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Martedì 30 luglio 2002


Il caldo era brutale anche lontano dalla città che se ne stava accovacciata nella foschia alle spalle di Falcón, come una bestia feroce nel suo fetore, ma la vastità della piana ondulata davanti a lui, l’ondeggiare dell’erba secca, le colline in lontananza, lo facevano sentire libero dall’infelicità del suo corpo. La temperatura calava man mano che l’auto avanzava verso la sierra, pur non scendendo mai al di sotto di quella corporea, e il senso di liberazione per essere uscito dal cemento surriscaldato ed essere entrato sotto la volta alta e verde dei castagni gli causava un lieve delirio. Oppure la colpa era di Elton John che cantava «Benny and the Jets» alla radio?

Impossibile credere che qualcosa di terribile potesse avvenire là. Mentre la città attirava i poveri, i perduti, i depravati e i corrotti ai capezzoli straziati del suo ventre molle, la campagna sembrava intatta. Il fogliame inquieto degli alberi lasciava filtrare la luce, illuminando in un gioco di sole e ombra il ricordo puro di tempi meno caotici… ma poi Falcón lasciò la strada statale in direzione di Almonaster la Real.

L’odore di legna carbonizzata dei boschi distrutti dall’incendio lo investì prima ancora che scorgesse i ceppi anneriti e scorticati, gli alberi spogli con le nude braccia tese, sofferenti come ustionati. Il fuoco covava ancora nel sottobosco di carbone nero e grigio che sembrava ansimare dopo la devastazione che lo aveva consumato. Il cielo biancastro offriva un fondale spietato, quasi volesse far capire agli incerti che attraversavano quell’orrore monocromatico che quanto era accaduto era brutto come la guerra.

I poliziotti e i vigili del fuoco che incontrò nel bar di Almonaster avevano facce cupe; gli abitanti parevano traumatizzati e in preda alla disperazione, come sopravvissuti alle atrocità di una battaglia: sapevano cose che ancora Falcón non conosceva.

Fu accompagnato alla finca, parecchi chilometri fuori dall’abitato e isolata nei boschi. Una rozza strada sterrata lunga un chilometro permetteva di raggiungere la casa, ormai un guscio annerito senza tetto né finestre, che faceva pensare a un gigantesco cranio umano sfondato.

Tutto ciò che era di legno all’interno era stato consumato dalle fiamme, il piano superiore non esisteva più, bruciato o crollato sotto il peso del tetto caduto sulla soletta di cemento sottostante. Sul pavimento del pianterreno si accatastavano coppi di terracotta anneriti, travi e mobili bruciacchiati, materassi fumanti, televisori senza schermo e plastica fusa e indurita.

Gli fecero strada fino alla cantina, con tracce di incendio ma intatta, una cantina diversa da tutte quelle che Falcón avesse mai visto. Aveva quattro porte di metallo, due su ogni lato del piccolo corridoio, con chiavistelli all’esterno che potevano anche essere bloccati con un lucchetto. Nessuna delle stanze aveva finestre e tutte contenevano pagliericci e materassi bruciacchiati: celle di prigionia.

In una di queste celle, dalle pareti prive di intonaco, con le pietre visibili, qualcosa era stato scribacchiato sul sasso in un angolo accanto al letto in caratteri cirillici. Una placca di metallo smaltato giaceva rovesciata sul pavimento.

Lo riaccompagnarono al piano superiore e all’esterno, dove l’erba era stata bruciata lasciando un tratto brullo e scuro come il pelo di un cane malato. Al limitare di quel tratto, all’interno di quello che avrebbe dovuto essere un filare di alberi, due mucchi di terra.

«L’incendio che ha distrutto il bosco ci ha permesso di vedere questi due cumuli», spiegò il funzionario di polizia. «Abbiamo scavato per circa un metro e abbiamo trovato questi…»

Falcón guardò in basso e vide due scheletri semisommersi dalla terra scura.

«Non abbiamo voluto scavare di più fino all’arrivo di un medico legale, ma il dottore di qui li ha misurati e pensa che fossero un maschio e una femmina di dodici o tredici anni. Pensa che siano sepolti qui da otto mesi, forse da un anno, perché non c’è più traccia di tessuti.»

«Sapete qualcosa sull’uso a cui era destinata la casa?» domandò Falcón, sentendo il bisogno di sfogare in qualche modo la rabbia, che stava raggiungendo livelli incontrollabili.

«Veniva usata solo nei weekend e nemmeno in tutti, il venerdì e il sabato notte per lo più.»

«Ha mai conosciuto il proprietario?»

«L’Inspector Jefe Montes? Certamente. Veniva a salutarci, diceva di aver comprato la casa per farla ristrutturare da amici suoi e usarla quando andava a caccia.»

Tornarono alla finca e Falcón notò che erano stati installati impianti per l’aria condizionata al pianterreno e a quello superiore.

«Allora ci venivano anche d’estate?» domandò, indicando gli apparecchi anneriti.

«Non per andare a caccia, naturalmente», rispose l’uomo. «Tutto sommato a caccia andavano ben poco… non ci avevamo fatto caso, veramente e, dato che il proprietario era l’Inspector Jefe Montes, non abbiamo mai pensato a niente di…»

La voce del poliziotto si spense. «Illegale» gli era parsa una parola assolutamente inefficace per descrivere ciò che doveva essere avvenuto in quella casa degli orrori.

«Chiunque abbia appiccato il fuoco ha dovuto trasportare una grande quantità di benzina fino alla casa», fece notare Falcón. «Probabilmente ha usato taniche di plastica e ha avuto bisogno di un furgone. Può mettersi in contatto con tutti i distributori della zona e… be’, lei sa che cosa fare.»

Falcón chiamò Elvira per fare rapporto, poi chiese che Jorge e Felipe venissero lì con un cambio di abiti, perché certamente avrebbero dovuto trattenersi per la notte. Chiese anche che si telefonasse ai vari distributori di benzina dell’area di Siviglia, per cercare un furgone probabilmente con due persone a bordo che avessero fatto riempire una decina di taniche di plastica sabato sera tardi e molto presto la domenica mattina. Riattaccò e disse all’ufficiale di polizia di far sorvegliare la zona e isolarla. Nessuno avrebbe dovuto toccare niente fino all’arrivo della Scientifica. Controllò gli apparecchi dell’aria condizionata, senza trovare ciò che cercava. Chiese che fossero fatte venire alcune scale e un’auto venne mandata in paese. Falcón rimase fermo in piedi sul terreno annerito alimentando la sua furia con quella devastazione.

Tornò l’auto con le scale. Falcón le appoggiò contro il muro e si scoprì a pregare mentalmente. Con un sacchetto di plastica e un paio di pinze salì fino ai condizionatori, esaminandoli uno per uno. Sul terzo apparecchio scoprì quello che cercava, sfiorato dalle fiamme, ma ancora leggibile: l’adesivo della ditta che aveva installato i condizionatori, Aire Acondicionado Central de Sevilla. La ditta di Ignacio Ortega.

Prese un altro sacchetto e raccolse un po’ di terriccio davanti alla casa: si aspettava che fosse lo stesso trovato sulla vecchia Peugeot di Rafael Vega.

Ortega. Vega. Montes, pensò. E uno soltanto ancora in vita.


Ramírez aveva la voce annoiata quando rispose alla telefonata di Falcón sul cellulare. Erano migliaia le foto di Maddy Krugman, stampate e su disco, e l’incombenza non lo esaltava, ma la noia svaporò all’istante quando ebbe saputo le notizie sulla finca di Montes nelle vicinanze di Almonaster la Real.

«Ha controllato l’alibi di Ignacio Ortega?» gli domandò Falcón.

«Sì, ma era per la notte della morte di Vega.»

«Dove si trovava?»

«A letto con sua moglie, al mare.»

«Gli ho detto che Pablo era morto sabato sera, ma lui è tornato a Siviglia solo domenica mattina.»

«Posso chiedergli quali siano stati i suoi movimenti in quella settimana, se crede.»

«Non voglio metterlo sull’avviso.»

«Be’, se è stato lui a organizzare l’incendio, è già sull’avviso», ribatté Ramírez. «In quanti sanno che cosa è avvenuto alla finca di Montes?»

«A quest’ora lo saprà tutta Almonaster la Real. Voglio dire, non in dettaglio, ma sapranno che si tratta di qualcosa di criminoso, probabilmente sanno già dei cadaveri.»

«Perciò sarà tutto nei notiziari della sera.»

«Non abbiamo in mano abbastanza su di lui per collegarlo a quanto stava effettivamente accadendo alla finca di Montes, dobbiamo prima trovare chi ha appiccato il fuoco e forse così potremmo scoprire il collegamento», disse Falcón. «Lasci Cristina dai Krugman, lei torni alla Jefatura e metta in moto l’operazione, José Luis.»

Falcón scese di nuovo nello scantinato della casa e copiò la scritta in cirillico sulla parete, facendosi luce con una piccola pila tenuta tra i denti. Esaminando le quattro celle si rese conto che i materassi erano stati impregnati di benzina e dati alle fiamme, ma era mancato l’ossigeno per alimentare il fuoco.

Furono mandati altri uomini in paese a prendere grandi teli di plastica che vennero stesi sul terreno bruciato. Materassi e pagliericci furono numerati, trasportati all’aperto e stesi sui teli di plastica. Nel frattempo Falcón esaminò minuziosamente le pareti delle celle vuote.

Nella seconda notò una macchia scura sul pavimento: partiva dal muro sul fondo e arrivava fino al centro della cella. Staccò un pezzetto di cemento e lo mise nel sacchetto; nella quarta trovò una moneta da un euro dietro un frammento di malta. Mise nel sacchetto anche quella.

All’aperto cominciò a lavorare sui materassi, staccando il tessuto esterno e frugando nell’imbottitura. Il materasso della cella numero due conteneva una scheggia ricurva di vetro, frammento di un bicchiere da vino, ma nel materasso della cella numero tre era nascosto un vero tesoro: una lametta Gillette II usata, ancora con qualche pelo attaccato.

Alle tre del pomeriggio fecero una pausa per mangiare qualcosa. Felipe e Jorge erano arrivati ad Almonaster la Real e davanti alle costine di maiale, alle patate fritte e all’insalata Falcón disse loro di concentrarsi sull’interno della casa prima di riesumare gli scheletri.

«Metro quadrato per metro quadrato. Fotografate tutto. Cercate impronte dappertutto, anche su cose che sembrano completamente bruciate, tutti i televisori, i videoregistratori, i telecomandi. C’è molta plastica là dentro, potrebbe essere materiale video: vedete se riuscite a trovare un centimetro di nastro intatto. Cerchiamo anche oggetti personali, soldi, gioielli, indumenti. Qui ci veniva gente che forse ha perso qualcosa. Voglio setacciare tutto il terreno intorno alla casa, siate meticolosi, fate tutto quanto come da manuale. Nessuno, e intendo nessuno, che sia stato in questa casa e sia coinvolto in quello che accadeva qui, dovrà avere la benché minima possibilità di farla franca per colpa di una nostra negligenza tecnica.»

Intorno alla tavola si stabilì un’atmosfera di cupa determinazione. Furono fatte telefonate nelle vicine cittadine di Cortegana e Aracena per avere rinforzi e al loro ritorno alla finca trenta uomini erano lì ad aspettarli. Falcón ne mise ventisei a occuparsi dell’esterno e quattro ad aiutare Felipe e Jorge a trasportare il materiale fuori dalla casa.

Tutti i reperti vennero fotografati in situ, elencati in un quaderno con il numero della foto e messi in sacchetti. Qualsiasi oggetto di grandi dimensioni, con impronte evidenti, fu avvolto nella plastica. Falcón chiese a Elvira di tenere pronti due tecnici di laboratorio per ricevere il materiale e trattare gli elementi di prova.

Alle sette di sera il terreno era stato completamente setacciato, così come due terzi dell’interno della casa. Chiamò Ramírez.

«Ho trovato i suoi piromani», disse. «Sto mettendo insieme una squadra per andarli ad arrestare. Si trovano a Tres Mil Vivendas e non voglio che se la squaglino in quel piccolo buco d’inferno.»

«Ha lavorato in fretta, José Luis.»

«Sono stato fortunato. Ho calcolato che probabilmente avevano agito di notte, perciò ho cominciato con tutti i garage sulla strada per Aracena che rimangono aperti fino a tardi. Ho pensato che, pur non essendo stupidi, potevano però essere impigriti dal caldo. Mi sono detto che forse non avrebbero riempito le taniche nello stesso posto per non attirare l’attenzione, ma lo avrebbero fatto in vari distributori lungo la strada. In due garage ricordavano un furgone con due tizi che avevano riempito taniche di plastica, ma in nessuno di quei garage c’era la televisione a circuito chiuso. Sono partito da lì andando indietro finché non ho trovato un distributore con le telecamere e qui ho avuto fortuna. I tizi erano tornati due volte a riempire le taniche. Sono andato a vedere la registrazione. Tutti e due avevano il cappello in testa, perciò sapevano di poter essere ripresi e quindi non si vedevano, come non si vedeva il furgone perché lo avevano parcheggiato sull’altro lato delle pompe. Ma la seconda volta quel posto era occupato da un camion, perciò sono dovuti uscire allo scoperto tra la cassa e le pompe. Le telecamere inquadravano proprio quello spazio e il numero di targa è visibilissimo.»

«Ha i nomi?»

«Sì e hanno tutti e due precedenti penali per reati minori e furto con scasso. Uno si è anche beccato una condanna per aggressione, ma nessuno dei due è mai stato arrestato per incendio doloso.»

«Sto tornando con il primo carico di prove.»

Chiuse il cellulare che immediatamente suonò di nuovo. Alicia Aguado gli disse che avrebbe trovato un amico per farsi accompagnare al carcere per la seconda seduta con Sebastián Ortega.

Uno dei poliziotti di Aracena che aveva parenti a Siviglia si offrì di guidare il furgone con il materiale e Falcón poté così tornare in città da solo, a tutta velocità, come se stesse correndo verso una conclusione brillante. Durante il tragitto dovette accostare tre volte l’auto al ciglio della strada per rispondere alle telefonate.

La prima era di Cristina Ferrera: aveva esaminato tutte le foto di Maddy Krugman, a stampa e su disco, e ne aveva trovate due nelle quali Marty Krugman era in compagnia di uno sconosciuto diverso. In una era animato e parlava, nell’altra sembrava in attesa di qualcosa. In entrambe appariva sullo sfondo o su un lato dell’inquadratura. Quella in cui appariva sullo sfondo era sul computer e Cristina aveva dovuto ingrandire quella parte per avere la certezza che si trattasse di lui.

La seconda telefonata era di Ramírez, confermava l’arresto dei due incendiari e informava che stava perquisendo il loro appartamento.

La terza, di Elvira, arrivò mentre Falcón stava entrando in Siviglia. Il Comisario voleva vederlo non appena fosse arrivato alla Jefatura.

Falcón salì subito nell’ufficio di Elvira. La segretaria era già uscita e la porta dell’ufficio era aperta: il Comisario, seduto alla scrivania, fissava il vuoto con l’aria di chi avesse avuto una notizia terribile.

«Sta succedendo qualcosa», disse, indicando a Falcón la sedia.

«Qualsiasi cosa sia non sembra bella.»

«Pressioni politiche stanno arrivando da… poteri forti», disse Elvira. «L’articolo pubblicato stamani sul Diario de Sevilla. …»

«Qualche ora fa non mi era sembrato tanto preoccupato per quell’articolo.»

«Il lungo necrologio che lo accompagna è un pezzo scritto con grande abilità. Non si dà nessuna spiegazione del suicidio di Montes e non si avanza nessuna teoria, ma dopo aver letto l’articolo quelli che ‘sanno’ non hanno avuti dubbi sulle implicazioni, implicazioni gravi. C’è stata una reazione da parte di personaggi importanti dell’amministrazione comunale e del parlamento andaluso. Vogliono sapere quale sia lo stato di… casa nostra.»

Falcón fece per dire qualcosa, ma Elvira lo fermò.

«Ho appena ricevuto altri due rapporti, che potrebbero essere interpretati come sfortunati incidenti o come coincidenze sinistre. Il dottor Alfonso Martínez, deputato al parlamento regionale, è in rianimazione dopo che la sua auto è uscita di carreggiata sull’autostrada tra Jerez de la Frontiera e Cadice e si è schiantata contro un cavalcavia. E la moglie di Enrique Altozano ha trovato gli indumenti del marito sulla spiaggia tra Pedro de Alcántara e Estepona e ha avvertito la polizia. Stanno perlustrando la costa, ma senza risultato. Era il dirigente del settore urbanistico del comune di Siviglia, responsabile delle concessioni edilizie.»

Questa volta Falcón non tentò nemmeno di parlare.

«Gli uomini di potere sono come sciacalli nella prateria, fiutano l’odore degli scandali, lo avvertono a distanza di chilometri», continuò Elvira. «L’occupazione del politico è di mantenere il potere sempre. Non necessariamente vuole negare che sia successo qualcosa di sgradevole, ma vuole contenere lo scandalo, in modo che le istituzioni non si disintegrino del tutto.»

«Lei mi sta preparando a qualcosa, Comisario», disse Falcón. «Spero che non si tratti di una delusione nei riguardi di quelle istituzioni o delle persone che le fanno funzionare.»

«Le dico come stanno le cose, in modo che possiamo proseguire le indagini così da avere il massimo di condanne e il minimo di danni politici seri», spiegò Elvira. «Se facciamo vedere che vogliamo arrestare chiunque sia coinvolto, ci impediranno di farlo. Abbiamo l’esempio del nostro stesso governo. È stato così, ricorda, che Felipe Gonzáles è sopravvissuto allo scandalo delle squadre della morte.»

«Mi crede un fanatico?»

«Sarebbe comprensibile, visto quanto abbiamo saputo finora su questo caso sgradevole.»

«Vediamo se ho capito bene», disse Falcón. «Due uomini importanti sono stati uccisi o si sono suicidati e questo ha messo in allarme altra gente importante. Questo ha fatto capire alla Jefatura che, nel caso volessimo portare avanti le indagini fino alla conclusione logica, ci dovremmo aspettare un esame approfondito della nostra situazione interna. In altre parole, noi mostriamo la loro corruzione a tutti e loro mostrano a tutti la nostra.»

«Il Comisario Lobo ha detto che lei avrebbe compreso perfettamente.»

«Il nostro problema è che la condanna cruciale in questo caso è proprio quella che farebbe crollare l’intero castello di carte», proseguì Falcón. «Ora le dirò come penso siano andate le cose, Comisario. Ignacio Ortega, grazie ai suoi rapporti con i russi, ha sostituito Eduardo Carvajal nel procurare i minori al giro di pedofili, rapporti così stretti che i russi gli facevano avere i lavori senza nemmeno consultare Rafael Vega. Montes, già corrotto al tempo della morte di Eduardo Carvajal, è stato invischiato ancora di più a causa dell’acquisto nelle vicinanze di Almonaster la Real della finca che Ignacio Ortega ha contribuito a ristrutturare. Il risultato del coinvolgimento di Montes nella gestione della finca è stato che le autorità non si sono mai preoccupate di controllare a che uso fosse destinata la casa. Io sono quasi sicuro che Rafael Vega fosse un cliente. Eseguiremo alcune indagini che potrebbero confermarcelo. Mark Flowers ci ha dato un’indicazione sui gusti di Vega quando ci ha detto con quale soprannome fosse conosciuto al tempo del colpo di Stato in Cile. Questi due ultimi incidenti dei quali lei mi ha appena parlato potrebbero significare che Martinez e Altozano erano forse clienti del giro anche loro. Per mettere tutto a tacere dovremmo, teoricamente, neutralizzare i russi, ma non sappiamo come arrivare fino a loro. Poi c’è Ignacio Ortega, ma lui non è il tipo da andare a picco in silenzio. Esigerebbe dai suoi amici di essere salvato, minacciando di rovinare gli altri personaggi appartenenti alle preziose istituzioni alle quali lei accennava.»

«Non lasci trasparire nella voce tutta quella amarezza», raccomandò Elvira. «Capisco che si senta così, ma gli altri, fuori di qui, si limiterebbero a definirla un tipo ‘difficile’ e lei non otterrebbe mai quello che vuole. Che cosa abbiamo su Ortega?»

«Molto poco», ammise Falcón. «Ha avuto un comportamento poco chiaro nei riguardi della morte di suo fratello. Ho parlato con suo figlio Salvador, che fa uso di eroina, e ha rivelato come il padre avesse sistematicamente abusato di lui e del cugino, nonché di altri bambini loro amici. C’era uno scambio di favori nel campo dell’edilizia tra Ignacio Ortega, Vega e i russi. Come minimo Ortega aveva installato l’impianto di aria condizionata nella finca di Montes. L’Inspector Ramírez ha arrestato gli incendiari che hanno dato fuoco alla finca; speriamo che possano darci il modo di incriminare Ignacio Ortega perlomeno come complice in incendio doloso. Il passo successivo potrebbe essere più difficile.»

«Le accuse di violenza sessuale non hanno una grande speranza di essere credute, dati i problemi di droga del figlio. So che è sbagliato, ma così sarebbe vista la situazione.»

«In ogni caso ha detto che non avrebbe testimoniato contro il padre.»

«E Sebastián Ortega è stato condannato per un grave reato.»

«Noi speriamo di dimostrare che non l’ha commesso, ma non ci aiuterebbe comunque con Ortega. Ci serve tempo.»

«E va bene», concluse Elvira, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona, stanco ed esasperato. «Vedete se riuscite a scoprire un legame tra Ignacio Ortega e gli incendiari. Se c’è, dovremo programmare la nostra prossima mossa. E non ho bisogno di dirle che non deve accennare a nulla di tutto questo con Virgilio Guzmán.»

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