Capitolo 13

Mi svegliai quando la macchina smise di muoversi. Non pioveva più, ma era molto buio. Guardai l’orologio digitale sul cruscotto. Erano quasi le tre. Ranger stava studiando il massiccio edificio coloniale sul lato opposto della strada.

«La casa di Louie D?» chiesi.

Ranger annuì.

Era una grande casa costruita su un fazzoletto di terra. Le case vicine erano simili. Si trattava di costruzioni tutte relativamente nuove. Non c’erano alberi o cespugli ben cresciuti. Di lì a vent’anni sarebbe diventato un grazioso quartiere. Al momento sembrava un po’ troppo nuovo, troppo spoglio. Non c’erano luci accese in casa di Louie. Non c’erano auto parcheggiate lungo la strada. In quel quartiere le auto venivano tenute nei garage o nei vialetti di casa.

«Rimani qui» disse Ranger. «Devo dare un’occhiata in giro.»

Lo guardai mentre attraversava la strada per poi sparire nelle ombre proiettate dalla casa. Socchiusi il finestrino e mi concentrai per ascoltare i suoni, ma non sentii nulla. In un’altra vita Ranger ha fatto parte delle Forze Speciali e non ha perso nessuna delle sue abilità. Si muove come un felino che abbia puntato la sua preda. Io, invece, mi muovo come un bisonte acquatico. Il che presumibilmente spiega perché lo stessi aspettando in macchina.

Sbucò dal lato più lontano dell’edificio e tornò lentamente in macchina. Si mise al volante e girò la chiave dell’accensione.

«È tutto chiuso» disse. «L’allarme è inserito e la maggior parte delle finestre ha le tende tirate. Non c’è molto da vedere. Se avessi più informazioni sulla casa e sulle sue abitudini entrerei a dare un’occhiata. Ma non mi va di farlo senza sapere quante persone ci vivono.» Si allontanò dal marciapiede e percorse lentamente la strada. «Siamo a quindici minuti da un quartiere di uffici. Il computer mi dice che ci sono un centro commerciale, alcuni fast food e un motel. Ho fatto prenotare le stanze da Tank. Puoi prenderti qualche ora per dormire e darti una rinfrescata. La mia idea è di bussare alla porta della signora D alle nove e intrufolarci in casa con qualche stratagemma.»

«Mi sembra che possa funzionare.»

Tank aveva prenotato due camere in una classica costruzione a due piani che faceva parte di una catena di motel. Non era un ambiente di lusso, ma neanche troppo brutto. Entrambe le stanze erano al secondo piano. Ranger aprì la porta della mia e accese la luce, passando rapidamente in rassegna il locale con lo sguardo. Sembrava tutto in ordine. Non c’erano pazzi in agguato nell’ombra.

«Vengo da te alle otto e trenta» disse. «Possiamo fare colazione e poi andare a salutare le signore.»

«Sarò pronta.»

Mi tirò a sé, abbassò la bocca sulla mia e mi baciò. Fu un bacio lento e profondo. Le sue mani erano ben ferme sulla mia schiena. Gli presi la T-shirt e mi strinsi a lui. Sentii il suo corpo rispondere a quel gesto.

L’immagine di me stessa in abito da sposa mi balenò in mente. «Merda!» esclamai.

«Non è la reazione che ottengo di solito quando bacio una donna» disse Ranger.

«Okay, ecco la verità. Mi piacerebbe molto venire a letto con te, ma c’è questo stupido abito da sposa…»

Ranger seguì la mia mascella con le labbra, fino all’orecchio. «Potrei farti dimenticare l’abito da sposa.»

«Certo. Ma questo creerebbe un sacco di brutti problemi.»

«Hai un dilemma morale.»

«Sì.»

Mi baciò nuovamente. Questa volta con leggerezza. Fece un passo indietro e gli angoli della bocca gli si incresparono in un mezzo sorriso. «Non voglio fare pressione su di te e sul tuo dilemma morale, ma prega di riuscire a catturare Eddie DeChooch da sola perché se ti aiuto dovrò riscuotere il mio onorario.»

E se ne andò. Si chiuse la porta alle spalle e rimasi ad ascoltarlo mentre percorreva il corridoio per poi entrare nella sua camera.

Diamine.

Mi distesi sul letto tutta vestita, con le luci accese e gli occhi spalancati. Quando il cuore smise di martellarmi e i capezzoli cominciarono a rilassarsi mi alzai e mi passai dell’acqua sul viso. Programmai la sveglia per le otto. Evviva, quattro ore di sonno. Spensi la luce e mi infilai a letto. Non riuscivo a dormire. Troppi vestiti addosso. Mi alzai, mi tolsi tutto tranne le mutandine e ritornai a letto. Niente da fare, non riuscivo a dormire neanche così. Troppo pochi vestiti addosso. Indossai di nuovo la camicia, mi infilai ancora una volta sotto le coperte e sprofondai istantaneamente nel mondo dei sogni.


Quando alle otto e trenta Ranger bussò alla porta della mia stanza ero pronta più che mai. Mi ero fatta la doccia e sistemata i capelli come meglio potevo pur non avendo il gel. Ho sempre un sacco di roba nella borsa. Chi poteva prevedere che mi sarebbe servito il gel?

Per colazione Ranger prese caffè, frutta e una ciambella integrale. Io presi un uovo McMuffin, un frappè al cioccolato e patatine fritte. E visto che pagava Ranger, presi anche un pupazzetto dei personaggi Disney.

A Richmond faceva più caldo che in New Jersey. Alcuni alberi e le azalee precoci erano già in fiore. Il cielo era sereno e stava diventando azzurro. Una giornata ideale per fare i cattivi con due vecchie signore.

Sulle strade principali c’era molto traffico, ma scomparve non appena entrammo nel quartiere di Louie D. I pulmini della scuola erano già arrivati e ripartiti e gli abitanti adulti del quartiere stavano già facendo la loro lezione di yoga, oppure erano nei negozi di raffinata gastronomia, al circolo del tennis, alla boutique per bambini o al lavoro. Quella mattina nel quartiere c’era un’atmosfera vitale e piena d’energia. A eccezione della casa di Louie D. Sembrava esattamente come l’avevamo vista alle tre di mattina. Buia e silenziosa.

Ranger chiamò Tank, il quale gli disse che Ronald era uscito di casa alle otto con il frigo. Tank lo aveva seguito verso sud fino a Whitehorse e poi era tornato indietro una volta appurato che Ronald si stava dirigendo verso Richmond.

«Che ne pensi della casa?» chiesi a Ranger.

«Che è come se nascondesse un segreto.»

Scendemmo entrambi dall’auto e ci incamminammo verso la porta principale. Ranger suonò il campanello. Dopo un po’ venne ad aprire una donna sui sessant’anni. Aveva capelli castani corti che incorniciavano un viso lungo e stretto su cui spiccavano un paio di folte sopracciglia nere. Era vestita di nero. Un abito nero abbottonato sul davanti che rivelava una corporatura minuta e asciutta, un cardigan nero, mocassini neri e calze scure. Non portava trucco né gioielli, a eccezione di una collanina con un semplice crocifisso d’argento. Aveva gli occhi spenti e cerchiati di scuro, come chi non dorme da molto tempo.

«Sì?» disse quasi senza forze. Sulle sue labbra sottili ed esangui non passò nemmeno l’ombra di un sorriso.

«Sto cercando Estelle Colucci» dissi.

«Estelle non c’è.»

«Suo marito ha detto che sarebbe venuta qui.»

«Suo marito si è sbagliato.»

Ranger si mosse in avanti ma la donna lo trattenne subito.

«Lei è la signora DeStefano?» chiese Ranger.

«Sono Christina Gallone. Sophia DeStefano è mia sorella.»

«Abbiamo bisogno di parlare con la signora DeStefano» disse Ranger.

«Non riceve visite.»

Ranger la spinse indietro nell’ingresso. «Io penso di sì.»

«No!» disse Christina, tirando Ranger da una parte. «Non sta bene. Dovete andarvene!»

Dalla cucina sbucò un’altra donna. Era più vecchia di Christina ma si assomigliavano. Indossava lo stesso vestito nero, scarpe nere e lo stesso crocifisso d’argento. Era più alta della sorella e i capelli corti e castani erano spruzzati qua e là di grigio. Il viso aveva un’espressione più viva di quello della sorella, ma i suoi occhi erano vuoti, assorbivano la luce senza riflettere nulla. Il mio primo pensiero fu che fosse sotto l’effetto di qualche medicinale. Il secondo pensiero fu che fosse pazza. Ed ero quasi certa che la donna che avevo davanti era quella con gli occhi spaventosi che aveva sparato al Luna.

«Che succede?» chiese.

«La signora DeStefano?» domandò Ranger.

«Sì.»

«Vorremmo parlarle riguardo alla scomparsa di due persone.»

Le sorelle si guardarono e io avvertii un formicolio alla nuca. Alla mia sinistra c’era il soggiorno. Era buio e minaccioso, ammobiliato in maniera formale con tavoli di mogano lucido e tappezzeria in broccato pesante. Le tende erano ben chiuse e non lasciavano filtrare la minima luce all’interno. Sulla destra si apriva un piccolo studio. La porta era socchiusa e lasciava intravedere una scrivania piena zeppa di carte e oggetti. Anche nello studio le tende erano chiuse.

«Che cosa vorreste sapere?» disse Sophia.

«Si chiamano Walter Dunphy e Douglas Kruper e vorremmo sapere se li avete visti.»

«Non conosco nessuno dei due.»

«Douglas Kruper è latitante e sta venendo meno alla garanzia che è stata pagata per lui» disse Ranger. «Abbiamo motivo di credere che si trovi in questa casa e in qualità di agenti alle dipendenze di Vincent Plum siamo autorizzati a effettuare una perquisizione.»

«Non farete niente di tutto ciò. O ve ne andate immediatamente oppure chiamo la polizia.»

«Se preferisce che la polizia sia presente mentre effettuiamo la perquisizione, la chiami pure.»

Di nuovo un silenzioso scambio di occhiate tra le sorelle, ma ora Christina stringeva nervosamente tra le dita un lembo della gonna.

«Non mi piace questa intrusione» disse Sophia. «È una mancanza di rispetto.»

Oh-oh, pensai. Tutta colpa della mia linguaccia… avevo fatto proprio come la povera vicina defunta di Sophia.

Ranger si spostò di lato e aprì la porta del guardaroba. Teneva la pistola in mano, lungo il fianco.

«Basta» disse Sophia. «Non avete alcun diritto di perquisire la casa. Sapete chi sono? Vi rendete conto che sono la vedova di Louis DeStefano?»

Ranger aprì un’altra porta. La toilette.

«Vi ordino di fermarvi o ne pagherete le conseguenze» minacciò Sophia.

Ranger aprì la porta dello studio e accese la luce, tenendo d’occhio le due donne mentre perlustrava la casa.

Seguii il suo esempio e dopo aver acceso le luci feci un giro nel soggiorno e nella sala da pranzo. Poi passai in cucina. In un corridoio attiguo c’era una porta chiusa a chiave. Probabilmente la dispensa o la cantina. Non mi andava di entrare. Non avevo la pistola. E anche se l’avessi avuta, non sarei stata granché capace di usarla.

Improvvisamente Sophia mi seguì in cucina. «Fuori di qui!» gridò prendendomi per il polso e tirandomi con forza in avanti. «Esci immediatamente dalla mia cucina.»

Mi allontanai da lei con uno strattone. E con lo scatto di un rettile, Sophia aprì un cassetto della cucina e tirò fuori una pistola. Si girò, puntò l’arma e sparò a Ranger. Poi si girò verso di me.

Senza pensare, mossa unicamente dalla paura cieca, mi scagliai contro di lei e la buttai a terra. La pistola scivolò via sul pavimento e io cercai in fretta di recuperarla. Ranger arrivò prima di me. La raccolse lentamente e se la infilò in tasca.

Ero in piedi, incerta sul da farsi. La manica della giacca di cachemire di Ranger era intrisa di sangue. «Vuoi che chiami aiuto?» gli chiesi.

Si scrollò di dosso la giacca e si guardò il braccio. «Non è grave» disse. «Per ora prendimi un asciugamano.» Allungò indietro il braccio per prendere le manette. «Ammanettale insieme.»

«Non mi toccare» disse Sophia. «Se mi tocchi ti ammazzo. Ti cavo gli occhi con le unghie.»

Feci scattare la manetta attorno al polso di Christina e la tirai verso Sophia. «Mi dia la mano» dissi a Sophia.

«Mai» rispose. E mi sputò addosso.

Ranger si avvicinò. «Tiri fuori immediatamente la mano o sparo a sua sorella.»

«Louie, mi senti Louie?» gridò Sophia guardando in alto, presumibilmente oltre il soffitto. «Vedi cosa sta succedendo? Vedi che disgrazia? Gesù santo» gemeva. «Gesù santo.»

«Dove sono?» chiese Ranger. «Dove sono i due uomini?»

«Sono miei» disse Sophia. «Non li cedo. Non finché non ho ottenuto quello che voglio. Quell’idiota di DeChooch ha assoldato il suo ricettatore per riportare il cuore a Richmond. Troppo pigro per riportarlo lui stesso. Si vergognava troppo. E sapete che cosa mi ha riportato quel rompiscatole? Un frigo vuoto. Credevano di cavarsela, lui e il suo amico.»

«Dove sono?» le chiese di nuovo Ranger.

«Sono dove dovrebbero essere. All’inferno. E ci rimarranno finché non mi dicono che ne è stato del cuore. Voglio sapere chi ce l’ha.»

«Ronald DeChooch ha il cuore» la informai. «Sta venendo qui.»

Sophia strizzò gli occhi. «Ronald DeChooch.» Sputò per terra. «Ecco cosa penso di Ronald DeChooch. Voglio vederlo con i miei occhi, altrimenti non ci credo.»

Ovviamente non era stata messa al corrente di tutta la storia, e quindi del mio coinvolgimento.

«Dovete lasciar andare mia sorella» supplicò Christina. «Vedete che non sta bene.»

«Hai le manette?» mi chiese Ranger.

Frugai nella borsa e tirai fuori un paio di manette.

«Bloccale al frigorifero» disse Ranger «e poi vedi se riesci a trovare un kit di pronto soccorso.»

Avevamo avuto tutti e due esperienza diretta con ferite d’arma da fuoco, quindi sapevamo bene come bisognava procedere. Trovai del materiale di pronto soccorso nel bagno al piano di sopra, applicai una compressa sterile sul braccio di Ranger e la fissai con della garza e del nastro.

Ranger provò ad aprire la porta sul corridoio vicino alla cucina.

«Dov’è la chiave?» chiese.

«Vai all’inferno» disse Sophia, socchiudendo quei suoi occhi da serpente.

Colpendola con un piede, Ranger spaccò la porta e riuscì ad aprirla. C’erano un piccolo pianerottolo e dei gradini che scendevano nella cantina. Era buio come la pece. Ranger accese l’interruttore della luce e scese con la pistola pronta a sparare.

Era un seminterrato lasciato a metà e con il solito assortimento di scatoloni, attrezzi e oggetti vari, ancora in buono stato per essere gettati via ma del tutto inutili. Un paio di mobili da giardino parzialmente coperti da vecchi teli. Caldaia e boiler in un angolo. Lavanderia in un altro. E un altro angolo ancora era chiuso da un muro di blocchi di cemento alto fino al soffitto che creava una specie di stanzetta. La porta era di metallo e chiusa con un lucchetto.

Guardai Ranger. «Un rifugio antiatomico? Una dispensa sotterranea? Una cella frigorifera?»

«Accidenti» disse Ranger. Mi fece arretrare e sparò due serie di colpi disintegrando il lucchetto.

Aprimmo la porta e il puzzo di paura ed escrementi ci fece indietreggiare. La stanzetta era buia ma dall’angolo opposto intravedemmo degli occhi che ci guardavano. Il Luna e Dougie erano accucciati e si tenevano stretti. Erano nudi e luridi, avevano i capelli aggrovigliati, le braccia ricoperte di ferite sanguinanti. Erano stati ammanettati a un tavolo di metallo fissato al muro. Il pavimento era cosparso di bottiglie di plastica e buste del pane.

«Piccola» disse il Luna.

Mi sentii cedere le gambe e crollai su un ginocchio.

Ranger mi tirò su infilandomi una mano sotto l’ascella. «Non ora» disse. «Togli i teli dai mobili.»

Un altro paio di colpi di pistola. Ranger li stava liberando dal tavolo.

Il Luna era in condizioni migliori di Dougie. Dougie era rimasto in quella stanza per più tempo. Era dimagrito e sulle braccia aveva cicatrici di bruciature.

«Credevo che ci sarei morto, qui dentro» disse Dougie.

Io e Ranger ci guardammo. Se non fossimo intervenuti sarebbe probabilmente andata a finire così. Sophia non li avrebbe lasciati liberi dopo averli rapiti e torturati.

Li avvolgemmo nei teli e li portammo di sopra. Andai in cucina per chiamare la polizia e quello che vidi mi fece rimanere di stucco. Un paio di manette che penzolavano dal frigorifero. La porta del frigo era macchiata di sangue. Le due donne se ne erano andate.

Ranger era alle mie spalle. «Probabilmente si è liberata la mano a furia di morsi» disse.

Chiamai la polizia e dieci minuti dopo un’auto di servizio era già davanti al marciapiede. La seguivano un’altra auto e un’ambulanza.

Restammo a Richmond fino al tardo pomeriggio. Il Luna e Dougie furono reidratati e furono somministrati loro degli antibiotici. A Ranger suturarono e medicarono il braccio. Passammo gran parte del tempo alla stazione di polizia. Difficile spiegare alcune parti della storia. Tralasciammo il cuore di maiale che era in viaggio da Trenton. E decidemmo di non confondere le acque con il rapimento della nonna. La Corvette di Dougie fu ritrovata nel garage di Sophia. L’avrebbero rispedita a Trenton in settimana.

Ranger mi consegnò le chiavi della Mercedes quando lasciammo l’ospedale. «Non attirare l’attenzione» disse. «Non è il caso che la polizia si avvicini troppo a questa macchina.»

Dougie e il Luna, provvisti di scarpe e vestiti nuovi, si sistemarono nel sedile posteriore, belli puliti e contenti di essere usciti da quella cantina.

Il viaggio di ritorno fu tranquillo. Dougie e il Luna si addormentarono all’istante. Ranger si isolò. Se fossi stata meno stanca avrei potuto approfittare per riflettere sulla mia vita. Ma dovevo concentrarmi sulla strada e sforzarmi di non crollare dal sonno facendo scattare il pilota automatico.

Quando aprii la porta di casa quasi mi aspettavo di trovarmi davanti Benny e Ziggy. Trovai invece una calma totale. Paradisiaca. Mi chiusi la porta alle spalle e stramazzai sul divano.

Mi svegliai tre ore dopo e arrancai in cucina. Lasciai cadere un cracker e un acino d’uva nella gabbietta di Rex e gli chiesi scusa. Non solo ero una stronza che correva dietro a due uomini contemporaneamente, ma ero anche una cattiva madre per il mio criceto.

La segreteria telefonica lampeggiava furiosamente. Gran parte dei messaggi erano di mia madre. Due erano di Morelli. Uno della boutique di Tina che mi diceva che l’abito da sposa era arrivato. E poi c’era un messaggio di Ranger che mi riferiva che Tank aveva lasciato la moto nel parcheggio sotto casa e che dovevo stare attenta. Sophia e Christina erano ancora in libertà.

L’ultimo messaggio era di Vinnie. «Complimenti, sei riuscita a recuperare tua nonna. Mi dicono che hai recuperato anche il Luna e Dougie. Indovina chi manca? Eddie DeChooch. Te lo ricordi? È lui quello che voglio che recuperi. È lui che mi porterà al fallimento se non trascini quel suo culo decrepito in galera. È vecchio, santo Dio. È cieco. Non ci sente. Non riesce a pisciare da solo. Ma tu non sei capace di prenderlo. Dov’è il problema?»

Porca miseria. Eddie DeChooch. Mi ero effettivamente dimenticata di lui. Era in una casa chissà dove. C’era un garage che dava nel seminterrato. E a giudicare dal numero di stanze di cui la nonna aveva parlato doveva essere una casa piuttosto grande. Non se ne trovavano così nel Burg. E neanche nel quartiere di Ronald. Cos’altro avevo? Zero. Non avevo idea di dove poter trovare Eddie DeChooch. A dire la verità non lo volevo neanche trovare.

Erano le quattro di mattina ed ero esausta. Disinserii la suoneria del telefono, mi trascinai in camera, scivolai sotto le coperte e non mi svegliai fino alle due del pomeriggio.

Avevo la cassetta di un film nel videoregistratore e una ciotola di popcorn sulle ginocchia quando il cercapersone suonò.

«Dove sei?» chiese Vinnie. «Ti ho chiamato a casa ma non ha risposto nessuno.»

«Ho disinserito la suoneria del telefono. Ho bisogno di una giornata di ferie.»

«Le tue ferie sono finite. Ho appena intercettato una chiamata dall’antenna radar» disse Vinnie. «Un treno merci in uscita da Philly è andato a sbattere contro una Cadillac bianca al passaggio a livello di Deeter Street. È successo solo pochi minuti fa. Pare che la macchina sia ridotta malissimo, una pacchia per gli sfasciacarrozze. Voglio che tu vada là immediatamente. Con un po’ di fortuna ci sarà rimasto qualcosa del fu Eddie DeChooch che possiamo utilizzare per l’identificazione.»

Guardai l’orologio della cucina. Erano quasi le sette. Ventiquattro ore prima ero a Richmond, mi preparavo per tornare a casa. Era come un brutto sogno. Difficile da credere.

Presi la borsa e le chiavi della moto e mi infilai in bocca quel che rimaneva di un panino. DeChooch non era il mio uomo preferito ma l’idea che fosse stato investito da un treno non mi rendeva felice. Però la mia vita ne avrebbe sicuramente guadagnato. Alzai gli occhi al cielo mentre attraversavo controvoglia l’ingresso. Sarei andata dritta all’inferno per aver pensato una cosa del genere.

Impiegai venti minuti per arrivare a Deeter Street. Gran parte dell’area era bloccata dalle auto della polizia e dai veicoli del pronto soccorso. Parcheggiai a tre isolati di distanza e poi continuai a piedi. Quando mi avvicinai, la polizia stava disponendo il nastro per delimitare l’area sotto inchiesta. Non tanto per preservare il luogo dell’incidente, quanto per tenere alla larga i curiosi. Scrutai tra la folla per vedere se c’era qualcuno che conoscevo, qualcuno che potesse farmi passare. Individuai Carl Costanza insieme a diversi piedipiatti in uniforme. Erano stati convocati sul luogo e ora si trovavano davanti ai curiosi, a guardare il disastro scuotendo la testa. Con loro c’era anche il comandante Joe Juniak.

Mi feci strada a suon di spintoni e arrivai a Carl e Juniak, cercando di non guardare troppo l’auto maciullata perché non mi andava di vedere parti del corpo mozzate e sparse dappertutto.

«Ehi» fece Carl quando mi vide. «Ti stavo aspettando. È una Cadillac bianca. O almeno lo era.»

«È stata identificata?»

«No. Non si riesce a leggere la targa.»

«C’era qualcuno dentro?»

«Chi può dirlo? La macchina è alta una sessantina di centimetri. È volata via e si è accartocciata. I vigili del fuoco la stanno passando agli infrarossi per rilevare eventuale calore corporeo.»

Fui percorsa da un brivido involontario. «Brrr.»

«Già. Ti capisco. Sono arrivato sulla scena per secondo. Ho visto la Cadillac e mi si sono ritirate le palle.»

Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere granché della macchina. E la cosa non mi dispiaceva ora che sapevo quanto era distrutta. Era stata colpita da un treno merci e il treno non sembrava aver subito alcun danno. Da quel che riuscivo a vedere non c’era stato nessun deragliamento.

«Qualcuno ha chiamato Mary Maggie Mason?» chiesi. «Se questa è la macchina che guidava Eddie DeChooch, la proprietaria è Mary Maggie.»

«Dubito che qualcuno l’abbia chiamata» disse Costanza. «Non credo che siamo così organizzati.»

Da qualche parte tra le mie cose dovevo avere l’indirizzo e il numero di telefono di Mary Maggie. Frugai nella borsa tra spiccioli, carte di chewing gum, mentine, limetta per le unghie e tutte le altre cianfrusaglie che si raccolgono nel fondo. Alla fine trovai quello che cercavo.

Mary Maggie rispose al secondo squillo.

«Sono Stephanie Plum» le dissi. «Hai riavuto la macchina?»

«No.»

«C’è stato un incidente ferroviario ed è rimasta coinvolta una Cadillac bianca. Pensavo che magari potresti venire qui e vedere se riesci a identificarla.»

«Ci sono feriti?»

«Troppo presto per dirlo. Al momento stanno lavorando sul rottame.»

Le diedi indicazioni sul luogo e le dissi che l’avrei aspettata.

«A quanto pare tu e Mary Maggie siete colleghe» disse Costanza. «Mi dicono che vi rotolate nel fango insieme.»

«Già» risposi «sto pensando di dare una svolta alla mia carriera professionale.»

«Ti consiglio di ripensarci. Pare che lo Snake Pit sia sul punto di chiudere. Gira voce che i suoi conti siano in rosso da due anni.»

«È impossibile. Era pieno zeppo di gente.»

«I posti come quello fanno soldi con la vendita di alcolici e la gente non beve abbastanza. Vanno, pagano l’ingresso e finisce lì. Sanno che se bevono troppo possono essere segnalati e magari vedersi ritirata la patente. Ecco perché Pinwheel Soba si è tirato fuori. Ha aperto un’attività a South Beach dove ha sempre un sacco di gente. A Dave Vincent non importa. Per lui si trattava solo di una buffonata. I soldi gli vengono da attività di cui è meglio non sapere.»

«E così Eddie DeChooch non sta ricavando niente dal suo investimento?»

«Non lo so. Questa gente frega il fisco, ma la mia impressione è che DeChooch non ci ricavi molto.»

Tom Bell era l’investigatore incaricato del caso Loretta Ricci e, a quanto sembrava, gli avevano affidato anche questo. Era uno degli sbirri in borghese che si agitavano intorno all’auto e al locomotore. Si girò e venne verso di noi.

«C’era qualcuno nella macchina?» chiesi.

«Non si sa. Il locomotore butta fuori così tanto calore che non riusciamo ad avere una rilevazione precisa dall’apparecchiatura termosensibile. Dovremo aspettare che il locomotore si raffreddi oppure estrarre l’auto dai binari e aprirla. È una cosa che porta via del tempo. Una parte è rimasta intrappolata sotto il locomotore. Stiamo aspettando delle attrezzature speciali per lavorarci. Quello che sappiamo di sicuro è che nella macchina non c’è nessuno ancora vivo. E per anticipare la tua prossima domanda, non siamo stati in grado di leggere la targa, quindi non sappiamo se si tratti dell’auto che guidava DeChooch.»

Essere la ragazza di Morelli ha i suoi vantaggi. Mi vengono fatti dei favori speciali, come per esempio dare una risposta alle mie domande.

Il passaggio a livello di Deeter Street ha una campana e una sbarra. Ci trovavamo a circa duecento metri da lì, tanto era stata sbalzata lontano la macchina. Il treno era lungo e arrivava oltre Deeter Street. Da dove mi trovavo vedevo che le sbarre erano ancora abbassate. Era possibile che ci fosse stato un guasto e si fossero abbassate dopo l’incidente. Ma a me sembrava più probabile che l’auto si fosse fermata di proposito sui binari e avesse aspettato di essere colpita dal treno.

Sul lato opposto della strada individuai Mary Maggie e le feci cenno con la mano. Avanzò a fatica tra i curiosi e mi raggiunse. Vide da lontano la macchina e impallidì.

«Oh mio Dio» esclamò con occhi sbarrati e un’espressione palesemente scioccata in viso.

Presentai Mary Maggie a Tom e gli spiegai che poteva essere la proprietaria dell’auto.

«Se la facciamo avvicinare pensa di riuscire a dirci se si tratta della sua auto?» chiese Tom.

«C’è qualcuno dentro?»

«Non lo sappiamo. Non si vede nessuno. Potrebbe anche essere vuota. Ma non possiamo esserne certi.»

«Mi sto sentendo male» disse Mary Maggie.

Tutti si mobilitarono. Acqua, sali, busta di carta. Non so da dove sbucassero tutte quelle cose. Gli sbirri sanno muoversi in fretta quando hanno davanti una campionessa di lotta nel fango sul punto di vomitare.

Una volta smesso di sudare e riacquistato un po’ di colore in viso, Mary Maggie venne accompagnata da Bell più vicino alla macchina. Io e Costanza gli eravamo dietro di qualche passo. Non avevo particolarmente voglia di vedere la carneficina, ma non volevo neanche perdermi qualcosa.

Ci fermammo tutti a circa tre metri dai rottami. Il locomotore era immobile ma Bell aveva ragione, emanava ancora molto calore. L’enorme massa ferrosa di quella macchina incuteva paura anche da ferma.

Mary Maggie fissò quel che restava della Cadillac e ondeggiò turbata. «È la mia macchina» disse. «Almeno credo.»

«Da cosa lo capisce?» chiese Bell.

«Dal tessuto dei rivestimenti interni. Mio zio li aveva fatti rifare in blu. Non era il normale tessuto di serie.»

«Qualcos’altro?»

Mary Maggie scosse la testa. «Non credo. Non c’è rimasto granché da vedere.»

Tornammo tutti indietro e ci unimmo al resto delle persone. Dei camion che portavano pesanti attrezzature di soccorso accostarono e iniziarono a lavorare sulla Cadillac. Avevano piazzato una cesoia gigante, ma stavano usando torce all’acetilene per estrarre l’auto da sotto il treno. Si stava facendo buio ed erano stati portati dei faretti trasportabili per illuminare la scena, creando un’atmosfera sinistra, da set cinematografico di film dell’orrore.

Sentii qualcuno tirarmi per la manica e quando mi voltai vidi che si trattava di nonna Mazur che era in punta di piedi e cercava di vedere meglio la scena dell’incidente. Con lei c’era Mabel Pritchet.

«Hai mai visto una cosa simile?» disse la nonna. «Alla radio hanno detto che una Cadillac bianca era stata schiacciata da un treno e mi sono fatta accompagnare da Mabel. È la macchina di Eddie?»

«Non ne siamo sicuri, ma pensiamo che ci siano buone probabilità.»

Presentai la nonna a Mary Maggie.

«È un vero piacere» disse la nonna. «Sono una grande fan del wrestling.» Tornò a guardare ciò che restava della Cadillac. «Sarebbe un vero peccato se dentro ci fosse Eddie. È così carino.» La nonna si allungò davanti a me verso Mary Maggie. «Sapevi che sono stata rapita? Con tanto di busta in testa.»

«Avrà avuto paura» disse Mary Maggie.

«Be’, all’inizio credevo che Choochy avesse solo qualche idea perversa. Ha un problema con il pene, sai. Non riesce a fare niente. Gli rimane giù, come fosse morto. Ma poi ho scoperto di essere stata rapita. Che roba, eh? Prima abbiamo fatto un giro in macchina, poi ho sentito che entravamo in un garage con una porta automatica. Il garage era comunicante con uno di quei seminterrati abitabili, con un paio di camere da letto e una stanza per la TV. E in quella stanza c’erano delle sedie rivestite con un tessuto leopardato.»

«Conosco quella casa» disse Mary Maggie. «Ci sono andata a una festa, una volta. C’è anche un cucinino, vero? E il bagno di sotto ha una carta da parati con un motivo a uccelli tropicali.»

«Esatto» disse la nonna. «Era un motivo giungla. Chooch ha detto che anche Elvis aveva una stanza decorata stile giungla.»

Non potevo credere alle mie orecchie. Mary Maggie conosceva il nascondiglio segreto di DeChooch. E ora probabilmente non mi serviva più.

«A chi appartiene la casa?» chiesi.

«A Pinwheel Soba.»

«Credevo si fosse trasferito in Florida.»

«Sì, ma ha tenuto la casa. Hanno dei parenti qui, così passano una parte dell’anno in Florida e una parte qui a Trenton.»

Si sentì uno stridore di lamiera tagliata e la Cadillac fu estratta dal treno. Guardammo in silenzio per diversi minuti di tensione mentre il tettuccio veniva aperto come una scatoletta di sardine. Tom Bell si avvicinò alla macchina. Un momento dopo si voltò e guardandomi disse in silenzio la parola «Vuota».

«Non c’è» dissi. E tutti soffocammo lacrime di sollievo. Chissà perché. Eddie DeChooch non era una persona poi così meravigliosa. Forse però nessuno si merita di essere schiacciato come una pizza da un treno.


Quando tornai a casa chiamai Morelli. «Hai sentito di DeChooch?»

«Sì, mi ha chiamato Tom Bell.»

«Molto strano. Penso che DeChooch abbia lasciato lì la macchina per farla investire.»

«È quello che pensa anche Tom.»

«Perché DeChooch avrebbe dovuto fare una cosa del genere?»

«Perché è pazzo?»

Non credevo che DeChooch fosse pazzo. I veri pazzi sono altri. Prendiamo Sophia, per esempio. DeChooch aveva dei problemi, fisici ed emotivi. E aveva pericolosamente perso il controllo sulla sua vita. Erano andate storte alcune cose e aveva cercato di rimettere tutto a posto, ma invece di migliorare, la situazione peggiorava sempre di più. Ora capivo come tutto fosse collegato, a eccezione della morte di Loretta Ricci e della Cadillac sui binari ferroviari.

«Questa sera è successo qualcosa di buono» dissi. «È venuta la nonna e ha cominciato a parlare con Mary Maggie a proposito del suo rapimento. La nonna ha descritto la casa dove DeChooch l’ha portata e Mary Maggie ha detto che potrebbe essere la casa di Pinwheel Soba.»

«Soba viveva a Ewing, in una traversa di Olden Avenue. È schedato.»

«Ora capisco. Ho visto DeChooch girare in quella zona. Ho sempre pensato che il motivo fosse Ronald, ma forse andava a casa di Soba. Puoi darmi l’indirizzo?»

«No.»

«Cosa significa no?»

«Non voglio che tu ci vada a ficcanasare. DeChooch è imprevedibile.»

«È il mio lavoro.»

«Non cominciare con questa storia del lavoro.»

«Non avevi un’opinione così negativa del mio lavoro quando ci siamo messi insieme.»

«Era diverso allora. Non pensavo a te come alla madre dei miei figli.»

«Non so neanche se voglio dei figli.»

«Cristo» disse Morelli. «Non dirlo mai a mia madre o a mia nonna. Ti faranno firmare un contratto.»

«Davvero non vuoi darmi l’indirizzo?»

«No.»

«Me lo procurerò in qualche altro modo.»

«Bene» disse Morelli. «Non voglio entrarci in questa faccenda.»

«Lo dirai a Tom Bell, vero?»

«Sì. Devi lasciar fare alla polizia.»

«Vuoi la guerra.»

«Oh cavolo» disse. «Di nuovo in guerra.»

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