendeva, Hopper lanciò al capitano Batutta la sua occhiata più intimidatoria. Batutta sostenne lo sguardo per qualche attimo, poi si voltò e prese a camminare avanti e indietro.
Dopo cinque minuti Mansa tornò e sedette alla scrivania. Timbrò in silenzio i passaporti e li restituì a Hopper. «Siete autorizzati a entrare nel Mali per svolgere le ricerche. Ma non dimentichi, dottore, che lei e i suoi collaboratori siete ospiti. Niente di più. Se farete osservazioni denigratorie o parteciperete ad azioni dannose per la nostra sicurezza, sarete espulsi.»
«Grazie, colonnello. E ringrazi il generale Kazim per la sua cortesia.»
«Verrete accompagnati dal capitano Batutta e da dieci dei suoi uomini, per vostra protezione.»
«Sarà un onore avere una guardia del corpo.»
«Inoltre dovrete riferire a me ciò che scoprirete. Mi aspetto la vostra più completa collaborazione.»
«E come potrò riferire dall’entroterra?»
«L’unità del capitano porterà l’attrezzatura necessaria per le comunicazioni.»
«Prevedo che andremo molto d’accordo», disse in tono altero Hopper a Batutta. Poi si rivolse di nuovo a Mansa. «Il mio team e io abbiamo bisogno d’un mezzo, preferibilmente con quattro ruote motrici, più due camion per trasportare il materiale di laboratorio.»
Il colonnello Mansa arrossì. «Vi fornirò i necessari veicoli militari.»
Hopper si rendeva conto che per il colonnello era importante salvare la faccia e avere l’ultima parola. «Grazie, colonnello Mansa. Lei è un uomo generoso e degno d’onore. Il generale Kazim deve essere molto fiero di avere al suo fianco un vero guerriero del deserto.»
Mansa si appoggiò alla spalliera della sedia con un’espressione soddisfatta negli occhi. «Sì, il generale ha più volte espresso gratitudine per la mia lealtà.»
Il colloquio era terminato. Hopper tornò all’aereo e diresse le operazioni di scarico del materiale. Mansa osservava la scena dalla finestra del suo ufficio, con un vago sorriso sulle labbra.
«Devo limitare le loro ricerche alle aree non classificate?» gli chiese Batutta.
Mansa scosse la testa senza voltarsi. «No, li lasci andare dove vogliono.»
«E se il dottor Hopper scoprisse le tracce della contaminazione?»
«Non ha importanza. Finché sarò io a controllare le comunicazioni con il resto del mondo, i suoi rapporti verranno modificati per dimostrare che nel nostro Paese non ci sono malattie da contaminazione né rifiuti nocivi.»
«Ma quando ritorneranno alla sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità…»
«Riveleranno ciò che hanno scoperto veramente?» concluse Mansa. «Sì, certo.» All’improvviso si voltò con aria minacciosa. «Ma questo non succederà se il loro aereo avrà un tragico incidente durante il volo di ritorno.»
Pitt dormicchiò durante il volo dall’Egitto alla Nigeria e si svegliò solo quando Rudi Gunn arrivò lungo il corridoio del jet della NUMA reggendo tre tazze di caffè. Pitt lo guardò con aria rassegnata. Sembrava che le prospettive non fossero delle più rosee.
«E dove incontreremo l’ammiraglio a Port Harcourt?» chiese senza interesse.
«Non sarà esattamente a Port Harcourt», rispose Gunn mentre gli porgeva una tazza.
«E se non è lì, dov’è?»
«Ci aspetta a bordo di una delle nostre navi per le ricerche, a duecento chilometri dalla costa.»
Pitt lo fissò come un cane da caccia che ha bloccato una volpe. «Tu mi nascondi qualcosa, Rudi.»
«Credi che Al voglia il caffè?»
Pitt lanciò un’occhiata a Giordino che russava beato. «Lascia perdere. Non riusciresti a svegliarlo neppure se gli facessi esplodere un petardo nell’orecchio.»
Gunn sedette dall’altra parte del corridoio. «Non posso dirti che cosa abbia in mente l’ammiraglio Sandecker perché, sinceramente, non lo so. Ma sospetto che abbia a che fare con uno studio che i biologi marini della NUMA hanno svolto sulle scogliere coralline di tutto il mondo.»
«So di cosa si tratta», disse Pitt. «Ma i risultati sono arrivati dopo che io e Giordino siamo partiti per l’Egitto.» Pitt era certo che prima o poi Gunn gli avrebbe detto la verità. Erano in ottimi rapporti nonostante le evidenti differenze del loro modo di vivere. Gunn era un intellettuale, laureato in chimica, scienza delle finanze e oceanografia, e si sarebbe sentito perfettamente a suo agio nei sotterranei di una biblioteca in mezzo ai libri, a compilare rapporti e a pianificare progetti di ricerca.
Pitt, invece, preferiva lavorare con i meccanismi, soprattutto le automobili d’epoca della collezione che custodiva a Washington. L’avventura era la sua droga. Era in paradiso quando pilotava vecchi aerei o faceva immersioni fra relitti storici. Aveva un master in ingegneria e si divertiva ad affrontare compiti che altri giudicavano impossibili. Diversamente da Gunn, solo di rado era reperibile alla sua scrivania alla sede centrale della NUMA: preferiva l’emozione delle esplorazioni nelle profondità sconosciute del mare.
«La conclusione è che le scogliere sono minacciate, e muoiono a un ritmo inaudito», rispose Gunn. «È un problema veramente scottante per gli scienziati marini.»
«Quali parti dell’oceano presentano questa tendenza?»
Gunn fissò la tazza del caffè. «Un po’ tutte. Il mar dei Caraibi dalle Florida Keys fino a Trinidad, il Pacifico dalle Hawaii all’Indonesia, il mar Rosso, le coste africane.»
«E tutte presentano la stessa percentuale di logoramento?» chiese Pitt.
Gunn scosse la testa. «No, varia secondo le località. La situazione peggiore è quella che si presenta lungo la costa dell’Africa occidentale.»
«Non mi sembra un fatto anomalo che le scogliere coralline attraversino cicli durante i quali smettano di riprodursi e muoiano prima di tornare in buona salute.»
«Sì, è vero.» Gunn annuì. «Quando le condizioni tornano alla normalità, le scogliere si riprendono. Ma non avevamo mai visto danni così diffusi e con una percentuale così allarmante.»
«Si ha un’idea della causa?»
«Ci sono due fattori. Uno è il solito colpevole, il calore dell’acqua. Gli aumenti periodici della temperatura dell’acqua, dovuti in genere ai cambiamenti delle correnti marine, fanno sì che i minuscoli polipi del corallo vomitino, per così dire, le alghe di cui si nutrono.»
«I polipi sono gli essermi tubolari che costruiscono le scogliere con i loro scheletri, no?»
«Esattamente.»
«È tutto quello che so dei coralli», ammise Pitt. «Al telegiornale non si parla spesso della loro lotta per la sopravvivenza.»
«È un vero peccato», commentò Gunn. «Soprattutto se consideri che i mutamenti nei coralli possono costituire un fedele barometro delle future tendenze delle condizioni marine e meteorologiche.»
«Allora: i polipi sputano le alghe», riprese Pitt. «E poi che cosa succede?»
«Siccome le alghe sono il nutrimento dei polipi e danno loro quei colori intensi», continuò Gunn, «i coralli si riducono all’inedia e diventano bianchi e senza vita. È un fenomeno chiamato sbiancamento.»
«Che si verifica raramente quando le acque sono fresche.»
Gunn lo fissò. «Perché ti sto spiegando tutto, quando lo sai già?»
«Sto aspettando che arrivi alla parte più interessante.»
«Lasciami bere il caffè prima che si freddi.»
Vi fu un silenzio. Gunn non aveva molta voglia di caffè, ma continuò a berlo a piccoli sorsi fino a quando Pitt si spazientì.
«Ho capito», disse Pitt. «Le scogliere coralline stanno morendo in tutto il mondo. Dunque, qual è il secondo fattore che ne causa l’estinzione?»
Gunn rimescolò il caffè con un cucchiaino di plastica. «Una minaccia nuova: l’abbondanza improvvisa di certe alghe verdi che coprono le scogliere come un’epidemia incontrollabile. Questo secondo elemento è decisivo.»
«Un momento. Hai detto che i coralli muoiono di fame perché sputano le alghe sebbene le alghe li coprano fino a soffocarli?»
«L’acqua più calda un po’ dà e un po’ toglie. Distrugge le scogliere e favorisce la crescita di alghe che possono impedire alle sostanze nutritive e alla luce solare di raggiungere i coralli. E in questo modo li uccidono.»
Pitt si passò una mano fra i capelli neri. «Per fortuna la situazione cambierà non appena l’acqua diventerà più fredda.»
«Non è accaduto», disse Gunn. «Non è accaduto nell’emisfero meridionale. E non è prevista una riduzione della temperatura dell’acqua per il prossimo decennio.»
«Credi che sia un fenomeno naturale o una conseguenza dell’Effetto Serra?»
«Questa è una delle possibilità, oltre ai soliti indizi di inquinamento.»
«Ma non avete prove concrete?» chiese Pitt.
«Né io né i nostri specialisti della NUMA conosciamo tutte le risposte.»
«Non posso credere che un maniaco delle provette non abbia una teoria», commentò Pitt con un sorriso malizioso.
Gunn sorrise a sua volta. «Io non mi sono mai visto in quella luce.»
«O in quei termini.»
«Ti diverti a tirare colpi bassi, eh?»
«Soltanto agli accademici presuntuosi.»
«Bene», disse Gunn. «Non sono il re Salomone. Ma, dato che me l’hai chiesto, la mia teoria sulla proliferazione delle alghe, come può spiegarti qualunque allievo delle elementari, è che dopo aver gettato in mare per generazioni liquame umano, rifiuti e sostanze chimiche tossiche, abbiamo raggiunto il punto di saturazione. Il delicato equilibrio chimico degli oceani è irreparabilmente perduto. Quelle enormi masse d’acqua si stanno riscaldando e tutti noi, in particolare i nostri nipoti, dovremo pagare un prezzo molto alto.»
Pitt non aveva mai visto Gunn tanto serio. «Dunque è una situazione molto grave.»
«Credo che abbiamo superato il punto di non ritorno.»
«Non prevedi un’inversione di tendenza?»
«No», rispose tristemente Gunn. «Per troppo tempo sono stati ignorati gli effetti disastrosi della degenerazione dell’acqua.»
Pitt lo fissò, un po’ sorpreso nel vedere che il vicecapo della NUMA era incline a previsioni tanto lugubri. In quanto a lui, non ne condivideva il pessimismo totale. Forse gli oceani erano davvero malati, ma non certo inguaribili.
«Coraggio, Rudi», gli disse allegramente. «Qualunque incarico voglia affibbiarci l’ammiraglio, non pretenderà che noi tre andiamo a salvare i mari del mondo.»
Gunn lo guardò e accennò un sorriso. «È meglio non cercare di immaginare che cosa ha in mente l’ammiraglio.»
Se avessero saputo o immaginato quanto si sbagliavano, avrebbero ordinato al pilota di riportarli immediatamente al Cairo, arrivando addirittura a minacciarlo di morte qualora si fosse rifiutato di farlo.
La sosta a terra sul campo di atterraggio di una compagnia petrolifera nei pressi di Port Harcourt fu breve e tranquilla. Pochi minuti dopo erano a bordo di un elicottero che sorvolava il golfo di Guinea. Poi, quaranta minuti più tardi, l’elicottero si fermò sopra il Sounder, una nave da ricerca della NUMA che Pitt e Giordino conoscevano molto bene perché in tre diverse occasioni l’avevano usata per progetti di rilevamento. Era costata ottanta milioni di dollari, era lunga centoventi metri e trasportava i più sofisticati sistemi sismici, sonar e batimetrici che fossero disponibili.
Il pilota girò intorno all’enorme gru a poppa del Sounder e si posò sul ponte, dietro la sovrastruttura. Pitt fu il primo a scendere, seguito da Gunn. Giordino veniva alla retroguardia e si muoveva come uno zombie, sbadigliando a ogni passo. Molti scienziati e membri dell’equipaggio, che erano vecchi amici, andarono loro incontro per salutarli mentre le pale del rotore si fermavano e l’elicottero veniva bloccato.
Pitt si arrampicò subito per la scaletta che portava a uno dei laboratori marini del Sounder. Passò in mezzo ai banchi ingombri di apparecchiature chimiche ed entrò in un locale per le conferenze, arredato in modo gradevole come la sala d’un consiglio d’amministrazione, con un lungo tavolo di mogano e comode sedie imbottite.
Davanti a un grande schermo da proiezione stava in piedi un uomo di colore che voltava le spalle a Pitt e sembrava assorto nell’osservazione di un grafico. Aveva almeno vent’anni più di Pitt, ed era molto più alto: superava di poco i due metri e aveva i movimenti sciolti di un ex giocatore di pallacanestro.
Tuttavia ad attirare l’attenzione di Pitt e dei suoi due amici non furono il grafico colorato sullo schermo e lo sconosciuto altissimo, bensì l’altro uomo che si trovava nella sala. Piccolo di statura, elegante e imperioso, si appoggiava con una mano al tavolo e con l’altra teneva un enorme sigaro spento. Il viso scarno, gli occhi azzurri freddi e autoritari, i capelli rossi un po’ ingrigiti e la barba tagliata con cura gli davano l’aspetto dell’ammiraglio in pensione… e in effetti lo era, come indicavano il blazer blu con le ancore dorate sul taschino.
L’ammiraglio James Sandecker, la forza motrice della NUMA, si raddrizzò, sfoggiò l’abituale sorriso da barracuda e andò incontro ai visitatori tendendo la mano.
«Dirk! Al!» Sembrava sorpreso dalla loro comparsa inaspettata. «Congratulazioni per la scoperta della nave funeraria del faraone. Ottimo lavoro. Bravi.» Notò Gunn e lo salutò con un cenno. «Rudi, vedo che li ha rastrellati senza incidenti.»
«Come agnellini al macello», disse Gunn con un sorriso piuttosto cupo.
Pitt gli lanciò un’occhiata brusca, quindi si rivolse all’ammiraglio. «Ci ha richiamati dal Nilo con una fretta diabolica. Possiamo sapere perché?»
Sandecker assunse un’espressione offesa. «Non mi salutate, non mi dite che siete contenti di vedermi? Neppure una parola gentile per il vostro povero, vecchio capo che ha dovuto annullare una cena con un’incantevole e ricca signora di Washington e fare un volo di diecimila chilometri solo per complimentarsi con voi per la vostra impresa?»
«Chissà perché, le sue parole non presagiscono niente di buono.»
Giordino, scuro in volto, si lasciò cadere su una sedia. «Se siamo stati tanto bravi, perché non ci concede un bell’aumento, una gratifica e due settimane di vacanze pagate?»
Sandecker assunse un tono tollerante. «La parata trionfale a Broadway verrà poi. Dopo che avrete fatto una piacevole crociera risalendo il Niger.»
«Il Niger?» borbottò Giordino. «Non ci manderà a cercare altri relitti?»
«Niente relitti.»
«Quando?» chiese Pitt.
«Partirete alle prime luci», rispose Sandecker.
«Cosa vuole che facciamo, esattamente?»
Sandecker si girò verso l’uomo altissimo che stava davanti allo schermo. «Prima le cose più importanti. Vi presento il dottor Darcy Chapman, capo del settore di tossicologia marina al Goodwin Marine Science Lab di Laguna Beach.»
«Signori», disse Chapman con una voce così profonda che sembrava uscire da un pozzo, «è un vero piacere conoscervi. L’ammiraglio Sandecker mi ha informato delle vostre imprese. Sono molto colpito.»
«Lei giocava con i Denver Nuggets», mormorò Gunn, inclinando la testa all’indietro per guardarlo negli occhi.
«Fino a quando le ginocchia non mi hanno tradito», rispose Chapman con un sorriso. «Poi sono tornato a studiare e ho preso la libera docenza in biologia.»
Pitt e Gunn gli strinsero la mano, mentre Giordino si limitava a salutarlo con un gesto stanco, senza alzarsi. Sandecker prese il telefono e chiamò la cambusa per ordinare la colazione.
«Tanto vale metterci comodi», disse. «Dobbiamo discutere di molte cose prima dello spuntar del giorno.»
«Ha un compito rognoso da affibbiarci», commentò Pitt.
«Naturalmente, è un lavoro rognoso», annui Sandecker. Fece un cenno al dottor Chapman che premette un pulsante del telecomando. Sullo schermo apparve una carta geografica colorata che mostrava il corso tortuoso di un fiume. «Il Niger. È il terzo fiume dell’Africa dopo il Nilo e il Congo. Stranamente, nasce in Guinea a soli trecento chilometri dal mare, ma scorre verso nord-est e poi verso sud per quattromiladuecento chilometri prima di gettarsi nell’Atlantico, e il suo delta è sulla costa della Nigeria. E in qualche tratto del suo corso — chissà dove — un veleno potentissimo entra nella corrente e viene trascinato fino all’oceano. Qui crea sovvertimenti catastrofici che… ecco, che possono causare la fine per tutta l’umanità.»
Pitt fissò Sandecker. Non era sicuro di aver capito bene. «Per tutta l’umanità? Ammiraglio, ha detto proprio così?»
«Non sto parlando a casaccio», ribatté Sandecker. «Al largo dell’Africa occidentale il mare sta morendo e il contagio si diffonde a causa di una sostanza contaminante sconosciuta. La situazione progredisce rapidamente in una reazione a catena che potrebbe arrivare a distruggere ogni specie della fauna marina.»
«E questo porterebbe a un cambiamento permanente del clima terrestre», osservò Gunn.
«È ancora il meno», replicò Sandecker. «Il risultato finale sarebbe l’estinzione di tutti gli esseri viventi sulla terraferma, noi inclusi.»
Gunn assunse un tono di rimprovero. «Non le sembra di esagerare un po’…»
«Esagerare un po’?» l’interruppe acido l’ammiraglio. «Sono le precise parole che hanno detto quei cretini del Congresso quando li ho messi al corrente e ho chiesto appoggi e collaborazione per isolare e risolvere il problema. Loro si preoccupano soprattutto di mantenere il potere e prometterebbero anche la luna pur di farsi rieleggere. Sono stufo, stufo e nauseato delle stupide, interminabili udienze delle commissioni, stufo della vigliaccheria con cui rifiutano di affrontare le questioni impopolari mentre continuano a spendere tanto da portare il Paese alla bancarotta. Il sistema bipartitico è diventato una palude di frodi e di promesse criminali. Come il comunismo, anche il grande esperimento della democrazia sta morendo di corruzione. Chi se ne frega se gli oceani agonizzano? Be’, per Dio, a me sta a cuore. E sono disposto a tutto per salvarli.»
Gli occhi di Sandecker lanciavano lampi di rabbia, le labbra erano contratte in una smorfia. Pitt era sbalordito da quella carica emotiva, decisamente insolita per l’uomo.
«I rifiuti tossici vengono scaricati in quasi tutti i fiumi del mondo», disse Pitt a voce bassa per tornare in argomento. «Che cos’ha di particolare l’inquinamento del Niger?»
«Ecco che cos’ha di particolare: sta creando un fenomeno conosciuto comunemente come marea rossa, che si riproduce e si diffonde con un ritmo spaventoso.»
«’L’acqua incantata bruciava d’un rosso spaventoso’?» chiese Pitt, citando la ballata di Coleridge.
Sandecker lanciò un’occhiata a Gunn, poi fissò Pitt. «Ha ricevuto il messaggio.»
«Sì, ma non ho capito il nesso», ammise Pitt.
«Siete tutti sommozzatori», intervenne Chapman. «Quindi probabilmente sapete che la marea rossa è causata da esseri microscopici chiamati dinoflagellati, organismi minuscoli contenenti un pigmento rosso che dà all’acqua una colorazione bruno-rossiccia, quando proliferano e galleggiano in massa.»
Chapman premette un pulsante del telecomando e continuò a spiegare mentre sullo schermo appariva l’immagine di un organismo dall’aspetto bizzarro. «Le maree rosse sono documentate fin dai tempi più antichi. Si racconta che Mosè avrebbe trasformato in sangue le acque del Nilo. Anche Omero e Cicerone parlano di una colorazione rossa del mare, come ha fatto anche Darwin durante il viaggio del Beagle. In tempi moderni si sono avuti casi ricorrenti in tutto il mondo. Il più recente è avvenuto al largo della costa occidentale del Messico, dopo che l’acqua era diventata viscida e schifosa. La marea rossa che seguì causò la morte di miliardi di pesci, molluschi e tartarughe. Furono spazzati via persino i cirripedi. Le spiagge furono chiuse per oltre trecento chilometri e centinaia di indigeni e di turisti morirono per aver mangiato pesci contaminati da una specie tossica e letale di dinoflagellati.»
«Io ho fatto diverse immersioni nelle maree rosse», disse Pitt, «e non ho subito conseguenze spiacevoli.»
«Per sua fortuna le ha fatte in una delle varietà più comuni e innocue», spiegò Chapman. «Ma c’è una specie mutante, scoperta da poco, che produce le tossine biologiche più letali mai conosciute. Nessun esemplare della fauna marina sopravvive dopo esserne entrato in contatto. Basterebbero pochi grammi, distribuiti equamente, per uccidere tutti gli esseri umani della terra.»
«È così potente?»
Chapman annuì. «Sì, lo è.»
«E come se la tossina non bastasse», soggiunse Sandecker, «quegli esserini si divorano fra loro in un’orgia di cannibalismo marino che riduce in modo drastico l’ossigeno contenuto nell’acqua e causa l’asfissia dei pesci e delle alghe superstiti.»
«E la situazione peggiora», continuò Chapman. «Il settanta per cento dell’ossigeno nuovo è fornito dalle diatomee, le piccolissime piante che vivono nel mare. Il resto è prodotto dalla vegetazione della terraferma. Non credo sia necessario fare un lungo discorso per spiegare in che modo le diatomee nell’acqua e gli alberi nella giungla producono l’ossigeno per fotosintesi. L’avete studiato alle elementari. La tossicità soffocante dei dinoflagellati, quando formano le maree rosse, uccide le diatomee. Se non ci sono le diatomee, non si produce ossigeno. La tragedia è che noi diamo l’ossigeno per scontato, e non pensiamo mai che un minimo squilibrio tra il quantitativo liberato dalle piante e quello che bruciano trasformandolo in anidride carbonica potrebbe segnare la fine per tutti noi.»
«C’è la possibilità che i dinoflagellati si annientino divorandosi fra loro?» chiese Giordino.
Chapman scosse la testa. «Rimediano alle perdite con una proporzione di dieci nascite per ogni morte.»
«Ma alla fine le maree non si disperdono?» chiese Gunn. «O non si estinguono completamente quando entrano in contatto con correnti d’acqua più fredde?»
Sandecker annuì. «Purtroppo non ci troviamo di fronte a condizioni normali. I microrganismi mutanti con cui abbiamo a che fare sembrano immuni ai cambiamenti della temperatura dell’acqua.»
«Dunque sta dicendo che non ci sono speranze che la marea rossa al largo dell’Africa diminuisca e scompaia?»
«No, se verrà lasciata a se stessa», rispose Chapman. «Come miliardi di Frankenstein clonati, i dinoflagellati si riproducono a un ritmo vertiginoso. Anziché essere diverse migliaia per cinque litri d’acqua, sono arrivati a circa un miliardo. Un incremento mai registrato prima d’ora. In questo momento sono inarrestabili.»
«C’è qualche teoria sull’origine della marea rossa mutante?» chiese Pitt.
«L’agente che produce questa nuova varietà prolifica di dinoflagellati è sconosciuto. Tuttavia crediamo che una sostanza contaminante si riversi dal fiume Niger, muti i dinoflagellati presenti nell’acqua marina e acceleri il loro ciclo riproduttivo.»
«Come un atleta che prende gli steroidi», commentò Giordino in tono asciutto.
«Oppure afrodisiaci», disse Gunn con un sogghigno.
«O droghe della fertilità», soggiunse Pitt.
«Se la marea rossa resterà incontrollata e si diffonderà negli oceani e coprirà la superficie con una coltre massiccia di dinoflagellati», spiegò Chapman, «la riserva mondiale d’ossigeno scenderà a un livello troppo basso per sostentare la vita.»
Gunn disse: «Sta dipingendo un quadro molto fosco, dottor Chapman».
«Sarebbe più esatto parlare di storia dell’orrore», commentò Pitt a voce bassa.
«Non è possibile distruggerli con sistemi chimici?» domandò Giordino.
«Un pesticida?» disse Chapman. «È possibile, ma potrebbe anche peggiorare le cose. La soluzione migliore sarebbe stroncarli all’origine.»
«In quanto tempo si compirebbe questo disastro?» chiese Pitt.
«Se l’afflusso delle sostanze contaminanti al mare non verrà fermato completamente entro i prossimi quattro mesi, sarà troppo tardi. La diffusione sarà ormai enorme: incontrollabile, a essere precisi. E sarà anche autosufficiente: si nutrirà di se stessa, e trasmetterà alla prole il veleno chimico assorbito tramite il Niger.» Chapman s’interruppe per azionare il telecomando, e un grafico colorato apparve sullo schermo. «Le proiezioni del computer indicano che milioni di persone incominceranno a morire lentamente per soffocamento entro otto mesi, dieci al massimo. I primi a morire saranno i bambini, che hanno una capacità polmonare minore; la scarsità d’aria gli impedirà di piangere, e diventeranno cianotici piombando in un coma irreversibile. Non sarà uno spettacolo piacevole per coloro che moriranno per ultimi.»
Giordino lo guardava con aria incredula. «È quasi impossibile pensare a un mondo morto per mancanza d’ossigeno.»
Pitt si alzò e si avvicinò allo schermo. Studiò i numeri che indicavano il tempo rimasto all’umanità. Poi si voltò verso Sandecker. «Quindi lei vuole che io, Al e Rudi risaliamo il fiume con un vascello da ricerca e analizziamo campioni d’acqua fino a quando troveremo la fonte dell’inquinamento che sta causando la marea rossa. E poi dovremo trovare il modo di chiudere il rubinetto.»
Sandecker annuì. «Nel frattempo noi, qui alla NUMA, lavoreremo per mettere a punto una sostanza capace di neutralizzare le maree rosse.»
Pitt si diresse verso una mappa del fiume Niger appesa a una parete. «E se non scoprissimo l’origine in Nigeria?» chiese, esaminando la carta.
«Continuerete a risalire il fiume sino a quando la troverete.»
«Attraverso la parte centrale della Nigeria, poi verso nord-est fino al tratto dove il fiume separa il Benin e il Niger e quindi nel Mali?»
«Sì, se sarà necessario», disse Sandecker.
«Com’è la situazione politica in questi Paesi?» chiese Pitt.
«Devo ammettere che è leggermente instabile.»
«E, secondo lei, cosa significa leggermente instabile’?» insistette Pitt in tono scettico.
«La Nigeria», spiegò Sandecker. «È la nazione più popolosa dell’Africa, con centoventi milioni di abitanti, ed è in piena sovversione. Il nuovo governo cosiddetto democratico è stato estromesso il mese scorso dai militari: l’ottavo colpo di Stato in vent’anni appena, senza contare quelli che sono falliti. Le zone interne sono dilaniate dalle solite guerre razziali e dal cattivo sangue esistente fra musulmani e cristiani. L’opposizione sta massacrando i dipendenti governativi accusati di corruzione e di malversazione.»
«Dev’essere un posticino divertente», borbottò Giordino. «Non vedo l’ora di sentir l’odore della polvere da sparo.»
Sandecker non gli badò. «La repubblica popolare del Benin è una feroce dittatura. Il presidente Ahmed Tougouri governa con il terrore. Dall’altra parte del fiume, nel Niger, il capo di Stato è sostenuto dalla Libia di Gheddafi, che vuole mettere le mani sulle miniere di uranio del Paese. C’è una situazione di crisi permanente. Ci sono guerriglieri ribelli dappertutto. Vi consiglio di tenervi al centro del fiume, quando passerete in mezzo.»
«E poi c’è il Mali», disse Pitt.
«Il presidente Tahir è un uomo a posto, ma è legato al generale Zateb Kazim, capo di un supremo consiglio militare che sta dissanguando il Paese. Kazim è un gran brutto tipo, oltre a essere un personaggio fuori del comune: virtualmente è un dittatore che agisce dietro la facciata d’un governo onesto.»
Pitt e Giordino si scambiarono sorrisi cinici e scossero la testa.
«C’è qualche problema?» chiese Sandecker.
«’Una piacevole crociera risalendo il Niger’», disse Pitt, ripetendo le parole che l’ammiraglio aveva pronunciato poco prima. «Non dobbiamo far altro che navigare allegramente per mille chilometri su un fiume brulicante di ribelli assetati di sangue che tendono agguati lungo le rive, evitare motovedette armate e fare rifornimento di carburante lungo il percorso senza farci arrestare e giustiziare come spie straniere. E nel frattempo dovremo raccogliere campioni d’acqua. Nessun problema, ammiraglio, nessun problema… A parte il fatto che è una missione suicida.»
«Sì», replicò imperturbabile Sandecker. «Forse così sembra, ma con un po’ di fortuna dovreste cavarvela senza il minimo inconveniente.»
«Rimetterci la pelle mi sembra qualcosa di più di un inconveniente», borbottò Pitt.
«Non avete pensato di servirvi di sensori per mezzo di satelliti?» chiese Gunn.
«Non è possibile: i rilevamenti non sarebbero abbastanza precisi», rispose Chapman.
«E un aereo a reazione in volo a bassa quota?» suggerì Giordino.
Chapman scosse la testa. «Stessa conclusione. È inutile trainare sensori nell’acqua a velocità supersoniche. Lo so. Ho partecipato a un esperimento di questo genere.»
«A bordo del Sounder ci sono laboratori di prim’ordine», incalzò Pitt. «Perché non far loro risalire il delta per individuare almeno il tipo, la categoria e il livello della contaminazione?»
«Abbiamo provato», rispose Chapman. «Ma una cannoniera nigeriana ci ha costretti ad allontanarci prima che arrivassimo a meno di cento chilometri dalla foce del fiume. Troppo lontano per effettuare un’analisi precisa.»
«L’impresa può essere realizzata soltanto da un’imbarcazione molto più piccola e ben equipaggiata», concluse Sandecker. «In grado di superare le rapide e le secche. Non esistono altre possibilità.»
«Il nostro Dipartimento di Stato ha cercato di fare appello ai governi perché lascino a un team di ricercatori la libertà di studiare il fiume allo scopo di salvare miliardi di vite umane?» chiese Gunn.
«Sì, è stato tentato anche l’approccio diretto. I nigeriani e i maliani hanno seccamente rifiutato. Molti scienziati di fama sono venuti in Africa occidentale per spiegare la situazione. I governanti africani non li hanno creduti. Hanno riso loro in faccia. Non è tutta colpa loro. Non possiedono un’intelligenza notevole e non sono capaci di vedere le cose su vasta scala.»
«Non hanno una fortissima percentuale di morti fra la loro gente che beve l’acqua contaminata del fiume?» chiese Gunn.
«I fenomeni sono poco diffusi.» Sandecker scosse la testa. «Nel Niger non scorrono soltanto sostanze chimiche. Le città e i villaggi sulle sue rive vi scaricano liquame e rifiuti umani d’ogni genere. Gli indigeni sanno che non è il caso di bere quell’acqua.»
Pitt comprese. Le prospettive non lo entusiasmavano. «Perciò è convinto che un’operazione segreta sia l’unica speranza di scoprire la sostanza inquinante?»
«Sì», rispose Sandecker.
«Spero che avrà un piano per superare tutti i possibili ostacoli.»
«Naturalmente ne ho uno.»
«Possiamo almeno sapere come faremo a trovare la fonte della contaminazione e a restare vivi?» chiese con calma Gunn.
«Non è un gran segreto», rispose esasperato Sandecker. «Il vostro arrivo sarà sbandierato come una vacanza di lavoro di tre ricchi industriali francesi, desiderosi di fare investimenti nell’Africa occidentale.»
Gunn sembrava allibito, Giordino confuso. Il volto di Pitt esprimeva una collera crescente.
«È questo? È questo il suo piano?»
«Sì, ed è anche ottimo», ribatté Sandecker.
«È una pazzia. Mi rifiuto di partire.»
«Anch’io», sbuffò Giordino. «Sembro francese quanto Al Capone.»
«Io pure», soggiunse Gunn.
«Certamente non possiamo andare con un’imbarcazione da ricerca lenta e disarmata», dichiarò Pitt con fermezza.
Sandecker finse di ignorare le posizioni assunte dai tre. «A proposito, ho dimenticato la parte più interessante. La barca. Quando vedrete la barca, vi garantisco che cambierete idea.»
Se Pitt aveva sognato prestazioni elevate, eleganza, comodità e una potenza di fuoco sufficiente per affrontare la Sesta Flotta americana, trovò tutto quanto nella barca promessa da Sandecker. Bastò un’occhiata alla sagoma agile e slanciata, alla forza bruta dei motori e all’incredibile armamento perché si sentisse subito conquistato.
Era un capolavoro di equilibrio aerodinamico, in fibra di vetro e acciaio inossidabile. Si chiamava Calliope come la musa della poesia epica. Progettata dagli ingegneri della NUMA e costruita nel segreto più assoluto in un cantiere di un bayou della Louisiana, aveva uno scafo lungo diciotto metri con un centro di gravità basso e un fondo quasi piatto che pescava appena un metro e mezzo d’acqua e che ne faceva l’imbarcazione ideale per i canali poco profondi dell’alto corso del Niger. Aveva tre motori turbodiesel V-13 che la spingevano sull’acqua alla velocità massima di settanta nodi. Non c’erano stati compromessi nella costruzione: era un esemplare unico, creato per un compito specifico.
Pitt stava al timone e si crogiolava nella forza incomparabile e nel movimento agile del super sport yacht che avanzava pigramente a trenta nodi orari sull’acqua grigiazzurra e opaca del delta del Niger. Scrutava incessantemente le acque mentre le rive scorrevano veloci, e ogni tanto si spostava per controllare la profondità su una carta nautica e i numeri digitali dell’ecoscandaglio. Aveva incrociato una motovedetta, ma gli uomini dell’equipaggio s’erano limitati a sbracciarsi per l’ammirazione alla vista dello yacht che filava sulla superficie del fiume. Un elicottero militare era venuto a volare in cerchio, incuriosito, e un jet militare, un Mirage di fabbricazione francese, s’era abbassato per osservare la barca e poi aveva proseguito il volo, apparentemente soddisfatto. Finora tutto era andato bene. Nessuno aveva tentato di fermarli o di trattenerli.
Nell’interno spazioso della Calliope, Rudi Gunn era al centro del piccolo ma efficientissimo laboratorio, progettato da un team multidisciplinare di scienziati, che includeva versioni compatte e sofisticatissime di strumenti messi a punto dalla NASA per le esplorazioni spaziali. Il laboratorio non era soltanto attrezzato per analizzare i campioni d’acqua ma anche per comunicare, via satellite, i dati raccolti a un gruppo di scienziati della NUMA che lavoravano con i computer per identificare i composti complessi.
Gunn, che era uno scienziato tutto d’un pezzo, aveva dimenticato i possibili pericoli in agguato al di là delle paratie dell’elegantissima imbarcazione. Era assorto nel suo lavoro e contava su Pitt e Giordino perché lo proteggessero da ogni interruzione.
I motori e l’armamentario erano di competenza di Giordino. Per attutire il rombo dei motori portava una cuffia collegata a un mangianastri e ascoltava Harry Connick Jr. suonare il piano e cantare vecchi, famosi brani jazz. Stava seduto su una panca imbottita in sala macchine ed era occupatissimo a togliere dalle casse i lanciarazzi portatili e i relativi missili. Il Rapier era una nuova arma, adatta per tutti gli usi, studiata per colpire aerei subsonici, vascelli marini, carri armati e bunker di cemento. Si poteva sparare, issandola sulla spalla oppure collegandola a un sistema centrale. Giordino stava sistemando le varie componenti dell’arma negli alloggiamenti che permettevano ai gruppi di missili di partire attraverso gli oblò blindati della torretta a cupola che sovrastava la sala macchine e che, a un occhio distratto, appariva come un lucernario. La sovrastruttura — dall’aspetto del tutto innocente — sporgeva di un metro almeno dal ponte di poppa e poteva ruotare in un arco di 220 gradi. Dopo aver montato il lanciamissili e il sistema di guida e aver inserito i missili, Giordino incominciò a pulire e caricare un piccolo arsenale di fucili automatici e pistole. Aprì una cassa di bombe a mano incendiarie e ne caricò quattro in un tozzo lanciagranate.
Tutti, a bordo, svolgevano il rispettivo lavoro con fredda efficienza: solo la loro dedizione infallibile avrebbe garantito la riuscita della missione e la sopravvivenza dei tre uomini. L’ammiraglio Sandecker aveva scelto i migliori. Non avrebbe potuto trovare un equipaggio più adatto per realizzare un’impresa quasi impossibile neppure se avesse setacciato tutti gli Stati Uniti. La sua fiducia in quei tre sfiorava il fanatismo.
I chilometri fluivano sotto lo scafo. Le Cameroon Highlands e le Yoruba Hills che cingevano la parte meridionale del fiume si ergevano in una foschia appiattita dall’intensa umidità. Le foreste pluviali si alternavano a boschetti di acacie e mangrovie lungo le rive. I villaggi e le cittadine apparivano e scivolavano via mentre la prua della Calliope fendeva l’acqua sollevando una grande V di spuma.
Il traffico sul fiume era formato da ogni tipo di vascello conosciuto, dalle canoe ricavate dai tronchi d’albero ai vecchi traghetti sbuffanti e pericolosamente sovraccarichi di passeggeri, ai piccoli mercantili arrugginiti che anfanavano da un porto all’altro ed eruttavano il fumo disperso poi dalla brezza settentrionale. Era una scena pacifica e serena, e Pitt sentiva che non poteva continuare a lungo. Oltre ogni ansa del fiume un pericolo ignoto poteva essere in agguato per spedirli all’inferno.
Verso mezzogiorno passarono sotto il grande ponte, lungo 1404 metri, che scavalcava il fiume dal porto di Onitsha al centro agricolo di Asaba. Le cattedrali cattoliche montavano la guardia sulle vie trafficate di Onitsha circondate da stabilimenti industriali. Lungo l’acqua, i moli erano affollati di navi e barche che trasportavano merci e derrate alimentari verso valle e beni d’importazione verso monte.
Pitt era impegnato a destreggiarsi in mezzo al traffico fluviale e sorrideva fra sé nel vedere la gente che agitava i pugni e gridava imprecazioni quando la Calliope sfiorava pericolosamente le piccole barche e le faceva oscillare nella sua scia. Quando ebbe superato il porto, si rilassò, staccò le mani dalla ruota e fletté le dita. Era rimasto al timone per quasi sei ore, ma non era particolarmente stanco o intorpidito. Il sedile era comodo come la poltrona d’un dirigente e la guida era agevole e leggera come quella di un’automobile di lusso.
Giordino comparve al suo fianco con una bottiglia di birra Coors e un sandwich di tonno. «Ho pensato che avessi bisogno di nutrirti. Non hai mangiato da quando abbiamo lasciato il Sounder.»
«Grazie, il rombo dei motori è così forte che non sentivo il brontolio del mio stomaco.» Pitt gli affidò il timone e accennò a prua. «Stai attento al rimorchiatore che traina quelle chiatte, quando ti affiancherai per superarlo. Non fa altro che sbandare attraverso il canale.»
«Gli passerò lontano sul lato di tribordo», promise Giordino.
«Siamo in grado di sventare un eventuale abbordaggio?» chiese Pitt con un sorriso.
«Sì, per quanto è possibile. C’è qualche individuo sospetto nelle vicinanze?»
Pitt scosse la testa. «C’è stato un paio di sorvoli da parte di aerei militari nigeriani e gesti amichevoli di saluto degli equipaggi delle motovedette che abbiamo incrociato. Per il resto, è tutto tranquillo.»
«I burocrati del posto devono aver bevuto le frottole dell’ammiraglio.»
«Speriamo che anche i paesi più a monte siano altrettanto creduloni.»
Giordino indicò con il pollice il tricolore francese che sventolava a poppa. «Mi sentirei molto meglio se avessimo dietro di noi la bandiera a stelle e strisce, il Dipartimento di Stato, una squadra di rugby e una compagnia di marine.»
«Andrebbe bene anche la corazzata Iowa.»
«La birra è fredda? Ne ho messo una cassetta in frigo appena un’ora fa.»
«È abbastanza fredda», rispose Pitt addentando il sandwich. «Rudi non ha ancora fatto qualche rivelazione sensazionale?»
Giordino scosse la testa. «È perduto nel fantastico regno della chimica. Ho tentato di fare conversazione ma mi ha accennato di stargli alla larga.»
«Credo che andrò a trovarlo.»
Giordino sbadigliò. «Stai attento che non ti stacchi un ginocchio a morsi.»
Pitt rise e scese nel laboratorio di Gunn. Lo scienziato della NUMA stava studiando una stampata del computer, con gli occhiali rialzati sulla fronte. Giordino aveva sbagliato nel giudicare il suo atteggiamento: per la verità era di buon umore.
«Hai avuto fortuna?» chiese Pitt.
«Questo maledetto fiume contiene tutte le sostanze inquinanti note all’uomo, più svariate altre», rispose Gunn. «È più contaminato di quanto lo fossero l’Hudson e il James nei momenti peggiori.»
«Mi sembra tutto molto complicato», disse Pitt che si aggirava nella cabina e osservava l’equipaggiamento sofisticato, stipato dal pavimento al soffitto. «A cosa servono questi strumenti?»
«Dove hai preso la birra?»
«Ne vuoi una?»
«Sicuro.»
«Giordino ne ha messo una cassetta nel frigo della cambusa Aspetta un momento.»
Pitt s’infilò nella cambusa e, quando tornò, porse a Gunn una bottiglia di birra fredda.
Gunn bevve qualche sorso e sospirò. Poi disse: «Ecco, per rispondere alla tua domanda, nel nostro metodo di ricerca ci sono tre elementi chiave. Il primo richiede l’uso di una microincubatrice automatica. Me ne servo per esporre un piccolo quantitativo d’acqua del fiume entro provette che contengono campioni di marea rossa prelevati in alto mare. Poi la microincubatrice controlla otticamente la crescita dei dinoflagellati. Dopo qualche ora, il computer mi fornisce indicazioni sulla potenza dell’intruglio e la rapidità con cui si moltiplicano quei piccoli diavoli. Poi basta giocare un po’ con i numeri per avere una stima ragionevole del nostro avvicinamento alla fonte del problema».
«Dunque lo stimolatore della marea rossa non proviene dalla Nigeria.»
«No, i numeri fanno pensare che la fonte si trovi più a monte, lungo il fiume.»
Gunn girò intorno a Pitt e si accostò a un paio di unità squadrate, grandi all’incirca come due televisori, ma munite di sportelli al posto degli schermi. «Questi due strumenti servono a identificare la brodaglia schifosa, o la combinazione delle brodaglie, che causa il disastro. Il primo è un gascromatografo-spettrometro di massa. Per dirla in poche parole, mi limito a prendere le provette contenenti campioni dell’acqua del fiume e a metterle qui dentro. L’apparecchio estrae e analizza automaticamente il contenuto. I risultati, quindi, vengono interpretati dai computer di bordo.»
«E questo cosa ti dice, esattamente?» chiese Pitt.
«Identifica le sostanze inquinanti organiche sintetiche, inclusi i solventi, i pesticidi, i PCB, le diossine e una quantità di altri composti chimici. Mi auguro che questo apparecchio possa indicarci la struttura chimica del composto che provoca la mutazione e la stimolazione della marea rossa.»
«E se la sostanza contaminante fosse un metallo?»
«A questo punto entra in gioco lo spettrometro di plasma e di massa accoppiato induttivamente.» Gunn indicò il secondo strumento. «Ha lo scopo di identificare automaticamente tutti i metalli e gli altri elementi che potrebbero essere presenti nell’acqua.»
«Mi sembra molto simile al primo», commentò Pitt.
«Fondamentalmente il principio è lo stesso, ma la tecnologia è diversa. Anche in questo caso mi limito a caricare le provette con l’acqua prelevata dal fiume; premo il pulsante per avviare il procedimento e ogni due chilometri controllo il risultato.»
«E finora che cosa ti ha detto?»
Gunn s’interruppe per soffregarsi gli occhi arrossati. «Mi ha detto che il Niger trasporta metà dei metalli noti all’umanità, dal rame al mercurio, dall’oro all’argento, e persino l’uranio. E tutti in concentrazioni superiori ai livelli naturali.»
«Non sarà facile setacciarli», mormorò Pitt.
«Infine», soggiunse Gunn, «i dati vengono trasmessi per telemetria ai nostri ricercatori della NUMA che riesaminano i risultati nei loro laboratori e cercano quello che a me potrebbe essere sfuggito.»
Pitt sarebbe stato pronto a scommettere che a Gunn non sfuggiva mai nulla. Era evidente che il vecchio amico era ben più di uno scienziato e di un efficiente analista; era un uomo che pensava con fredda chiarezza e in modo estremamente costruttivo. Era laborioso e tenace e non conosceva il significato dell’espressione «gettare la spugna».
«Finora qualcosa indica quale sia il composto tossico che potrebbe essere responsabile del guaio?» chiese Pitt.
Gunn finì la birra e buttò la bottiglia in una scatola di cartone piena di fogli usciti dalla stampante del computer. «Tossico è un termine relativo. Nel mondo della chimica non esistono sostanze tossiche, ma soltanto livelli tossici.»
«E allora?»
«Ho identificato una quantità di inquinanti diversi e di composti che ricorrono in natura, metallici e organici. I sistemi identificano i livelli impressionanti di pesticidi che sono vietati negli Stati Uniti ma vengono ancora usati largamente nel Terzo Mondo. Ma non sono riuscito a isolare gli inquinanti chimici sintetici che fanno impazzire i dinoflagellati. In questo momento non so neppure cosa sto cercando. Non posso far altro che seguire i miei cani da caccia.»
«Più ci spingiamo avanti, e più la brodaglia scotta», mormorò Pitt. «Speravo che ormai avessi un’idea. Più ci addentriamo nell’interno dell’Africa e più diventerà difficile il viaggio di ritorno verso il mare aperto, soprattutto se i militari locali decidono di curiosare.»
«È meglio abituarsi all’idea che potremmo anche non trovare niente», ribatté irritato Gunn. «Non immagini neppure quante sostanze chimiche ci sono. Quelle prodotte dall’uomo superano i sette milioni, e ogni settimana soltanto i chimici americani ne creano altre seimila.»
«Ma non possono essere tutte quante tossiche.»
«A certi livelli quasi tutte le sostanze chimiche hanno qualche proprietà tossica. Tutto è tossico se viene inghiottito, aspirato o iniettato in determinate dosi. Persino l’acqua può essere fatale, quando se ne consuma tanta da eliminare dall’organismo umano gli elettroliti indispensabili.»
Pitt lo fissò: «Quindi non esistono certezze assolute».
«No.» Gunn scosse la testa. «L’unica cosa che so con certezza è che non abbiamo ancora superato il punto in cui la causa del disastro si getta nel fiume. Da quando siamo entrati nel delta e abbiamo incontrato i principali affluenti del basso Niger, il Kaduna e il Benue, i campioni d’acqua hanno fatto diventare frenetici i dinoflagellati. Ma non ho nessun indizio che punti al responsabile. L’unica buona notizia è che ho escluso come causa i microrganismi batterici.»
«E per quale motivo?»
«Ho sterilizzato i campioni d’acqua del fiume. L’eliminazione dei batteri non ha minimamente rallentato la riproduzione di quei piccoli mostri.»
Pitt diede a Gunn una pacca sulla spalla. «Se c’è qualcuno che può farcela a trovare il colpevole, quello sei tu.»
«Oh, lo troverò.» Gunn si tolse gli occhiali e pulì le lenti. «Sarà sconosciuto, diabolico e innaturale, ma lo troverò. Te lo prometto.»
La fortuna li abbandonò l’indomani pomeriggio, un’ora dopo che avevano attraversato il confine nigeriano per proseguire nel tratto di fiume che separava il Benin dal Niger. A prua della Calliope, Pitt osservava in silenzio il fiume fiancheggiato dalla fitta giungla verde, una giungla umida e scostante. Le nubi grigie avevano conferito all’acqua un colore plumbeo. Davanti a lui il fiume s’incurvava leggermente e sembrava fargli un cenno di richiamo, simile all’indice ossuto della morte.
Giordino era al timone, e i primi segni di stanchezza gli si incidevano agli angoli degli occhi. Pitt gli stava accanto e seguiva con gli occhi un cormorano solitario che planava su una corrente ascensionale. All’improvviso l’uccello sbatté le ali e scese fra gli alberi lungo la riva.
Pitt prese il binocolo dal banco e scorse la prua di un battello che si intravedeva appena oltre un’ansa. «I locali stanno per venire a farci visita», annunciò.
«L’ho visto.» Giordino si alzò e si schermò gli occhi con una mano. «Mi correggo. Li ho visti. Sono due.»
«E vengono verso di noi con le armi puntate. Non promette niente di buono.»
«Che bandiera battono?»
«Quella del Benin», rispose Pitt. «Di fabbricazione russa, a giudicare dalle linee.» Pitt posò il binocolo e aprì un diagramma che permetteva di riconoscere le unità aeree e navali dell’Africa occidentale. «Mezzi d’attacco fluviali, armati con due mitragliere binate da trenta millimetri, con una potenza di fuoco di circa cinquecento colpi al minuto.»
«Non va», borbottò Giordino. Diede un’occhiata alla carta del fiume. «Ancora quaranta chilometri e usciremo dal territorio del Benin per trovarci in quello del Niger. Con un po’ di fortuna e i motori al massimo, potremmo raggiungere il confine prima dell’ora di pranzo.»
«Lascia perdere la fortuna. Quei tali non hanno intenzione di fare ciao-ciao e di augurarci buon viaggio. Non sembra un’ispezione di routine, con tutte quelle armi puntate contro di noi.»
Giordino si voltò e indicò il cielo, sopra la poppa. «La situazione si complica. Hanno chiamato un avvoltoio.»
Pitt si girò di scatto e vide un elicottero che sorvolava l’ultima ansa, a non più di dieci metri dalla superficie dell’acqua. «Tutte le speranze di un incontro amichevole sono svanite.»
«Mi sembra una trappola», commentò Giordino senza perdere la calma.
Pitt avvertì Gunn, che lasciò la centrale elettronica e venne informato della situazione.
«Lo prevedevo», disse semplicemente.
«Ci stavano aspettando», spiegò Pitt. «Non si tratta di un incontro casuale. Se hanno intenzione di sbatterci al fresco e di confiscare la barca, ci faranno fuori come spie appena scopriranno che siamo francesi quanto la band di Bruce Springsteen. Non possiamo permetterlo. I dati che abbiamo raccolto da quando abbiamo cominciato a risalire il fiume devono arrivare nelle mani di Sandecker e di Chapman. Quei tizi cercano guai, e non può esserci una candida, innocente cooperazione da parte nostra. O vanno a fondo loro, o ci andiamo noi.»
«Potrei far fuori l’elicottero e, con un po’ di fortuna, la barca più vicina», disse Giordino. «Ma non posso toglierli di mezzo tutti e tre prima che uno ci faccia a pezzi.»
«Bene, ecco cosa faremo.» Pitt parlò con calma mentre guardava le cannoniere che si avvicinavano. Spiegò il suo piano e Gunn e Giordino ascoltarono pensierosi. Quando ebbe terminato, li guardò. «Qualche commento?»
«Da queste parti parlano francese», gli fece osservare Gunn. «Com’è il tuo vocabolario?»
Pitt alzò le spalle. «Mi arrangerò.»
«Allora procediamo», disse Giordino in tono cupo, prevedendo il peggio.
I suoi amici erano i primi della classe, pensò Pitt. Gunn e Giordino non erano professionisti di un team delle Forze Speciali, ma erano coraggiosi ed efficienti, gli uomini ideali da avere al fianco in una battaglia. Non avrebbe potuto sentirsi più sicuro se fosse stato al comando di un caccia lanciamissili con duecento uomini d’equipaggio.
«Bene», disse con un sorriso deciso. «Mettete le cuffie e restate in collegamento. Buona fortuna.»
L’ammiraglio Pierre Matabu, sul ponte della prima cannoniera, scrutava con il binocolo lo yacht che risaliva veloce il fiume. La sua espressione era quella di un truffatore che ha individuato una vittima facile. Matabu era basso, tozzo, sui trentacinque anni, e indossava una vistosa, gallonatissima uniforme di sua invenzione. Nella sua qualità di capo della Marina del Benin, carica che aveva ottenuto grazie al fratello, il presidente Tougouri, comandava una flotta che consisteva di quattrocento uomini, due cannoniere fluviali e tre motovedette oceaniche. Tutta la sua esperienza, prima di diventare ammiraglio, era costituita dai tre anni in cui aveva lavorato come mozzo a bordo di un traghetto.
Behanzin Ketou, il comandante della cannoniera, gli stava al fianco, mezzo passo indietro. «È stato molto opportuno che sia venuto in volo dalla capitale per prendere il comando, ammiraglio.»
«Sì», sorrise Matabu. «Mio fratello sarà molto soddisfatto quando gli offrirò un nuovo, splendido yacht da diporto.»
«I francesi sono arrivati secondo le sue previsioni.» Ketou era alto, magro e aveva un portamento fiero. «La sua preveggenza è straordinaria.»
«È molto gentile da parte loro fare ciò che comandano le onde del mio pensiero», dichiarò raggiante Matabu. Non disse che i suoi agenti avevano riferito sul passaggio della Calliope ogni due ore da quando era entrata nel delta in Nigeria. Il fatto che fosse arrivata nelle acque del Benin avverava il suo desiderio.
«Devono essere personaggi molto importanti, se hanno una barca così lussuosa.»
«Sono agenti nemici.»
La faccia di Ketou rispecchiava incertezza e scetticismo. «Direi che si mettono un po’ troppo in vista, in questo caso.»
Matabu abbassò il binocolo e lo fissò con aria truce. «Non metta in dubbio le mie informazioni, comandante. Mi creda, gli stranieri bianchi fanno parte di una cospirazione per saccheggiare le ricchezze naturali del nostro Paese.»
«Saranno arrestati e processati nella capitale?»
«No. Li ucciderà non appena sarà salito a bordo e troverà le prove della loro colpevolezza.»
«Prego?»
«Ho dimenticato di dire che lei avrà l’onore di comandare l’abbordaggio», annunciò Matabu in tono pomposo.
«Non può essere un’esecuzione», protestò Ketou. «I francesi pretenderanno un’inchiesta quando sapranno che alcuni loro concittadini importanti sono stati assassinati. Suo fratello non tollererebbe…»
«Getterà i cadaveri nel fiume. E non discuta i miei ordini», l’interruppe freddamente Matabu.
Ketou desistette. «Come vuole, ammiraglio.»
Matabu guardò di nuovo con il binocolo. Lo yacht era appena a duecento metri di distanza e stava rallentando. «Faccia mettere i suoi uomini in posizione per l’abbordaggio. Io lancerò personalmente alle spie l’ordine di farvi salire.»
Ketou parlò al suo primo ufficiale, che ripeté le disposizioni con un altoparlante al comandante della seconda cannoniera. Poi Ketou tornò a concentrarsi sullo yacht. «Ha qualcosa di strano», disse a Matabu. «Non si vede nessuno, a parte l’uomo che sta al timone.»
«Probabilmente quei porci europei saranno sottocoperta, ubriachi fradici. Non sospettano di nulla.»
«È strano. Non sembrano allarmati dalla nostra presenza e non reagiscono ai nostri cannoni puntati.»
«Faccia sparare solo se tentano di scappare», ordinò Matabu. «Voglio che lo yacht sia catturato indenne.»
Ketou puntò il binocolo su Pitt. «Il timoniere ci saluta con la mano e sorride.»
«Non sorriderà ancora per molto», disse Matabu scoprendo i denti in una smorfia minacciosa. «Fra pochi minuti sarà morto.»
«Venite nel mio salotto, disse il ragno alle tre mosche», mormorò Pitt mentre agitava la mano in segno di saluto e sfoggiava un gran sorriso.
«Hai detto qualcosa?» chiese Giordino dall’interno della torretta lanciamissili.
«Parlavo da solo.»
«Dagli oblò di prua non vedo niente», disse Gunn, dalla sua postazione. «Qual è la mia linea di fuoco?»
«Tieniti pronto a stendere gli artiglieri sulla barca a babordo quando te lo dirò», rispose Pitt.
«Dov’è l’elicottero?» chiese Giordino, che non avrebbe potuto vedere nulla fino a quando non avesse abbassato lo schermo della torretta.
Pitt scrutò il cielo al di sopra della scia. «È librato a cento metri di distanza, direttamente a poppa, una cinquantina di metri sopra la superficie del fiume.»
I loro preparativi non erano ispirati a mezze misure. Nessuno dei tre pensava che le cannoniere e l’elicottero del Benin li avrebbero lasciati transitare indisturbati. Tacevano, pronti e rassegnati all’idea di dover combattere per salvarsi la vita. La paura si dileguava via via che si avvicinavano al punto di non ritorno. Erano ostinatamente decisi a non perdere: non erano disposti a sottomettersi e a porgere l’altra guancia. Avevano di fronte tre mezzi armati nemici, ma il fattore sorpresa era dalla loro parte.
Pitt appoggiò il lanciagranate sotto una nicchia, accanto al suo sedile. Poi regolò i motori sul «folle» mentre scrutava le due cannoniere, ignorando l’elicottero che, nelle fasi iniziali della battaglia, sarebbe stato un problema di Giordino. Ormai era abbastanza vicino per studiare gli ufficiali, e arrivò in fretta alla conclusione che l’africano grasso dalla buffa uniforme da operetta doveva avere il comando. Poi fissò, affascinato, l’Angelo della Morte, che ricambiò lo sguardo con le nere bocche dei cannoni puntate contro di lui.
Pitt non conosceva l’identità dell’ufficiale arrogante che, dalla plancia, lo scrutava con il binocolo. E non gli importava affatto di saperla. Ma ringraziava il cielo perché il suo avversario aveva commesso un errore tattico: non aveva piazzato di traverso le due cannoniere per sbarrate il passaggio alla Calliope in attesa di aprire il fuoco.
L’onda sollevata dalla prua si smorzò quando lo yacht s’infilò fra le due cannoniere che si erano già fermate e venivano sospinte dalla corrente del fiume. Pitt ridusse la velocità quanto bastava per restare in movimento. Gli scafi delle cannoniere torreggiavano al di sopra della Calliope a non più di cinque metri di distanza. Dal suo posto, Pitt vedeva gli uomini dell’equipaggio: avevano un atteggiamento disinvolto, con le pistole ancora nelle fondine. Nessuno imbracciava fucili automatici. Sembrava che aspettassero il loro turno in un poligono di tiro. Pitt alzò lo sguardo verso Matabu con aria innocente.
«Bonjour!»
Matabu si sporse e, in francese, gli gridò di fermarsi per l’ispezione.
Pitt non comprese neppure una parola. «Pouvez-vous me recommander un bon restaurant?» gridò.
«Che cos’ha detto Dirk?» chiese Giordino a Gunn.
«Mio Dio!» gemette Gunn. «Ha chiesto al capoccia di consigliargli un buon ristorante.»
Le cannoniere stavano passando oltre lentamente, mentre Pitt continuava a tenere lo yacht in posizione perché la corrente non lo portasse verso valle. Matabu ripeté l’ordine di fermarsi per l’ispezione.
Pitt s’irrigidì e si sforzò di assumere un’aria garbata e disarmante. «J’amerais une bouteille de Martin Ray Chardonnay.»
«Ma cosa sta dicendo?» chiese Giordino.
Gunn sembrava smarrito. «Credo che abbia ordinato una bottiglia di vino californiano.»
«E adesso chiederà un barattolo di senape Grey Poupon», borbottò Giordino.
«Penso che stia cercando di tenerli a bada fino a quando la corrente li avrà allontanati un po’.»
A bordo della cannoniera, Matabu e Ketou avevano l’aria di non capire nulla mentre Pitt gridava, questa volta nella sua lingua: «Non capisco lo swahili. Perché non parlate inglese?»
Matabu batté il pugno sul banco della plancia in uno scatto di rabbiosa esasperazione. Non era abituato all’indifferenza. Rispose in un inglese zoppicante che Pitt riuscì a decifrare a fatica. «Sono l’ammiraglio Pierre Matabu, capo della Marina nazionale del Benin», annunciò in tono pomposo. «Fermate i motori e accostate per l’ispezione. Accostate, o darò l’ordine di sparare.»
Pitt annuì energicamente e agitò le mani in un gesto d’obbedienza. «Sì, sì, non sparate. Per favore, non sparate.»
Il quartiere di poppa della Calliope stava arrivando lentamente all’altezza della poppa della cannoniera di Matabu. Pitt continuò a mantenere una distanza sufficiente perché soltanto un primatista mondiale di salto in lungo potesse balzare a bordo senza problemi. Due beniniani lanciarono le cime sui ponti di prua e di poppa, ma Pitt non si mosse per andare a prenderle.
«Leghi le cime», ordinò Ketou.
«Troppo lontane.» Pitt alzò le spalle. Alzò una mano e descrisse un mezzo arco. «Aspettate, torno indietro.»
Non attese la risposta. Spinse in avanti le leve e girò il timone; lo yacht scivolò lentamente in una virata a 180 gradi intorno alla poppa della cannoniera prima di riportarsi in linea accostandosi alla fiancata opposta. Le imbarcazioni, adesso, erano su rotte parallele, con le prue puntate verso valle. Pitt notò, soddisfatto, che le mitragliere da trenta millimetri non potevano abbassare l’alzo a sufficienza per colpire il quartiere di poppa della Calliope.
Matabu lo fissò dall’alto: sulla faccia grassa gli era spuntato un sorriso di trionfo. Ketou non sembrava condividere la feroce soddisfazione del suo superiore: anzi, aveva un’aria molto insospettita.
Con calma e senza smettere di sorridere, Pitt attese fino a quando la torretta di Giordino fu perfettamente affiancata alla sala macchine della cannoniera. Tenne una mano sulla ruota, abbassò l’altra sotto il sedile e afferrò il lanciagranate. Poi, a voce bassa, parlò nel microfono della cuffia:
«Elicottero diritto davanti a noi. Cannoniera a babordo. Bene, signori, incomincia lo spettacolo. Facciamoli fuori!»
Mentre Pitt parlava, Giordino abbassò lo scudo interno alla torretta e fece partire un missile Rapier che andò a centrare i serbatoi dell’elicottero. Gunn schizzò fuori dal boccaporto di prua, stringendo sotto le ascelle due fucili automatici M-16 modificati. Cominciò a sparare, falciando gli uomini alle mitragliere da trenta millimetri e facendoli volare come se fossero pula vomitata da una mietitrebbia. Pitt puntò in aria il lanciagranate e sparò la prima bomba incendiaria al di sopra della nave di Matabu, mirando alla sovrastruttura della seconda. Non riusciva a vederla, e quindi era costretto a sparare alla cieca. La granata rimbalzò su un verricello, piombò nel fiume ed esplose sott’acqua con un tremendo boato. Il secondo lancio mancò completamente la cannoniera e scoppiò con un identico risultato.
Matabu non era preparato allo spettacolo orrendo che lo circondava. Aveva l’impressione che il cielo e l’aria si lacerassero all’improvviso. La sua mente sbigottita si sforzò di accettare la disintegrazione dell’elicottero che eruppe in una gigantesca sfera di fuoco, seguita da una pioggia di rottami che ricadeva nel fiume in un torrente fiammeggiante.
«Quei bianchi bastardi ci hanno ingannati!» urlò Ketou, furioso al pensiero di essere caduto nella trappola. Si precipitò al parapetto e agitò rabbiosamente il pugno verso la Calliope. «Abbassate i cannoni e sparate!» gridò agli artiglieri.
«Troppo tardi!» esclamò atterrito Matabu. Sopraffatto dal panico, l’ammiraglio si acquattò e rimase immobile mentre i suoi cadevano falciati dalle armi di Gunn. Impietrito, incredulo, guardò i corpi oscenamente contorti e raggomitolati intorno alle mitragliere mute, mentre il sangue scorreva sulla tolda. Non poteva accettare l’idea di una nave che, camuffata da innocuo yacht con una bandiera rispettabile, avesse una potenza di fuoco sufficiente per trasformare in orrore il suo piccolo mondo. Lo sconosciuto al timone dell’intrusa aveva trasformato il fattore sorpresa in un’arma tattica. Gli uomini di Matabu erano sopraffatti dallo shock e sembravano incapaci di liberarsene. Si aggiravano come bestiame durante un temporale, frastornati e impauriti, e cadevano senza sparare un colpo. Poi, con una certezza agghiacciante, l’ammiraglio comprese che sarebbe morto anche lui; se ne rese conto quando la torretta a poppa dello yacht girò e vomitò un altro missile che penetrò nello scafo ligneo della cannoniera e colpì un generatore in sala macchine prima di esplodere.
Quasi nello stesso istante, il terzo lancio di Pitt arrivò a segno. Miracolosamente la bomba incendiaria urtò una paratia, rimbalzò e piombò in un boccaporto aperto. In un concerto di esplosioni eruttò con un ruggito di fiamme e incendiò le munizioni del magazzino. I frammenti e il fumo saettarono in un vortice di paratie sfondate, ventilatori, pezzi di scialuppe e cadaveri straziati. E fu la fine. L’onda d’urto fu come un colpo di maglio: sospinse la cannoniera di Matabu contro lo yacht con un urto violento che fece cadere Pitt.
Il missile di Giordino dilaniò la sala macchine della cannoniera in un olocausto di metallo squarciato e di fasciame sminuzzato. L’acqua penetrò attraverso una grande falla sul fondo e la nave prese ad affondare rapidamente. L’interno era un orrore incandescente: lingue di fiamma guizzavano dagli oblò aperti. Spire di fumo nero e untuoso salivano nell’aria tropicale prima di disperdersi sopra le foreste che fiancheggiavano le rive.
Ormai non erano rimasti bersagli intorno alle mitragliere o sui ponti, e Gunn sparò gli ultimi colpi contro le due figure che stavano in plancia. Due proiettili penetrarono nel petto di Matabu che si alzò in piedi, rimase immobile per lunghi attimi con le mani contratte in una stretta convulsa sulla ringhiera, lo sguardo fisso sul sangue che gli macchiava l’uniforme immacolata. Poi, lentamente, si accasciò sul ponte.
Per qualche secondo un silenzio disperato scese sul fiume, rotto soltanto dal crepitio sommesso della nafta che bruciava in superficie. Poi all’improvviso, come se erompesse dal profondo dell’inferno, una voce straziata gridò dall’acqua.
«Porci occidentali!» gridò Ketou. «Avete assassinato il mio equipaggio.» Era immobile contro lo sfondo del cielo grigio, con il sangue che gli sgorgava da una ferita alla spalla, stordito dallo shock del disastro che lo circondava.
Gunn lo guardò al di sopra delle canne dei fucili scarichi. Per un momento Ketou ricambiò minacciosamente lo sguardo, poi fissò Pitt che si stava rialzando per rimettersi al timone.
«Porci occidentali!» ripeté Ketou.
«Quel che è giusto, è giusto», gridò Pitt fra il crepitare delle fiamme. «Vi è andata male.» Poi soggiunse: «Abbandoni la nave. Verremo a prenderla…»
Con la rapidità dello scatto d’una macchina fotografica, Ketou balzò dalla scaletta e corse verso poppa. La cannoniera s’era inclinata a tribordo e l’acqua arrivava alle frisate mentre Ketou si sforzava di avanzare sulla tolda fortemente inclinata.
«Fermalo, Rudi», ordinò Pitt nel microfono. «Sta andando alle mitragliere di poppa.»
Gunn non disse nulla. Gettò via le armi ormai inutili, si infilò nel compartimento di prua e afferrò un fucile automatico Remington TR870. Pitt azionò convulsamente la leva, girò la ruota verso tribordo e fece virare la Calliope, puntando di nuovo la prua verso monte. Le eliche azzannarono l’acqua che ribollì sotto la poppa, e lo yacht sfrecciò via come un cavallo da corsa che esce dai cancelli di partenza.
Sul fiume, ormai, erano rimasti soltanto rottami galleggianti e chiazze di nafta. La cannoniera del comandante Ketou continuava a sprofondare. L’acqua affluiva nello scafo sventrato, sibilava, si sollevava in nubi di vapore e scorreva intorno alle ginocchia di Ketou che aveva ormai raggiunto le mitragliatrici binate, le aveva fatte girare verso lo yacht in fuga e stava premendo il pulsante per sparare.
«Al!» gridò Pitt.
La risposta fu il sibilo del missile lanciato da Giordino. Una scia di fiamma arancio e di fumo bianco sfrecciò nell’aria in direzione della cannoniera. Ma la brusca virata di Pitt e la spinta dell’accelerazione improvvisa avevano alterato la mira. Il missile passò sopra la cannoniera che affondava ed esplose fra gli alberi della riva.
Gunn apparve a fianco di Pitt, prese accuratamente la mira e cominciò a sparare con il Remington in direzione di Ketou. Il tempo sembrò rallentare mentre i proiettili cadevano intorno alle mitragliatrici e colpivano l’africano. Erano troppo lontani per vedere l’odio e la frustrazione sul lucido volto nero. E non videro neppure che era morto mentre prendeva la mira e che la mano ormai inerte stava premendo il pulsante.
Una raffica di fuoco piombò verso la Calliope. Pitt virò prontamente a babordo, ma l’ironia della battaglia doveva ancora emergere: dopo una sconfitta catastrofica, un morto aveva sferrato un colpo con una precisione che gli sarebbe rimasta sconosciuta per sempre. Gli zampilli d’acqua avvolsero lo yacht mentre i proiettili strappavano l’alloggiamento aerodinamico che ospitava l’antenna parabolica via satellite, l’antenna per le comunicazioni e il transponder per la navigazione e ne scagliavano i resti nel fiume. Il parabrezza della timoneria andò in frantumi e volò via. Gunn si gettò bocconi sulla tolda, ma Pitt poté soltanto chinarsi sulla ruota e attendere che la tempesta finisse. Non riuscivano a udire l’impatto dei proiettili a causa del rombo dei motori turbodiesel forzati al massimo. Ma vedevano i frammenti che saettavano tutto intorno.
Poi Giordino riuscì a prendere la mira e lanciò l’ultimo missile. La poppa della cannoniera svanì in uno sbuffo di fumo e di fiamme. Poi l’intera nave sparì: affondò lasciando in superficie un tappeto fremente di bolle d’aria e una pellicola di nafta che si estendeva a poco a poco. Il comandante in capo della Marina del Benin e la sua flotta fluviale non esistevano più.
Con uno sforzo, Pitt voltò le spalle al tratto di fiume invaso dai rottami e guardò il suo yacht e i suoi amici. Gunn si stava rialzando: sulla testa calva aveva un taglio sanguinante. Giordino lasciò la sala motori con l’aria di chi è appena uscito da un campo di pallavolo: stanco e sudato, ma pronto a incominciare un’altra partita.
Indicò il fiume, verso monte. «Ormai siamo spacciati», gridò all’orecchio di Pitt.
«Forse no», urlò Pitt in risposta. «A questa velocità varcheremo il confine del Niger fra venti minuti.»
«Speriamo di non aver lasciato testimoni.»
«Non ci contare. E anche se non ci fossero superstiti, qualcuno da riva deve aver visto lo scontro.»
Gunn strinse il braccio di Pitt e gridò: «Appena saremo arrivati in Niger, torneremo indietro per riprendere la ricerca».
«Affermativo», disse Pitt. Lanciò un’occhiata in direzione dell’antenna parabolica via satellite e dell’antenna per le comunicazioni: e in quel momento notò che erano sparite, assieme al riparo a profilo aerodinamico. «Possiamo dire addio all’idea di contattare l’ammiraglio e di fargli un rapporto completo.»
«E i laboratori della NUMA non potranno ricevere i miei dati», commentò mestamente Gunn.
«È un peccato non potergli dire che la tranquilla crociera sul Niger si è appena trasformata in un incubo sanguinoso», disse Giordino in tono rabbioso.
«Se non troviamo un altro modo per andarcene siamo spacciati», commentò Pitt.
«Vorrei tanto vedere la faccia dell’ammiraglio.» Giordino sogghignò. «Quando saprà che gli abbiamo rotto la barchetta.»
«La vedrai», gridò Gunn facendosi portavoce con le mani mentre scendeva nel compartimento elettronico. «La vedrai.»
Che stupido pasticcio, pensò Pitt. Avevano incominciato la missione appena da un giorno e mezzo e avevano ucciso almeno trenta uomini, abbattuto un elicottero e affondato due cannoniere… E tutto per salvare l’umanità, pensò con una punta di sarcasmo. Ormai non era possibile tornare indietro. Dovevano trovare la sostanza contaminante prima che le forze della sicurezza del Niger o del Mali li fermassero una volta per tutte. In ogni caso, le loro vite non valevano un dollaro bucato.
Guardò la piccola antenna radar dietro il quartiere di poppa. Se non altro, il disco era indenne e continuava a funzionare. Sarebbe stato un inferno navigare sul fiume di notte o nella nebbia senza il radar. La perdita dell’unità per la navigazione a mezzo satellite significava che avrebbero dovuto identificare il punto di entrata della sostanza tossica nel fiume aiutandosi con punti di riferimento riconoscibili. Ma almeno erano illesi, lo yacht era ancora in condizioni di navigare: infatti filava sul fiume a una velocità che rasentava i settanta nodi. L’unica preoccupazione, adesso, era il rischio di urtare contro un oggetto galleggiante o un tronco sommerso. A quella velocità, una collisione avrebbe squarciato lo scafo e la Calliope, dopo essersi capovolta, sarebbe affondata.
Per fortuna il fiume era sgombro, e i calcoli di Pitt erano sbagliati di pochissimo. Entrarono nella repubblica del Niger diciotto minuti più tardi, mentre nel cielo e nell’acqua non c’era traccia di forze della sicurezza. Quattro ore più tardi ormeggiarono al molo dei rifornimenti della capitale, Niamey. Dopo aver fatto il pieno di carburante e aver sopportato i soliti traccheggiamenti dei funzionali dell’immigrazione, furono autorizzati a proseguire.
Mentre le costruzioni di Niamey e il ponte John F. Kennedy recedevano nella scia della Calliope, Giordino commentò in tono allegro: «Finora è andato tutto bene. Più di così non può capitarci».
«Non è andata bene», rettificò Pitt, che era al timone. «E può capitare di ben peggio.»
Giordino lo fissò: «Perché sei così pessimista? Da queste parti non sembra che la gente ce l’abbia con noi».
«È stato troppo facile», spiegò Pitt. «Non è così che funzionano le cose in questa parte del mondo, in Africa, dopo la litigata con le cannoniere del Benin. Hai notato che quando abbiamo presentato i passaporti e i documenti dello yacht ai funzionari dell’immigrazione non c’era in giro neppure un poliziotto o un militare armato?»
«Potrebbe essere una coincidenza?» Giordino alzò le spalle. «O è la procedura?»
«Né l’una né l’altra.» Pitt scosse la testa con aria solenne. «Ho l’impressione che qualcuno stia giocando con noi.»
«Credi che le autorità del Niger sapessero del nostro scontro con la Marina del Benin?»
«Qui le notizie volano, e sono pronto a scommettere che ci hanno preceduti. Senza dubbio i militari del Benin hanno avvertito il governo del Niger.»
Giordino non era convinto. «E allora perché i burocrati di Niamey non ci hanno arrestati?»
«Non ne ho idea», rispose pensosamente Pitt.
«Sandecker?» suggerì Giordino. «Forse è intervenuto.»
Pitt scosse la testa. «L’ammiraglio è un pezzo grosso a Washington, ma qui non ha potere.»
«Allora qualcuno vuole impossessarsi di qualcosa che abbiamo.»
«È appunto la mia impressione.»
«Ma cosa può essere?» chiese Giordino, esasperato. «I dati sulla contaminazione?»
«A parte noi tre, Sandecker e Chapman, nessuno conosce lo scopo del nostro progetto. A meno che ci sia una falla, deve trattarsi di qualcosa d’altro.»
«Per esempio?»
Pitt sogghignò. «Non pensi che potrebbe essere la nostra barca?»
«La Calliope?» Giordino era incredulo. «No, trova una ragione più valida.»
«No», insistette Pitt. «Pensaci bene. Un’imbarcazione altamente specializzata, costruita in gran segreto, capace di raggiungere i settanta nodi, e armata quanto basta per togliere di mezzo un elicottero e due cannoniere nel giro di tre minuti. Qualunque capo militare dell’Africa occidentale darebbe un occhio per metterci le mani sopra.»
«Okay, sono d’accordo», borbottò Giordino. «Ma rispondi a una domanda. Se la Calliope è tanto appetibile, perché gli scagnozzi del Niger non se ne sono impadroniti mentre facevamo rifornimento a Niamey?»
«Provo a indovinare? Bene, qualcuno ha concluso un accordo.»
«Chi?»
«Non lo so.»
«Perché?»
«Non sono in grado di dirlo.»
«E allora, quando sferreranno il colpo?»
«Ci hanno lasciato proseguire; perciò la risposta deve essere: nel Mali.»
Giordino fissò Pitt. «Quindi non torneremo indietro lungo lo stesso percorso.»
«Quando abbiamo annientato la Marina del Benin abbiamo preso un biglietto di sola andata.»
«Sono fermamente convinto che arrivare a destinazione sia metà del divertimento.»
«Il divertimento è finito, se hai una mentalità tanto morbosa da chiamarlo così.» Pitt scrutò le sponde del fiume. La vegetazione verde aveva lasciato il posto a un paesaggio brullo di cespugli bassi, ghiaia e terra giallastra. «A giudicare dal terreno, forse dovremo scambiare la barca con qualche dromedario, se vogliamo avere qualche speranza di tornare a casa.»
«Oh, Dio!» gemette Giordino. «Immagini me in groppa a uno scherzo della natura? Io sono un uomo ragionevole, convinto che Dio ha creato i cavalli solo perché fanno bella figura nei film western.»
«Sopravvivremo», disse Pitt. «L’ammiraglio smuoverà cielo, terra e inferno per tirarci fuori di qui non appena avremo scoperto da dove arriva la brodaglia velenosa.»
Giordino si voltò a guardare il Niger con aria mesta. «Dunque è questo», mormorò.
«Che cosa?»
«Il fiume leggendario che secondo il proverbio la gente risale per ritrovarsi poi bloccata perché perde il remo.»
Pitt aggricciò le labbra in un sorriso sarcastico. «Se siamo arrivati a questo, allora ammainiamo il tricolore francese e, per Dio, issiamo la nostra bandiera.»
«Abbiamo l’ordine di nascondere la nostra nazionalità», protestò Giordino. «Non possiamo agire alla chetichella sbandierando stelle e strisce.»
«E chi ha parlato di stelle e strisce?»
Giordino lo guardò, frastornato. «D’accordo. Posso chiedere che razza di bandiera intendi battere?»
«Questa.» Pitt frugò in un cassetto del banco e gli buttò un vessillo nero ripiegato. «L’ho presa in prestito a una festa mascherata, un paio di mesi fa.»
Con un’espressione scandalizzata, Giordino guardò il teschio ghignante al centro del drappo rettangolare. «Il Jolly Roger? Hai intenzione di alzare il vessillo pirata?»
«Perché no?» La sorpresa di Pitt sembrava sincera di fronte allo sgomento dell’amico. «Mi sembra giusto fare una buona impressione con la bandiera appropriata.»
«Siamo davvero un bell’assortimento di investigatori internazionali in caccia delle cause di un’epidemia», sospirò Hopper mentre guardava il sole che tramontava sui laghi e gli acquitrini dell’alto corso del Niger. «Abbiamo scoperto soltanto la tipica indifferenza del Terzo Mondo nei confronti degli impianti igienici.»
Eva era seduta su uno sgabello davanti alla stufetta a petrolio che aveva il compito di scacciare il freddo della sera. «Ho controllato quasi tutte le tossine conosciute e non sono riuscita a trovare una sola traccia. Quale che sia la nostra malattia fantasma, è molto sfuggente.»
Accanto a lei era seduto un uomo più anziano, alto e massiccio, con i capelli grigioferro, gli occhi celesti e l’aria saggia e pensosa. Il dottor Warren Grimes, neozelandese, era il più noto epidemiologo del progetto. In quel momento stava contemplando un bicchiere di club soda. «Nemmeno io ho scoperto nulla. Tutte le colture che ho ottenuto entro un raggio di cinquecento chilometri erano libere da microrganismi associabili ai fenomeni patologici.»
«È possibile che abbiamo trascurato qualcosa?» chiese Hopper mentre si lasciava cadere su una sedia pieghevole con i cuscini imbottiti.
Grimes alzò le spalle. «Senza le vittime, non posso fare domande né autopsie e tantomeno procurarmi campioni di tessuti né analizzare i risultati. Ho bisogno di dati di questo tipo per comparare i sintomi ed effettuare uno studio di controllo.»
«Se c’è qualcuno che muore per contaminazione tossica», disse Eva, «non si trova certo da queste parti.»
Hopper distolse lo sguardo dalla luce arancio che svaniva all’orizzonte, prese un pentolino dalla stufa e si versò un po’ di tè. «È possibile che i dati fossero falsi o esagerati?»
«La nostra sede centrale ha ricevuto soltanto segnalazioni molto vaghe», gli rammentò Grimes.
«Non avevamo dati concreti né ubicazioni esatte… A quanto pare abbiamo agito troppo precipitosamente.»
«Secondo me, è un insabbiamento», disse all’improvviso Eva.
Vi fu un attimo di silenzio. Hopper la fissò, poi guardò Grimes.
«Se lo è, bisogna ammettere che è molto efficace», mormorò il neozelandese.
«Non me la sento di escluderlo a priori», disse Hopper, incuriosito. «Anche i team che operano nel Niger, nel Ciad e nel Sudan riferiscono di non aver trovato nulla.»
«E tutto questo indica che la contaminazione è nel Mali, non nelle altre nazioni.»
«Si possono seppellire le vittime», osservò Grimes. «Ma non si possono nascondere le tracce della contaminazione. Se fosse qui, l’avremmo trovata. La mia opinione personale è che stiamo andando a caccia di un asino che vola.»
Eva lo guardò con fermezza. I suoi occhi azzurri sembravano più grandi nel riflesso della fiamma della stufetta da campo. «Se nascondono le vittime possono anche manomettere e alterare i rapporti.»
«Ah!» Hopper annuì. «Eva non ha torto. Non mi fido di Kazim e del suo branco di serpenti. Non mi hanno ispirato fiducia fin dal primo momento. E se alterassero i rapporti per buttarci fuori del campo di gioco? E se la contaminazione non fosse dove ci hanno fatto credere?»
«È una possibilità che vale la pena di approfondire», ammise Grimes. «Abbiamo concentrato l’attenzione sulle regioni più umide e popolose del Paese perché sarebbe logico che proprio lì ci fosse la massima incidenza dell’epidemia.»
«E da qui dove dovremmo andare?» chiese Eva.
«Dobbiamo tornare a Timbuctu», rispose Hopper con fermezza. «Avete notato l’espressione della gente che abbiamo interrogato prima di dirigerci verso sud? Erano tutti nervosi e preoccupati. Ce l’avevano scritto in faccia. È possibile che li avessero spaventati per costringerli a tacere.»
«Soprattutto i tuareg venuti dal deserto», disse Grimes.
«E in particolare le donne e i bambini», soggiunse Eva. «Hanno rifiutato di farsi visitare.»
Hopper scosse la testa. «È colpa mia. Sono stato io a decidere di voltare le spalle al deserto. È stato un errore. Adesso me ne rendo conto.»
«Sei uno scienziato, non uno psicologo», lo consolò Grimes.
«Sì», ammise Hopper. «Sono uno scienziato. Ma non sopporto che mi si prenda in giro.»
«L’indizio che è sfuggito a tutti noi», intervenne Eva, «è stato l’atteggiamento disponibile del capitano Batutta.»
Grimes la fissò. «È vero. Hai fatto di nuovo centro, ragazza mia. Adesso che mi ci fai pensare… Batutta è stato addirittura servile nei nostri confronti.»
«È vero.» Hopper annuì. «Si è fatto in quattro per spianarci la strada quando sapeva benissimo che eravamo a centinaia di chilometri dalla vera pista.»
Grimes finì di bere il club soda. «Sarà interessante vedere la sua faccia quando gli dirai che torniamo nel deserto e ripartiamo dal principio.»
«Si precipiterà ad avvertire per radio il colonnello Mansa prima ancora che io abbia finito di parlare.»
«Potremmo mentire», propose Eva.
«Mentire… Per quale ragione?» chiese Hopper.
«Per metterlo fuori strada… Per mettere fuori strada tutti quanti.»
«Vai avanti.»
«Di’ a Batutta che l’operazione si è conclusa. Digli che non abbiamo trovato segni di contaminazione e che torniamo a Timbuctu. Leviamo le tende e prendiamo l’aereo per rientrare a casa.»
«Non riesco a seguirti. Dove vorresti arrivare?»
«In apparenza il team si arrende», spiegò Eva. «Batutta ci saluta tutto felice e sollevato mentre decolliamo. Ma noi non andiamo al Cairo. Atterriamo nel deserto e ci rimettiamo al lavoro per conto nostro, senza il cane da guardia.»
I due uomini impiegarono qualche secondo per assimilare la proposta. Hopper si tese in avanti e rifletté. Grimes aveva un’aria stranita, come se qualcuno gli avesse chiesto di partire con il primo razzo per la luna.
«Non va», disse alla fine Grimes, in un tono che era quasi di scusa. «Non è possibile atterrare con un jet in mezzo al deserto. È necessaria una pista lunga almeno mille metri.»
«Nel Sahara ci sono moltissime zone in cui il terreno è completamente piatto per centinaia di chilometri», ribatté Eva.
«È un rischio troppo grande», insistette Grimes. «Se Kazim venisse a saperlo, la pagheremmo cara.»
Eva gli lanciò un’occhiata brusca, poi guardò Hopper che cominciava a sorridere mentre diceva: «È possibile».
«Tutto è possibile, ma spesso non è pratico.»
Hopper batté il pugno sul bracciolo della sedia pieghevole con tanta forza che per poco non lo spaccò. «Per Dio, credo che ne valga la pena.»
Grimes lo fissò. «Non dirai sul serio!»
«Oh, sì, invece. L’ultima parola spetterà al pilota e all’equipaggio, naturalmente. Ma con un incentivo adeguato, per esempio una ricca gratifica, credo che riusciremo a convincerli.»
«Stai dimenticando una cosa», obiettò Grimes.
«E cioè?»
«Che mezzo di trasporto dovremmo usare, quando saremo atterrati?»
Eva indicò con la testa il piccolo Mercedes a quattro ruote motrici con il pianale chiuso che era stato messo a loro disposizione a Timbuctu dal colonnello Mansa. «Dovrebbe passare attraverso il portellone.»
«Ma è a due metri da terra», disse Grimes. «Come conti di caricarlo a bordo?»
«Useremo le rampe», rispose allegramente Hopper.
«Dovrete farlo sotto il naso di Batutta.»
«Non è un problema insuperabile.»
«Il veicolo appartiene ai militari del Mali. Come spiegherete la sparizione?»
«Un semplice dettaglio tecnico.» Hopper alzò le spalle. «Al colonnello Mansa diremo che è stato rubato da un nomade.»
«È una pazzia», dichiarò Grimes.
Hopper si alzò. «Allora siamo d’accordo. Domattina metteremo in scena la commediola. Eva, lascio a te il compito d’informare i nostri colleghi. Io resterò con Batutta e taciterò i suoi sospetti lamentandomi del nostro insuccesso.»
«A proposito del nostro angelo custode», disse Eva guardandosi intorno. «Dove si nasconde?»
«In quel suo veicolo con le apparecchiature per le comunicazioni», rispose Grimes. «In pratica vive là dentro.»
«È strano, anche se a noi fa comodo; se ne va tutte le volte che incominciamo a discutere fra noi.»
«È molto gentile da parte sua.» Grimes si alzò e si stirò alzando le braccia sopra la testa. Sbirciò furtivamente il veicolo delle comunicazioni, non vide Batutta e tornò a sedere. «Non c’è traccia di lui. Probabilmente è a bordo e guarda alla televisione qualche spettacolo musicale europeo.»
«Oppure è alla radio e sta raccontando al colonnello Mansa gli ultimi pettegolezzi sul nostro circo», opinò Eva.
«Non può avere molte cose da riferire», rise Hopper. «Non resta mai con noi abbastanza a lungo per capire che cosa stiamo combinando.»
Il capitano Batutta non stava facendo rapporto al suo superiore, almeno per il momento. Era a bordo del furgone e ascoltava con la cuffia stereo collegata a un congegno d’ascolto elettrico estremamente sensibile. L’amplificatore era montato sul tetto del veicolo e rivolto verso la stufetta da campo, al centro dell’accampamento. Si tese e regolò il potenziatore bionico per ampliare la superficie ricevente.
Ogni parola pronunciata da Eva e dai due colleghi, ogni bisbiglio e ogni sussurro arrivavano senza la minima distorsione e venivano registrati. Batutta ascoltò fino a quando i tre smisero di parlare e si separarono: Eva per andare a informare gli altri del nuovo piano, Hopper e Grimes per studiare le mappe del deserto.
Batutta si collegò a un satellite per le comunicazioni riservato alle nazioni africane e compose un numero. Gli rispose una voce che era quasi uno sbadiglio.
«Quartier generale della sicurezza, distretto di Gao.»
«Il capitano Batutta per il colonnello Mansa.»
«Un momento, signore», disse la voce.
Passarono quasi cinque minuti prima che venisse stabilito il collegamento con Mansa. «Sì, capitano?»
«Gli scienziati hanno in programma una diversione.»
«Che significa?»
«Stanno per riferire di non aver trovato traccia della contaminazione e delle sue vittime…»
«Allora il piano geniale del generale Kazim per tenerli lontani dall’area inquinata è riuscito», lo interruppe Mansa.
«Finora sì», disse Batutta. «Ma hanno incominciato a intuire il piano del generale. Il dottor Hopper intende annunciare l’interruzione delle ricerche e riportare i suoi a Timbuctu, dove partiranno per il Cairo con l’aereo charter.»
«Il generale sarà molto soddisfatto.»
«No, quando verrà a sapere che in realtà Hopper non intende lasciare il Mali.»
«Che sta dicendo?» chiese Mansa.
«Hanno intenzione di corrompere i piloti perché atterrino nel deserto e di iniziare una nuova ricerca nei villaggi dei nomadi.»
Mansa ebbe la sensazione che la sabbia gli avesse riempito la bocca. «Potrebbe essere un vero disastro. Il generale andrà in collera quando lo saprà.»
«Non è colpa nostra», fece notare Batutta.
«Sa bene cosa succede quando s’infuria. Se la prende con gli innocenti come con i colpevoli.»
«Ma noi abbiamo fatto il nostro dovere», rispose Batutta.
«Mi tenga informato dei movimenti di Hopper», ordinò Mansa. «Riferirò personalmente il suo rapporto al generale.»
«È a Timbuctu?»
«No, a Gao. Si dà il caso che sia a bordo dello yacht di Yves Massarde, ancorato sul fiume a poca distanza dalla città. Con un aereo militare da trasporto lo raggiungerò in mezz’ora.»
«Buona fortuna a lei, colonnello.»
«Continui a tenere Hopper sotto costante sorveglianza e m’informi se cambia il piano.»
«Ai suoi ordini.»
Mansa riattaccò e fissò il telefono meditando su ciò che sarebbe successo in relazione alle notizie riferite da Batutta. Se non avessero scoperto le sue vere intenzioni, Hopper li avrebbe ingannati e avrebbe scoperto le vittime del contagio nel Sahara, dove nessuno pensava di cercare. E sarebbe stata una catastrofe. Il capitano Batutta l’aveva salvato da una situazione gravissima, forse dall’esecuzione per tradimento, secondo il sistema adottato da Kazim per eliminare gli ufficiali che non gli erano più graditi. C’era mancato poco. Adesso, se avesse trovato Kazim dell’umore giusto, avrebbe potuto addirittura ottenere una promozione.
Mansa chiamò il suo aiutante di campo e ordinò di portargli l’alta uniforme e di far preparare un aereo. Si sentiva pervaso da un crescente senso d’euforia. La catastrofe sfiorata poteva trasformarsi nell’occasione ideale per annientare gli intrusi stranieri.
Un motoscafo attendeva al molo, ai piedi di una moschea, quando Mansa scese dalla macchina militare che l’aveva condotto lì dall’aeroporto. Un marinaio si affrettò a togliere gli ormeggi e balzò ai comandi. Premette il pulsante e il grosso motore Citroen V-8 si accese con un rombo.
Lo yacht di Massarde si dondolava al centro del fiume, trattenuto dall’ancora di prua. Le luci si specchiavano nella corrente. In realtà era un’houseboat a motore alta tre piani, con il fondo piatto che le permetteva di navigare agevolmente sul fiume durante le stagioni di piena.
Mansa non era mai salito a bordo ma aveva sentito parlare della scala a spirale che, sotto una cupola di vetro, saliva dalla spaziosa suite padronale fino all’eliporto. Le dieci sontuose cabine, arredate con mobili francesi d’antiquariato, la sala da pranzo con gli affreschi del periodo Luigi XIV provenienti da un castello della Loira, i bagni turchi, la sauna, le vasche per idromassaggio, il bar nella lounge-osservatorio rotante e i sistemi di comunicazione elettronica che collegavano Massarde al suo impero esteso in tutto il mondo contribuivano a rendere quella residenza sull’acqua diversa da ogni altra mai costruita.
Mentre il colonnello saliva la scaletta, si augurava di poter vedere qualcosa del lussuoso battello; ma le sue attese vennero deluse quando Kazim gli andò incontro sul ponte. Aveva in mano un bicchiere semipieno di champagne, ma non ne offrì uno al visitatore.
«Spero che il motivo che l’ha spinta a interrompere la mia conferenza d’affari con monsieur Massarde sia urgente come ha sottinteso nel suo messaggio», disse freddamente.
ivxansa salutò e incominciò a riferire, abbellendo i fatti e i dettagli del rapporto di Batutta sul team dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ma senza pronunciare mai il nome del capitano.
Kazim ascoltò con interesse, tenendo lo sguardo fisso sulle luci scintillanti dell’houseboat che danzavano sull’acqua. Un’espressione preoccupata gli spuntò sul volto, ma quasi subito lasciò il posto a un sorriso teso.
Quando Mansa finì di parlare, Kazim chiese: «Quando dovrebbero tornare a Timbuctu, Hopper e la sua carovana?»
«Se partiranno domattina, dovrebbero arrivare nel tardo pomeriggio.»
«Ci sarà tutto il tempo necessario per sventare i piani del caro dottore.» Kazim guardò Mansa negli occhi. «Immagino che lei si mostrerà deluso e premuroso quando Hopper le comunicherà l’insuccesso delle ricerche.»
«Mi comporterò con la dovuta diplomazia», gli assicurò Mansa.
«L’aereo e l’equipaggio sono ancora a terra a Timbuctu?»
Mansa annuì. «I piloti alloggiano all’Hotel Azalai.»
«Ha detto che Hopper intende pagargli un premio perché atterrino nel deserto, a nord di qui.»
«Sì. È quanto ha detto agli altri.»
«Dobbiamo prendere il controllo dell’aereo.»
«Vuole che paghi i piloti più di quello che gli offre Hopper?»
«Sarebbe denaro sprecato.» Kazim fece una smorfia sprezzante. «Li uccida.»
Mansa, che quasi si attendeva l’ordine, non reagì. «Sì, signore.»
«E li sostituisca con nostri piloti militari che gli somiglino il più possibile.»
«Un piano da maestro, generale.»
«Inoltre informi il dottor Hopper che insisto perché il capitano Batutta li accompagni al Cairo come mio rappresentante personale presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dovrà sovrintendere all’operazione.»
«Che ordini devo impartire ai nostri piloti?»
C’era una luce malefica negli occhi di Kazim. «Gli ordini di far atterrare il dottor Hopper e i suoi compagni ad Asselar.»
«Asselar.» Il nome scivolò dalle labbra di Mansa come se fosse intriso nell’acido. «Hopper e i suoi compagni finiranno sicuramente massacrati dai selvaggi mutanti di Asselar, come i turisti che partecipavano a quel safari.»
«Questo sarà Allah a deciderlo», commentò Kazim.
«E se per qualche ragione imprevista dovessero sopravvivere?» chiese Mansa con tutta la delicatezza di cui era capace.
Sulla faccia di Kazim apparve un’espressione perversa che fece rabbrividire Mansa. Il generale sorrise mentre i suoi occhi scintillavano di gelido divertimento. «Allora, c’è sempre Tebezza.»