Capitolo 2

Era buio quando me ne andai da casa dei miei genitori. Non mi aspettavo che Eddie DeChooch fosse rientrato, ma passai comunque con l’auto davanti a casa sua. Nella metà della famiglia Margucci le luci erano tutte accese. La metà di DeChooch, invece, era inanimata. Con la coda dell’occhio vidi nel cortile sul retro una striscia del nastro giallo usato dalla polizia per delimitare la scena del delitto.

Avrei voluto fare delle domande alla signora Margucci, ma le tenni per me. Non mi andava di disturbarla quella sera. Aveva già avuto una brutta giornata. Sarei andata da lei l’indomani e prima mi sarei fermata in ufficio a prendere l’indirizzo di Garvey e Colucci.

Feci un giro intorno all’isolato e poi mi diressi verso la Hamilton Avenue.

Il palazzo dove si trova il mio appartamento dista due, tre chilometri dal Burg. È un massiccio edificio di mattoni a tre piani, costruito negli anni Settanta puntando al risparmio. Non offre molti comfort, ma c’è un bravo custode disposto a fare di tutto per una confezione di birra da sei, l’ascensore funziona quasi sempre, e l’affitto è ragionevole.

Lasciai l’auto nel parcheggio e guardai in su, verso il mio appartamento. Le luci erano accese. C’era qualcuno in casa e quel qualcuno non ero io. Probabilmente si trattava di Morelli. Aveva la chiave. Il solo pensiero di vederlo mi provocò un’ondata di eccitazione, seguita rapidamente da un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Io e Morelli ci conosciamo da quando eravamo bambini e le cose non sono mai state facili tra noi.

Salii le scale cercando di capire come mi sentivo e optai per il «relativamente felice». La verità è che Morelli e io siamo praticamente sicuri di amarci. Quello di cui non siamo sicuri è di riuscire a vivere insieme per il resto della nostra vita. L’idea di sposare un piedipiatti non mi entusiasma. Morelli non vuole sposare una cacciatrice di taglie. E poi c’è Ranger.

Aprii la porta di casa e trovai due uomini anziani seduti sul divano che guardavano una partita in TV. Nessuna traccia di Morelli. Si alzarono in piedi e mi accolsero con un sorriso.

«Tu devi essere Stephanie Plum» disse uno dei due. «Passiamo alle presentazioni: io sono Benny Colucci e questo è il mio amico e collega Ziggy Garvey.»

«Come siete entrati nel mio appartamento?»

«La porta era aperta.»

«Non è vero.»

Il sorriso si fece ancora più ampio. «È stato Ziggy. Ci sa fare con le serrature.»

Ziggy si illuminò in viso e agitò le dita. «Sono un vecchio scemo, ma le dita mi funzionano ancora.»

«L’idea che la gente mi entri in casa quando non ci sono non mi entusiasma» dissi.

Benny annuì serio. «Capisco, ma abbiamo pensato che in questa particolare circostanza si potesse fare, considerato che abbiamo qualcosa di molto importante da discutere.»

«E di urgente» aggiunse Ziggy. «Qualcosa di molto urgente.»

Si scambiarono un’occhiata complice. Era urgente.

«E un’altra cosa» disse Ziggy. «Hai dei vicini ficcanaso. Ti stavamo aspettando nell’atrio, ma c’era una signora che continuava ad aprire la porta e a guardarci. Ci ha messo a disagio.»

«Credo che fosse interessata a noi, sai cosa intendo. Ma noi non facciamo quel genere di cose. Siamo uomini sposati.»

«Forse quando eravamo più giovani» disse Ziggy con un sorriso malizioso.

«Cosa c’è dunque di tanto urgente?»

«Si dà il caso che io e Ziggy siamo ottimi amici di Eddie DeChooch» disse Benny. «Ziggy, Eddie e io ci conosciamo da una vita. Io e Ziggy siamo preoccupati per l’improvvisa scomparsa di Eddie. Non vorremmo che si fosse messo nei guai.»

«Perché ha ucciso Loretta Ricci?»

«No, non è quello il problema. La gente non fa che accusare Eddie di aver ucciso qualcuno.»

Ziggy si allungò in avanti con aria cospiratrice e sussurrò: «Calunnie, nient’altro che calunnie».

Ovviamente.

«Siamo preoccupati perché pensiamo che Eddie possa non essere lucido» disse Benny. «È in depressione. Quando lo andiamo a trovare non ci rivolge la parola. Non è mai stato così.»

«Non è normale» disse Ziggy.

«A ogni modo, sappiamo che lo stai cercando e non vogliamo che gli succeda niente, capisci?»

«Non volete che gli spari.»

«Esatto.»

«Non sparo quasi mai alle persone.»

«Qualche volta può succedere, ma Dio non voglia che tocchi a Choochy» disse Benny. «Vogliamo evitare che tocchi a Choochy.»

«Ehi» dissi «non sarò certo io a sparargli.»

«E poi c’è dell’altro» disse Benny. «Stiamo cercando di trovare Choochy perché vogliamo aiutarlo.»

Ziggy annuì. «Pensiamo che forse dovrebbe farsi vedere da un medico. Magari da uno psichiatra. E così abbiamo pensato che potremmo collaborare, visto che anche tu lo stai cercando.»

«Certo» dissi «se lo trovo vi faccio un fischio.» Non prima di averlo portato davanti al tribunale e averlo fatto rinchiudere in galera.

«E ci stavamo chiedendo se per caso tu non stia già seguendo qualche pista.»

«No. Nessuna.»

«Cavolo, contavamo su di te. Abbiamo sentito dire che sei piuttosto brava.»

«A dire il vero non sono poi così brava… direi più fortunata.»

Altro scambio di occhiate.

«E adesso ti sentì, come dire, fortunata?» domandò Benny.

Difficile sentirsi fortunata quando ti sei appena lasciata sfuggire un anziano depresso, hai trovato una donna morta nel suo capanno degli attrezzi e sei reduce da una cena con i tuoi genitori. «Be’, è un po’ presto per dirlo.»

Ci fu un po’ di movimento sul pianerottolo, poi la porta si spalancò e il Luna entrò come se fosse la cosa più normale del mondo. Indossava una tuta elasticizzata color porpora con una grossa L d’argento cucita sul petto.

«Ehi, piccola» disse il Luna. «Ho provato a chiamarti ma non eri mai a casa. Volevo farti vedere il mio nuovo costume da Super Luna.»

«Perdinci» disse Benny «sembri proprio una fottutissima checca.»

«Sono un supereroe, amico» disse il Luna.

«A me sembri più un Super Finocchio. Giri sempre con quel costume?»

«Certo che no, amico. Questo è il mio costume segreto. Di solito lo metto solo quando sono impegnato in una super azione, ma volevo che la mia piccola amica mi vedesse in tutto il mio splendore, così mi sono cambiato nell’atrio.»

«Sai volare come Superman?» chiese Benny al Luna.

«No, ma so volare con la mente, amico. Mi libro col pensiero.»

«Oh, porca miseria» commentò Benny.

Ziggy guardò l’orologio. «Dobbiamo andare. Se scopri qualcosa su Choochy ci fai sapere, d’accordo?»

«Certo.» Forse.

Li guardai andare via. Erano come Stanlio e Ollio. Benny era in sovrappeso di una venticinquina di chili e i doppi menti gli strabordavano dal colletto. Ziggy assomigliava alla carcassa di un tacchino. Immaginavo che vivessero entrambi al Burg e che fossero membri del circolo di Chooch, ma non lo sapevo per certo. Immaginavo anche che fossero schedati come ex latitanti di Vincent Plum dato che non si erano preoccupati di lasciarmi i loro numeri di telefono.

«Allora che ne dici del costume?» mi chiese il Luna quando Benny e Ziggy se ne furono andati. «Io e Dougie ne abbiamo trovato uno scatolone intero. Credo che siano per nuotatori, podisti o roba del genere. Io e Dougie non conosciamo nessun nuotatore che potrebbe usarli, ma abbiamo pensato che si potrebbe trasformarli in Super Costumi. Vedi, li puoi indossare sotto i vestiti e poi, quando devi fare il supereroe, non devi far altro che spogliarti. L’unico problema è che non abbiamo mantelle. Ecco perché probabilmente il vecchio non ha capito che ero un supereroe. Perché mi manca la mantella.»

«Non credi seriamente di essere un supereroe, vero?»

«Intendi nella vita reale?»

«Esatto.»

Il Luna fece un’espressione stupita. «I supereroi sono personaggi di fantasia. Non te l’ha mai detto nessuno?»

«Volevo solo una conferma.»

Walter «Luna» Dunphy e Dougie «il Commerciante» Kruper erano stati miei compagni di liceo.

Il Luna abita con altri due ragazzi in una casetta a schiera su Grant Street. Insieme formano la Legione dei Perdenti. Sono tutti fumatori di marijuana sbalestrati, che passano da un lavoretto all’altro, vivendo alla giornata. Ma sono anche tranquilli, innocui e assolutamente adottabili. Non che io frequenti il Luna regolarmente. Direi piuttosto che ci teniamo in contatto, e quando le nostre strade si incrociano mi suscita sempre sentimenti materni. Il Luna è come un povero gattino randagio che si fa vivo di tanto in tanto per una ciotola di croccantini.

Dougie abita diversi caseggiati più giù nella stessa fila di case a schiera. Al liceo Dougie era quello che portava sfigatissime camicie coi bottoni quando tutti gli altri indossavano le T-shirt. Dougie non prendeva voti alti, non faceva sport, non suonava uno strumento, e non aveva una bella macchina. L’unica cosa che sapeva fare bene era succhiare bibite dalla cannuccia con il naso.

Girava voce che dopo il diploma Dougie si fosse trasferito in Arkansas e fosse morto. Ma poi qualche mese fa Dougie è ricomparso, vivo e vegeto, al Burg. E il mese scorso è stato arrestato dalla polizia per ricettazione di refurtiva fuori casa sua. Al momento dell’arresto la sua attività commerciale era sembrata più un servizio alla comunità che un crimine vero e proprio in quanto era diventato il fornitore ufficiale di Metamucil a prezzo scontato, e per la prima volta dopo tanti anni i vecchi del Burg andavano di corpo con regolarità.

«Credevo che Dougie avesse chiuso la sua attività» dissi al Luna.

«Guarda che questi costumi li abbiamo veramente trovati. Erano in uno scatolone in soffitta. Stavamo pulendo casa e ci sono capitati fra le mani.»

Ero quasi sicura di credergli.

«Che ne pensi, allora?» mi chiese. «Grandioso, eh?»

Il costume era in lycra leggera e vestiva perfettamente la sua corporatura da spilungone, senza fare una piega… nemmeno nella zona del suo cosino. Davvero non lasciava molto all’immaginazione e se l’avesse indossato Ranger non mi sarei lamentata, ma così il Luna metteva in mostra più di quanto ero disposta a vedere.

«Il costume è eccezionale.»

«Visto che io e Dougie abbiamo questi bellissimi costumi, abbiamo deciso di dedicarci alla lotta contro il crimine… come Batman.»

Barman mi sembrava una buona alternativa. Di solito il Luna e Dougie impersonavano il Capitano Kirk e il Dottor Spock.

Il Luna si tirò via il cappuccio di lycra e lasciò liberi i lunghi capelli castani. «Dovevamo iniziare a combattere il crimine questa notte. L’unico problema è che Dougie se ne è andato.»

«Andato? Che significa andato?»

«Scomparso, piccola. Mi ha chiamato martedì per dirmi che aveva delle cose da fare ma che ieri sarei comunque potuto andare da lui a vedere l’incontro di wrestling. Dovevamo guardarlo sulla TV a grande schermo di Dougie. Una cosa grandiosa, piccola. In ogni modo, Dougie non si è fatto vedere. Non si sarebbe perso il wrestling se non fosse successo qualcosa di brutto. Ha addosso quattro cercapersone ma non è raggiungibile in nessuno. Non so cosa pensare.»

«Sei andato in giro a cercarlo? Non potrebbe essere a casa di un amico?»

«Credimi, non è da lui perdersi un incontro di wrestling» rispose il Luna. «Nessuno si perderebbe un incontro di wrestling, piccola. Era tutto eccitato all’idea. Credo che sia successo qualcosa di brutto.»

«Tipo?»

«Non so. Ma ho una pessima sensazione.»

Tirammo tutti e due il fiato quando il telefono squillò, come se per il solo fatto di averla immaginata, la catastrofe si fosse davvero compiuta.

«È qui» disse la nonna all’altro capo del telefono.

«Chi? Dove?»

«Eddie DeChooch! Dopo che te ne sei andata, Mabel è venuta a prendermi per andare a porgere l’estremo saluto ad Anthony Varga. È stato sistemato per la veglia da Stiva, che ha fatto un ottimo lavoro. Non so come faccia. Era da ventìcinque anni che non vedevo Anthony Varga così in forma. Avrebbe dovuto rivolgersi a Stiva quando era ancora vivo. In ogni modo, siamo ancora qui ed Eddie DeChooch è appena entrato nella sala.»

«Arrivo immediatamente.»

Non importava se soffrivi di depressione o eri ricercato per omicidio: al Burg si andava comunque a porgere l’estremo saluto.

Presi la borsa a tracolla dal piano della cucina e spinsi il Luna fuori dalla porta. «Devo correre via. Faccio qualche telefonata e poi ti richiamo. Nel frattempo tu vai a casa e chissà, forse Dougie si farà vivo.»

«In quale casa dovrei andare, piccola? A casa di Dougie o a casa mia?»

«A casa tua. E dai una controllata a casa di Dougie ogni tanto.»

Il fatto che il Luna fosse preoccupato per Dougie mi disturbava, ma non sembrava una cosa grave. Però Dougie si era perso l’incontro di wrestling. E il Luna aveva ragione… nessuno si perde il wrestling. Almeno non nel New Jersey.

Attraversai di corsa il corridoio e poi le scale. Sfrecciai nell’atrio, uscii dal portone e salii in macchina. L’impresa di pompe funebri di Stiva era a circa tre chilometri sulla Hamilton Avenue. Mentalmente feci un inventario del mio equipaggiamento. Spray urticante e manette nella borsa. Probabilmente c’era anche la scacciacani, ma non era detto che fosse carica. La calibro .38 era a casa, nel barattolo dei biscotti. E avevo una limetta per unghie, in caso di corpo a corpo.

L’impresa di pompe funebri di Stiva si trova in un edificio bianco che una volta era una casa privata. Per venire incontro alle esigenze dell’attività sono stati aggiunti dei garage dove alloggiare i carri funebri e delle salette dove ospitare i vari defunti e i loro parenti e amici in visita. C’è anche un piccolo parcheggio. Le finestre hanno persiane nere e l’ampia veranda sul davanti ha un bel tappeto verde di quelli che vanno bene sia per gli interni sia per l’esterno.

Lasciai la macchina nel parcheggio e andai a grandi passi verso la porta principale. In veranda si era raccolto un gruppetto di uomini che fumavano e si raccontavano storielle. Erano semplici lavoratori, vestiti con abiti qualunque e con giri vita e stempiature che tradivano il passare degli anni. Li oltrepassai e mi diressi nell’atrio. La salma di Anthony Varga era composta nella Sala dell’Eterno Riposo numero uno. Caroline Borchek era nella Sala dell’Eterno Riposo numero due. Nonna Mazur era nascosta dietro un ficus finto nell’ingresso.

«È dentro con Anthony» disse la nonna. «Sta parlando con la vedova. Probabilmente la sta studiando, magari per farne la prossima vittima da ammazzare e nascondere nel capanno.»

C’erano una ventina di persone nella saletta che ospitava il corpo di Varga. Erano quasi tutti seduti. Alcuni stavano in piedi accanto alla bara. Eddie DeChooch era fra questi. Potevo entrare, avvicinarmi pian piano a lui e ammanettarlo. Probabilmente sarebbe stato il modo più facile di portare a termine il lavoro. Sfortunatamente si sarebbe creato un casino che avrebbe disturbato le persone in lutto per il defunto. Per di più, la vedova Varga avrebbe chiamato mia madre per riferirle lo spiacevole episodio. Le altre alternative erano avvicinarlo e chiedergli di seguirmi fuori, oppure aspettare che uscisse e incastrarlo nel parcheggio o nella veranda.

«Che si fa ora?» voleva sapere la nonna. «Entriamo e lo acciuffiamo?»

Sentii qualcuno respirarmi forte dietro le spalle. Era la sorella di Loretta Ricci, Madeline. Era appena arrivata e aveva visto DeChooch.

«Assassino!» gli gridò. «Hai ucciso mia sorella.»

DeChooch sbiancò in viso e barcollò all’indietro perdendo l’equilibrio e finendo addosso alla vedova Varga. Si aggrapparono entrambi alla bara per non cadere, ma la bara si inclinò pericolosamente sul carrello ornato da una balza e tutti rimasero con il fiato sospeso quando Anthony Varga scivolò di scatto su un lato, sbattendo la testa contro l’imbottitura di raso.

Madeline infilò la mano nella borsetta, qualcuno urlò che stava cercando la pistola e ci fu il fuggi fuggi. Alcuni si buttarono faccia a terra sul pavimento, altri scattarono lungo il corridoio verso l’ingresso.

L’assistente di Stiva, Harold Barrone, si lanciò su Madeline e la bloccò alle ginocchia facendola cadere sulla nonna e me. Rovinammo tutti a terra l’uno addosso all’altro.

«Non spari» urlò Harold a Madeline. «Si controlli!»

«Stavo solo prendendo un fazzolettino, imbecille» disse Madeline. «E si alzi, mi sta schiacciando.»

«E sta schiacciando anche me» disse la nonna. «Sono vecchia. Le ossa mi si potrebbero spezzare come ramoscelli secchi.»

Mi misi in piedi e diedi un’occhiata in giro. Niente Eddie DeChooch. Uscii sulla veranda dove erano gli uomini. «Qualcuno di voi ha visto Eddie DeChooch?»

«Sì» rispose uno di loro. «Eddie se ne è appena andato.»

«Da che parte è andato?»

«Verso il parcheggio.»

Scesi di corsa le scale e arrivai al parcheggio proprio mentre DeChooch si stava allontanando su una Cadillac bianca. Dissi qualche parolaccia a mo’ di conforto e partii subito all’inseguimento. Mi precedeva di circa un isolato, guidava lungo la linea di mezzeria e passava con il rosso. Prese per il Burg e pensai che forse stava andando a casa. Lo seguii lungo la Roebling Avenue, superò la strada che conduceva a casa sua. Le nostre erano le uniche auto sulla Roebling e capii che si era accorto di me. DeChooch non era tanto cieco da non vedere le luci nello specchietto retrovisore.

Continuò a zigzagare per il Burg, prendendo la Washington e la Liberty, per poi tornare indietro sulla Division. Immaginai che avrei continuato a inseguire DeChooch finché uno dei due non avrebbe finito la benzina. E poi? Non avevo né la pistola né il giubbotto antiproiettile. E non avevo nessuno che mi facesse da rinforzo. Avrei dovuto affidarmi alle mie capacità di persuasione.

DeChooch si fermò all’angolo tra la Division e la Emory e io feci lo stesso qualche metro dietro a lui. Era un angolo buio, senza illuminazione stradale, ma l’auto di DeChooch era bene in vista. DeChooch aprì la portiera, scese dall’auto malfermo sulle ginocchia e si chinò. Mi guardò un momento schermando con le mani la luce dei miei abbaglianti. Poi, come se niente fosse, alzò il braccio e sparò tre colpi. Pum. Pum. Pum. Due andarono a finire contro il marciapiede accanto alla mia macchina e uno colpì con un fischio metallico il paraurti anteriore.

Alla faccia della persuasione. Inserii la retromarcia e via a tavoletta. Voltai in Morris Street su due ruote, inchiodai con uno stridore di freni a uno stop, ingranai la prima e me ne andai via dal Burg come un razzo.

Avevo quasi smesso di tremare quando parcheggiai nel cortile sotto casa. Avevo appurato di non essermela fatta addosso e quindi, tutto sommato, ero quasi fiera di me stessa. C’era un brutto squarcio nel paraurti. Sarebbe potuta andare peggio, mi dissi. Lo squarcio avrebbe potuto essere nella mia testa. Stavo cercando di essere tollerante con Eddie DeChooch perché era vecchio e depresso, ma la verità era che cominciava a non piacermi.

I vestiti del Luna erano ancora nel corridoio quando uscii dall’ascensore, così li raccolsi mentre andavo nel mio appartamento. Mi fermai dietro la porta di casa e rimasi ad ascoltare. La TV era accesa. Sembrava sintonizzata su un incontro di boxe. Ero quasi sicura di averla spenta. Appoggiai la fronte sulla porta. Cos’altro mi aspettava?

Me ne stavo ancora lì in piedi con la fronte schiacciata contro la porta quando questa si aprì e Morelli mi salutò con un bel sorriso.

«Giornataccia, eh?»

Mi guardai intorno. «Sei solo?»

«Chi pensavi che ci fosse?»

«Barman, il fantasma di Natale, Jack lo Squartatore.» Buttai i vestiti del Luna sul pavimento dell’ingresso. «Sono un po’ stravolta. Ho appena avuto una sparatoria con DeChooch. Peccato che solo lui avesse la pistola.»

Raccontai a Morelli i dettagli scioccanti della vicenda e quando stavo per dirgli che non me l’ero fatta sotto, il telefono squillò.

«Stai bene?» voleva sapere mia madre. «Tua nonna è appena tornata a casa e ha detto che sei partita all’inseguimento di Eddie DeChooch.»

«Sto bene, ma ho perso DeChooch.»

«Myra Szilagy mi ha detto che stanno assumendo personale alla fabbrica di bottoni. E pagano anche i contributi. Probabilmente riusciresti ad avere un buon lavoro alla catena di montaggio. O magari anche in ufficio.»

Morelli era stravaccato sul divano e si era messo di nuovo a guardare la boxe quando riattaccai. Indossava una T-shirt nera e un pullover a maglia rasata color panna con un paio di jeans. Era asciutto, aveva muscoli sodi e il fascino misterioso dell’uomo mediterraneo. Era un bravo piedipiatti. Bastava che mi guardasse per farmi inturgidire i capezzoli. Ed era tifoso dei New York Rangers. Il che lo rendeva quasi perfetto… a parte il fatto di essere un piedipiatti.

Il cane Bob era sul divano accanto a Morelli. Bob è un incrocio tra un Golden Retriever e Chewbacca di Guerre Stellari. All’inizio era venuto a vivere con me ma poi ha deciso che la casa di Morelli gli piace di più. Cose di uomini, suppongo. E così Bob adesso vive perlopiù con lui. A me sta bene, considerato che Bob mangia tutto. Se lo lasci solo, Bob è capace di ridurre un’intera casa a nient’altro che una manciata di chiodi e qualche piastrella. E siccome Bob spesso butta dentro grosse quantità di robaccia tipo mobili, scarpe e piante d’appartamento, altrettanto spesso butta fuori montagne di popò di cane.

Bob mi sorrise scodinzolando, poi tornò a guardare la televisione.

«Immagino che tu conosca il tizio che si è spogliato fuori nel corridoio» disse Morelli.

«Il Luna. Voleva farmi vedere cosa aveva sotto.»

«Mi sembra logico.»

«Dice che Dougie è scomparso. Che è uscito ieri mattina e non è più tornato.»

Morelli si distolse suo malgrado dalla boxe. «Dougie non ha un’udienza imminente?»

«Sì, ma il Luna non pensa che Dougie se la sia svignata. Il Luna pensa che ci sia qualcosa che non va.»

«Il cervello del Luna probabilmente è molto simile a un uovo fritto. Se fossi in te non darei molto peso a quello che pensa.»

Passai il telefono a Morelli. «Forse potresti fare qualche telefonata. Sì, insomma, potresti chiamare gli ospedali.» E l’obitorio. In qualità di sbirro, Morelli aveva accesso più facilmente di me.

Quindici minuti dopo Joe aveva esaurito la lista. Nessuno che corrispondesse alla descrizione di Dougie era stato ricoverato al St. Francis, all’Helen Fuld, né era arrivato all’obitorio. Chiamai il Luna e gli riferii quello che avevamo scoperto.

«Ehi» fece il Luna «qui la cosa si fa seria. Non è solo Dougie. Ora sono scomparsi anche i miei vestiti.»

«Non ti preoccupare per i vestiti. Ce li ho io.»

«Cavolo, tu sì che sei brava» disse il Luna. «Sei davvero brava.»

Mentalmente alzai gli occhi al cielo e riagganciai.

Morelli mi fece segno di sedermi accanto a lui. «Vieni qui e parliamo di Eddie DeChooch.»

«Cosa mi vuoi dire di DeChooch?»

«Non è una brava persona.»

Dalle labbra mi lasciai sfuggire un sospiro.

Morelli finse di non averlo sentito. «Costanza mi ha detto che sei riuscita a parlare con DeChooch prima che prendesse il volo.»

«DeChooch è depresso.»

«Immagino che non ti abbia parlato di Loretta Ricci?»

«No, neanche una parola. Ho trovato Loretta per conto mio.»

«Tom Bell ha in consegna il caso. L’ho incontrato dopo il lavoro e mi ha detto che la Ricci era già morta quando le hanno sparato.»

«Cosa?»

«Non può accertare la causa della morte finché non viene fatta l’autopsia.»

«Perché uno dovrebbe sparare a un cadavere?»

Morelli alzò le mani in segno di resa.

Magnifico. «Hai altro da offrirmi?»

Morelli mi guardò e fece un gran sorriso.

«A parte quello» dissi.


Stavo dormendo e nel sonno ebbi la sensazione di soffocare. Avevo un peso incredibile sul petto che non mi faceva respirare. Di solito non faccio sogni in cui soffoco. Sogno ascensori che saltano via dai tetti dei palazzi con me intrappolata dentro. Sogno tori che mi rincorrono infuriati per strada. E faccio anche sogni in cui mi dimentico di vestirmi e vado al centro commerciale completamente nuda. Ma non avevo mai fatto sogni in cui soffoco. Fino ad allora. Mi svegliai a fatica e aprii gli occhi. Bob mi dormiva accanto, col suo testone da cane e le zampe anteriori appoggiate sul mio petto. L’altra metà del letto era vuota. Morelli se ne era andato. Era uscito in punta di piedi alle prime luci dell’alba e mi aveva lasciato Bob.

«Okay, ragazzone» dissi «se ti togli di dosso ti do da mangiare.»

Bob forse non capirà tutte le parole, ma coglie quasi sempre il senso di quello che dico quando si tratta di cibo. Drizzò le orecchie, gli si illuminarono gli occhi e saltò via dal letto in un istante, scodinzolandomi intorno tutto felice.

Gli versai una quantità industriale di biscotti per cani e cercai invano del cibo per umani. Niente merendine, niente ciambelle, niente fiocchi d’avena ai frutti di bosco. Mia madre mi rispedisce sempre a casa con una busta di avanzi, ma quando ero uscita da casa dei miei avevo la mente occupata da Loretta Ricci e avevo dimenticato la busta degli avanzi sul tavolo della cucina.

«Guardami» dissi a Bob. «Sono un fallimento di casalinga.»

Bob ricambiò con un’occhiata che sembrava dire: Ehi bambola, mi hai dato da mangiare, non puoi essere così male!

Infilai un paio di Levi’s e gli stivali, indossai una giacca di denim sopra la maglia del pigiama e agganciai Bob al guinzaglio. Poi trascinai il cane giù per le scale e quindi in macchina: l’avrei portato a fare la cacca a casa della mia acerrima nemica Joyce Barnhardt. In questo modo non avrei dovuto portarmi dietro sacchetto e palettina e poi la cosa mi dava una certa soddisfazione. Anni addietro avevo sorpreso Joyce mentre scopava con mio marito (ora il mio ex marito) sul tavolo della sala da pranzo, e di tanto in tanto mi piace ripagarla di tanta gentilezza.

Joyce abita solo a qualche centinaio di metri da casa mia, eppure è tutto un altro mondo. Joyce ha ottenuto delle gran belle liquidazioni dai suoi ex mariti. Anzi, il marito numero tre era così impaziente di togliersela di torno che le ha ceduto la casa dove abitavano senza battere ciglio. È una grande casa costruita su un piccolo lotto in un quartiere di professionisti perennemente in carriera. È di mattoni rossi, con raffinate colonnine bianche a sostenere il tettuccio che ripara la porta principale. Un incrocio tra il Partenone e la casetta di Gimmi dei tre porcellini. Il vicinato si è dotato di regole piuttosto severe in materia di cacca di cane e relativa pulizia, quindi io e Bob facciamo visita a Joyce solo col favore dell’oscurità. Oppure, come in questo caso, la mattina presto prima che la strada si risvegli.

Parcheggiai a mezzo isolato dall’abitazione di Joyce. Bob e io ci dirigemmo in tutta tranquillità verso il giardino sul davanti, Bob fece quello che doveva fare, rientrammo altrettanto tranquillamente in macchina e via al McDonald’s. Non c’è buona azione che non meriti una ricompensa. Presi un uovo McMuffin e un caffè per me, e un uovo McMuffin e un frappè alla vaniglia per Bob.

Eravamo esausti dopo tutto questo gran daffare, così tornammo nel mio appartamento e mentre Bob schiacciava un sonnellino io feci la doccia. Mi passai un po’ di gel sui capelli e li stropicciai per arricciarli. Poi diedi una passata di mascara e di eye-liner e per finire un velo di lucidalabbra. Forse non avrei risolto nessun problema quel giorno, ma non ero niente male.

Mezz’ora dopo Bob e io partimmo diretti all’ufficio di Vinnie, pronti per un’altra giornata di lavoro.

«Oh-oh» fece Lula «c’è anche il nostro Bob.» Si chinò per dargli una grattatina sulla testa. «Ehi Bob, come va?»

«Stiamo ancora cercando Eddie DeChooch» dissi. «Qualcuno sa dove vive suo nipote Ronald?»

Connie scrisse un paio di indirizzi su un foglio di carta e me lo consegnò. «Ronald ha una casa su Cherry Street, ma hai più probabilità di trovarlo al lavoro a quest’ora. Ha una ditta di pavimentazioni stradali, la Ace Pavers, a Front Street, lungo il fiume.»

Infilai in tasca gli indirizzi, mi avvicinai a Connie e abbassai la voce. «Si dice niente in giro a proposito di Dougie Kruper?»

«Tipo cosa?» domandò Connie.

«Tipo che è scomparso.»

La porta dell’ufficio di Vinnie si spalancò improvvisamente e Vinnie mise fuori la testa. «Cosa significa che è scomparso?»

Alzai lo sguardo su Vinnie. «Come hai fatto a sentire? Stavo bisbigliando e avevi la porta chiusa.»

«Ho le orecchie anche sul culo» rispose Vinnie. «Sento tutto.»

Connie passò le dita lungo i bordi della scrivania. «Accidenti a te» disse Connie «hai di nuovo piazzato una cimice.» Svuotò la tazza piena di matite, frugò nei cassetti, svuotò la borsetta sulla scrivania. «Dov’è, brutto verme schifoso?»

«Non c’è nessuna cimice» disse Vinnie. «Ho solo delle ottime orecchie. Una specie di radar.»

Connie trovò la cimice sotto il telefono. La staccò e la schiacciò con il calcio della pistola. Poi mise nuovamente la pistola nella borsa e buttò la cimice nella spazzatura.

«Ehi» fece Vinnie «era di proprietà della ditta!»

«Che problema c’è con Dougie?» chiese Lula. «Non vuole presentarsi in tribunale?»

«Il Luna ha detto che lui e Dougie dovevano guardare il wrestling sulla TV a grande schermo di Dougie, ma Dougie non è mai arrivato. Pensa che gli sia capitato qualcosa di brutto.»

«Io non mi perderei di certo l’occasione di vedere quei lottatori di wrestling con i loro minislip elasticizzati su una TV a grande schermo» commentò Lula.

Io e Connie la pensavamo allo stesso modo. Bisognava essere matte per perdersi tutto quel ben di Dio su una TV a grande schermo.

«Non ho sentito niente a proposito di Dougie» disse Connie «ma chiederò in giro.»

La porta dell’ufficio si spalancò con uno schianto e Joyce Barnhardt entrò come una furia. Si era cotonata i capelli rossi al massimo dell’estensione. Indossava pantaloni del tipo usato dalle squadre speciali anti-terrorismo e camicia. I pantaloni le fasciavano il sedere e la camicia sbottonata fino a metà sterno lasciava intravedere un reggiseno nero e un bel po’ di scollatura. Dietro la camicia, in lettere bianche, era scritto RISCOSSIONE GARANZIE. Aveva gli occhi truccati di nero e le ciglia coperte da uno spesso strato di mascara.

Bob si nascose dietro la scrivania di Connie e Vinnie si rintanò nell’ufficio chiudendo la porta a chiave. Tempo addietro, dopo una breve consultazione con il suo pene, Vinnie aveva acconsentito ad assumere Joyce come agente per gli arresti. Il suo uccello era ancora soddisfatto della decisione presa, ma il resto di Vinnie non sapeva bene come comportarsi con Joyce.

«Vinnie, brutto pisello moscio, ti ho visto sgattaiolare in ufficio. Esci fuori di lì, accidenti a te» urlò Joyce.

«È un piacere vederti di così buon umore» disse Lula a Joyce.

«Un cane mi ha di nuovo cagato in giardino. È la seconda volta questa settimana.»

«Non c’è da stupirsi se continui a fartela con gli ospiti dei canili» disse Lula.

«Non mi provocare, grassona.»

Lula strizzò gli occhi. «Grassona a chi? Dillo un’altra volta e ti cambio i connotati…»

«Grassona, culona, barile di lardo, cicciona…»

Lula si scagliò contro Joyce e le due finirono a terra in un turbinio di graffi e pugni. Bob non si spostò da sotto la scrivania. Connie rimase a girare intorno a loro aspettando il momento giusto, poi stordì Joyce puntandole la scacciacani sul sedere. Joyce fece un verso stridulo e poi si immobilizzò.

«È la prima volta che uso uno di questi aggeggi» disse Connie. «Niente male.»

Bob sbucò da sotto la scrivania per dare un’occhiata a Joyce.

«Da quando ti prendi cura di Bob?» chiese Lula, rimettendosi in piedi.

«Ha dormito da me questa notte.»

«Pensi che la cagata nel giardino di Joyce fosse grande come quelle di Bob?»

«Tutto è possibile.»

«Quanto possibile? Al dieci per cento? Al quindici per cento?»

Abbassammo gli occhi su Joyce. Stava cominciando a muoversi, così Connie la stordì di nuovo con la scacciacani.

«È solo che non sopporto di usare la paletta…» dissi.

«Ah ah!» fece Lula con una grassa risata. «Lo sapevo!»

Connie diede a Bob una ciambella dalla scatola che teneva sulla scrivania.

«E bravo il nostro ragazzo!»

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