Capitolo 8

Ranger era alla guida di una Mercedes nera che sembrava appena uscita dalla concessionaria. Le auto di Ranger erano sempre nere, sempre nuove e sempre di dubbia proprietà. Aveva un cercapersone e un cellulare fissati al parasole e sotto il cruscotto un’antenna radar per intercettare le comunicazioni radio della polizia. Sapevo anche, per esperienza passata, che nascosti da qualche parte nella macchina c’erano un fucile a canne mozze e un’arma d’assalto, e che portava una semiautomatica agganciata alla cintura. Ranger è uno dei pochi civili a Trenton con l’autorizzazione a portare armi nascoste. È proprietario di palazzi di uffici a Boston, ha una figlia in Florida — frutto di un matrimonio fallito — ha lavorato in tutto il mondo come mercenario e il suo codice di condotta non è esattamente in linea con il nostro sistema legale. Non ho idea di che accidenti di persona sia… ma mi piace.

Lo Snake Pit non aveva ancora aperto i battenti, ma nel piccolo parcheggio adiacente l’edificio c’erano già delle auto e la porta principale era socchiusa. Ranger parcheggiò accanto a una BMW nera, poi entrammo. Un gruppo di addetti alle pulizie stava lucidando il bancone del bar e lavando il pavimento. Da una parte c’erano tre ragazzi muscolosissimi che bevevano caffè e parlavano. Immaginai che fossero dei lottatori che ripassavano lo schema di combattimento. E capii anche perché la nonna usciva presto dal bingo per venire allo Snake Pit. La possibilità che a uno o più di quegli uomini che bevevano il caffè venissero strappate via le mutande in mezzo al fango esercitava una certa attrattiva. La verità è che mi fa un effetto un po’ strano guardare degli uomini nudi con quei loro aggeggi e pendagli in libertà. Però c’è sempre il fattore curiosità. Credo sia un po’ come quando ti trovi davanti a un incidente stradale: ti senti obbligato a guardare anche se sai che quello che stai per vedere ti spaventerà a morte.

C’erano due uomini seduti a un tavolo che rileggevano quello che sembrava un documento di contabilità. Avevano sui cinquant’anni e un fisico da frequentatori di palestra, con indosso pantaloni sportivi e maglie leggere. Alzarono lo sguardo quando io e Ranger entrammo. Uno di loro salutò Ranger.

«Dave Vincent e il suo commercialista» mi spiegò Ranger. «Vincent è quello con la maglia marrone chiaro. Quello che mi ha salutato.»

Un abbinamento perfetto con la casa di Princeton.

Vincent si alzò e ci venne incontro. Sorrise quando vide il mio occhio da vicino. «Tu devi essere Stephanie Plum.»

«Avrei potuto eliminarla» dissi. «Mi ha colto di sorpresa. Si è trattato di un incidente.»

«Stiamo cercando Eddie DeChooch» intervenne Ranger.

«Tutti stanno cercando Eddie DeChooch» rispose Vincent. «Il nostro amico è un matto.»

«Pensavamo che magari si tiene in contatto con i suoi soci in affari.»

Dave Vincent alzò le spalle. «Non l’ho visto.»

«Guida la macchina di Mary Maggie.»

Vincent lasciò intravedere un po’ d’impazienza. «Non mi immischio nelle vite private dei miei dipendenti. Se Mary Maggie vuole prestare la macchina a Chooch, sono affari suoi.»

«Ma se lo tiene nascosto diventano affari miei» affermò Ranger. Così dicendo, girammo i tacchi e ce ne andammo.

«Allora» dissi quando salimmo in macchina. «Mi sembra che sia andata bene.»

Ranger mi rispose con un sorriso. «Staremo a vedere.»

«E adesso che facciamo?»

«Benny e Ziggy. Saranno di sicuro al circolo.»


«Oh diamine» esclamò Benny quando venne alla porta. «Che c’è adesso?»

Ziggy si trovava un passo dietro di lui. «Non siamo stati noi a farlo.»

«A fare cosa?» domandai.

«Qualsiasi cosa» rispose Ziggy «Qualsiasi cosa sia, non siamo stati noi.»

Io e Ranger ci scambiammo un’occhiata.

«Dov’è?» chiesi a Ziggy.

«Dov’è chi?»

«Il Luna.»

«È una domanda a trabocchetto?»

«No. È una domanda assolutamente seria. Il Luna è scomparso.»

«Sei sicura?»

Io e Ranger lo guardammo fisso e in silenzio.

«Merda» disse infine Ziggy.


Lasciammo Benny e Ziggy senza aver potuto aggiungere altre informazioni a quelle che già avevamo. Ovvero nessuna. Per non parlare poi del fatto che mi sentivo come se avessi appena partecipato a un classico sketch di Stanlio e Ollio.

«Direi che è andata quasi bene quanto il nostro colloquio con Vincent» dissi a Ranger.

Con questa osservazione mi guadagnai un altro sorriso. «Sali in macchina. Ora facciamo una visita a Mary Maggie.»

Gli risposi con un saluto militare e salii a bordo. Non ero sicura che saremmo approdati a qualcosa ma era comunque piacevole andarsene in giro con Ranger. Avere lui accanto mi assolveva da ogni responsabilità. Io ero chiaramente la sua sottoposta. Ed ero protetta. Nessuno avrebbe osato spararmi finché fossi stata con lui. E se anche mi avessero sparato, ero sicurissima che non sarei morta.

Rimanemmo in silenzio fino al condominio di Mary Maggie, parcheggiammo una fila più in là dalla sua Porsche e prendemmo l’ascensore fino al settimo piano.

Dopo aver bussato un paio di volte, Mary Maggie venne ad aprirci. Quando ci vide le si mozzò il fiato e fece un passo indietro. Di norma una reazione del genere potrebbe essere interpretata come segno di paura o di colpevolezza. Nel caso specifico era la normale reazione che ogni donna ha nel trovarsi di fronte a Ranger. Bisognava però riconoscere a Mary Maggie che la vista di Ranger non l’aveva fatta né arrossire né balbettare. La sua attenzione si spostò da lui a me. «Di nuovo tu» disse.

La salutai con un gestaccio.

«Che ti è successo all’occhio?»

«Un litigio per un parcheggio.»

«A quanto pare non hai avuto la meglio.»

«Le apparenze ingannano» dissi. Non necessariamente in questo caso… ma qualche volta sì.

«DeChooch era in giro in macchina l’altra sera» intervenne Ranger. «Pensavamo che forse l’avevi visto.»

«No.»

«Guidava la tua auto ed è rimasto coinvolto in un incidente. Da pirata della strada.»

Dall’espressione che aveva dipinta in viso, era chiaro che Mary Maggie apprendeva dell’incidente solo in quel momento.

«Tutta colpa della vista. Non dovrebbe guidare di notte» commentò.

Verità sacrosanta. Per non parlare del cervello, che avrebbe dovuto proprio tenerlo lontano dalle strade. Quell’uomo era un pazzo.

«Qualcuno si è ferito?» chiese Mary Maggie.

Ranger scosse la testa.

«Ci chiami se lo vedi, non è vero?» dissi.

«Certo» rispose Mary Maggie.

«Non ci chiamerà» dissi a Ranger quando fumino nell’ascensore.

Lui si limitò a guardarmi.

«Cosa c’è?»

«Devi avere pazienza.»

Quando le porte dell’ascensore si aprirono sul parcheggio sotterraneo, saltai fuori. «Pazienza? Il Luna e Dougie sono scomparsi e ho il fiato di Joyce Barnhardt sul collo. Andiamo in giro a parlare con la gente, ma non otteniamo niente, non succede niente e nessuno sembra preoccuparsi.»

«Stiamo lasciando dei messaggi. Facciamo pressione. Se fai pressione nei punti giusti le cose cominciano a muoversi.»

«Mmm» feci, ancora con la sensazione che non avessimo ottenuto granché.

Ranger aprì l’auto con il telecomando. «Non mi piace il suono di questo tuo mmm.»

«Questa storia di fare pressione mi sembra un po’… oscura.»

Eravamo soli nel garage semibuio. Soltanto io e Ranger e due piani di macchine e cemento. Era la scena perfetta per un omicidio della malavita o per l’aggressione di un violentatore folle.

«Oscura» ripeté Ranger.

Mi prese per i risvolti della giacca e mi tirò a sé, baciandomi. Mi toccò la lingua con la sua e provai una sensazione che rasentava l’orgasmo. Fece scivolare le mani sotto la giacca e mi cinse la vita. Lo sentivo duro contro di me. E improvvisamente, l’unica cosa che mi importava era che Ranger mi facesse avere un orgasmo. Lo volevo. E subito. Al diavolo Eddie DeChooch. Un giorno o l’altro si sarebbe schiantato con la macchina contro la spalla di un ponte e sarebbe finita lì.

Sì, ma il matrimonio?, mi sussurrò una vocina dagli oscuri meandri del mio cervello.

Chiudi il becco, dissi alla vocina, ci penserò dopo.

E che mi dici delle gambe?, chiese la vocina. Ti sei depilata le gambe stamattina?

Cavolo, quasi mi mancava il fiato dal bisogno impellente di questo maledetto orgasmo e mi preoccupavo dei peli sulle gambe! C’è giustìzia a questo mondo? Perché proprio a me? Perché tocca a me preoccuparmi dei peli sulle gambe? Perché tocca sempre alla donna preoccuparsi di questi peli del cavolo?

«Scendi dalle nuvole, Steph» disse Ranger.

«Se lo facciamo adesso, vale come ringraziamento per la cattura di DeChooch?»

«Non lo facciamo adesso.»

«Perché no?»

«Perché siamo in un parcheggio. E quando saremo usciti di qui, tu avrai già cambiato idea.»

Lo guardai strizzando gli occhi. «Cosa significa?»

«Significa che è possibile demolire il sistema difensivo di una persona se si esercita la pressione giusta nel punto giusto.»

«Mi stai dicendo che si è trattato solo di una dimostrazione? Mi hai ridotto in questo… stato solo per dimostrare una teoria?»

Mi teneva ancora le mani sui fianchi, stretta a lui.

«È grave, questo tuo stato?» domandò.

Ancora un po’ più grave e ci sarebbe stato un caso di autocombustione. «Non è una cosa poi così grave» gli dissi.

«Bugiarda.»

«E quanto grave è il tuo stato?»

«Spaventosamente grave.»

«Mi stai complicando la vita.»

Mi aprì lo sportello della macchina. «Salta su. Ronald DeChooch è il prossimo della lista.»

L’anticamera degli uffici della ditta di pavimentazioni era deserta quando io e Ranger entrammo. Da dietro l’angolo fece capolino un giovane che ci chiese cosa volevamo. Gli rispondemmo che volevamo parlare con Ronald. Trenta secondi dopo Ronald arrivò tranquillamente da un qualche locale sul retro dell’edificio.

«Ho sentito dire che una vecchia ti ha beccato in un occhio, ma non credevo che avesse fatto un così buon lavoro» mi disse Ronald. «Hai un occhio nero da primo premio.»

«Hai visto tuo zio di recente?» gli chiese Ranger.

«No, ma ho sentito dire che è rimasto coinvolto in un incidente fuori dall’impresa di pompe funebri. Non dovrebbe guidare di notte.»

«L’auto che guidava appartiene a Mary Maggie Mason» dissi. «La conosci?»

«L’ho vista in giro.» Guardò Ranger. «Lavori anche tu a questo caso?»

Ranger rispose con un cenno affermativo appena percettibile del capo.

«Buono a sapersi» commentò Ronald.

«Cosa voleva dire?» chiesi a Ranger una volta fuori. «È come penso che sia? Quel coglione voleva dire che se ti occupi del caso anche tu, la faccenda è diversa? Voleva dire che ora prenderà sul serio questa storia della ricerca?»

«Andiamo a dare un’occhiata a casa di Dougie» suggerì Ranger.

La casa di Dougie non era cambiata dall’ultima volta che ci ero stata. Non c’erano segni di nuove perlustrazioni. Né di eventuali visite da parte di Dougie o del Luna. Io e Ranger passammo di stanza in stanza. Aggiornai Ranger sulle visite precedenti e sull’arrosto scomparso.

«Pensi che possa significare qualcosa il fatto che abbiano preso un arrosto?» gli domandai.

«Misteri della vita» rispose Ranger.

Percorremmo il perimetro della casa fino al retro e curiosammo nel garage.

Il cagnolino della casa accanto a quella di Dougie abbandonò la sua postazione nella veranda sul retro dei Belski e cominciò a saltellarci intorno abbaiando, tra guaiti e tentativi di morderci i pantaloni.

«Pensi che se gli sparassi qualcuno se ne accorgerebbe?» chiese Ranger.

«Credo che la signora Belski ti correrebbe dietro con un batticarne.»

«Hai parlato con la signora Belski riguardo alle visite a casa di Dougie?»

Mi diedi una botta in testa con il palmo della mano. Perché non mi era venuto in mente di andare a parlare con lei? «No.»

I Belski abitano nella loro casetta a schiera praticamente da sempre. Ormai sono sulla sessantina. Razza polacca, robusta e lavoratrice. Il signor Belski è in pensione da una ditta di ferramenta. La signora Belski ha tirato su sette figli. E ora hanno Dougie come vicino di casa. Altri avrebbero litigato con lui, ma i Belski hanno accettato il loro destino come una specie di volontà divina e ci convivono.

La porta sul retro di casa Belski si aprì e la signora Belski mise fuori la testa. «Spotty vi sta dando fastidio?»

«No» risposi. «Nessun problema con Spotty.»

«Si agita quando vede degli estranei» disse la signora attraversando il giardino per recuperare il cane.

«So che a casa di Dougie sono passati degli estranei.»

«Ci sono sempre degli estranei a casa di Dougie. C’eravate quando ha dato quella festa a tema su Star Trek?» Scosse la testa. «Certi movimenti strani!»

«E più di recente? Negli ultimi due giorni.»

La signora Belski prese Spotty in braccio e se lo tenne vicino. «Niente in confronto a quella festa Star Trek.»

Spiegai alla signora Belski che qualcuno si era introdotto furtivamente in casa di Dougie.

«No!» esclamò. «Ma è terribile.» Lanciò uno sguardo preoccupato alla porta sul retro della casa di Dougie. «Dougie e il suo amico Walter vanno un po’ fuori di testa qualche volta, ma in fondo in fondo sono dei gran bravi ragazzi. Sono sempre carini con Spotty.»

«Ha visto qualche tipo sospetto aggirarsi intorno alla casa?»

«Ci sono state due donne» riferì la signora Belski. «Una della mia età. Forse un po’ più vecchia. Sulla sessantina. L’altra un paio d’anni più giovane. Stavo tornando dalla passeggiata con Spotty e queste donne hanno parcheggiato la macchina e sono entrate da sole in casa di Dougie. Avevano la chiave. Ho pensato che fossero delle parenti. Credete che fossero delle ladre?»

«Si ricorda che macchina avevano?»

«Non proprio. A me le macchine sembrano tutte uguali.»

«Era una Cadillac bianca? Era una macchina sportiva?»

«No. Nessuna delle due. Me ne sarei ricordata se fosse stata una Cadillac o una macchina sportiva di quelle strane.»

«Nessun altro?»

«Si è fermato qualche volta un uomo anziano. Magro. Sui settanta. Ora che ci penso, forse aveva una Cadillac bianca. Dougie riceve un sacco di visite. Non ci faccio sempre attenzione. Non ho notato nessuno di sospetto, tranne che per le due donne che avevano la chiave. Me le ricordo perché la più vecchia mi ha guardato e c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Facevano paura. Aveva uno sguardo cattivo e folle.»

Ringraziai la signora Belski e le lasciai il mio biglietto da visita.

Quando fui sola in macchina con Ranger mi misi a pensare al viso che il Luna aveva visto sul vetro la notte che gli avevano sparato. Era sembrato così improbabile che non gli avevamo dato troppa importanza. Non era stato capace di identificare il volto o di descriverlo nei dettagli… a parte quello degli occhi spaventosi. E ora la signora Belski mi aveva parlato di una donna sulla sessantina con uno sguardo spaventoso. E poi c’era anche la donna che aveva telefonato al Luna e lo aveva accusato di avere qualcosa che le apparteneva. Forse si trattava della donna con la chiave. E come aveva avuto la chiave? Forse gliel’aveva data Dougie.

«E ora?» dissi a Ranger.

«Ora aspettiamo.»

«Non sono mai stata brava ad aspettare. Ho un’altra idea. Che ne dici di usarmi come esca? Che ne dici se chiamo Mary Maggie e le dico che ho quella cosa e che sono disposta a barattarla con il Luna? E poi le chiedo di farla avere a Eddie DeChooch…»

«Pensi che Mary Maggie sia il contatto?»

«È un salto nel buio.»


Morelli mi chiamò mezz’ora dopo che io e Ranger ci eravamo lasciati. «Cosa saresti tu?» urlò.

«Un’esca.»

«Gesù!»

«È una buona idea» dissi. «Gli faremo credere che ho quello che stanno cercando, qualunque cosa sia…»

«Faremo?»

«Io e Ranger.»

«Ranger.»

Mentalmente immaginai Morelli che serrava i denti.

«Non voglio che lavori con Ranger.»

«È il mio lavoro. Siamo cacciatori di taglie.»

«Non voglio neanche che tu faccia questo lavoro.»

«Be’, indovina un po’? L’idea che tu sia uno sbirro non mi fa impazzire.»

«Almeno il mio è un lavoro regolare» disse Morelli.

«Il mio lavoro è regolare quanto il tuo.»

«Non quando lavori con Ranger» ribatté. «È un tipo da manicomio. E non mi piace come ti guarda.»

«Come mi guarda?»

«Come ti guardo io.»

Mi accorsi di essere in iperventìlazione. Respira lentamente, mi dissi. Non farti prendere dal panico.

Mi liberai di Morelli, mi preparai un panino con burro di arachidi e olive e chiamai mia sorella.

«Questa faccenda del matrimonio mi preoccupa» le confessai. «Se non sei riuscita tu a rimanere sposata, quante possibilità può avere una come me?»

«Gli uomini non ragionano» sentenziò Valerie. «Ho fatto tutto quello che dovevo fare ed è andata male. Come è possibile?»

«Lo ami ancora?»

«Credo di no. Più che altro avrei voglia di prenderlo a pugni in faccia.»

«Okay» dissi. «Ora devo andare.» E riattaccai.

Mi misi a sfogliare le pagine dell’elenco telefonico ma non trovai nessuna Mary Maggie Mason. Non c’era da stupirsi. Chiamai Connie e le chiesi di procurarmi il numero. Connie sapeva come risalire ai numeri non riportati sull’elenco.

«Già che sei al telefono, ho un lavoretto veloce per te» disse Connie. «Melvin Baylor. Doveva presentarsi stamattina in tribunale ma non si è visto.»

Melvin Baylor abita a due isolati da casa dei miei. È un quarantenne, una bravissima persona, che si è rovinato a causa di un divorzio che lo ha praticamente lasciato in mutande. Come se non bastasse, due settimane dopo la sentenza di divorzio, Lois, la sua ex moglie, ha annunciato il suo fidanzamento con il vicino di casa, disoccupato.

La scorsa settimana la ex e il vicino si sono sposati. Il vicino è ancora disoccupato ma adesso guida una BMW nuova di zecca e guarda quiz televisivi su una bella TV a grande schermo. Melvin, invece, abita in un monolocale sopra il garage di Virgil Selig e guida una Nova marrone, vecchia dieci anni. La notte del matrimonio della sua ex, Melvin ha mandato giù la sua solita cena a base di cereali freddi e latte scremato e in preda alla depressione più cupa ha preso la sua Nova scoppiettante ed è andato al Casey’s Bar. Non essendo affatto abituato a bere, gli sono bastati due Martini per sbronzarsi. Poi è risalito in quel suo catorcio di macchina e, per la prima volta in vita sua, ha mostrato di avere un po’ di spina dorsale intrufolandosi al ricevimento di nozze della sua ex moglie e pisciando sulla torta, davanti a duecento persone. Si è così guadagnato l’applauso sincero di tutti gli uomini presentì in sala.

La madre di Lois, che aveva pagato ottantacinque dollari per quell’assurda torta a tre piani, ha fatto arrestare Melvin per oltraggio al pudore, condotta indecente, intrusione in una festa privata e distruzione di proprietà privata.

«Ci vado subito» dissi. «Preparami i documenti. Quando arrivo prendo anche il numero della Mason.»

Presi la borsa e gridai a Rex che non sarei stata via per molto. Feci il corridoio di corsa, scesi le scale e per poco non finii addosso a Joyce nell’ingresso.

«Mi hanno detto che è tutta la mattina che vai in giro a chiedere di DeChooch» disse. «DeChooch adesso è mio. Fatti da parte.»

«Come no.»

«E voglio tutti i documenti.»

«Li ho persi.»

«Vacca» disse.

«Stronza.»

«Culona.»

«Bastarda.»

Joyce fece dietrofront e uscì di corsa dall’edificio. Alla prossima cena a base di pollo a casa di mia madre, avrei preso l’osso della forcella ed espresso il desiderio di vedere Joyce con un bell’herpes.

Quando arrivai in ufficio era tutto tranquillo. La porta di Vinnie era chiusa. Lula dormiva sul divano. Connie aveva il numero di telefono di Mary Maggie e aveva preparato le carte dell’autorizzazione alla cattura di Melvin.

«A casa sua non risponde» mi informò Connie. «E ha telefonato al lavoro dicendo che era malato. Probabilmente è a casa che si nasconde sotto il letto, sperando che tutta questa faccenda sia solo un brutto sogno.»

Infilai nella borsa l’autorizzazione e chiamai Mary Maggie dal telefono di Connie.

«Ho deciso che voglio fare un accordo con Eddie» dissi alla Mason quando mi rispose. «Il problema è che non so come mettermi in contatto con lui. Ho pensato che visto che usa la tua macchina, magari potrebbe chiamarti, che so io, farti sapere che va tutto bene con l’auto.»

«Di che accordo si tratta?»

«Ho una cosa che Eddie sta cercando e voglio barattarla con il Luna.»

«Il Luna?»

«Eddie capirà.»

«Okay» disse la Mason. «Se passa di qui glielo riferirò, ma non ti garantisco che riuscirò a parlargli.»

«Certo» dissi. «Comunque non si sa mai.»

Lula aprì un occhio. «Oh-oh, stai dicendo di nuovo le bugie?»

«Faccio da esca» spiegai.

«Ma davvero.»

«Cosa sta cercando Chooch?» domandò Connie.

«Non lo so» ammisi. «Fa parte del problema.»


Solitamente la gente lascia il Burg quando divorzia. Melvin rappresentava un’eccezione. Penso che all’epoca del divorzio fosse semplicemente troppo sfinito e sopraffatto per poter minimamente cercare un posto dove andare.

Parcheggiai davanti a casa di Selig e girai intorno fino al garage. Era un garage sgangherato a due posti con sopra un alloggio decrepito di una sola stanza per un uomo solo. Salii le scale e bussai. Rimasi in ascolto alla porta. Niente. Bussai di nuovo, accostai l’orecchio al legno graffiato della porta e rimasi nuovamente in ascolto. Dentro qualcuno si muoveva.

«Ehi, Melvin» gridai. «Apri.»

«Vattene» disse lui da dietro la porta. «Non mi sento bene. Vattene.»

«Sono Stephanie Plum. Devo parlarti.»

La porta si aprì e Melvin mise fuori la testa. Era spettinato e aveva gli occhi iniettati di sangue.

«Questa mattina saresti dovuto andare in tribunale» gli ricordai.

«Non ce l’ho fatta. Sto male.»

«Avresti dovuto avvertire Vinnie.»

«Oops. Non ci ho pensato.»

Gli annusai il fiato. «Hai bevuto?»

Dondolò all’indietro sui tacchi e sul viso gli si allargò un sorriso da pazzoide. «Certo che no.»

«Hai un alito che sa di sciroppo per la tosse.»

«Grappa alla ciliegia. Me l’ha regalata qualcuno per Natale.»

Oh, cavolo. Non potevo prelevarlo in quello stato. «Melvin, dobbiamo farti passare la sbornia.»

«Sto bene. Tranne che non mi sento i piedi.» Abbassò lo sguardo. «Fino a un minuto fa li sentivo.»

Lo feci uscire di casa, chiusi la porta a chiave e scesi i gradini malandati rimanendo davanti a lui per evitare che si rompesse il collo. Lo caricai sulla mia CR-V e gli feci allacciare la cintura. Rimase appeso alla fettuccia della cintura, a bocca aperta e con gli occhi stralunati. Lo portai fino a casa dei miei e quasi dovetti trascinarlo dentro.

«Che bellezza, abbiamo visite» esclamò nonna Mazur aiutandomi a portare Melvin in cucina.

Mia madre stava stirando e canticchiava qualcosa.

«Non l’ho mai sentita cantare così» dissi alla nonna.

«È tutto il giorno che lo fa» rispose lei. «Sto cominciando a preoccuparmi. Ed è da un’ora che stira la stessa camicia.»

Feci sedere Melvin al tavolo e gli offrii un caffè e un panino al prosciutto.

«Mamma?» dissi. «Stai bene?»

«Sì, certo. Sto solo stirando, cara.»

Melvin girò gli occhi in direzione della nonna. «Lo sa cosa ho fatto? Ho uriiiiinato sulla torta di matrimonio della mia ex moglie. Ho pissssciato sulla glassa. Davanti a tutti.»

«Poteva andare peggio» rispose la nonna. «Pensa se avessi fatto la cacca sulla pista da ballo.»

«Lo sa cosa succede quando si piscia sulla glassa? Si rooovina. Si scioglie tutta.»

«E che mi dici degli sposini in cima alla torta?» chiese la nonna. «Hai pisciato anche su quelli?»

Melvin scosse la testa. «Non ci sono arrivato. Ho beccato solo il primo piano della torta.» Appoggiò la testa sul tavolo. «Non posso credere di aver fatto una cosa del genere.»

«Forse con un po’ di pratica, la prossima volta potresti arrivare fino all’ultimo piano della torta» commentò la nonna.

«Non andrò mai più a un matrimonio» disse Melvin. «Vorrei morire. Forse dovrei semplicemente uccidermi.»

Valerie entrò in cucina con il cesto della biancheria. «Che cosa succede?»

«Ho pisciato sulla torta» disse Melvin. «Ero ubriaco fradicio.» E poi svenne sul panino.

«Non posso portarlo in tribunale in questo stato» dissi.

«Può fare un pisolino sul divano» propose mia madre, riponendo il ferro da stiro. «Prendiamolo ognuno da una parte e trasciniamolo in soggiorno.»

Ziggy e Benny mi aspettavano nel parcheggio quando arrivai a casa.

«Abbiamo sentito che vuoi fare un accordo» esordì Ziggy.

«Esatto. Avete il Luna?»

«Non proprio.»

«Allora niente accordo.»

«Abbiamo passato in rassegna tutto il tuo appartamento e non abbiamo trovato niente» disse Ziggy.

«Infatti è da un’altra parte.»

«Dove?»

«Non dico niente se prima non mi fate vedere il Luna.»

«Potremmo farti molto male» minacciò Ziggy. «Potremmo costringerti a parlare.»

«La nonna del mio futuro marito non ne sarebbe affatto contenta.»

«Sai cosa penso?» disse Ziggy. «Penso che tu non abbia niente. Che tu stia raccontando balle.»

Alzai le spalle e mi voltai per entrare nel palazzo. «Quando trovate il Luna, chiamatemi e faremo l’accordo.»

Da quando sono diventata cacciatrice di taglie, diverse persone hanno fatto irruzione in casa mia. Compro le migliori serrature in commercio, ma non serve a niente. Entrano tutti. La cosa che mi fa più paura, è che mi ci sto abituando.

Ziggy e Benny non solo avevano lasciato tutto come avevano trovato… avevano persino sistemato. Mi avevano lavato i piatti e pulito il piano di lavoro. La cucina era linda e ordinata.

Squillò il telefono: era Eddie DeChooch.

«So che ce l’hai tu.»

«Esatto.»

«È a posto?»

«Sì.»

«Mando qualcuno a prenderlo.»

«Aspetta un minuto. E il Luna? L’accordo è che sono disposta a barattarlo con il Luna.»

DeChooch fece un verso di scherno. «Il Luna. Non capisco perché ti importi tanto di quel fallito. Il Luna non rientra nell’accordo. Ti darò dei soldi.»

«Non voglio soldi.»

«Tutti vogliono soldi. Okay, senti qua: che ne dici se ti rapisco e ti torturo fino a che non ti arrendi e me lo consegni?»

«La nonna del mio futuro marito ti farebbe certamente il malocchio.»

«Quella vecchia è matta da legare. Non credo a quelle stupidaggini.»

DeChooch riattaccò.

L’idea di fare da esca aveva smosso le acque, ma in quanto a recuperare il Luna non avevo fatto alcun progresso. Avevo un groppo in gola. Ero spaventata. Sembrava che nessuno avesse il Luna da barattare. Non volevo che Dougie o il Luna fossero morti. Peggio ancora, non volevo finire come Valerie, seduta al tavolo a piagnucolare a bocca aperta.

«Maledizione!» urlai. «Maledizione, maledizione, maledizione!»

Rex uscì dalla lattina di zuppa e mi guardò, fregandosi i baffi. Staccai un pezzo di merendina dall’angolo e glielo allungai. Rex ci si riempì le guance e poi ritornò alla sua lattina. Un criceto di poche pretese.

Chiamai Morelli e lo invitai per cena. «Però devi portarti la cena» dissi.

«Pollo fritto? Mega-sandwich con polpette? Cinese?» chiese.

«Vada per il cinese.»

Corsi in bagno, feci la doccia, mi depilai le gambe per evitare che quella stupida vocina che avevo in testa rovinasse tutto un’altra volta, e mi lavai i capelli con lo shampoo alle erbe. Frugai nel cassetto della biancheria finché non trovai il tanga di pizzo nero e reggiseno coordinato. Indossai la solita T-shirt e i jeans e diedi una ripassata di mascara e rossetto. Se anche mi avessero rapita e torturata, almeno prima mi sarei divertita un po’.

Bob e Morelli arrivarono proprio mentre mi stavo infilando i calzini.

«Ho preso involtini primavera, contorni, gamberetti, maiale, riso e della roba che credo fosse per qualcun altro ma è finita nella mia busta» disse Morelli. «E ho anche della birra.»

Posammo tutto sul tavolino basso in soggiorno e accendemmo la TV. Joe lanciò a Bob un involtino primavera. Il cane lo prese al volo e se lo mangiò in un solo boccone.

«Ne abbiamo parlato e Bob ha detto che mi farà da testimone» disse Morelli.

«Ci sarà un matrimonio, allora?»

«Credevo che ti fossi comprata un abito.»

Presi un po’ di gamberetti. «È in sospeso.»

«Qual è il problema?»

«Non voglio un matrimonio in grande. Mi sembra una stupidata. Ma mia madre e mia nonna non mollano e senza quasi accorgermene mi ritrovo addosso un abito da sposa. E hanno anche prenotato una sala. È come se qualcuno mi avesse aspirato il cervello dalla testa.»

«Forse dovremmo sposarci e basta.»

«Quando?»

«Non questa sera. Giocano i Rangers. Domani? Mercoledì?»

«Dici sul serio?»

«Certo. Lo mangi tu l’ultimo involtino?»

Il cuore mi smise di battere. Quando riprese mi sembrò che perdesse dei colpi. Sposata. Merda! Dovevo essere eccitata, no? Ecco perché mi sentivo sul punto di vomitare. Era per l’eccitazione. «Non dobbiamo fare analisi del sangue, chiedere permessi, o roba del genere?»

L’attenzione di Morelli fu catturata dalla mia T-shirt. «Carina.»

«La maglietta?»

Seguì con il dito il bordo di pizzo del mio reggiseno. «Anche questo è carino.» Fece scivolare le mani sotto la maglietta di cotone e improvvisamente me la ritrovai oltre la testa e poi per terra. «Forse dovresti farmi vedere cos’hai da offrire» disse. «Per convincermi che vale la pena sposarti.»

Sollevai un sopracciglio. «Forse sei tu che devi convincermi.»

Morelli mi fece scorrere lo zip dei jeans. «Dolcezza, prima che la serata sia finita mi supplicherai di sposarti.»

Sapevo per esperienza che era vero. Joe sapeva come far risvegliare una ragazza con un bel sorriso stampato sul viso. L’indomani, camminare sarebbe stato forse difficile, ma sorridere sarebbe stato facilissimo.

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