7

Markham sbadigliò, si stirò, e si costrinse a saltare giù dal letto.

Venti minuti più tardi, dopo una doccia e una rasa­tura accurata, si sentiva sveglio e ben riposato. E quan­do si fu vestito ed ebbe bevuto il caffè preparato da Marion, cominciò ad anticipare col pensiero l’incon­tro delle dieci e trenta.

La curiosità, spiegò a se stesso, era il vero incentivo. Trascurando l’evidente forza attrattiva di Vivain Ber­trand, Markham sentiva che in un certo senso era lei la prima persona veramente viva che aveva incontrato. Quella ragazza esisteva in una dimensione inaccessibi­le a Shawna Vandellay o a Paul Malloris, o al profes­sor Hyggens. Lei sola, infatti, apparteneva completa­mente e naturalmente al mondo in cui viveva.

Diede un’occhiata dalla finestra, vide che il cielo era sereno e decise di andare a piedi. Ci sarebbe volu­to, ricordava, un quarto d’ora al massimo per raggiun­gere Park Lane: bastava tagliare attraverso il parco.

«Volete tornare con l’eliauto?» gli chiese Marion-A.

Lui le aveva detto del suo incontro con Vivain Ber­trand, e si era chiesto se Marion avrebbe mostrato qualche reazione alla notizia. Ma, come al solito, non c’era stato alcun commento.

«Non credo. Se dovessi cambiare idea, ti chiamerò.»

«Sì, signore.»

«Evidentemente gli androidi hanno poca memoria.»

«No... John.»

Mentre lasciava l’appartamento, Markham si chie­deva se quel signore usato quando erano soli fosse un segno di broncio. Pensò che era possibile. E si augurò che fosse cosi.

L’aria era limpida, un’aria frizzante d’autunno, e il cielo settembrino era punteggiato di stelle. Nell’attraversare Hyde Park, Markham si sentiva stranamente felice. Per la prima volta si trovava fuori di sera, da solo, e questo gli comunicava un senso esilarante di li­bertà, e di sicurezza.

Scrutò le stelle, riconoscendo le costellazioni più fa­miliari, fari eterni, nella cui esistenza un secolo e mez­zo rappresentava un momento trascurabile. Poi all’im­provviso ricordò un frammento di un sogno fatto po­co prima, ricordò come nel sogno le stelle si fossero cambiate in fiocchi di neve, sciogliendosi subito dopo. Il senso di sicurezza e di continuità, dileguò. Era solo nel buio, e la solitudine lo agghiacciò come il gelo pa­ralizzante della camera K. Quando finalmente trovò De Havilland Lodge, in Park Lane, si sentiva come un’anima in pena, un uomo desideroso di sfuggire da se stesso, dai propri pensieri, dai propri ricordi. Co­minciava a capire come dovessero sentirsi i Fuggiaschi, respinti dalla società.

Vivain Bertrand venne lei stessa ad aprirgli. S’era aspettato di trovare servi, androidi, altri ospiti. Ma evidentemente Vivain aveva optato per un’atmosfera di intimità.

«Salve, mio caro nemico, siamo in ritardo.» Lo ac­colse con un sorriso che tradiva una traccia d’impa­zienza.

«Mi dispiace, signorina Bertrand. Sono davvero molto in ritardo?»

«Di sette minuti... Di solito sono gli altri che aspet­tano me. È un’esperienza nuova. E non sono la signo­rina Bertrand... per questa sera. Non per te.»

Indossava un vestito molto semplice. Dalla vita in su, era un normale abito da sera, la cui scollatura scen­deva fino alla cintura formata da una specie di fune metallica, unico ornamento. Nella parte inferiore, si divideva in un paio di pantaloni attillati, che mette­vano in risalto la linea affusolata delle gambe.

Sulla soglia, l’abito era sembrato nero e la fune d’ar­gento. Ma quando entrarono nel soggiorno, l’abito di­ventò di un lilla pallido e la fune divenne dorata. Contemporaneamente, i capelli biondi si erano fatti color ebano.

Lei rise della meraviglia di lui.

«Ti sto mettendo al corrente della nuova moda» spiegò. «Oggi non amiamo i colori statici. Sono trop­po monotoni. Viviamo in un mondo di vita e di mo­vimento, come l’amore e la verità.»

Girò su se stessa con grazia solenne, e l’abito si fece bianco, la lunga capigliatura di un verde cupo e lu­cido.

Markham la osservava ipnotizzato.

«Come...»

«Come e perché! È tutto quello che sai dire?» dis­se lei. «Non ti piace vedere le cose belle?»

«Sì, ma...»

«I ma mi annoiano, caro John. Basta con i ma, i come e i perché. Ora scaraventati sul divano, ti prepa­rerò un corroborante speciale: si chiama scossa per l’anima. Poi se sarai buono e divertente, forse accon­tenterò la tua curiosità.» Lo spinse allegramente su un divano lungo e basso, poi andò a un carrello carico di bicchieri e caraffe e preparò le bibite.

La stanza era ammobiliata in un lussuoso stile mo­dernissimo, ma l’attenzione di Markham era concen­trata su Vivain. L’atmosfera sembrava completamente satura della vitalità della ragazza, quasi che lei irra­diasse un’energia invisibile capace di caricare tutto quello che sfiorava.

Gli porse un bicchiere, poi si sedette decorativamen­te su un mucchio di cuscini ai piedi del divano, e sor­seggiando la sua scossa per l’anima rimase a osservar­lo con occhi scintillanti.

Lui assaggiò con cautela la bibita.

«Che effetto ti fa avere un A.P.?» chiese Vivain.

Lui sorrise. «Mi ci sto abituando» rispose. «Devo continuare a ripetermi che è soltanto una macchina.»

«Forse siamo tutti macchine, in fondo. Solo che non lo sappiamo.»

«Tu ne sei convinta?»

Lei sorrise. «Caro John, sei così spaventosamente serio... Beviamo qualcos’altro. Il mio bicchiere è vuoto.»

Markham si alzò. «Dimmi come si fa.»

Preparò la scossa sotto la direzione della ragazza. Riuscì buona quasi quanto la prima... ma un po’ più forte.

«Sai» disse Vivain «berremo alla memoria di tua moglie... Come si chiamava, John?»

Fu costretto a risponderle. «Katy.»

«A Katy, allora. Sono certa che era molto carina, molto dolce e molto docile... Sei d’accordo?»

«No.»

«Non pensi che fosse carina?»

«Non penso che fosse docile.»

Vivain finì la sua scossa. «Certo che lo era. Si era lasciata addomesticare da te, no?»

«Non capisco di che cosa stai parlando.»

«Sei un ipo, caro nemico. Sai benissimo di che co­sa sto parlando.»

Markham finì la sua bibita. «E cosa sarebbe un ipo?» chiese.

«Un ipocrita. Mi hanno fatto ascoltare una quan­tità di registrazioni storiche, John. L’ipocrisia era la grande arte del ventesimo secolo. In politica, in guer­ra e in amore.»

«Ma voi avete cambiato questo stato di cose, ve­ro?» disse lui amaramente. «Non esiste più la politi­ca, la guerra non si fa più, e ognuno va a letto con chi gli pare.»

Vivain rise. «Sei legnoso come un androide, e inge­nuo come una vergine... e incredibilmente solenne. Forse dovrò fare qualcosa in proposito.» Toccò un bottoncino che Markham notò solo in quel momen­to sulla cintura di fune dorata.

Ci fu un leggero cambiamento nel tipo di illumina­zione diffusa nella stanza, ma la trasformazione più sconcertante stava avvenendo in Vivain.

In un attimo i suoi capelli divennero bianchi e luc­cicanti, mentre la carnagione si scuriva fino a farla sembrare una nera, e il vestito adesso era trasparente.

«Cosa ne pensi, mio bel puritano?» La voce di lei era calma e vibrante.

Markham rimase a lungo silenzioso sperando che quel silenzio la mettesse in imbarazzo, sperando di po­ter guadagnare l’iniziativa. Ma Vivain era assolutamen­te tranquilla, mentre la tensione di lui andava aumen­tando di momento in momento. Temeva di essere un idiota, e temeva di non esserlo. Temeva di parlare, e non aveva il coraggio di rimanere silenzioso, sapeva che qualunque cosa fosse successa, l’unico sconfitto sa­rebbe stato lui.

Guardò di sfuggita gli occhi di Vivain, chiedendosi se vi avrebbe scoperto una luce di debolezza, una trac­cia di intenzione: ma l’occhiata si perse in uno sguardo senza tempo. Un profondo, esame vicendevole. Finalmente ricordò la domanda di lei e disse incer­to: «Non saprei... Tu cosa ne pensi?»

«Mi sembra divertente...»

«E pericoloso» disse lui.

«No, pericoloso no. Interessante, caso mai. E spes­so eccitante. Anche in questa occasione, forse...»

«E se non lo fosse?»

«Allora potrebbe essere più interessante che mai... Stai cercando con tutte le forze di restare cerebrale, ve­ro, sciocco tesoro? Forse ho sottovalutato Katy.»

«O forse hai sopravvalutato me.»

«Lo credi?» Vivain scosse i lunghi capelli scioglien­doli dalla retina metallica che li teneva raccolti. «Ba­da alle tue difese, caro nemico» mormorò dolcemente. «Sto muovendo all’attacco.»

Prima ancora di aver finito di parlare, Vivain si era mollemente sdraiata al suo fianco. E come mosse da invisibili fili, le braccia di lui la circondarono strin­gendola.

«Dolce nemico» mormorò lei. «È troppo facile, vero? Nessun uomo è un traditore... se non di se stesso.»

Ma le sue labbra non permisero risposta: la loro pressione diventò selvaggia e tenera insieme.


Markham non sapeva per quanto tempo avesse dor­mito, ma quando aprì gli occhi la stanza era tornata normale. Vivain, ora avvolta in un sari azzurro cielo, con i capelli e la carnagione tornati del colore norma­le, stava versando il tè a un tavolino apparecchiato con dolci e biscotti. Sembrava, pensò cinicamente Markham, pacata come una vestale. Quasi.

«Dormiglione» gli disse Vivain calmissima. «Avrai appetito, spero.» Poi aggiunse con un sorriso malizio­so. «Mi hai sorpreso, sai? Non credevo che un uomo del ventesimo secolo potesse essere così... poco inibito. Dovrò rivedere tutte le mie concezioni storiche.»

Markham si tirò su a sedere e sorrise divertito.

«Anch’io.» Era un po’ colpito dalla propria man­canza di imbarazzo. «Con tutto il rispetto è stata col­pa tua.»

Vivain gli si sedette accanto.

«Con tutto il rispetto» lo imitò scherzosa «è pro­prio quello che intendevo... Come va, John?»

«Benissimo.»

«Sei offeso?»

«No. Dovrei?» Sorseggiò il tè, evitando di guar­darla.

«Pensavo che potessi esserlo... Era semplice sedu­zione, naturalmente.»

Lui le diede un’occhiata in tralice. «Non del tutto. E non trattare con troppa condiscendenza il ventesi­mo secolo. Nelle vostre registrazioni non c’è lo schele­tro della storia.»

«Ma tu sei di carne e sangue, caro amico. E adesso appartieni a me.»

Markham sostenne il suo sguardo. «Non ne sono convinto.»

«Non sei innamorato di me?»

«No. In due si può tentare un esperimento. Volevi vedere come potevo essere senza maschera. Forse ave­vo anch’io la stessa curiosità sul tuo conto.»

Vivain rise. «Meraviglioso!» esclamò. «Allora era soltanto una piccola scaramuccia. Temevo che capito­lassi troppo facilmente. Dunque siamo ancora nemi­ci autentici?»

«Se vuoi usare questa espressione.»

«Nemici passionali» disse lei, con un luccichio nello sguardo. «Ma adesso firmeremo un armistizio, perché voglio scoprire seriamente come sei in realtà, John. Voglio sapere fino a che punto sei diverso.»

«Diverso da che cosa? Dal normale modello venti­duesimo secolo? A quest’ora avresti già dovuto racco­gliere prove sufficienti, no?»

Fatto strano, questo la irritò. «Ho detto sul serio quando ho parlato di armistizio, e non mi riferivo ai rapporti di poco fa. Voglio sapere come vivevi, cosa vuol dire essere un lavoratore, dover guadagnare per mantenere la propria famiglia. Voglio sapere che ge­nere di vita conducevi con Katy, sapere dei tuoi bam­bini, della tua casa, dei tuoi amici.»

«Preferirei tenere privato quel mondo» rispose lui freddamente. «Non è una fonte di divertimento pub­blico.»

Lei gli prese una mano. «Guardami, John. Non intendo mettere queste cose in ridicolo, o punzecchiar­ti, e non ne parlerò mai con nessuno. Non mi credi?»

«Non lo so. Forse.» Per quanto fosse irrazionale, le credeva. Si rendeva conto, con grande meraviglia, che in fondo anche lei era molto sola, e si chiese il per­ché.

«Ti farebbe molto male» disse lei gentilmente «permettere a un’estranea di scrutare in questo tuo mondo privato?»

«Correrò il rischio» rispose. E prese a raccontarle tutto di Katy, di Johnny e di Sarah, della casa in Hampstead, della Refrigerazione Internazionale,delle installazioni a Epping. Le parlò della vita londinese del 1967. Del suo lavoro e dei suoi svaghi, delle sue speranze e dei suoi sogni. E mentre parlava, capiva che desiderava confidarsi con lei. O capiva che, attraverso lei, voleva rivivere tutte quelle cose.

Lei lo ascoltava attenta, e Markham sentiva che lei era in grado di capirlo. Continuò a parlare quasi inconsapevole della presenza di Vivain. Perse la no­zione del tempo. Poi, a un tratto, gettando un’occhia­ta dalla finestra, vide che una sottile striatura di luce grigia si stendeva nel cielo.

L’alba! Non poteva crederci! Ma il fatto venne con­fermato dall’orologino di Vivain. Lei si alzò e si stirò, respingendo le scuse di lui con un sorriso curioso. «Promettimi» gli disse «che lo farai di nuovo.»

«Fare che cosa?»

«Parlare così. Dirmi tutto di te e del tuo mondo. Deve essere stato davvero terribile per te. Credo... cre­do di capire, adesso, come ti senti pensando a Katy e ai bambini.» Rise. «Però, posso quasi immaginare cosa dovesse essere la vita senza androidi: un vero in­cubo... Ma, in un certo senso, piacevole.»

Anche Markham si alzò. «Mi dispiace di averti te­nuta sveglia così a lungo.»

Vivain gli sfiorò gentilmente la guancia con le lab­bra. «Ma a me non dispiace di non averti fatto dor­mire. Ora andiamo a fare una nuotata. Saremo là per la levata del sole. Poi faremo colazione in un piccolo villaggio della costa. Sarà perfetto in ogni caso... come inizio o come fine.»

«Sei pazza?»

«O felice. O tutt’e due. La mia autogetto ci porte­rà ad Hastings in mezz’ora... Devo portare il mio A.P. o sai accendere un fuoco da campo?»

Lui sorrise. «So accendere il fuoco. Sono un uomo di Neanderthal, non lo sai?»

Dieci minuti dopo, l’autogetto di Vivain Bertrand si alzava silenziosamente da Park Lane e si dirigeva verso sud trasvolando la City nel grigiore argenteo dell’alba.

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