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John Markham rimase ospite nel Risanatorio di Lon­dra-Nord per altri sei giorni. Era il periodo normale di convalescenza che i dottori definivano R.A.S.: risveglio dall’animazione sospesa.

Sebbene lui fosse un bizzarro sopravvissuto di un’e­poca remota, non era, come apprese in seguito, l’unico caso di animazione sospesa. Anzi, la maggior parte de­gli altri ospiti si stava proprio rimettendo da un R.A.S., o si preparava a subire un super congelamento per un periodo che poteva variare da una settimana a un an­no intero.

Nel ventiduesimo secolo, l’animazione sospesa stava rapidamente diffondendosi come la cura più adatta per le nevrosi più gravi. La cosa più strana era che il sistema dava ottimi risultati.

Ma quello che incuriosiva soprattutto Markham, ri­guardo al Risanatorio, era l’apparente mancanza di contatti personali fra gli ospiti. La sua unica esperien­za in fatto di degenza in un ospedale del ventesimo secolo, causata da un’appendicite, l’aveva indotto a credere che i pazienti fossero gregari per natura. Que­sto non avveniva, evidentemente, nel Risanatorio di Londra-Nord.

Durante l’intera permanenza vide sì e no una doz­zina di altri ospiti, e parlò solo con tre di loro. Il pri­mo era Bressing, il secondo un signore di mezza età talmente miope da scambiare Markham per un adroide, il terzo una ragazza di vent’anni circa che Markham sorprese in lacrime in un corridoio. Le aveva chiesto subito se poteva fare qualcosa per lei. La ragazza l’a­veva fissato per un attimo, poi con un enfatico No! No! No! era fuggita via, lasciando Markham con l’im­pressione di averla resa anche più infelice.

Non sapeva con certezza se quell’assenza di rappor­ti fra uomini fosse involontaria o favorita. L’apparta­mento che gli androidi gli avevano destinato era un so­pralzo sul tetto piatto del Risanatorio. Accanto al suo ce n’erano altri identici, ma nessuno occupato.

Sotto molti aspetti, era grato di quell’isolamento, che gli permetteva di abituarsi lentamente all’idea di essere saltato dal ventesimo al ventiduesimo secolo. Aveva tutto il tempo di mettere in chiaro le idee, di trovare un po’ di forza per rassegnarsi dei dolori per­sonali, perfino di guardare al futuro...

Il rifugio era confortevole: composto da una camera da letto, un bagno e un soggiorno. Tre pareti di cia­scuna camera erano dipinte a colori vivaci, la quarta era semplicemente una lastra di vetro molto opaco e spesso. L’arredamento era semplicissimo e funzionale, ma il pavimento era ricoperto da un tappeto folto, e la sera le luci diffuse contribuivano a dare ai mobili austeri dell’ambiente uno scintillio intimo.

Durante i pochi giorni in cui occupò l’appartamen­to, Markham dovette assuefarsi a un nuovo concetto di solitudine. Marion-A infatti, come sua androide personale, non lo lasciava un momento. La sua prima esperienza circa le funzioni di un androide personale la fece quando lei lo spinse col carrello fuori dalla stanza di congelamento, giù per un corridoio, dentro un montacarichi, e infine nell’attico dove avrebbe abi­tato.

Una volta là, lei l’aveva aiutato a sistemarsi sul di­vano e aveva spinto via il letto a rotelle, per ritornare pochi minuti dopo con un assortimento di indumenti del ventiduesimo secolo. Markham scelse i meno biz­zarri, e stava per chiedere all’androide di aiutarlo a raggiungere la stanza da letto per poterli provare, quando Marion-A, con prontezza ed efficienza, cominciò a vestirlo. Markham era troppo sorpreso per obiet­tare, troppo scosso per fare commenti finché lei non ebbe finito.

Le mani di lei erano tiepide, notò. Il tocco imper­sonale, ma delicato, il tessuto della pelle era strano al tatto, ma non sgradevole. Lo vestì da capo a piedi co­me se per lei fosse una faccenda di ordinaria ammi­nistrazione.

«Dunque tu sei la mia androide personale» disse Markham, pensoso, dopo aver preso visione del risul­tato con l’aiuto di uno specchio a mano. Posò lo spec­chio e guardò di nuovo Marion-A. Solo in quel mo­mento si rese conto di aver evitato lo sguardo diretto di lei sin da quando avevano lasciato la camera di con­gelamento.

Aveva superato l’impressione prodotta dalla rassomi­glianza con Katy. Era, infatti, una ben povera somi­glianza e l’aveva tanto colpito perché probabilmente aveva continuato a sperare senza rendersene conto di vedere apparire Katy grazie a un miracolo.

Marion-A era più alta di Katy. I suoi lineamenti era­no più simmetrici, le spalle più larghe, i fianchi più snelli, la vita più sottile. Troppo perfetta per essere vera.

Indossava una semplice camicetta rossa di maglia e una gonna nera. Appuntata sulla camicetta, proprio alla gola, c’era una spilla d’argento. Guardandola me­glio, Markham vide che si trattava esattamente di un monile a forma di A. L’iniziale di androide. Nel caso,pensò cinicamente, che qualcuno dovesse nutrire dub­bi in proposito.

«Sì, signore» rispose Marion-A. «È l’usanza, per ogni essere umano adulto, tenere un androide persona­le.» Restava immobile, subendo l’esame di lui senza mostrare alcuna reazione.

«Sai qualcosa sul mio conto?» chiese bruscamente Markham.

«So soltanto, signore, che provenite dal ventesimo secolo, perché siete stato preservato per caso in A.S. L’archeologo che vi ritrovò ha dichiarato che la vostra sospensione dovette cominciare quindici o diciotto de­cenni fa.»

Markham sorrise amaro. «Mica male... la data effet­tiva è il mille novecentosessantasette.»

«Sì, signore.» Marion-A si chiuse nel silenzio e ri­mase immobile ricambiando lo sguardo fisso di lui con indifferenza totale.

Ora che aveva superato la sorpresa iniziale, Mark­ham era in vena di fare domande.

«Dammi la definizione di androide» disse fredda­mente.

«Un androide, signore, è un automa modellato sul­lo stile di un essere umano.»

«Soltanto una macchina, dunque?»

«Sì, signore, essenzialmente una macchina.»

«Qual è la funzione degli androidi allora?» Lo sguardo di lui si fece quasi insolente. Si stava compor­tando come un bambino, e ci trovava gusto. Se ne sta­va comodo sul divano, ma aveva lasciato lei in piedi. Oziosamente, si chiese se sarebbe rimasta in piedi fin­ché lui non le avesse ordinato di sedersi.

«La funzione degli androidi» rispose Marion-A «è di assecondare gli interessi degli esseri umani.»

«Dunque, tu saresti un ibrido meccanico tra l’in­fermiera e la domestica?»

«Sì, signore» disse lei senza scomporsi. «Sono pro­grammata anche per essere di compagnia.» Esitò. «Esi­stono due tipi principali di androidi: il tipo personale e quello esecutivo. Il primo funziona per il beneficio dell’individuo, il secondo per il beneficio della società.»

Markham si appoggiò comodamente ai cuscini e le rivolse un sorriso ironico. «Parlami di loro. Ho molto da imparare riguardo il ventiduesimo secolo. Tanto vale che cominci dal soggetto interessantissimo degli androidi.» La vista di lei che se ne stava in piedi là di fronte, senza dare alcun segno di stanchezza o di in­dignazione, cominciava a irritarlo. «Scusa» disse im­pacciato, sentendo di arrossire. «Mettiti a sedere.»

«Grazie signore.» Marion-A tirò a sé uno sgabello di legno bianco. Poi, col tono impersonale di un confe­renziere, cominciò a illustrare lo sviluppo dei robot.

Durante e dopo la guerra atomica, l’Epopea dei No­ve Giorni, le popolazioni della maggior parte dei pae­si industrializzati di tutto il mondo erano state ridotte a percentuali minime della loro precedente densità. Ma coloro che erano morti in conseguenza diretta del­l’uso delle armi atomiche non erano stati niente in confronto al numero dei morti causati da malattie, pestilenze e carestie dei dieci anni che seguirono.

Essendo uno dei paesi più densamente popolati, l’In­ghilterra fu naturalmente una delle nazioni più col­pite. Nel 1967 la sua popolazione era di sessantacinque milioni di abitanti. I Nove Giorni e il decennio che seguì ridussero quel numero a poco più di sessanta­mila.

Questi sessantamila sopravvissuti erano chiaramente troppo pochi per mantenere in piedi l’economia della nazione. E poiché la monarchia era stata distrutta dal­la guerra, il paese mancava perfino di un simbolo di unità. Il governo era inefficiente e risibile, perché era impossibile aumentare le forze di polizia e imporre l’osservanza delle leggi.

Non andò molto, quindi, che il concetto di unità nazionale venne completamente abbandonato, e la na­zione si divise in tre gruppi regionali autonomi: la Scozia, le Midlands e il Sud. Nel frattempo, la caren­za di manodopera aveva costretto gli scienziati e gli in­gegneri sopravvissuti a dedicarsi allo sviluppo dei ser­vo-meccanismi, dell’automazione, e infine dei robot.

Automi e computer elettronici erano entrati nella loro fase di vero perfezionamento all’inizio del mille novecentoquaranta. Ma poiché a quell’epoca la mano­dopera abbondava, erano stati progettati semplicemen­te per assolvere funzioni che andassero al di là della capacità umana in termini di energia e di tempo, op­pure che fossero troppo pericolose.

I primi computer erano stati macchinari ingombran­ti, su per giù della grandezza di una casa. In cinquant’anni, la nuova tecnica li aveva ridotti alla misura di un baule. I primi robot erano stati creature pesanti, mostruose, simili a carri armati. Anche loro, in segui­to, subirono riduzioni nella misura e migliorie nella forma.

Al principio, erano stati progettati per espletare compiti insoliti o pericolosi. Poi divennero sostituiti di normali braccianti, agricoltori e impiegati. Inoltre, per far sì che le macchine esistenti, alle quali erano destinati, non dovessero subire modifiche, i robot era­no stati ridotti alla forma e alla dimensione di un uomo.

Alla fine, poiché il numero dei robot aumentava di conserva con la loro adattabilità industriale, essi fu­rono in grado di mandare avanti tutta l’industria pe­sante e l’agricoltura, con l’aiuto di pochi supervisori umani che s’incaricavano di risolvere problemi che an­davano oltre la portata dei microcervelli elettronici.

Arrivò l’epoca in cui fu evidente che la lotta per la preservazione dell’industria era vinta. Gli automi, che già superavano in numero i loro padroni, avevano vin­to una battaglia che gli esseri umani non avrebbero potuto nemmeno iniziare.

Fino a quel momento, c’erano voluti gli uomini per costruire robot. Ma ormai era stato raggiunto lo sta­dio in cui un automa veniva progettato in maniera da poter costruire un altro automa. Ben presto, venne creato il primo impianto di produzione completamen­te indipendente, dove automi superspecializzati progettavano e fabbricavano altri robot del loro tipo. I robot controllavano ormai il proprio processo evolu­tivo.

Nel frattempo, soddisfatta la richiesta per il robot industriale, rimaneva da soddisfare quella per uso do­mestico. I robot avevano risolto il problema della ma­nodopera maschile. Seguiva, inevitabilmente, quello della manodopera femminile: cominciò a farsi sentire il bisogno di un tipo di robot che assomigliasse più a un essere umano che a una lavatrice animata; in bre­ve, di un robot che fosse in grado di presentarsi in sa­lotto e nella camera dei bambini, e non solo in cucina. Un robot che potesse servire a tavola, occuparsi dei bambini, rifare i letti e spolverare il soggiorno. Un ro­bot capace di preparare cocktail, di raccontare favo­le, di giocare a scacchi, o a bridge, a briscola. Un ro­bot che ricordasse i compleanni e gli appuntamenti. Un robot che sapesse intrattenere, conversando, le per­sone sole e assistere i vecchi...

Nasceva l’era degli androidi.

I primi modelli rassomigliavano a leggere armature medievali. Poi il processo umanizzante andò via via perfezionandosi. Nuove tecniche permisero di risolve­re il problema del peso; di conseguenza, i piedi si fe­cero snelli e di forma umana. Lo sviluppo della micro­pila, una centrale di corrente atomica in miniatura, permise alla sorgente dell’energia di essere contenuta in una capsula di piombo poco più grande di un cuo­re umano. Mani meccaniche vennero modellate sullo stile umano. La testa venne umanizzata e separata dal busto per mezzo di un collo. E finalmente, i contorni simili a carne vennero ricoperti da una pelle sinteti­ca, una capigliatura naturale fu applicata per mezzo di una calotta di plastica, si creò una faccia con occhi, orecchie, naso e bocca artificiali. E labbra capaci di sorridere.

Il prodotto ultimo non aveva più nessuna rassomiglianza con i suoi antenati da una tonnellata e mezzo. Era sotto ogni aspetto un robot umanizzato. Un an­droide...

A causa del loro aspetto umano, i robot provocaro­no nella società un cambiamento anche più grande di quello apportato dai modelli convenzionali. La gente si abituò in fretta all’idea di tenere androidi in casa, e ben presto venne considerato retrogrado chi si ostina­va a non avere un androide.

Permettere agli androidi di svolgere tutte quelle fun­zioni che non erano intrinsecamente interessanti venne considerato un segno di distinzione e di razza. Gli im­pieghi e le attività degli androidi si moltiplicarono. Si aggiudicarono completamente il governo della casa, di­ventarono autisti e accompagnatori. Diventò norma­lissimo per una nubile, o per una donna sola, farsi ac­compagnare a pranzo o a. ballare da un androide ma­schio. Per uno scapolo solitario, o per un marito la cui consorte se n’era andata in vacanza, o era comunque occupata altrove, diventò naturalissimo usare come compagna provvisoria un androide femmina.

Alla fine prese piede l’idea che ogni essere umano adulto dovesse avere un androide personale capace di fargli da valletto, da cameriera, da infermiera, da con­sigliere o da governante, secondo le necessità del mo­mento. Gli esseri umani finirono per contare sugli an­droidi per molti generi di attività per i quali i robot umanoidi non erano stati progettati in origine. In fin dei conti gli androidi erano soltanto macchine como­dissime. E quasi infallibili.

Verso la fine del ventunesimo secolo questi partico­lari automi avevano raggiunto un grado tale di ef­ficienza da poter intraprendere professioni che un tem­po erano state considerate esclusivamente competenza degli umani. Divennero medici, dentisti, poliziotti... perfino psichiatri. E così, finalmente, l’umanità scari­cò il lavoro dalle proprie spalle.

L’uomo era libero di disporre come voleva della propria vita. Era perfino libero di lavorare, se ci tene­va. Ma ben pochi lo facevano, poiché il lavoro era con­siderato... fuori moda!


Markham ascoltò il resoconto sugli androidi con crescente disgusto. Alla sua mentalità ventesimo seco­lo, il modo come le macchine avevano soppiantato gli esseri umani sembrava non soltanto incredibile, ma addirittura sinistro.

«E così se ne vanno a Patrasso l’iniziativa e l’in­telligenza» commentò avvilito. «Nel mio mondo, il lavoro era considerato una sfida. Ora la sfida non esi­ste più. Cosa può averla sostituita?»

«Anche l’ozio è una sfida» disse Marion-A. «Gli esseri umani sono creati in modo da aver bisogno di uno scopo nella vita. Se il lavoro non è più necessario, gli uomini sono liberi di esplorare altri campi di atti­vità: l’arte, per esempio, le conquiste sociali, e tutte le forme di disciplina psicosomatica, dallo sport alla religione.»

«A quanto pare ne sai parecchio su quello di cui un essere umano ha bisogno.»

«Sì, signore. È stata la parte essenziale della mia programmazione.»

Markham rimase per un poco silenzioso. Poi chiese: «Dimmi, quanti anni hai?»

Marion-A fece uno dei suoi rari sorrisi. «Sono stata creata un anno fa, signore. Mi fu data una program­mazione base e venni messa in un magazzino in atte­sa di poter essere usata. Dopo il vostro ritrovamento, e quando parve possibile che poteste essere risvegliato, io fui attivata e ricevetti una programmazione extra basata su estrapolazioni di vostre probabili necessità.»

«Capisco. Per un attimo avevo dimenticato che non sei...» Arrossì.

«Di origine biologica?» suggerì Marion-A.

Markham rise. «Esatto» disse. «Non sei di origi­ne biologica. Una definizione perfetta, me la ricor­derò.»

«Credo, signore» disse Marion-A, «che adesso fa­reste bene a riposare. Nei primi giorni dopo il risve­glio, è importante non affaticare la propria coscienza.»

Markham sbadigliò. Oltre che stanco si sentiva ama­ramente depresso e nervoso. «Forse hai ragione. Una buona dose di sonno naturale dovrebbe rimettermi in sesto. Ho tutto il tempo che voglio, per orientarmi. Che dici, il mondo del ventiduesimo secolo sarà ancora reale quando mi sveglierò?» La domanda voleva esse­re uno scherzo, ma solo in parte.

«Sì, signore» rispose Marion-A. «Non è probabile che dormiate più di quindici ore.»

Lui sorrise. «Non lo so. L’ultima volta che ho chiu­so gli occhi è stato per un secolo e mezzo.»

Allora Marion-A ebbe un altro dei suoi sorrisi, e riu­scì veramente a sorprendere Markham. «Forse, signo­re, avreste dovuto usare una sveglia.»

«Senti, senti!» disse lui, tirandosi su a sedere. «Hai il senso dell’umorismo! Dio sia ringraziato! Come fai?»

«È senso dell’umorismo sintetico» spiegò Marion-A, seria seria. «Era già incluso nella mia programmazio­ne. Il vero umorismo si basa all’origine su un senso di emozione che può essere sviluppato completamente solo in un sistema biologico. Ma io sono in grado di apprezzare il processo dissociativo del pensiero, e pos­so quindi interpretare le idee umoristiche, e anche crearne qualcuna.»

Markham si appoggiò esausto ai cuscini e sbadigliò. «Mi sorprendi, davvero. Il senso dell’umorismo... co­munque è già qualcosa.»

Marion-A si alzò. «Col vostro permesso, signore, vi metterò a letto.»

Mentre lei lo aiutava ad alzarsi in piedi, Markham si sforzò di sorridere. «Nel ventesimo secolo questa sarebbe stata una situazione alquanto anomala... Nien­te androidi, allora! Solo uomini e donne. Che mondo meraviglioso!»

Si appoggiò pesantemente a Marion-A, ma lei sosten­ne facilmente il suo peso e lo condusse nella stanza da letto. In un paio di minuti gli abiti da giorno venne­ro cambiati con una leggera tenuta notturna, e Markham si trovò comodamente sdraiato tra lenzuola tie­pide e pulite.

Marion-A ripose gli abiti. «Buona notte, signore» disse poi «vi auguro un buon sonno. Se dovesse ser­virvi qualcosa, non dovete fare altro che chiamarmi.»

«Grazie... Gli androidi non dormono, immagino, vero?»

«Quando il padrone o la padrona di un androide personale non hanno bisogno di nessun servizio, l’an­droide resta in piccolo allarme, che corrisponde su per giù alla distensione del sistema nervoso umano. Restia­mo in grande allarme solo quando siamo in servizio continuato.»

Markham le diede un’occhiata che non era né ama­ra né di scherno. «Ti auguro un buon piccolo allar­me, allora» disse, serissimo. Poi chiuse gli occhi, pen­sando per un attimo alla razionale efficienza degli an­droidi.

Marion-A spense la luce e tornò nel soggiorno. Si se­dette sullo sgabello di legno, chiuse gli occhi e rimase completamente immobile per le tredici ore che segui­rono, cioè fino a quando Markham si svegliò.

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