5

Il procedimento di iscrizione all’Elenco Maschile non era stato burocratico come aveva immaginato. Marion-A si era diretta con l’eliauto verso la Whitehall, e l’ave­va accompagnato fino a un edificio a un solo piano, in acciaio e plessiglass, che sorgeva al posto dell’antico ministero della guerra. Là avevano dato nome, età e impronte digitali a un funzionario androide, poi Markham era stato affidato a un medico per una elet­trodiagnosi completa, e finalmente aveva ricevuto un libretto d’assegni sul quale si leggeva: Repubblica di Londra — Credito personale. Perché un assegno dive­nisse valido, doveva solo scrivervi l’importo con una stilografica e premere il pollice su una parte dell’asse­gno ricoperta di una plastica molle.

Quando uscì dall’Ufficio Maschile, Marion-A gli spie­gò che, a meno di affittare l’eliauto, o comprarlo, l’ap­parecchio andava consegnato in un magazzino appo­sito della Repubblica, dove sarebbe stata rilasciata una ricevuta.

«Quanto costa affittarlo?» chiese.

«Una sterlina al giorno, signore.» Markham notò che lei lo chiamava invariabilmente signore quando altri androidi o esseri umani potevano ascoltare le lo­ro parole.

«E per acquistarlo quanto ci vuole?»

«Milleduecentocinquanta sterline.»

Markham si tastò in tasca il libretto degli assegni. Era piacevole sentirsi in possesso di cinquemila ster­line, senza dover fare niente per guadagnarle. Piace­vole e preoccupante... Ma poiché non aveva ancora idea del valore della moneta corrente, non poteva giu­dicare per quanto tempo quelle cinquemila sterline gli sarebbero bastate.

Guardò indeciso l’eliauto. Era un veicolo utile e ben congegnato, altrettanto maneggevole nelle tranquille strade di Londra come lo era stato per aria. Se voleva andarsene in giro a vedere tutto quello che c’era da scoprire nel mondo moderno in cui era stato proietta­to, probabilmente avrebbe avuto bisogno di un mezzo di trasporto personale.

«Per ora lo affitterò per una settimana» disse. «Nel frattempo potrò giudicare se ne ho veramente biso­gno, e se posso permettermi la spesa. Com’è la pro­cedura?»

«Al primo magazzino di stato che incontriamo pre­senterò un assegno per cinque sterline, signore. Non c’è altro.»

«Bene. E se adesso mangiassimo qualcosa? Ho fame.»

Marion-A lo accompagnò fino a un ristorante che si chiamava Da Nino. Era, scoprì Markham con gran­de sorpresa, tale e quale ai ristoranti del ventesimo secolo: cibi esposti, tavole apparecchiate, sedie di le­gno, vecchi lumi al neon, e cameriere che indossavano normali grembiuli e avevano la medesima aria un po’ da martiri che lui ricordava bene.

Per un attimo si fermò interdetto. Si guardò attorno a bocca aperta, quasi disposto a credere di essersi ri­svegliato da uno strano sogno e di ritrovarsi di nuovo nel proprio mondo. Poi si accorse che le cameriere era­no androidi, e capì che Marion-A l’aveva portato in un ristorante all’antica.

Lei sorrise. «Pensavo che vi sarebbe piaciuto, signo­re. Volete che vi aspetti in eliauto?»

Markham la guardò per un momento senza sapere cosa dire, poi si ricordò.

«Ti sarebbe di molto disturbo mangiare con me, Marion? Mi riferisco alle conseguenze che dovresti su­bire.»

«No, signore. È un’operazione semplicissima.»

«Allora sarei contento che tu mi facessi compagnia» disse lui con aria diffidente. «Non mi sento ancora sicuro di me... Strano, vero?»

«È perfettamente comprensibile, signore.»

Markham scelse un tavolo accanto alla finestra, guardò il menù e scelse dei piatti che avrebbe potuto ordinare anche un secolo e mezzo prima.

Sebbene il ristorante fosse nel West End, in sala c’e­rano sì e no una dozzina di persone. Guardandosi at­torno incuriosito, notò di non essere l’unico a pran­zare con un androide. Due tavolini più in là, una gio­vane donna, eccezionalmente graziosa ed elegante, sui trentacinque anni, permetteva al suo androide perso­nale di giocherellare con una tazza di caffè mentre lei consumava un pasto completo. Nell’angolo opposto della sala, un uomo e una donna, chiaramente una coppia di innamorati, avevano condotto con sé i reci­proci androidi personali. A Markham la scena appa­riva grottesca.

Per un po’, lui e Marion-A mangiarono in silenzio. Poi, arrivati al caffè, Markham disse in tono discorsi­vo: «Che tipo strano quel vecchio che ho incontrato in Hampstead Keath.»

«Non sembrava convenzionalmente ambientato» disse Marion-A.

«Ho l’impressione che si interessasse a qualche biz­zarro culto religioso» riprese Markham. «Sono molti i tipi come quello?»

«Esistono molte confraternite religiose» spiegò Marion-A. «Di solito, i loro fini sono più sociali che religiosi. Nella City, sono di moda varie forme di mi­sticismo indiano, ma la più popolare resta pur sempre il Triplo S.»

«Cosa sarebbe il Triplo S?»

«La Società dei Simbolisti Sessuali.»

«Un nome che è tutto un programma» disse lui, asciutto.

«Mi risulta che sia molto seguita» disse Marion-A. «Dagli esseri umani, s’intende.» E sorrise.

«L’uomo incontrato in Hampstead» riprese Mark­ham, «pareva preferire l’adorazione del sole, se ho capito bene.»

«In realtà, signore» rispose calma Marion-A «ho intuito che si trattava di un Fuggiasco.»

«Che cosa vuol dire?» Markham era troppo scosso per rendere convincente la sua pretesa aria di igno­ranza.

«Una persona antisociale che si oppone allo sche­ma della cultura esistente, ed è perciò infelice e insuf­ficientemente cooperante per accettare l’assistenza, com­presa la cura psichiatrica. Il suo nome è stato cancel­lato dall’Elenco e gli vengono negati tutti i privilegi sociali finché non acconsentirà a lasciarsi aiutare.»

«Può osservi costretto?»

«No, signore, a meno che non commetta un cri­mine.»

«Ma se il suo nome viene cancellato dall’elenco, al­la fine rimarrà senza denaro e senza niente. Dovrà ru­bare per poter vivere.»

«Sì, signore. E in questo caso può essere costretto legalmente a sottomettersi alle cure, appena viene cat­turato, o appena si costituisce.»

«Un magnifico sistema basato sul circolo vizioso» disse Markham. «Ne vengono catturati molti di que­sti Fuggiaschi?»

«La maggioranza finisce per arrendersi» rispose lei. «Essere privati dei privilegi sociali è demoralizzan­te. E poi la cura è meno rigorosa, dato che quando un uomo si arrende di sua spontanea volontà dimostra di essere psicologicamente cooperante.»

Markham rifletté un poco in silenzio. Poi disse: «Chi si prende la responsabilità di decidere quali nomi vengono cancellati dall’Elenco, e come vadano trattati i Fuggiaschi?»

«Questa è una delle funzioni dello Psicoprop, signo­re: il dipartimento di propaganda psicologica.»

Lui rise senza allegria. «E quel dipartimento mini­steriale sarà tutto formato da esseri umani, immagino.»

«No, signore» disse Marion-A. «Lo Psicoprop è organizzato e completamente amministrato da androidi.»

Markham allibì. «Non li controlla nessuno... nes­sun essere umano?» chiese.

«Rispondono direttamente al Presidente di Lon­dra, signore.»

«Capisco... Molte donne diventano Fuggiasche?»

«No, signore. I casi di psiconeurosi nelle donne so­no meno numerosi che negli uomini.»

Markham bevve lentamente il caffè, ripensando a quello che gli aveva detto Marion. Passarono parecchi minuti prima che parlasse di nuovo.

«Facciamo un’ipotesi. Se io avessi saputo che l’uo­mo di stamattina era un Fuggiasco, cosa avrei dovu­to fare?»

«Se me lo avesse detto, signore, mi sarei messa in contatto con la più vicina pattuglia psichiatrica. Allo­ra l’uomo sarebbe stato rintracciato e invitato ad ar­rendersi.»

«E se avesse rifiutato di arrendersi?»

«Allora sarebbe stato preso, signore.»

«Con la forza?»

«I metodi impiegati non fanno soffrire l’essere umano catturato, signore.»

Markham prese una sigaretta.

«Se pensavi che fosse un Fuggiasco, perché non l’hai detto? E perché non hai chiamato la squadra psi­chiatrica, o come la chiami?»

«L’evidenza non era decisiva, signore» disse Marion-A. «E poi, un A.P. non deve prendere decisioni in­dipendenti di simile importanza, a meno che non ci sia pericolo immediato.»

«Fortunatamente» disse Markham, aspirando una profonda boccata di fumo «le tue deduzioni erano sbagliate, vero? Quello era solo un innocuo vecchio mattoide. Mi ha perfino consigliato di andare in Cornovaglia con lui e di unirmi ai suoi adoratori del Sole.»

«Sì» disse Marion-A. Portava la tazza del caffè alle labbra a intervalli regolari.

Spinto dalla curiosità, Markham cominciò a misu­rarli. Scoprì che ogni intervallo durava esattamente quìndici secondi.

«Perché non provi un intervallo da venti secondi?» disse sorridendo.

Marion-A gli rivolse uno dei suoi sorrisi rigidi, e Markham ebbe l’assurda sensazione che lei cercasse di arrossire.

Mentre finiva la sigaretta, Markham si ricordò che il problema dell’alloggio veniva in primo piano.


Con l’eliauto, ci volle poco più di un minuto per andare dal ristorante al Centro Alloggiamenti. Là, l’an­droide in carica gli presentò la lista aggiornata che pa­reva offrire ogni tipo di abitazione, dai palazzi di Westminster ai seminterrati di Chelsea. Evidentemen­te a Londra non c’era la crisi degli alloggi.

Alcune stanze in Knightsbridge venivano al quarto posto sulla lista, e quando, a suo tempo, le ebbe viste, capì che non aveva bisogno di continuare nel suo giro. Erano al terzo piano di una delle poche case vittoria­ne ancora esistenti. Le preferì ad altri appartamenti perché aveva un debole per l’architettura massiccia, perché gli piaceva la sensazione di trovarsi parecchio in alto dal suolo, e perché dalle finestre si godeva una bellissima vista della Serpentina e di Hyde Park.

L’appartamento era formato da due camere da let­to, un soggiorno, uno studio, una cucina e un bagno. A parte il bagno e la cucina, il mobilio era quasi tut­to antico; un’accozzaglia balorda e simpatica di cimeli vittoriani ed edoardiani, con alcune comodità moder­ne quali un televisore tri-di, un visifono e altri appa­recchi.

L’androide del Centro Alloggiamenti lo informò che l’affitto era di sessantacinque sterline mensili. Con la sensazione di commettere una follia, Markham riem­pì un assegno versando un semestre anticipato, vi im­presse il pollice e lo porse all’agente.

Era leggermente sorpreso. In meno di due ore aveva trovato un appartamento che poteva anche trasformar­si in una vera casa. All’improvviso si sorprese a chie­dersi cosa avrebbe pensato Katy.

In passato, specialmente prima di sposarsi, Hyde Park era stata la meta favorita dei loro week-end. Era­no passati parecchie volte davanti a ogni casa di Knightsbrige, e forse avevano perfino osservata a lun­go proprio quella, chiedendosi che effetto poteva fare abitare in una zona così elegante.

Ecco,pensò amaramente, adesso lo saprò. Ma Katy non l’avrebbe saputo.

Con una mezza dozzina di chiavi in tasca, lasciò che Marion-A lo riconducesse all’appartamento numero tre, Rutland House, Knightsbridge. A casa... o quasi.

Solo in quel momento si rese conto che si trasferiva nella nuova abitazione con ben pochi effetti persona­li: pochi abiti che gli erano stati riconsegnati al Ri­sanatorio, e niente altro. Guardò Marion-A, perplesso.

«Non avremo proprio niente in dispensa, nemme­no caffè.»

«No, John.»

«Avrei bisogno ancora di un paio di camicie, un paio di scarpe, qualcosa da leggere... E carta da scri­vere, cose di questo genere. Compreremo anche qual­che vestito per te come... come... Al diavolo, no! Pren­deremo qualcosa di moderno adatto a questi tempi.»

«Sì, John.»

Andarono per compere. Markham spese un paio di centinaia di sterline in diversi Magazzini della Repub­blica. Marion-A venne servita con efficienza da una sarta androide, mentre Markham sceglieva le camicie più compatibili con i suoi gusti e si faceva prendere le misure per un abito. Dalla profusione di tessuti sin­tetici dalle tinte vivaci che gli venivano presentati scelse una specie di tweed di un grigio-rosso relativa­mente sobrio.

Risolto il problema dei vestiti, Markham gironzolò con curiosità negli altri reparti del magazzino per ve­dere che specie di articoli venivano offerti al pubbli­co nel ventiduesimo secolo. Molti generi li riconobbe all’istante, ma altri gli parvero davvero problematici e Marion-A dovette spiegargliene l’uso.

Markham si lasciò tentare ad acquistare per sé una combinazione di orologio da polso e radio portatile, una stilografica con carica perpetua, e una serie di scacchi d’avorio antichi, completi di scacchiera. Nel reparto gioielli vide un braccialetto di platino fine­mente cesellato e lo acquistò per Marion-A prima an­cora di rendersi conto di ciò che stava facendo. Non volle esaminare l’oscura ragione che gli aveva dettato quell’impulso, e tentò di rendere razionale l’idea del regalo dicendosi che Marion-A sarebbe sembrata più umana. Lo sorprese che il braccialetto costasse sol­tanto venticinque sterline.

Marion-A non si mostrò né commossa né entusiasta di fronte al dono. Ringraziò con la calma indifferenza di chi non è sensibile a un omaggio. Sebbene avesse previsto quel contegno, Markham ci rimase malissimo. Per ripicca, la spedì da sola a fare acquisti al reparto alimentare; poi la lasciò sola ad aspettare in eliauto, e se ne andò a prendere un tè nel ristorante quasi de­serto del magazzino.

Ormai si stava abituando alla trasformazione subita da Londra, diventata, a suo parere, una città di fan­tasmi. La popolazione della città, come aveva scoper­to da poco, arrivava sì e no a trentamila persone. La gente sembrava dispersa e sparpagliata come un grup­po di mosche su un’immensa torta.

Quanto alla popolazione di androidi la faccenda era tutta diversa. Ripensando alle esperienze fatte in quel­la prima giornata, Markham calcolò di avere visto co­me minimo quattro androidi per ogni essere umano.

Un’altra cosa che colpì Markham fu l’assoluta as­senza di bambini per le strade: gli unici li aveva visti vicino al lago prodotto dall’atomica.

A differenza del ristorante Da Nino,dove aveva fat­to colazione a mezzogiorno, il salone ristoro del Gran­de Magazzino era quanto di più moderno si potesse immaginare in fatto di arredamento. Una dozzina di tavoli circolari senza gambe, sospesi al soffitto iride­scente per mezzo di un tubo di metallo. Il menù ve­niva proiettato su un piccolo schermo, e ciascuna por­tata era accuratamente illustrata, inoltre Markham scoprì che le ordinazioni venivano ricevute da piccoli microfoni inseriti nei tavoli e collegati direttamente con la cucina.

Stava riflettendo se ordinare tè inglese o scozzese, quando si rese conto di essere osservato. Gettò un’oc­chiata nello specchio di fronte, e vide una giovane donna dai lunghi capelli biondi, di una bellezza ecce­zionale, ferma in piedi a poca distanza dalla sua se­dia. Indossava una tunica di linea e stile vagamente cinese, di una seta blu scuro, e pantaloni di un tessu­to dallo scintillio metallico. Sulla testa aveva un pic­colo diadema di pietre preziose.

La ragazza incontrò il suo sguardo, sorrise e si av­vicinò. Markham si alzò e si voltò a guardarla.

«Salve, signor Markham. Sedete. Vi farò compa­gnia se non vi dispiace.» La voce della donna aveva un timbro musicale. «Non mi conoscete ancora» con­tinuò «ma abbiamo già un appuntamento. Sono Vivain Bertrand. Ho detto al mio A.P. di mandarvi un invito per il ricevimento di Clement a Palazzo.»

Markham cominciava a sentirsi alquanto confuso, e si malediceva per aver lasciato Marion-A nell’eliauto. Lei avrebbe potuto aiutarlo ad affrontare la situazione.

«Piacere» disse, con cortesia formale, chiedendosi se fosse corretto stringerle la mano. «Siete forse la... la moglie del Presidente?»

Lei prese posto sulla sedia accanto. «Tanto per la cronaca, spero di non sembrare la moglie di nessuno. Sono la figlia, signor Markham. Allora cosa vogliamo ordinare? Avete appetito?»

«Veramente no, signorina Bertrand. Io...»

«Chiamami pure Vivain, io ti chiamerò John. Quel ridicolo androide ha sciupato tutto. Ha proprio biso­gno di essere riprogrammato. Bene, se non hai fame, prenderemo solo un tè e un po’ di torta.»

Non aveva ancora finito di parlare, quasi, che ap­parve un androide col vassoio: servì tè e torta in si­lenzio, e si ritirò. Vivain Bertrand allungò un braccio ben tornito e premette un pulsante al centro del ta­volino. Immediatamente un cilindro trasparente di plastivetro salì dal pavimento attorno al tavolino e al­le sedie. Il sottofondo di rumori del ristorante venne completamente tagliato fuori, e Markham ebbe l’impressione di essere precipitato all’improvviso in una vasca di pesci assieme a Vivain Bertrand.

Lei rise, toccò un altro bottone, e il cilindro si fece azzurrognolo e lattiginoso, perdendo la trasparenza. «Ora siamo davvero nell’intimità» spiegò lei. «Così resta isolato anche il microfono... Li chiamiamo oubliettes.»

«È la mia prima esperienza in fatto di oubliettes.»

Lei gli diede un’occhiata inquisitrice. «Gli uomini e le donne del ventesimo secolo non ci tenevano a re­stare soli?»

«Nel bel mezzo di un ristorante... per lo meno, no, e comunque non così.»

Vivain era sorpresa. «Dovevano essere molto inco­stanti, allora.»

Lui non seppe cosa rispondere a quell’osservazione, e rimase zitto.

«Devi raccontarmi tutto sulla gente della tua epo­ca» proseguì lei. «Ardo dalla curiosità di sapere co­m’erano effettivamente... È vero quello che hai detto alla televisione? Eri davvero fedele a tua moglie?»

Markham si sentiva come un bambino che confessa una scorreria nella dispensa. «Sì, verissimo.»

«Che creatura incredibile!»

«Il termine usato oggi è barbaro sessuale, credo» disse lui seccamente.

Vivain riuscì a costringerlo a guardarla negli occhi. «Sono certa che sapresti essere veramente barbaro» mormorò.

Oltre a essere fisicamente la donna più conturbante che lui avesse mai incontrato, c’era un’altra qualità, in Vivain, che lo affascinava. Ogni suo gesto dava una sensazione di potere represso, di forza psicologica trat­tenuta, come una molla compressa. Si sorprese a chie­dersi come sarebbe stata se la molla fosse scattata, e intuì che doveva essere pericolosa, sotto ogni aspetto. Ugualmente pericolosa, nella vittoria come nella sconfitta... Era una donna, concluse, essenzialmente vulca­nica; e probabilmente dotata dell’energia distruttiva propria dei vulcani.

«Sembri smarrito» disse Vivain. «Come un orso polare ai tropici. Doveva essere malinconica la vostra epoca! Immagino che il contrasto ti renderà legger­mente psicopatico per un certo tempo, ma in modo spassoso. Sarò io la tua custode. Deve essere divertente osservare le tue reazioni.»

«Spero di non deluderti troppo» disse lui, senza scomporsi.

Vivain gli sorrise. «Non credo. Probabilmente in te si annidano più inibizioni che in tutti i Fuggiaschi della Repubblica riuniti insieme.»

«Può darsi che le mie inibizioni mi piacciano.»

«Può darsi che piacciano anche a me» disse lei. «Lo sento... combatteremo una guerra privata. Cia­scuno tenterà di modificare l’altro senza esclusione di colpi. Le tue idee contro le mie. Vedremo chi sarà il migliore, e il più forte. Accetti la sfida, caro nemico?»

Markham si sentiva decisamente a disagio. Le cose procedevano a un passo che lo stordiva addirittura.

«Sono troppo intento a chiedermi come ci siamo trovati a parlare in questo modo» disse, e aggiunse:

«Forse dovrei comportarmi con maggior rispetto con la figlia del Presidente.»

Lei rise. «Solo se io volessi. Ma non voglio. Sei trop­po interessante perché io voglia tenerti a distanza, John. Non tutti i giorni si incontra un uomo di qua­si due secoli.»

«Non esageriamo, prego. Sono un ragazzino di soli centosettantasette anni.»

«E molto ben conservato» disse lei. «Cosa ne pen­si della City? Non ti pare che l’abbiamo migliorata? Non posso pensare a come doveva essere quando ci vivevano milioni di persone. Una massa di corpi che si agitavano, immagino... Che cosa ripugnante!»

«Non ho ancora avuto il tempo di chiarire le mie impressioni» rispose Markham prudente. «Ho dovu­to registrarmi nel’Elenco, e trovarmi una casa.»

«Sei stato svelto. Dove abiti?»

«Rutland House, Knightsbridge.»

«La conosco. Un vecchio museo ancora in piedi. È per questo che l’hai scelta?»

«Precisamente» disse lui. «Ormai sono anch’io un pezzo da museo.»

Vivain finì il suo tè. «Ma non per molto» disse in tono profetico. «Me ne occuperò io. Si dà il caso che siamo quasi vicini, John. Io ho un alloggio in Park Lane. Sto a De Havilland Lodge.» Guardò l’orologio da polso. «A quest’ora dovrei essere all’Olimpic Club... Vieni a trovarmi stasera. Alle dieci e mezzo, e senza androide. Potrai parlarmi della tua antiquata famiglia e del tuo secolo sorpassato.»

Schiacciò il pulsante e l’oubliette rientrò nel pavi­mento.

«Ma io...» Markham non poté proseguire oltre.

«Niente ma, caro nemico. Sono la figlia del Presi­dente» lo avverti lei con un sorriso allegro. «Un er­rore di tattica, e tornerai in A.S.»

«Davvero?»

«Sciocco! Stasera ti farò guarire un po’ da quella tua serietà antidiluviana. Ciao, John. Curati le tue ini­bizioni!»

E se ne andò in fretta, prima che lui potesse formu­lare un rifiuto diplomatico. Vivain Bertrand gli aveva messo addosso una strana tensione. Si trattenne nel ri­storante per qualche altro minuto, meditando sull’in­contro e cercando di analizzare la propria reazione. Ma non venne a capo di niente, e rinunciò.

Poi si ricordò di Marion che lo stava aspettando nell’eliauto. Uscì per raggiungerla. Si sentiva in un certo senso vendicato per la mancanza di entusiasmo con la quale lei aveva accolto il braccialetto di platino, pur sapendo benissimo che l’androide non poteva sentire né entusiasmo né umiliazione. Ritornarono in Knightsbridge in silenzio. Markham aprì la porta del suo ap­partamento proprio mentre squillava il visifono.

«Come funziona questo coso?» chiese irritato.

Marion-A abbassò una piccola leva posta di fianco allo schermo, poi si scostò per uscire dal raggio visivo. Lo schermo si animò, e sul video apparve la testa di una ragazza. Capelli scuri, faccia dai lineamenti mo­bili, vent’anni circa.

«Ciao, tesoro» disse, disinvolta. «Benvenuto in questo tugurio. Proprio il genere di tana che usavano nel ventesimo secolo, eh? Adesso devi, ripeto devi, scen­dere immediatamente a bere qualcosa con noi, subito, in questo istante, eccetera. Niente scuse, tesoro. Mo­riamo dalla voglia di conoscerti. E lascia a casa il tuo A.P. I nostri li abbiamo mandati a spasso per un’oret­ta... Sai, qualche volta ci si stanca di vederli tra i pie­di. Oh, dimenticavo! Sono Shawna Vandellay, abito proprio sotto di te, nell’appartamento Due.»

«Salve» disse Markham, un po’ intontito da quel fiume di parole. «Io mi chiamo...»

«Sappiamo tutto, tesoro. Sei l’incredibilmente ro­mantico Sopravvissuto. In confidenza, potrei interpre­tarti tragicamente. Saresti una divinità superba. Una specie di Orfeo, credo. Tanto più che hai avuto un inferno tutto tuo. Ma purtroppo non sei un tipo mu­sicale, vero?»

«No, non ho alcun talento particolare... né divino, né artistico.» Pensava che quella ragazza fosse un po’ matta.

«Tesoro» disse lei «stiamo sprecando elettronica­mente tonnellate di sforzo psicosomatico. Ci vediamo tra venti secondi.» Un ultimo sorriso radioso, poi lo schermo si spense.

Markham si rivolse a Marion-A. «La gente parla tutta così?» chiese. «O si tratta di un caso speciale?»

«La signorina Vandellay usa l’idioma corrente» ri­spose Marion-A con un’ombra di sorriso. «Ha un ger­go un po’ concentrato, forse.»

«Al diavolo. Dovrò andarci, immagino.»

«Sì, signore. Cosa volete che faccia mentre siete assente?»

Markham ci pensò per un momento. «Provati i ve­stiti nuovi» rispose secco.

Загрузка...