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Mercoledì 31 luglio 2002


Tornando alla Jefatura Falcón si fermò per un café solo in Avenida de Argentina. Si sentiva stanco e abbattuto come tutti gli altri avventori del bar. Il caldo aveva privato i sivigliani della loro naturale alegría, lasciandone una versione scorbutica a vagare per le strade e a popolare i caffè.

Nessun segno di Ramírez o di Cristina Ferrera in ufficio. Prese i nastri degli interrogatori dei due incendiari e la cassetta originale rubata nella finca di Montes e salì da Elvira. Incontrò Ramírez che scendeva le scale.

«Ho parlato di nuovo con quei due, ho chiesto come avessero conosciuto Montes», disse Ramírez. «Vent’anni fa Montes si occupava di una squadra di calcio per bambini svantaggiati e loro facevano parte della squadra. Ho appena controllato con l’Inspector del GRUME e ho esaminato per bene i loro fascicoli. Montes li aveva sempre aiutati quando avevano avuto a che fare con la legge.»

«Sapevano che Montes si era ucciso?»

Ramírez scosse il capo e gli augurò buona fortuna con Elvira.

Non gli fu permesso di vedere il Comisario e nemmeno di entrare nell’ufficio della segretaria, che lo sospinse nel corridoio con una sola parola di spiegazione: Lobo.

Dieci minuti dopo venne chiamato. Lobo era in piedi accanto alla finestra, le braccia conserte sul petto, teso, in collera. Elvira, seduto alla sua scrivania, aveva il volto segnato, come se fosse rimasto là tutta la notte.

«Che cos’ha da offrirci?» chiese Lobo, saltando la catena di comando tanto era furioso.

«Due deposizioni audio degli incendiari…»

«Hanno fatto il nome di Ignacio Ortega?»

«No, hanno fatto quello di Alberto Montes.»

Lobo batté il pugno sulla scrivania di Elvira, tre colpi micidiali che scagliarono matite e penne di qua e di là.

«Che altro?» riprese Lobo.

«Una videocassetta con riprese effettuate da una telecamera nascosta nella finca, dove si vedono quattro uomini impegnati in attività sessuali con minori.»

«Qualcuno di noto?»

«Un penalista e un presentatore della televisione.»

«Joder!» imprecò Lobo.

«Ramírez può identificarne un altro, un uomo d’affari che proviene dal suo barrio. Il quarto non si sa chi sia.»

«Chi è a conoscenza di questa cassetta?»

«Ramírez e io.»

«Lasci le cose come stanno», ordinò Lobo, reso brutale dalla collera.

«E i due piromani?» domandò Elvira.

«Non credo che sappiano che cosa hanno rubato.»

«Allora l’unico collegamento tra Ignacio Ortega e la finca di Montes è l’impianto di aria condizionata», disse Elvira. «Non esiste nessuna prova che Ortega procurasse i minori tramite i russi per gli incontri nella finca. E nemmeno si può provare che portasse clienti alla finca per partecipare ad atti sessuali con minori.»

«Esatto», ammise Falcón, consapevole che era tutto sbagliato ancor prima di cominciare. «L’unico modo di accertare che portava clienti alla finca è interrogare gli uomini sulla cassetta.»

«Qualcosa nella registrazione dimostra che le riprese sono state effettuate alla finca di Montes?» domandò Lobo.

«Difficile da dire ora che l’edificio è stato completamente distrutto dal fuoco.»

«Ha avuto il rapporto di Felipe e Jorge sui reperti?»

«Non ancora. Probabilmente sono rimasti sulla sierra stanotte, stavano ancora lavorando ieri sera alle sette, quando sono venuto via. I tecnici del laboratorio staranno vagliando il primo materiale arrivato ieri sera. Spero che sia rimasta qualche impronta…»

«Ieri sera tardi ho cercato di chiamarla», disse Lobo.

«Avevo il cellulare spento», spiegò Falcón. «Stavo lavorando all’altro caso: Rafael Vega.»

«Ci sono progressi?»

Falcón riferì sul colloquio con Mark Flowers.

«Sarà bene che ne parli io stesso con il console americano», disse Lobo.

«Che ne è della sua indagine a questo punto?» domandò Elvira.

«Il Juez Calderón mi ha dato quarantotto ore. Il tempo è scaduto. Non ho né sospetti né testimoni né piste da seguire, a meno che non salti fuori il giardiniere, Sergei», rispose Falcón.

«Che mi dice di quella chiave di una cassetta di sicurezza che avete trovato in casa di Vega?» chiese Elvira.

«Appartiene a una cassetta a nome di Emilio Cruz al Banco Banesto. Il Juez Calderón non ha ancora avuto il tempo di farci avere un mandato di perquisizione.»

«Informateci quando lo avrete», raccomandò Elvira.

«Potrebbe anche doversi accontentare del fatto che Rafael Vega fosse un mascalzone che ha punito se stesso o ha avuto quello che si meritava», suggerì Lobo.

«Mi aspetto che il Juez Calderón chiuda il caso quando lo vedrò in mattinata», convenne Falcón. «In quanto a collegare Ignacio Ortega con la finca, ci resta un’ultima possibilità con gli scheletri trovati sepolti nella proprietà.»

«Nessuna idea di che cosa sia successo?»

«In un angolo di una cella, accanto al letto, ho trovato un graffito in caratteri cirillici sulla parete. Lo sto facendo tradurre. Sospetto che abbia qualcosa a che fare con la grande macchia al centro del pavimento, che non ho visto finché la cella non è stata vuotata completamente. Sembrerebbe una macchia di sangue. Stanno esaminando proprio adesso un frammento prelevato dal pavimento. Nel materasso, in quella stessa cella, ho trovato un pezzo di vetro. Presumo che ve ne fosse un altro, usato dagli occupanti della cella per tagliarsi le vene dei polsi. Sospetto che si tratti di resti di suicidi.

«Del caso è incaricato un Juez de Instruccion di là, ma suggerirei di averne uno anche qui, dato che qui saranno esaminati tutti gli elementi di prova e qui speriamo di ottenere la condanna di Ignacio Ortega.»

«La cosa è all’esame del Juez Decano di Siviglia in questo momento», disse Elvira. «Come intende muoversi, Inspector Jefe?»

«La mossa ovvia è stabilire un collegamento tra Ignacio Ortega e la finca, interrogando almeno uno degli uomini ripresi dalla telecamera. Una volta che sia stato confermato il suo ruolo centrale nel giro di pedofili possiamo incriminarlo e procedere nella direzione dei mafiosi russi, Vladimir Ivanov e Mikhail Zelenov», rispose Falcón. «Mi rendo conto che l’ultimo dato in questa bruttissima equazione è il più difficile da portare alla luce.»

Il volto segnato di Elvira si sottrasse all’intensità dello sguardo con cui Falcón lo stava fulminando. Finirono tutti e due per osservare il colore rosso cupo della faccia furibonda di Lobo.

«Per il momento, Inspector Jefe», disse quest’ultimo, «alla luce di quanto ci ha appena detto sul coinvolgimento nel caso di uno dei nostri funzionari di alto grado, le chiederò di non fare nulla e non dire nulla.»

Nel silenzio seguito alla richiesta, che sottintendeva una pesante ammissione, le domande si affollarono nella mente di Falcón. Non riuscì a rivolgerne nemmeno una. Salutò e si avvicinò alla scrivania per prendere le cassette.

«Meglio lasciarle qui», lo fermò Lobo.

La mano di Falcón si ritirò come se fosse finita nelle fauci di un lupo.

Al piano di sotto Ramírez fumava, seduto con i piedi sulla scrivania. Si mise un dito sulle labbra, accennò con il capo alla porta dell’ufficio di Falcón e formulò silenziosamente le parole Virgilio Guzmán.

«Non posso parlare con lei in questo momento, Virgilio», disse Falcón, girando intorno alla sedia di Guzmán e sedendosi sulla poltrona girevole.

«Di che cosa?»

«Di niente.»

«E Alfonso Martínez e Enrique Altozano?»

«Uno è in terapia intensiva e l’altro è scomparso.»

«Enrique Altozano è miracolosamente riapparso stamani», annunciò Guzmán. «Non le sembra uno che abbia avuto il segnale di via libera?»

«Può sembrare qualsiasi cosa a una mente ricca di fantasia.»

«E va bene», ammise Guzmán. «Devo dirle di Miguel Velasco?»

«Lo so già.»

«Sa che cosa?»

«Che era un militare cileno…»

«Un po’ vago.»

«Mi dirà qualcosa che mi aiuti a saperne di più?»

«Le racconterò la storia in breve e poi lei deciderà», propose Guzmán. «Era nato nel 1944, figlio di un macellaio di Santiago. Aveva frequentato l’Università Cattolica ed era stato membro di Patria y Libertad. Sua madre morì nel 1967 di infarto, lui entrò nell’esercito cileno nel 1969. Dopo il colpo di Stato fu trasferito alla polizia segreta, che nel giugno del 1974 sarebbe diventata la DINA. Suo padre, che non gradiva la politica di Allende ma non approvava il colpo di Stato di Pinochet, scomparve nel 1973 e nessuno lo vide più. Durante il servizio nella DINA Miguel divenne uno dei capi inquisitori di Villa Grimaldi e amico personale del responsabile dell’organismo, il colonnello Manuel Contreras.»

«Ho saputo che il biglietto che aveva in mano quando è morto era un graffito sulla parete di una cella di Villa Grimaldi», disse Falcón. «Mi hanno detto che era conosciuto nel MIR come El Salido.»

«Forse non le hanno detto della sua attività al Venda Sexy, come chiamavano il centro di tortura al numero 3037 di Calle Irán, nel quartiere Quilín di Santiago. Era anche noto come ‘la discoteca’, per via della musica a tutto volume che ne usciva notte e giorno. Prima di essere trasferito a Villa Grimaldi Miguel Velasco ideò i metodi di tortura che vi furono poi praticati. Costringeva i familiari ad assistere e a prender parte ad atti sessuali tabù come l’incesto e la pedofilia. Talvolta incoraggiava anche i suoi colleghi torturatori a intervenire.»

«Questo aiuterebbe a spiegare… o meglio, non a spiegare, ma…»

«Mi dica.»

«Finisca la biografia, Virgilio.»

«Era eccezionale negli interrogatori e da Villa Grimaldi fu trasferito in una delle cellule operative dell’Operazione Condor, specializzata in rapimenti, interrogatori e omicidi all’estero. Nel 1978 prese servizio presso l’ambasciata cilena a Stoccolma, dove diresse le operazioni sotto copertura contro la comunità degli espatriati cileni. Verso la fine del 1979 rientrò nell’esercito e si ritiene che abbia ricevuto un addestramento dalla CIA prima di avviare una lucrosa attività ‘droga contro armi’. Il traffico venne alla luce nel 1981 e vi fu un processo, nel corso del quale Velasco testimoniò per l’accusa. Nel 1982 venne inserito in un programma di protezione dei testimoni dal quale scomparve quasi immediatamente.»

«Stoccolma?» domandò Falcón.

«Il primo ministro svedese, Olof Palme, non faceva mistero della sua avversione per il regime di Pinochet e nei giorni che seguirono l’11 settembre del ’73, l’ambasciatore svedese a Santiago, Harald Edelstam, girò per tutta la capitale offrendo asilo politico a chiunque fosse un oppositore del colpo di Stato. E così Stoccolma divenne ovviamente il centro del movimento anti-Pinochet in Europa. A Stoccolma venne insediata una cellula della DINA/CNI, per seguire le operazioni di contrabbando di droga in Europa e per spiare gli espatriati cileni.»

«Interessante… ma niente di tutto questo può aiutarmi», commentò Falcón. «Il caso sta per essere archiviato.»

«Avverto una certa delusione in lei, Javier.»

«Può avvertire quello che vuole, Virgilio, non ho niente da dirle.»

«La gente pensa che io sia di una noia insopportabile, perché un sacco di mie frasi cominciano con ‘Quando lavoravo sul caso delle squadre della morte…’», disse Guzmán.

Un grugnito di assenso di Ramírez dalla stanza accanto.

«Deve aver imparato molte cose…»

«Durante quell’indagine riuscivo sempre a trovarmi negli uffici degli investigatori in momenti cruciali», riprese Guzmán. «Lo chiami Zeitgeist o percezione dell’inconscio collettivo, se vuole. Ci crede a questo genere di stronzate, Javier?»

«Sì.»

«Ha cominciato a parlare a monosillabi, Javier. È uno dei primi segni.»

«Di che cosa?»

«Del fatto che non ho perso il mio tempismo», rispose Guzmán. «Che cosa crede che sia l’inconscio collettivo?»

«Non sono dell’umore adatto, Virgilio.»

«Ho già sentito queste parole, ma dove?»

«Nel suo letto!» gridò Ramírez dalla sala operativa.

«Ci provi, Javier.»

«Non arriverà a niente con le chiacchiere», disse Falcón, spingendo verso di lui un biglietto con il suo indirizzo di casa e l’indicazione di un’ora: 22.00.

«Sa perché ho lasciato Madrid?» riprese Guzmán, ignorando il biglietto. «Mi ci hanno costretto. Se lo domanda a qualcuno le diranno che avevo cominciato a vivere in una sala degli specchi, non sapevo più che cosa fosse o non fosse reale. Ero diventato paranoico. Ma in realtà mi hanno costretto a partire perché ero diventato un fanatico e lo ero diventato perché i servizi di cui mi occupavo mi facevano schiumare dalla rabbia. Non riuscivo a controllarla. Insomma ero diventato un giornalista della peggiore specie possibile: il giornalista emotivo.»

«Nemmeno nella polizia permettiamo che ci succeda questo… altrimenti daremmo i numeri tutti quanti».

«È una malattia incurabile», ammise Guzmán. «Ora lo so, perché quando ho letto che cosa faceva Velasco nel Venda Sexy, mi sono ritrovato a sentire la stessa rabbia furibonda. Non solo torturava le sue vittime, ma le contagiava con la sua spaventosa corruzione. E so anche di aver ricominciato a pensare: ecco cos’era Pinochet. Ecco cosa pensava del suo prossimo. E perché Pinochet era al potere? Perché lo avevano voluto Nixon e Kissinger, avevano preferito qualcuno che approvava le scosse elettriche ai genitali, lo stupro delle donne, la violenza sui bambini a… a che cosa? A un piccolo marxista, grassottello e occhialuto che avrebbe reso la vita più difficile ai ricchi. Ora, lei… tu, Javier, comprendi il mio problema. Sono diventato come mi definivano i miei capi: il peggior nemico di me stesso. Non ci è consentito di emozionarci, noi dobbiamo solo riferire i fatti. Ma, capisci, è proprio dalla mia capacità di emozionarmi che nasce il mio fiuto, un fiuto che non ha fallito nemmeno ora, perché so che a portarmi qui stamani è stata la rabbia che ho provato quando ho scoperto in che cosa fosse specializzato Miguel Velasco. E mi ha portato qui, perché io voglio che il mio naso sia ben ficcato nella porta dell’ufficio insabbiamento generale quando ci verrà sbattuta sul muso!»

Guzmán prese il biglietto, scostò la sedia con un calcio e uscì a precipizio dalla stanza.

Il vano della porta fu occupato dalla mole di Ramírez, che contemplò la scia di vapori lasciata da Guzmán nella sala operativa.

«Finirà per farsi male, se continua così», disse Ramírez. «Ha ragione lui?»

«Mi ha visto tornare con qualcosa in mano?» domandò in risposta Falcón, allargando le dita per mostrare che non aveva più le cassette.

«Lobo è una brava persona», ribatté Ramírez, puntandogli contro un ditone. «Non ci mollerà.»

«Lobo è una brava persona in una posizione diversa dalla nostra. Non si diventa Jefe Superior de la Policía de Sevilla se la gente non ti vuole a quel posto. Deve subire molte pressioni politiche e si ritrova con un gran brutto affare in casa sua, regalo di Alberto Montes.»

«E i resti di quei due ragazzini sulla Sierra de Aracena? Sono stati visti, tutti sanno del ritrovamento, nessuno può nascondere quel genere di cose.»

«Se si trattasse di bambini del posto, allora certamente no. Ma di chi si tratta? Sono morti almeno da un anno. L’unico elemento di prova che abbiamo trovato nella casa è la cassetta e, come Lobo mi ha fatto notare, non possiamo nemmeno dimostrare che le riprese siano state fatte alla finca. L’unica possibilità che ci resta è interrogare le persone che compaiono nel video, se ci permetteranno di interrogarle.»

Ramírez si avvicinò alla finestra e posò il palmo delle mani sul vetro.

«Prima abbiamo dovuto stare a sentire la storia di Nadia Kouzmikheva senza far nulla, ora dobbiamo vedere quei cabrones cavarsela senza nemmeno un graffio. È così?»

«Non c’è niente di dimostrabile.»

«Abbiamo la cassetta», insistette Ramírez.

«Dopo ciò che ha fatto Montes dobbiamo essere molto cauti con quella cassetta», spiegò Falcón. «Non si può trattarla con leggerezza. E adesso me ne vado.»

«Dove va?»

«A fare qualcosa che spero mi farà sentire meglio.»

Uscendo dall’ufficio si scontrò con Cristina Ferrera, che era stata a vedere la traduttrice a proposito dell’iscrizione in russo scoperta sulla parete della finca.

«Lasci la traduzione sulla mia scrivania, ora non mi va proprio di leggerla», le disse Falcón.

Segui il lungofiume e l’Avenida del Torneo e, dove la strada si allontanava dal Guadalquivir verso La Macarena, svoltò a destra e parcheggiò vicino all’Alameda, incamminandosi poi lungo Calle Jesus del Gran Poder. Era quello il quartiere dove aveva abitato Pablo Ortega. Cercava una casa in Calle Lumbreras appartenuta ai genitori del bambino, Manolo López, la vittima nel caso di Sebastián Ortega. Non aveva telefonato per avvertirli, pensando che i López non avrebbero gradito una nuova intrusione, specialmente stando a quanto aveva saputo delle condizioni di salute del padre.

Camminò tra gli odori di olio e di aglio provenienti dalle cucine fino alla casa dove vivevano i genitori del bambino, una palazzina dall’aspetto trascurato e suonò il campanello. Venne ad aprire la signora López, che fissò sgranando gli occhi il tesserino di Falcón, poco propensa a farlo entrare, ma priva della sicurezza necessaria per dirgli di lasciarli in pace. L’appartamento era piccolo, senz’aria e caldissimo. La signora López lo fece accomodare a un tavolo con un centrino di pizzo e una ciotola di fiori di plastica e andò a chiamare il marito. La stanza era un trionfo di Mariolatria, con Vergini appese alle pareti, confinate sugli scaffali di libri e benedicenti pile di riviste. In una nicchia era accesa una candela.

Come se fosse stato una mucca bisognosa di essere munta, la signora López guidò nel soggiorno il marito, probabilmente non ancora cinquantenne, ma incerto sui piedi, cosa che lo faceva sembrare molto più vecchio, e lo aiutò a sedersi. Un braccio dell’uomo pareva morto, pendeva inerte al suo fianco. Con l’altra mano, tremante, il signor López prese il tesserino di Falcón.

«Homicidios?» disse.

«Non in questa occasione», lo rassicurò Falcón. «Volevo parlarvi del sequestro di vostro figlio.»

«Non posso parlarne», disse l’uomo e immediatamente fece per alzarsi.

La moglie lo aiutò a lasciare la stanza mentre Falcón osservava le manovre complicate con crescente desolazione.

«Non riesce a parlarne», spiegò la moglie, tornando in soggiorno. «Non è più lo stesso da quando… da quando…»

«Dal rapimento di Manolo?»

«No, no… è stato dopo. È stato dopo il processo che ha perso il lavoro. Le gambe hanno cominciato a non funzionare più bene, si sentiva un formicolio nelle vene, vacillava, gli tremava una mano, poi un braccio si è paralizzato. Ora non fa più niente tutto il giorno, si sposta da qui alla camera da letto e… basta.»

«Manolo però sta bene, vero?»

«Sì. È come se non gli fosse successo nulla. Ora è in vacanza, in campeggio con i nipoti e i cugini.»

«Allora avete altri figli molto più grandi?»

«Ho avuto un maschio e una femmina quando avevo diciotto e diciannove anni e poi, vent’anni dopo, è venuto Manolo.»

«Manolo ha avuto qualche reazione a quello che gli è capitato?»

«Non proprio a quello che è capitato a lui», precisò la signora López. «È sempre stato un bambino allegro, era più dispiaciuto per Sebastián Ortega che per sé. Non riesce a immaginarlo in prigione.»

«Allora come mai suo marito ha avuto questi problemi? Sembra che sia stato lui a risentire di più di questa storia.»

«Non può parlarne, è qualcosa che ha a che fare con quello che è successo a Manolo, ma non sono capace di fargli dire che cos’è.»

«Forse si vergogna? Non è una reazione insolita.»

«Per Manolo? Lui dice di no.»

«Le dispiace se provo a parlargli da solo?»

«Non le servirà a niente.»

«Ho qualche notizia che potrebbe giovargli.»

«È l’ultima porta a sinistra in fondo al corridoio», disse la donna.

A occhi chiusi, una mano scossa da movimenti incontrollabili posata sullo stomaco, l’altra inerte sul lenzuolo, il signor López era sdraiato su un letto di legno scuro sotto un crocefisso. Il ventilatore sul soffitto muoveva a malapena l’aria soffocante della stanza. Falcón lo toccò sulla spalla. Gli occhi si spalancarono rivelando paura.

«Non deve fare altro che ascoltarmi», disse Falcón. «Io non giudico nessuno, sono qui per cercare di rimettere a posto le cose, nient’altro.»

Il signor López batté le palpebre una volta, come se fosse un segnale concordato tra loro.

«Le indagini sono una cosa strana», cominciò Falcón. «Noi partiamo per scoprire ciò che è avvenuto e ci troviamo davanti ad altre cose che avvengono man mano. Le indagini hanno vita propria: noi crediamo di condurle, ma qualche volta sono loro a condurre noi. Quando ho saputo ciò che Sebastián Ortega aveva fatto, sono rimasto affascinato da quel caso, anche se non aveva niente a che fare con l’indagine di cui mi stavo occupando. Mi affascinava perché in casi del genere è rarissimo che alla vittima sia permesso di andarsene libera e di guidare la polizia nel luogo dove il colpevole aspetta di essere arrestato. Capisce che cosa le sto dicendo, signor López?»

L’uomo batté un’altra volta le palpebre. Falcón gli parlò del suo lavoro alla Jefatura e delle voci che vi circolavano su ciò che era veramente accaduto nel caso di Manolo. L’esigenza, e quindi la richiesta, di una deposizione tale da sostenere l’accusa non era insolita, ma che Sebastián non si fosse difeso affatto era stata una cosa imprevista, e il risultato di quelle gravi accuse era stato una condanna più dura di quanto il reato effettivo meritasse.

«Non ho idea di che cosa stia avvenendo dentro di lei, signor López, so soltanto questo: non per colpa sua e forse a causa dei problemi psichici di Sebastián, è stata fatta giustizia con una severità non necessaria. Sono qui per dirle che lei può, se vuole, contribuire a rimettere le cose a posto. Non deve fare altro che chiamarmi. Se non sentirò niente, lei non mi rivedrà più.»

Falcón lasciò il suo biglietto da visita sul comodino mentre il signor López, immobile, fissava le pale del ventilatore che si muovevano lentamente, poi uscì dalla stanza e salutò la signora López che lo accompagnava alla porta.

«Pablo Ortega mi ha detto che aveva dovuto lasciare il quartiere perché la gente non gli parlava più e nei negozi e nei bar non volevano più servirlo», domandò sul pianerottolo. «Come mai succedeva questo, signora López?»

La donna parve confusa e imbarazzata, si rassettò la veste senza necessità, poi si ritirò in casa e richiuse la porta senza rispondere.

Nella luce abbagliante della strada Falcón ricevette una telefonata dal Juez Calderón, che voleva vederlo a proposito del caso Vega, ma prima di tornare alla macchina, entrò in un bar sull’Alameda e ordinò un café solo. Mostrò il suo tesserino della polizia e rivolse al barista la stessa domanda che aveva fatto alla signora López. L’uomo non era giovane e aveva l’aria di averne viste parecchie a suo tempo come proprietario di un bar nella parte meno elegante dell’Alameda.

«Conoscevamo tutti quanti Sebastián», rispose l’uomo, «e ci era simpatico. Era un bravo ragazzo, anche se poi… ha fatto quello che ha fatto. La gente allora aveva cominciato a discutere, a dire che gli stupratori in genere sono stati stuprati da piccoli e poi si sono tirate le conclusioni. E certamente non ha giovato il fatto che Pablo Ortega stesse sulle scatole a tutti, arrogante com’era, uno che si credeva adorato dalla gente.»


Il sudore si raffreddò rapidamente sul corpo di Falcón mentre aspettava nell’ufficio del Juez che il magistrato tornasse da una riunione. Quando Calderón si fu accomodato sulla sua poltrona girevole, apparve chiaro a Falcón che quanto aveva turbato il giudice nei giorni precedenti non esisteva più. Era tornato quello di sempre, saldo in sella e sicuro di sé.

Falcón lo aggiornò sul caso Vega, dicendogli che aveva scoperto tutto quello che c’era da scoprire tranne il nome dell’assassino e gli consegnò un resoconto di quanto aveva appreso da Mark Flowers e da Virgilio Guzmán.

«Ha controllato questa presunta registrazione della presenza di Krugman al consolato americano, la notte in cui è morto Vega?»

«Ne parlerà il Comisario Lobo con il console, ma non credo che saprò mai se la registrazione esiste o no.»

«Perciò pensa che a uccidere Vega sia stato Marty Krugman?»

«Sì. E nonostante la moglie abbia negato, quel lunedì sera, credo anche che lo abbia indotto lei a uccidere Reza Sangari.»

«Se non avesse ammazzato Reza Sangari, pensa che non sarebbe stato capace di uccidere Vega?»

«Non penso che stesse acquistando il gusto di uccidere, ma non c’è dubbio che la sensazione di potere avuta nella prima esperienza lo abbia esaltato», rispose Falcón. «E quando ha scoperto chi fosse in realtà Rafael Vega, perché ci era arrivato da solo o perché glielo aveva detto Mark Flowers, ha sentito che aveva il potere di uccidere ancora. Credo che abbia ucciso Sangari per motivi passionali e Vega per motivi ideologici.»

«E la signora Vega?»

«È stato quello il problema. Krugman sapeva che Mario era dalla signora Jiménez e che non doveva preoccuparsi del bambino, e sapeva anche che Lucía Vega aveva un sonno molto profondo; certe volte lui e Vega discutevano a lungo in casa e non l’avevano mai disturbata. Però non sapeva che la signora Vega prendeva due pastiglie per dormire, la seconda verso le tre di notte. Così, mentre Rafael Vega agonizzava, probabilmente lei è scesa in cucina, ha visto la scena orrenda ed è scappata di corsa al piano superiore, inseguita da Krugman. Per questo aveva la mandibola slogata. Urlava e lui ha dovuto colpirla. Poi ha dovuto ucciderla, il che spiega come mai Krugman fosse così agitato e instabile fin dall’inizio.»

«E tutte quelle minacce dei russi?»

«Forse volevano soltanto scoraggiarci dall’indagare più a fondo e scoprire il loro sistema di riciclaggio del denaro sporco.»

«Davvero? Avrebbero avuto la mano un po’ pesante, non crede?»

«È gente che ha la mano pesante.»

«La vedo abbattuto, Javier», osservò Calderón.

E tu no, pensò Falcón, ma disse soltanto: «Ho fallito nel caso Vega. Ho fallito nell’impedire che Krugman si ammazzasse sotto i miei occhi e… be’, la mia psicologa dice che non bisogna mai usare il verbo ‘fallire’ alla prima persona singolare, perciò non dico altro».

«Ho sentito qualche brontolio», disse Calderón.

«È ora di pranzo.»

«Brontolii tettonici nella Jefatura. Teste che cadranno, impieghi perduti, pensioni saltate.»

«Perché Montes si è buttato dalla finestra?»

«Quello è stato l’inizio», affermò Calderón, crogiolandosi come un tempo nei pettegolezzi del momento. «E che mi dice di Martinez e Altozano?»

Falcón si strinse nelle spalle: Calderón scoprisse da solo perché i russi erano una vera minaccia.

«Lei sa qualcosa, non è così, Javier?»

«Anche lei», ribatté Falcón, irritato dal tono confidenziale.

«Io so che il Juez Decano e il Fiscal Jefe si sono parlati a porte chiuse per un’ora questa mattina, e non li si vede spesso nello stesso edificio e nella stessa stanza.»

«Quei brontolii che ha sentito sono il rumore dei poteri che ci controllano mentre serriamo i ranghi», disse Falcón.

«Mi racconti.»

«Oggi noi siamo ciechi, sordi e muti, Esteban.» Falcón si alzò dalla sedia. «Vorrei ancora avere quel mandato per la cassetta di sicurezza di Vega. Tanto vale soddisfare la nostra curiosità.»

«Glielo farò avere questo pomeriggio», assicurò Calderón, guardando l’orologio e raggiungendo Falcón sulla porta. «Scendo con lei. Vado a fare spese con Inés.»

Scesero le scale e attraversarono l’atrio del tribunale, dove tutti facevano i salamelecchi al giovane magistrato, tornato nel suo elemento, gli orrori sempre più lontani all’orizzonte. Uscirono superando la barriera di sicurezza e Inés era in attesa dall’altra parte. Falcón la salutò con un bacio sulla guancia, lei cinse Calderón alla vita e il giudice l’attirò a sé, baciandola sui capelli. Inés rivolse a Falcón un saluto pieno di brio con la mano e un gran sorriso girando il capo mentre si incamminava con andatura baldanzosa sui tacchi alti, i capelli ondeggianti sulle spalle come nella pubblicità di uno shampoo.

Falcón li seguì con lo sguardo, cercando di immaginare che cosa potesse essere passato tra loro da quel fatale lunedì notte. E col pensiero venne la risposta: assolutamente nulla. Si erano aggrappati l’uno all’altro terrorizzati dalla solitudine che li aspettava, desiderando che scomparisse tutto quanto era successo e spalancando le braccia alla vita di prima. Era quello l’uomo che secondo Isabel Cano smaniava per le nuove esperienze? Era quella la donna di cui Falcón aveva cercato disperatamente l’approvazione? Li osservò allontanarsi verso la città e verso una vita di piccole, dolorose, distruzioni.

Consuelo chiamò, per chiedergli di fare colazione insieme. Gli fece la stessa impressione della sera precedente, la sentì distante e preoccupata. Si accordarono per vedersi in Calle Bailén, avrebbe cucinato lui. Falcón comprò qualcosa al Corte Inglés tornando a casa. In cucina si liberò dei pensieri. Affettò le cipolle, le fece soffriggere lentamente in olio d’oliva fino a renderle caramellate, fece bollire le patate e versò sherry oloroso sulle cipolle riducendo il tutto a sciroppo, pulì e condì il tonno, preparò l’insalata, sistemò i gamberetti intervallandoli con fette di limone e maionese. Bevve manzanilla gelata e sedette nell’ombra del patio in attesa di Consuelo.

Arrivò alle due. Non appena l’ebbe fatta entrare in casa, capì che qualcosa non andava. Era chiusa, impenetrabile. Non era la prima volta che Falcón aveva quell’impressione con una donna, la sensazione che volesse tenere tutto dentro finché l’atmosfera non fosse stata sgombra. Le sue labbra non risposero al bacio, il corpo si tenne a distanza. Falcón avvertì alla bocca dello stomaco la stretta dell’amante che sta per sentirsi dire qualcosa con molta gentilezza. La condusse in cucina come se fossero due condannati a morte e quello fosse il loro ultimo pasto.

Mangiarono gamberetti e bevvero manzanilla mentre lui le spiegava come il caso Vega fosse ufficialmente chiuso. Poi si alzò per friggere i tranci di tonno, riscaldò lo sciroppo oloroso e lo versò sul pesce e quando fu di nuovo seduto a tavola, con la padella tra loro, non riuscì a resistere oltre.

«Ti sei già stancata di me», disse, servendole la fetta di tonno.

«Precisamente il contrario», ribatté lei.

«Oppure si tratta del mio mestiere? So che sei venuta qui per dirmi qualcosa, ho una certa esperienza in materia.»

«Hai ragione, ma non è che mi sono stancata di te.»

«È per via di quello che è successo domenica? Posso capirlo. So quanto tieni ai tuoi figli. Sono stato…»

«Ho imparato a sapere ciò che voglio, Javier», disse Consuelo, scotendo la testa. «Mi ci è voluta una vita, ma ho imparato questa preziosa lezione.»

«Non tutti ci riescono», osservò Falcón, servendosi del tonno, che ora appariva insulso nel suo piatto.

«Un tempo ero romantica. Stai parlando con una donna che si era innamorata di un duca, ricordi? Anche quando sono venuta a vivere qui ho continuato a coltivare certe illusioni sentimentali, ma dopo che sono nati i miei figli mi sono resa conto che non avevo più bisogno di prendermi in giro. Mi hanno dato tutto l’amore, l’amore vero e incondizionato di cui avevo bisogno e che ho ricambiato doppiamente. Ho avuto una relazione per soddisfare certe esigenze fisiche, tu lo hai conosciuto quell’idiota di Basilio Lucena e hai capito di che genere fosse il nostro rapporto. Non si trattava di amore, era molto meno complicato e più gestibile dell’amore.»

«Non hai bisogno di farlo con delicatezza», la interruppe Falcón, «basta che tu mi dica: ‘Non voglio farlo più’.»

«Per la prima volta nella mia vita sono assolutamente sincera con un uomo», gli disse Consuelo, guardandolo dritto negli occhi.

«Quello che stava avvenendo tra noi mi sembrava una bella cosa, una cosa giusta», riprese Falcón, con l’emozione che gli stringeva la gola. «Per la prima volta nella mia vita, mi sono sentito assolutamente al posto giusto.»

«È una bella cosa, ma non è ciò che voglio ora.»

«Vuoi dedicarti ai tuoi figli?»

«In parte è così. Il resto riguarda me. Tra noi per adesso va bene, ma cambierà e io non voglio l’intensità dei sentimenti, le complicazioni, le responsabilità… Ma soprattutto, e questo è il mio fallimento, non voglio essere messa tutti i giorni a confronto con la mia debolezza.»

«La tua debolezza?»

«Ho dei lati deboli, nessuno se ne accorge, ma li ho. E questa è la mia debolezza più grande. Tu sai tutto di me, perché la nostra relazione è cominciata nell’atmosfera terribile di un’indagine per omicidio. Ma non sai questo: sono perdutamente innamorata e non posso sopportarlo.»

«Come fai a saperlo, se per ora hai avuto soltanto l’illusione dell’amore?»

«Perché è già così.»

Consuelo si alzò, la pietanza intatta sul piatto, la salsa rappresa. Girò intorno al tavolo, Falcón cercò di dire qualcosa, voleva convincerla, ma Consuelo gli chiuse le labbra con un dito, gli prese la faccia tra le mani, gli accarezzò i capelli e lo baciò. Falcón sentì le sue lacrime. Poi Consuelo si scostò, gli strinse la spalla una volta e uscì.

La porta sbatté. Falcón fissò il piatto. Non avrebbe potuto mandare giù nulla che potesse aggirare il macigno che gli stava crescendo in gola. Gettò il tonno nel bidone della spazzatura, fissò la chiazza scura rimasta nel piatto e lo scagliò contro la parete.

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