23

Keith aveva sempre pensato che la stazione Grand Central ricordasse quattro piatti disposti sui vertici di un quadrato. Oggi invece, chissà perché, gli sembrava un quadrifoglio che fluttuava su uno sfondo stellato. Ciascuna foglia (o piatto) aveva un diametro di un chilometro e uno spessore di ottanta metri, il che rendeva la stazione la più gigantesca struttura artificiale nello spazio del Commonwealth.

Come il disco centrale della Starplex, dimensioni a parte, il bordo esterno dei piatti era affollato dai boccaporti dei moli d’attracco, la maggior parte dei quali aveva il marchio di società mercantili terrestri. Il computer della scialuppa di Keith ricevette le istruzioni per l’atterraggio dai controllori del traffico di Grand Central, e lo portò a un anello d’attracco adiacente a un grande portale ondulato sul quale spiccava il simbolo giallo della Hudson’s Bay Company, giunta ormai al quinto secolo di attività.

Keith approfittò dello scafo trasparente della scialuppa per guardarsi intorno. Nel cielo fluttuavano navi morte. I rimorchiatori in arrivo ai moli d’attracco trainavano relitti. Uno dei quattro piatti della stazione era completamente buio, come se avesse subito gravi danni nella battaglia.

Non appena la scialuppa ebbe attraccato, Keith uscì nella stazione. A differenza della Starplex, che era un’unità del Commonwealth, Grand Central apparteneva completamente ai popoli della Terra e nei suoi ambienti comuni vigevano le condizioni terrestri medie.

Ad attendere Keith c’era un funzionario governativo. Aveva un braccio al collo. Probabilmente aveva avuto un incidente durante la battaglia con i waldahudin, perché la rete saldaossa che indossava doveva essere portata soltanto per 72 ore dopo la frattura. Il funzionario lo condusse all’elegante ufficio di Petra Kenyatta, Primo ministro del governo umano della provincia di Tau Ceti.

Kenyatta, una donna africana di circa cinquant’anni, si alzò in piedi per salutare Keith. «Buongiorno, dottor Lansing» disse porgendogli la mano destra.

Keith gliela strinse. La stretta di lei fu energica, quasi dolorosa. «Signora.»

«Prego, si sieda.»

«Grazie.» Keith si era appena seduto sulla sedia (una sedia normale, umana, non plasmabile) che la porta tornò ad aprirsi per fare entrare un’altra donna, dall’aspetto nordico e un po’ più giovane di Kenyatta.

«Conosce il commissario Amundsen?» domandò il Primo ministro. «È al comando delle forze di polizia delle Nazioni Unite, qui a Tau Ceti.»

Keith si alzò a metà dalla sedia. «Commissario.»

«È chiaro» disse la Amundsen prendendo una sedia per sé «che “forze di polizia” è un eufemismo. È la definizione che usiamo per orecchie aliene.»

Keith sentì un vuoto allo stomaco.

«I rinforzi sono già in viaggio, sia dal sistema solare sia da Epsilon Indi» lo informò la Amundsen. «Saremo pronti a muovere su Rehbollo non appena arriveranno.»

«Muovere su Rehbollo?» ripeté Keith, attonito.

«Esatto» confermò il commissario. «Spediremo quei maiali a calci fino ad Andromeda.»

Keith scosse la testa. «Ma il pericolo è sicuramente passato. Un attacco di sorpresa come quello funziona una volta soltanto. Non torneranno più.»

«In questo modo ne saremo ancora più sicuri» commentò Kenyatta.

«Le Nazioni Unite non possono avere dato la loro approvazione» disse Keith.

«Le Nazioni Unite no, è ovvio» confermò Amundsen. «I delfini non hanno abbastanza spina dorsale per un’azione del genere. Ma siamo sicuri che il GovUm voterà a favore.»

Keith si rivolse al premier Kenyatta. «Sarebbe un errore dare inizio a un’escalation di violenza, signor Primo ministro. I waldahudin hanno scoperto come distruggere le scorciatoie.»

Gli occhi di zaffiro del commissario Amundsen si spalancarono: «Ho capito bene?»

«Possono tagliarci fuori dal resto della galassia, e per farlo devono solo fare arrivare una nave da questa parte della scorciatoia di Tau Ceti.»

«Qual è la tecnica?»

«Non ne ho idea. Ma mi hanno assicurato che funziona.»

«Una ragione di più per distruggerli» affermò Kenyatta.

«E come hanno fatto a prendere di sorpresa voi?» domandò il commissario Amundsen. «Qui a Tau Ceti hanno fatto sbucare dalla scorciatoia un grande vascello di appoggio, che ha cominciato a vomitare caccia non appena è arrivato. Da ciò che ha detto la dottoressa Cervantes quando è stata qui, ho capito che contro la Starplex hanno mandato invece navette isolate. Come mai non siete stati messi sull’avviso dall’arrivo della prima?»

«La stella appena emersa si trovava tra noi e la scorciatoia.»

«Chi ha ordinato alla nave di portarsi in quella posizione?» domandò Amundsen.

Keith fece una pausa. «Io. Sono io che do tutti gli ordini a bordo della Starplex. Eravamo impegnati in ricerche astronomiche e per svolgerle adeguatamente abbiamo dovuto spostare la nave lontano dalla scorciatoia. Mi prendo io ogni responsabilità.»

«Non si preoccupi» disse Amundsen, con un ghigno che sembrava un rictus. «Gliela faremo pagare, a quei maiali.»

«Non li chiami così» esclamò Keith, sorprendendo se stesso.

«Come?»

«Non usi quella parola per definirli. Si chiamano waldahudin.» Si sforzò di pronunciare la parola come un latrato, con il giusto accento e la giusta percentuale di voce roca.

Il commissario Amundsen rimase a bocca aperta. «Lo sa come ci chiamano loro?» domandò.

Keith fece un vago cenno negativo.

«“Gargtelkin”» disse lei. «“Coloro che copulano fuori stagione”.»

Keith soffocò un sorriso e tornò subito serio. «Non possiamo iniziare una guerra contro di loro.»

«L’hanno iniziata loro.»

Pensò alla sorella più grande e al fratello più piccolo. Pensò a un vecchio film in bianco e nero nel quale erano in lizza due inni, la Marsigliese e Wacht am Rhein. E pensò soprattutto alla giovane Via Lattea raccolta nella sua mano tesa a coppa.

«No» si limitò a dire.

«Che cosa significa “no”?» sbottò Amundsen. «Sono loro che hanno cominciato!»

«Voglio dire che non fa alcuna differenza. Ci sono esseri, là fuori, fatti di materia oscura. Ci sono scorciatoie nello spazio intergalattico. Ci sono stelle che viaggiano dal futuro al passato. E voi vi preoccupate di chi ha cominciato? Non ha importanza. L’importante è che finisca, che finisca qui e subito.»

«È esattamente di questo che stiamo discutendo» disse il premier Kenyatta. «Farla finita una volta per tutte. Dare ai maiali un bel calcione sui loro culi pelosi.»

Keith scosse il capo. Era la crisi della mezza età… per tutti loro, umani e waldahudin. «Fatemi andare a Rehbollo. Fatemi parlare con la regina Trath. In teoria io sono un diplomatico: fatemi andare a parlare di pace, a costruire un ponte.»

«Sono morte molte persone» osservò Amundsen. «Qui a Tau Ceti sono morti degli esseri umani.»

Keith pensò a Saul Ben-Abraham. Non all’orribile immagine che gli veniva in mente di solito, il cranio di Saul aperto davanti ai suoi occhi come un fiore rosso, ma a Saul vivo, con il grande sorriso che si apriva nella barba scura e con in mano un boccale di birra distillata in casa. Saul Ben-Abraham non avrebbe mai voluto la guerra. Si era recato su un’astronave aliena per cercare la pace, l’amicizia.

E che dire di quell’altro Saul? Saul Lansing-Cervantes… stonato come una campana, con la sua barbetta caprina, in corsa tra la seconda e la terza base sui campi di baseball di Harvard, drogato di cioccolato… e bravissimo in fisica, proprio il tipo di persona che avrebbero selezionato come pilota di navetta a iperpropulsione, se fosse scoppiata la guerra.

«Anche in passato sono morti degli esseri umani e non abbiamo cercato vendetta» disse Keith. Rombo aveva ragione. “Lasciate perdere” aveva detto. Lasciamo perdere tutto. Keith sentì che lo stava lasciando: quello sgradevole peso che si era portato dentro per 18 anni lo stava lasciando. Guardò le due donne. «Nel nome di coloro che sono morti… e di coloro che morirebbero se scoppiasse una guerra… dobbiamo spegnere il fuoco prima che sia troppo tardi.»


Keith salì nuovamente a bordo della scialuppa da viaggio, lasciò Grand Central e si diresse alla scorciatoia.

Aveva discusso per ore con il commissario Amundsen e con il Primo ministro Kenyatta, ma non si era arreso. Ecco qual era il mulino a vento che aveva sempre cercato, la battaglia degna di essere combattuta: una battaglia per la pace.

Un sogno impossibile?

Pensò alla vita piena di meraviglie del suo bis-bisnonno: automobili e aeroplani, laser e atterraggi sulla Luna.

E alla sua stessa vita piena di meraviglie.

E alle meraviglie che sarebbero arrivate in futuro.

Niente è impossibile… nemmeno la pace. Ogni tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia.

“Abbastanza avanzata.” Anche le razze crescevano e arrivavano alla maturità, non c’erano dubbi. Lui adesso si sentiva pronto. C’era voluto parecchio tempo, ma era pronto.

Anche altri dovevano esserlo.

Borman, Lovell e Anders avevano tenuto la Terra nella mano tesa a coppa. Soltanto un quarto di secolo prima quello stesso mondo aveva cominciato a disarmarsi. Einstein non era vissuto abbastanza per vederlo, ma il suo sogno impossibile di far tornare nella bottiglia il genio nucleare si era realizzato.

E adesso umani e waldahudin avevano entrambi tenuto la galassia nelle loro mani tese a coppa. Una galassia che Keith, e certamente anche altri, avrebbero visto ruotare più e più volte intorno al proprio asse, nel corso delle loro lunghissime vite.

Ci sarebbe stata la pace tra le razze, lui avrebbe fatto ogni sforzo in questo senso. Dopo tutto, quale lavoro migliore avrebbe potuto trovare un figlio di mezzo che aveva davanti a sé una vita lunga miliardi di anni?

La scialuppa toccò la scorciatoia, l’alone color porpora passò lungo lo scafo sferico e Keith emerse nei pressi della stella verde.

La Starplex incombeva sopra di lui, un gigantesco diamante color rame e argento che si stagliava su un fondale stellato. Keith vide che il portale del molo d’attracco 7 era aperto e il cuneo bronzeo della Rum Runner era in manovra di avvicinamento, il che significava che Jag e Lunga Bottiglia portavano notizie sulla ricerca del cucciolo matos. Con il cuore che gli batteva forte, Keith attivò la sequenza preprogrammata di attracco della scialuppa.


Keith si affrettò a raggiungere il ponte. Anche se non era stato via a lungo, quando vide Rissa, che per caso si trovava alla sua postazione nonostante fosse l’ora del turno delta, sentì il bisogno di abbracciarla. La tenne stretta per parecchi secondi, assorbendo il calore di lei. Bicchiere da Vino rotolò educatamente via dalla postazione del direttore, nel caso che Keith volesse usarla, ma Keith indicò all’ib di tornare al suo posto e si accomodò invece nella galleria in fondo alla stanza.

Aveva appena preso posto che la porta anteriore del ponte si aprì, e fece il suo ingresso Jag. «Il piccolo è in trappola» latrò mentre si dirigeva alla postazione scienze fisiche, che in quel momento era libera. «È bloccato in un’orbita ravvicinata intorno a una stella emersa dalla stessa uscita da cui era sbucato lui.»

«L’hai chiamato via radio?» domandò Rissa. «Ti ha risposto?»

«No» disse Jag «ma la stella produce una quantità di rumore. Il nostro messaggio potrebbe essersi confuso in quel fracasso, o forse noi non siamo riusciti a isolare la risposta.»

«Sarebbe come tentare di udire un bisbiglio durante un uragano» commentò Keith, scuotendo la testa. «Assolutamente impossibile.»

«Specialmente morto fosse il matos se» s’intromise Lunga Bottiglia sbucando dalla vasca di tribordo.

Keith guardò il muso del delfino, poi annuì. «È una possibilità. Come si fa a dire se una creatura del genere è viva o no?»

Rissa aggrottò la fronte. «Nessuno di noi sopravviverebbe cinque secondi così vicino a una stella senza una schermatura adeguata o potentissimi campi di forza. Il piccolo è nudo.»

«La situazione è peggiore di quel che sembra» disse Jag. «Il globo è “nero”. Benché la materia quark-lucente sia trasparente alla radiazione elettromagnetica, la polvere di materia normale che la permea non riflette quasi per niente la luce e il calore della stella. Il piccolo potrebbe essere carbonizzato.»

«E allora che cosa facciamo?» chiese Keith.

«Per prima cosa» rispose Jag «dovremmo metterlo all’ombra… costruire con un foglio riflettente un parasole che possa essere interposto tra la stella e il matos.»

«I nostri laboratori nanotecnologici sono in grado di fabbricarlo?» domandò Keith. «In un caso ordinario chiederei a Nuova Pechino di provvedere alla costruzione e di spedircelo attraverso la scorciatoia di Tau Ceti, ma li ho visti piuttosto malconci quando mi sono recato da loro per l’incontro.»

Alle operazioni interne sedeva un giovane nativo americano. «Dovrei controllare con Lianne per esserne sicuro» disse «ma credo che potremmo farcela. Non sarà facile, però: il parasole dovrà essere più largo di 100 mila chilometri. Anche se avesse lo spessore di una molecola, ci vorrà comunque moltissimo materiale.»

«Mettilo in produzione» ordinò Keith. «Tempo previsto?»

«Se siamo fortunati, sei ore» rispose il giovanotto. «Altrimenti dodici.»

«E dopo che avremo schermato il piccolo, che faremo?» domandò Rissa. «Sarà pur sempre in trappola.»

Keith guardò Jag. «Possiamo usare il parasole come una vela, e lasciare che ci pensi il vento solare a spingerlo via dalla stella?»

Jag sbuffò. «Con una massa di 1037 chili? Neanche pensarci.»

«Okay, okay» disse Keith. «E se… senti questa: se proteggessimo il piccolo con un qualche campo di forza e poi facessimo esplodere la stella facendola diventare una nova…»

Jag stava emettendo latrati secchi e isolati: una risata waldahud. «La tua immaginazione è senza freni, Lansing. Sì, ce stato qualche lavoro teorico su reazioni-nova controllate, io stesso ho esplorato questo campo per qualche tempo, ma non potremmo mai costruire uno schermo in grado di proteggere il piccolo dall’esplosione di una nova a soli 40 milioni di chilometri di distanza.»

Keith non si perse d’animo. «D’accordo. Allora potremmo provare a spingere la nuova stella nella scorciatoia: quando sarà passata completamente, l’attrazione gravitazionale sparirà, e il cucciolo sarà libero.»

«La stella si sta “allontanando” dalla scorciatoia» disse Jag. «Non possiamo certo spostare la scorciatoia, e se avessimo l’energia necessaria per far cambiare rotta a una stella potremmo anche strappare un oggetto grande quanto Giove da un’orbita stellare ravvicinata. Solo che non ce l’abbiamo.» Jag si guardò intorno. «Altre idee brillanti?»

«Sì» disse Keith dopo un momento. Fissò Jag diritto negli occhi. «Assolutamente sì.»


Quando Keith ebbe finito di parlare, la bocca di Jag rimase spalancata per parecchi secondi, lasciando intravedere le due ricurve placche dentali, biancazzurre all’interno. Quando infine abbaiò, lo fece con tono rispettoso. «So che in teoria è possibile, ma nessuno ha mai provato a farlo con oggetti neanche lontanamente vicini a queste dimensioni.»

Keith annuì. «Lo so. Se hai un suggerimento migliore…»

«Potremmo lasciare il cucciolo matos in orbita intorno alla stella» disse la voce di Jag, con il suo accento di Brooklyn. «Se è ancora vivo, una volta che avremo messo in posizione lo schermo parasole sopravviverà egregiamente fino al termine della sua esistenza naturale, per quanto lunga possa essere, pur restando in orbita ravvicinata intorno a una stella. Se il tuo piano non dovesse funzionare, invece, il piccolo matos sarà ucciso» la voce di Jag divenne più lenta. «È vero che io sono sempre in cerca di gloria, Lansing, e so bene che il mio ruolo in ciò che proponi è cruciale. Quindi non ho dubbi che la nostra riuscita dirotterebbe su di me una gloria considerevole. Tuttavia non possiamo essere noi a prendere una decisione simile. In una situazione normale suggerirei di chiedere il permesso al… al “paziente”… prima di mettere in atto un tentativo così rischioso, ma nel nostro caso è impossibile a causa del fracasso elettromagnetico. Quindi suggerisco di comportarci secondo una regola che, in simili circostanze, vale tanto per la tua razza quanto per la mia: chiediamo ai parenti più prossimi.»

Keith rifletté sul suggerimento, poi cominciò lentamente ad annuire. «Hai ragione, naturalmente. Io continuavo a guardare il quadro politico, cioè i vantaggi per le future relazioni con i matos che ci verrebbero da una soluzione positiva di questa faccenda. A volte mi comporto proprio come un maiale.»

«Questo è vero» disse Jag con leggerezza, fingendo di non cogliere l’offesa implicita nella sfortunata scelta di parole di Keith. «Gira voce, però, che avrai tutto il tempo che ti serve per acquisire un po’ più di saggezza.»


Keith parlò nel microfono. «Dalla Starplex a Occhio di Gatto. Dalla Starplex a Occhio di Gatto.»

Ed ecco l’incongruo accento francese. Keith si era quasi aspettato di sentirlo dire bonjour. «Salve, Starplex. Chiedere è sbagliato, però…»

Keith sorrise. «Sì, abbiamo notizie del vostro piccolo. Lo abbiamo localizzato. Ma si trova in orbita ravvicinata intorno a una stella azzurra, e non è capace di staccarsene con i propri mezzi.»

«Brutto» commentò Occhio di Gatto. «Brutto.»

Keith annuì. «Noi però abbiamo un’idea che potrebbe, ripeto “potrebbe”… permetterci di trarre in salvo il piccolo.»

«Bene» disse Occhio di Gatto.

«L’idea comporta un rischio elevato.»

«Quantificare.»

Keith guardò Jag, che sollevò tutte e quattro le spalle. «Impossibile» rispose l’umano. «Non abbiamo mai fatto niente del genere su una scala simile. Anzi, per la precisione, fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che esistesse la possibilità teorica di farlo. Potrebbe funzionare oppure no, e non ho modo di sapere come sono distribuite le probabilità.»

«Idee migliori?»

«No. In realtà è la nostra unica idea.»

«Descrivete il piano.»

Keith obbedì, per quanto lo consentiva il limitato vocabolario che avevano messo insieme.

«Difficile» commentò Occhio di Gatto.

«Sì.»

Ci fu un lungo intervallo di silenzio sulla frequenza utilizzata da Occhio di Gatto e contemporaneamente un gran chiacchierio su tutti gli altri canali… la comunità matos discuteva sulla decisione da prendere.

Alla fine Occhio di Gatto tornò a farsi vivo. «Provateci, ma… ma… sappiate che duecentodiciotto meno uno è molto meno che duecentodiciassette.»

Keith deglutì. «Lo so.»


La PDQ (pilotata da Anguria Scavata, cetaceo laureato in fisica) e la Rum Runner (con a bordo Jag e Lunga Bottiglia) attraversarono la scorciatoia in direzione del settore dove si trovava il piccolo matos. Lavorando in coppia, le due navi stesero il foglio parasole di spessore molecolare. Sul bordo del foglio erano montati motori a reazione che spingevano il parasole verso la stella per impedire che il vento solare lo spingesse via. Non appena il piccolo fu all’ombra, la temperatura della sua faccia esposta cominciò a calare rapidamente.

Subito dopo, 112 boe costruite in fretta e furia svuotando altrettanti watson e riempiendoli con apparecchiature speciali sbucarono dalla scorciatoia, inviate dalla Starplex. Le due sonde si servirono di raggi trattori per collocarle in orbite che intersecavano quella del cucciolo.

Su uno dei suoi monitor alti e sottili a bordo della Rum Runner, Jag consultò una mappa iperspaziale che mostrava il ripido pozzo gravitazionale locale, con la stella sul fondo. Vicini alla stella com’erano, le pareti del pozzo apparivano quasi perpendicolari: cominciavano a svasarsi appena prima di incontrare il matos in orbita. Il cucciolo creava lui stesso un secondo pozzo, più piccolo.

Quando le boe furono tutte in posizione, la PDQ fece marcia indietro dirigendosi verso la scorciatoia ma senza attraversarla, e continuò a procedere in quella direzione per mezza giornata. Alla fine, furono tutti allineati: a un’estremità c’era la Rum Runner; più avanti c’era il cucciolo matos; quaranta milioni di chilometri oltre il piccolo c’era la fiammeggiante stella azzurra; trecento milioni di chilometri più in là c’era la scorciatoia; e un miliardo di chilometri più avanti c’era la PDQ… Anguria Scavata si trovava ora a ben 72 minuti luce dalla stella, a una distanza sufficiente a rendere il suo spazio locale ragionevolmente piatto.

«Pronto?» latrò Jag, rivolto a Lunga Bottiglia che si trovava nel serbatoio di pilotaggio della Rum Runner.

«Pronto» abbaiò di rimando il delfino in waldahudar.

Jag toccò un comando e la rete di boe che circondava il piccolo matos entrò in vita. Ciascuna di essa conteneva un generatore di gravità artificiale, alimentato dall’energia solare rubata alla stessa stella contro la quale combattevano. A poco a poco, e di pari passo, le boe aumentarono il loro effetto, e altrettanto lentamente un punto sempre più piatto cominciò a formarsi su una parete del pozzo gravitazionale della stella.

«Piano» disse Jag sottovoce, controllando la mappa iperspaziale. «Piano.»

Il punto continuò ad appiattirsi sempre di più. Si doveva stare attentissimi a non appiattire anche il pozzo gravitazionale dello stesso matos, perché se fossero stati soppressi gli effetti della massa del cucciolo (che era ciò che lo teneva insieme) esso avrebbe perduto la coesione e si sarebbe gonfiato come un pallone.

L’effetto delle boe continuò ad aumentare e la curvatura dello spaziotempo continuò a diminuire, finché, finché…

Finché divenne perfettamente piatto, come un altopiano che sporgesse dalle pareti del pozzo. Per il matos doveva essere come trovarsi nello spazio aperto, anziché a distanza di sputo da una stella.

«L’isolamento è completo» annunciò Jag. «Adesso portiamolo via di là.»

«Iperpropulsori attivo gli» comunicò Lunga Bottiglia.

Le boe antigravità erano state come dei punti su una sfera intorno al cucciolo, ma quando entrarono in funzione i loro generatori di campo iperspaziali la superficie della sfera divenne come uno specchio, simile a un globo di mercurio che fluttuasse libero nello spazio. Nel giro di qualche secondo, il globo sprofondò nel nulla e scomparve.

Le boe erano programmate per condurre il piccolo matos il più lontano possibile dalla stella azzurra. La PDQ era in attesa accanto al punto in cui si prevedeva che il matos emergesse dall’iperspazio, un punto abbastanza lontano dalla stella da permettere al campo di iperpropulsione di collassare senza difficoltà.

La Rum Runner si diresse nello stesso punto, con la sola spinta dei razzi. Mentre passavano accanto alla scorciatoia li raggiunse un messaggio di Anguria Scavata, virato verso il blu a causa della loro accelerazione verso la nave della delfina.

“Dalla PDQ a Lunga Bottiglia e a Jag. Arrivato è il matos piccolo; sbucato è nello spazio normale ai miei davanti occhi. Il campo di iperpropulsione è collassato difficoltà senza. Ma il piccolo non ancora segni mostra di vita, e non risponde saluto al mio.”

La pelliccia di Jag si agitò pensosamente. Nessuno sapeva se il piccolo sarebbe sopravvissuto, senza protezioni com’era, a quel breve viaggio nell’iperspazio. Anche se prima era vivo, forse era stata quell’esperienza a ucciderlo. Quello che lo faceva impazzire era che non esisteva alcun modo per scoprirlo.

La tecnica di appiattimento dello spazio era rischiosa. Loro stessi avevano preferito non usarla, a costo di rinunciare agli iperpropulsori della Rum Runner e di recarsi all’appuntamento con la PDO usando soltanto i razzi. Per tenersi occupato e per allontanare la mente dal destino del cucciolo Jag si mise a chiacchierare con Lunga Bottiglia che, sia detto a suo credito, stava pilotando secondo una perfetta linea retta.

«A voi delfini gli umani piacciono» disse Jag.

«Quasi a tutti» confermò Lunga Bottiglia in un waldahudar dai toni acuti. Si staccò dalle pinne i droni di pilotaggio e attivò il pilota automatico.

«Perché?» domandò bruscamente Jag. «Ho letto qualcosa sulla storia della Terra. Sono stati loro a inquinare gli oceani in cui nuotavate, a catturarvi e a imprigionarvi dentro vasche chiuse, a intrappolarvi nelle reti da pesca.»

«Nessuno di loro del male a me fatto ha» rispose Lunga Bottiglia.

«No, però…»

«La differenza ecco: non noi generalizziamo. Certi umani cattivi hanno fatto certe cattive cose: quegli umani non piaccionci. Quanto al resto dell’umanità, per uno uno li giudichiamo.»

«Ma non vi hanno trattato meglio, quando hanno scoperto che eravate intelligenti?»

«Gli umani scoperto hanno che eravamo intelligenti prima che scoprissimo noi loro lo erano che.»

«Che cosa?» esclamò Jag. «Ma era ovvio che loro fossero intelligenti. Avevano costruito città, strade…»

«Visto niente di questo.»

«No, me ne rendo conto. Ma navigavano su battelli, fabbricavano reti, indossavano vestiti.»

«Niente di tutto ciò significativo era per noi. Avevamo non concetti per simili cose, nessun termine di paragone. I molluschi crescere si fanno una conchiglia, hanno gli umani vestiti di tessuto. La copertura dei molluschi è più robusta. Avremmo giudicare dovuto i molluschi più intelligenti? Tu dici che gli umani cose costruivano. Noi concetto non avevamo di costruzione. Sapevamo non che costruivano barche. Forse pensavamo che le barche fossero vive, o che un tempo lo erano state. Alcune avevano di legno sapore, altre lasciavano chimici elementi nell’acqua, proprio come fanno le cose viventi. Era un successo, muoversi sulla schiena delle barche? Noi credevamo che gli umani fossero come le remore degli squali.»

«Ma…»

«Loro la nostra intelligenza non hanno visto. Ci guardavano negli occhi e non ci vedevano. E noi loro guardavamo e non vedevamo li.»

«Ma quando avete scoperto la loro intelligenza, e loro la vostra, vi sarete resi conto di quanto male vi hanno fatto.»

«Sì, alcuni di loro in passato maltrattato ci hanno. Gli umani generalizzano, in colpa si sentono. Imparato ho io da tempo che il concetto di colpa ancestrale, di peccato originale, è una centrale credenza per molti di loro. Nei tribunali umani discussi sono stati casi per determinare il dovuto ai delfini compenso. Questo per noi senso ha non.»

«Adesso però voi siete al fianco degli umani, un fatto che per la mia gente è difficile da comprendere. Come fate?»

Lunga Bottiglia abbaiò: «Loro debolezza accetta la, il benvenuto alla loro forza dà.»

Jag rimase zitto.


Alla fine la Rum Runner raggiunse la sua destinazione, a 1,3 miliardi di chilometri dalla stella e a un miliardo di chilometri dalla scorciatoia. Jag e Anguria Scavata si consultarono via radio per stabilire l’esatta traiettoria su cui lanciare il piccolo matos, quindi riattivarono le boe gravitazionali che, spingendo e tirando secondo i piani, misero in movimento il piccolo verso la stella facendolo cadere proprio verso il pozzo gravitazionale dal quale l’avevano appena tirato fuori. Questa volta, però, tra il matos e la stella c’era il punto della scorciatoia; questa volta, se tutto fosse andato bene, il cucciolo sarebbe entrato nella scorciatoia e il suo avvicinamento sarebbe stato favorito proprio dalla gravità della stella.

Anche con i razzi a piena potenza, alle boe ci volle più di un giorno per portare il matos in vicinanza della scorciatoia. Anguria Scavata spedì un watson per avvertire la Starplex che, se tutto andava bene, il piccolo sarebbe emerso entro breve dalla loro uscita.

Quando furono nei pressi della scorciatoia, le boe si diedero da fare per rallentare la corsa del cucciolo, in modo che attraversasse il portale lentamente. L’intero sforzo di recupero sarebbe stato vanificato se il matos fosse stato scagliato verso la stella verde che stazionava vicino alla Starplex. Una volta rallentato a una velocità ragionevole, il cucciolo fu messo nella direzione necessaria per attraversare la sfera tachionica con la giusta angolazione.

Le prime a passare dalla scorciatoia furono alcune boe gravitazionali, ma alla fine passò anche il cucciolo. Il punto cominciò a inghiottirlo, allargandosi, avviluppando il matos, spalancando labbra color porpora per circondare e infine per avvolgere la grande sfera nera. Jag si chiese che cosa pensasse il matos durante il passaggio, sempre che fosse ancora vivo.

E se era vivo, e se proprio a quel punto avesse ripreso coscienza (qualunque cosa fosse la coscienza), allora, si chiese Jag, cosa sarebbe successo se si fosse fatto prendere dal panico? Se fosse stato incapace di dare un senso al fatto di trovarsi parzialmente in un settore di spazio e parzialmente in un altro? Avrebbe potuto opporsi alla spinta e fermarsi. E se fosse morto a metà strada, nel bel mezzo della scorciatoia, forse sarebbe stato impossibile sloggiarlo di lì. Il portale aderiva con precisione a ciò che lo attraversava, per cui non sarebbe stato possibile coordinare i generatori di gravità dall’una e dall’altra parte. E per la PDQ e la Rum Runner, questo avrebbe significato rimanere intrappolati per sempre all’estremità del braccio di Perseo, a decine di migliaia di anni luce dai loro mondi di origine.

Il matos si deformò lievemente nell’attraversare la scorciatoia, lo si vide dagli spostamenti dei confini del portale. Quegli spostamenti erano normali, e i loro effetti sui rigidi scafi delle astronavi erano trascurabili, ma i matos erano composti principalmente di gas… un gas esotico, fatto di quark-lucenti, ma pur sempre gas. Jag temette che il piccolo potesse essere segato in due, come in un processo di nascita normale, che poteva però risultare fatale verificandosi in modo inaspettato. Il nucleo della creatura risultò invece abbastanza solido da impedire alla scorciatoia di tagliarlo in due.

Alla fine il matos passò completamente. La scorciatoia collassò alla sua consueta esistenza adimensionale. Jag avrebbe voluto ordinare immediatamente a Lunga Bottiglia di tuffarvisi, per poter vedere il risultato dei loro sforzi. Dovettero però aspettare per ore, in compagnia di Anguria Scavata sulla PDQ, per essere certi che il matos si fosse spostato abbastanza lontano dalla scorciatoia da evitare che una collisione o anche soltanto le forze di marea, provocate dalla sua immensa gravità, distruggessero le loro navi subito dopo l’emersione dalla scorciatoia.

Alla fine, dopo che una sonda ebbe loro comunicato che la strada era libera, Lunga Bottiglia programmò il computer per tornare a casa. La Rum Runner si spostò in avanti. La scorciatoia la inghiottì e passarono dall’altra parte.

Ci vollero alcuni secondi perché Jag afferrasse il significato di ciò che vedeva. Il piccolo era là, questo era chiaro. E c’era anche la Starplex. Ma la Starplex era circondata da ogni lato da matos e sembrava morta: tutte le sue luci erano spente.

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