PROLOGO

Le tenebre stavano avanzando.

«Meglio rientrare.» Gared osservò i boschi attorno a loro farsi più oscuri. «I bruti sono morti.»

«Da quando hai paura dei morti?» C’era l’accenno di un sorriso sui lineamenti di ser Waymar Royce.

Gared non raccolse. Era un uomo in età, oltre i cinquanta, e di nobili ne aveva visti andare e venire molti. «Ciò che è morto resta morto» disse «e noi non dovremmo averci niente a che fare.»

«Che prova abbiamo che sono davvero morti?» chiese Royce a bassa voce.

«Will li ha visti. Come prova, a me basta.»

Will sapeva che prima o dopo l’avrebbero trascinato nella discussione. Aveva sperato che accadesse dopo, piuttosto che prima. «Mia madre diceva che i morti non parlano» s’intromise.

«Davvero, Will?» rispose Royce. «È la stessa cosa che mi diceva la mia balia. Mai credere a quello che si sente vicino alle tette di una donna. C’è sempre da imparare, perfino dai morti.»

La foresta piena d’ombre rimandò echi della voce di ser Waymar. Troppi echi, troppo forti e definiti.

«Ci aspetta una lunga cavalcata» insisté Gared. «Otto giorni, forse nove. E sta calando la notte.»

«Cala ogni giorno, quasi sempre a quest’ora.» Ser Waymar alzò uno sguardo privo d’interesse al cielo che imbruniva. «Qualche problema con il buio, Gared?»

Will vide le labbra di Gared stringersi e la rabbia repressa a stento invadere i suoi occhi, visibili sotto lo spesso cappuccio nero del mantello. Gared aveva passato quarant’anni nei Guardiani della notte, la maggior parte della sua vita di ragazzo, tutta la sua vita di uomo, e non era abituato a essere preso con leggerezza. Ma questa volta nel vecchio guerriero c’era qualcosa di più dell’orgoglio ferito. Una tensione nervosa che arrivava pericolosamente vicino alla paura.

Will la percepiva, la sentiva. Forse perché lui stesso aveva paura.

Era di guarnigione sulla Barriera da quattro anni. La prima volta che l’avevano mandato sull’altro lato tutte le antiche, sinistre storie gli erano tornate alla mente come una valanga. Aveva sentito le viscere attorcigliarsi e il sangue andare in acqua. In seguito ne aveva riso. Era un veterano adesso, con centinaia di pattugliamenti alle spalle. Per lui, non c’erano più terrori in agguato nella sterminata estensione verde scuro che quelli del Sud chiamavano la Foresta stregata.

O per lo meno, non c’erano stati terrori fino a quella notte. C’era qualcosa di diverso, quella notte, qualcosa che gli mandava brividi gelidi lungo la schiena: le tenebre, la loro densità. Erano fuori da nove giorni, e avevano cavalcato prima verso nord, poi verso nord-est, poi di nuovo verso nord, seguendo da vicino le tracce di una banda di bruti e allontanandosi sempre più dalla Barriera. Ogni giorno era stato peggiore del precedente.

E quel giorno era peggiore di tutti. Il vento gelido che soffiava da settentrione faceva oscillare e frusciare gli alberi della foresta come se fossero dotati di una loro vitalità interna. Per l’intera giornata Will non era stato in grado di scacciare la sensazione di essere osservato da occhi implacabili, paralizzanti, carichi d’odio. Anche Gared aveva avuto la stessa sensazione. E adesso Will aveva un’unica idea in mente: partire al galoppo sfrenato, tornare al più presto dietro la sicurezza della Barriera. Ma non era un’idea da condividere con il comandante.

Specialmente con un comandante come quello.

Ser Waymar Royce era il più giovane rampollo di un’antica casata con fin troppi eredi. Era bello: diciott’anni, occhi grigi, asciutto come la lama di un coltello. In sella al suo mastodontico destriero nero, torreggiava su Will e Gared, che montavano cavalli di taglia ben più piccola. Indossava stivali di cuoio nero, pantaloni di lana nera, guanti di camoscio nero, tunica nera, gilè di pelle nera, il tutto ricoperto da un ampio giaccone di lucida stoffa borchiata, nera anch’essa. Aveva prestato giuramento come confratello dei Guardiani della notte solamente sei mesi prima, ma non si poteva certo dire che non si fosse preparato per la sua nuova vocazione e per i doveri che lo aspettavano. Per lo meno quanto all’abbigliamento. Il tocco finale, il mantello, era la degna corona dell’intero addobbo: pelliccia d’ermellino nero, spessa e soffice come un peccato di lussuria. «Deve averli fatti fuori tutti lui, quegli animaletti» aveva commentato acidamente Gared, mentre si faceva un bicchiere di vino quando ancora erano alla guarnigione. «Di persona, a uno a uno, con una bella tirata di collo, il nostro prode guerriero.» Gli altri Guardiani seduti attorno al tavolo ci si erano fatti sopra una risata.

Non era facile prendere ordini da qualcuno oggetto di sghignazzate da osteria. Mentre tremava di freddo in sella al cavallo, Will non poté fare a meno di pensarci. L’opinione di Gared non doveva essere molto diversa.

«Il lord comandante Mormont ci aveva ordinato di trovare le loro tracce, e noi le abbiamo trovate» disse Gared. «Sono morti. Non ci daranno altri fastidi. Abbiamo un duro cammino di ritorno. Non mi va come si sta mettendo il tempo. Se comincia a nevicare, rientrare diventerà un’impresa. E la neve è ancora poca cosa. Ti sei mai trovato in una tempesta di ghiaccio, mio signore?»

Il giovane nobile parve non udirlo. Continuò a studiare le ombre incombenti con quel suo modo di fare a metà strada fra il distratto e l’annoiato. Will era uscito di pattuglia con ser Waymar abbastanza volte da aver capito che era meglio non disturbarlo quando faceva così.

«E sia, Will» decise il giovane. «Ripetimi quanto hai visto. Tutti i dettagli senza dimenticare niente.»

Prima di entrare nei Guardiani della notte, Will era stato cacciatore. In realtà, bracconiere. Le guardie a cavallo di lord Jason Mallister l’avevano colto nei boschi padronali attorno a Seagard mentre, con le mani insanguinate, scuoiava un cerbiatto, anche quello di Mallister. La scelta era stata semplice: o indossare gli abiti neri dei Guardiani o ritrovarsi con una mano mozzata. Nessuno era in grado di muoversi in silenzio nei boschi come lui, talento che la confraternita in nero non aveva tardato a scoprire.

«Il loro accampamento è due miglia più avanti» disse Will. «Oltre la cima di quella collina, vicino a un torrente. Mi sono avvicinato più che ho potuto. Erano in otto, tra uomini e donne. Niente bambini, o almeno io non ne ho visti. Avevano costruito un rifugio a ridosso delle rocce. La neve l’aveva ricoperto quasi tutto, ma era ancora distinguibile. Il fuoco non era acceso, i ceppi erano lì pronti, però. Nessun movimento. Sono rimasto a guardare per parecchio. Nessuno può giacere immobile nella neve così a lungo. Nessuno che sia ancora in vita.»

«Sangue ne hai visto?»

«Ecco… no» ammise Will.

«Armi?»

«Alcune spade, qualche arco. Uno degli uomini aveva un’ascia. Roba pesante, rozza, di ferro scuro. Era a terra accanto a lui, vicino alla sua mano destra.»

«Hai preso nota della posizione dei corpi?»

Will alzò le spalle. «Una coppia seduta presso una roccia, il resto a terra. Come se fossero morti.»

«Oppure addormentati» suggerì Royce.

«Morti» insisté Will. «Una delle donne era su un albero, parzialmente nascosta dai rami. Di guardia.» Ebbe un debole sorriso. «Sono stato bene attento a non farmi vedere.» Non riuscì a reprimere un tremito. «Nell’avvicinarmi, però, ho notato che nemmeno lei si muoveva.»

«Hai freddo?» chiese Royce.

«Un poco» mormorò Will. «È il vento, mio signore.»

Il giovane cavaliere, in sella al destriero nero che si agitava inquieto, si voltò verso il guerriero anziano della pattuglia. Alle loro spalle, le foglie irrigidite dal gelo continuavano a frusciare.

Ser Waymar chiese in tono colloquiale, sistemandosi l’ampia cappa d’ermellino: «Secondo te, Gared, che cosa ha ucciso quegli uomini?».

«Sarà stato il freddo.» La voce di Gared non era priva di una sfumatura ironica. «Un inverno, quando ero ragazzo, ho visto uomini congelati. E ne ho visti anche l’inverno precedente. Tutti parlano di manti di neve spessi quaranta piedi, del vento glaciale che soffia da nord, ma è il freddo il vero nemico. Ti scivola addosso più subdolo di Will. Cominci a tremare, a battere i denti, a pestare i piedi per terra, a sognare buon vino caldo speziato e falò che ardono. E il freddo che brucia. Nulla scotta come il freddo, ma non dura molto. Perché una volta che è dentro di te comincia a riempirti, finché non ti rimane più la forza per combatterlo. Ti siedi, ti addormenti. Molto più facile. Dicono che quando si avvicina la fine, non senti più niente, diventi debole, intontito, tutto comincia a svanire. Hai come l’impressione di sprofondare in un oceano di latte tiepido, pieno di una grande pace.»

«Quale eloquenza, Gared» rilevò ser Waymar. «Mai me la sarei aspettata da te.»

«Io l’ho avuto dentro di me il freddo, signore.» Gared abbassò lo spesso cappuccio del mantello scoprendo due moncherini deformi al posto delle orecchie. Ser Waymar non distolse lo sguardo. «Due orecchie, tre dita dei piedi, il mignolo della mano sinistra. E a me è andata bene. Mio fratello finì congelato durante il turno di guardia. Stava ancora sorridendo.»

Ser Waymar si strinse nelle spalle. «Dovresti andare in giro più coperto.»

Gared lo folgorò con lo sguardo. La rabbia trasformò le cicatrici attorno alle sue orecchie, là dove maestro Aemon era stato costretto a tagliare le parti congelate, in rossi sentieri di fiamma. «Vedremo quanto ti coprirai tu, signore, quando verrà l’inverno.» Gared s’incurvò nuovamente sulla sella, cupo e taciturno.

«Se Gared dice che il freddo…» cominciò Will.

«Hai fatto guardie la settimana passata, Will?»

«Sì, mio signore.» Non passava settimana senza che si ritrovasse in almeno una dozzina di maledetti turni. Cos’altro aveva in mente quello spocchioso damerino?

«E com’era la Barriera?»

«Umida.» Will corrugò la fronte. Ora intuiva dove voleva arrivare ser Waymar. «Quei bruti non potevano congelare. Non se la Barriera era umida. Non faceva abbastanza freddo.»

Royce annuì. «Proprio così. Abbiamo avuto alcune lievi gelate la settimana scorsa, più qualche spruzzata di neve qua e là. Ma certamente non un freddo tale da uccidere otto uomini adulti. Uomini vestiti di cuoio e pelli, i quali, lasciate che ve lo ricordi, avevano a disposizione un rifugio ed erano in grado di accendere fuochi.» Il giovane cavaliere ebbe un sorriso di superiorità. «Guidaci, Will. Voglio vedere io stesso quei corpi.»

Non c’era altro da fare se non obbedire. L’ordine era stato dato, e il giuramento li costringeva all’obbedienza.

Will passò in testa, il suo malridotto morello che avanzava cauto nel sottobosco. La notte prima era caduta altra neve e sotto l’ingannevole strato bianco c’erano pietre, radici, affossamenti, tutte insidie nascoste per chiunque non fosse stato sul chi vive. Ser Waymar veniva dietro di lui, le froge del grande destriero nero che si dilatavano con impazienza. Quel cavallo da guerra era inadatto alle esplorazioni nella foresta, ma chi avrebbe osato farglielo notare? Gared restò di retroguardia, mugugnando tra sé.

Il crepuscolo si fece più cupo. Il cielo privo di nubi assunse una sfumatura viola profondo, simile al colore di una vecchia contusione. Da quella tinta, scivolò nel nero. Le stelle fecero la loro comparsa. Sorse la mezzaluna. Will fu grato per quelle luci lontane.

«Possiamo andare più in fretta di così» disse ser Waymar quando la luna fu alta. «Ne sono certo.»

«Non con quel cavallo» ribatté Will. «A meno che, mio signore» la paura lo stava rendendo insolente «non voglia essere tu ad aprire la strada.»

Ser Waymar non si degnò di rispondere.

Da qualche parte, nel buio pesto della foresta, un lupo ululò.

Will fece fermare il cavallo vicino a un antico tronco contorto dal tempo e smontò.

«Perché ti fermi?» gli chiese ser Waymar.

«Meglio proseguire a piedi, mio signore. Il loro campo è appena dietro quella cresta.»

Royce si arrestò, pensieroso in volto, lo sguardo che esplorava lontano. Il vento freddo sussurrava tra gli alberi. La sua cappa d’ermellino si gonfiò come un’entità vivente.

«Qualcosa non va» disse Gared a voce bassissima.

«Davvero?» Il giovane cavaliere gli rivolse un sorriso beffardo.

«Non senti?» ribatté Gared. «Ascolta le tenebre.»

Will sentiva. Quattro anni nei Guardiani della notte, eppure non aveva mai avuto tanta paura. Cosa c’era là intorno?

«Vento. Alberi che si scuotono. Un lupo. Quale di questi suoni ti turba, Gared?»

Il vecchio guerriero non rispose. Royce smontò con eleganza e legò le redini del destriero a un ramo basso, a debita distanza dagli altri cavalli, poi sfoderò la spada lunga. Le pietre preziose incastonate nell’elsa scintillarono. I raggi della luna scivolarono sull’acciaio della lama. Era una splendida arma, forgiata al castello della sua nobile famiglia e, a giudicare dall’aspetto, da poco tempo. Will aveva i suoi dubbi che fosse mai stata usata in combattimento.

«Gli alberi sono molto fitti» avvertì Will. «La spada potrebbe impacciarti i movimenti, mio signore. Meglio il pugnale.»

«Se e quando avrò bisogno di un consiglio, Will, sarò io a chiedertelo» ribatté il giovane. «Gared, tu rimani qui, di guardia ai cavalli.»

«Ci serve un fuoco.» Gared smontò a sua volta. «Penserò io ad accenderlo.»

«Che sciocchezze vai dicendo, vecchio? Se in questa foresta ci sono dei nemici, un fuoco è proprio l’ultima cosa che ci serve.»

«Esistono nemici che le fiamme terranno lontani.» Gared non mollò. «Orsi, meta-lupi e… e altre cose.»

Le labbra di ser Waymar divennero una fessura. «Niente fuoco» ordinò.

Il cappuccio teneva in ombra gli occhi di Gared, ma a Will non sfuggì il lampo di ostilità che scintillò in essi mentre il vecchio guerriero fissava il giovane. Per un attimo, arrivò a temere che Gared mettesse mano alla spada. Quella spada era poco elegante, brutta da guardare, con l’impugnatura sbiadita dal sudore e il taglio scheggiato da tanti duri scontri. Ma se Gared l’avesse effettivamente sfoderata, Will non avrebbe scommesso mezzo soldo bucato sul collo di ser Waymar.

Gared alla fine abbassò gli occhi. «Niente fuòco» si arrese a denti stretti.

Royce interpretò la risposta come sottomissione e gli voltò le spalle. «Va’ avanti tu» ordinò a Will.

Will si fece strada nel fitto sottobosco e cominciò a risalire il pendio della bassa altura, tornando a dirigersi verso il punto d’osservazione che aveva trovato dietro un albero-sentinella. Sotto il fine manto di neve, il terreno era fangoso e molle, cosparso di radici affioranti e di pietre. Un terreno sul quale era fin troppo facile cadere. Will non faceva alcun rumore nel salire, ma dietro di sé continuava a udire i fruscii della foresta provocati dal passaggio del giovane nobile che lo seguiva, il debole tintinnare metallico del fodero della sua spada, imprecazioni soffocate ogni volta che gli aspri rami più bassi andavano a impigliarsi in quella lama troppo lucida, troppo lunga, e in quella splendida cappa d’ermellino.

Il grande albero-sentinella sorgeva quasi sulla sommità dell’altura, esattamente dove Will sapeva che sarebbe stato, con le ramificazioni inferiori a neppure un piede d’altezza dal suolo. Will strisciò sotto di esse, ventre nella neve e nel fango, osservando la radura sottostante, vuota.

Il suo cuore perse qualche battito. Per un lungo momento, non osò neppure respirare. Il chiarore della luna illuminava la radura, le ceneri del fuoco spento da tempo, il rifugio parzialmente coperto dalla neve, le rocce incombenti, lo stretto torrente semi-congelato. Ogni cosa era come Will l’aveva vista qualche ora prima.

Solo che adesso erano svaniti tutti quanti. Nessuna traccia dei corpi.

«Dei onnipotenti!» Qualcuno alle sue spalle. Una lama tagliò alcuni rami. Ser Waymar fu a sua volta sulla sommità della collina. Rimase immobile accanto all’albero-sentinella, la lunga spada in pugno, il manto d’ermellino che si gonfiava per un’improvvisa raffica di vento freddo. Era una sagoma nobile, quasi imponente, stagliata contro la luce delle stelle. Una sagoma ben visibile, mortalmente esposta.

«A terra!» La voce di Will era un sibilo. «Qualcosa non va!»

«Guarda laggiù Will.» Royce non si mosse, limitandosi a osservare la radura deserta e lasciandosi sfuggire una risata. «I tuoi morti hanno deciso di spostare l’accampamento da qualche altra parte.»

Will sentì la voce che gli si strozzava in gola. Andò alla ricerca di parole che forse nemmeno esistevano. Non era possibile. I suoi occhi tornarono sull’accampamento abbandonato, avanti e indietro. Si fermarono sull’ascia. La colossale bipenne da combattimento giaceva ancora dove lui l’aveva vista, immota. Un’arma così poderosa…

«In piedi Will» ordinò ser Waymar. «Non c’è nessuno, qui. E non voglio che tu ti nasconda dietro un cespuglio.»

Will obbedì con riluttanza.

Ser Waymar lo guardò dritto in faccia, senza nascondere la propria aperta disapprovazione. «Non ho alcuna intenzione di fare ritorno al Castello Nero portando con me un fallimento alla mia prima uscita di pattuglia. Noi troveremo questi uomini.» Gettò uno sguardo attorno. «Sull’albero. Forza, Will, sali. Cerca di individuare un altro fuoco.»

Will tornò a girarsi, senza parlare. Discutere non avrebbe avuto alcun senso. Il vento soffiava più forte, quasi a volerlo tagliare in due. Raggiunse l’albero-sentinella e cominciò ad arrampicarsi tra i rami di legno grigiastro. In breve, le sue mani furono viscide di resina. Venne inghiottito dal labirinto di snodi contorti, di aghi vegetali. La paura tornò a riempirgli le viscere come un pasto pesante da digerire. Sussurrò una preghiera agli dei senza nome dei boschi. Estrasse il coltello dal fodero e serrò la lama tra i denti per avere entrambe le mani libere e continuare la scalata. In qualche modo, il sapore del metallo gelido riuscì a dargli conforto.

Sotto di lui, la voce del giovane esclamò: «Chi va là?». Una voce improvvisamente piena d’incertezza nel dare l’intimazione. Will interruppe la faticosa salita. Rimase immobile ad ascoltare, a osservare.

Fu la foresta a rispondere a ser Waymar: il fruscio del fogliame, il gorgogliare dell’acqua gelida del torrente, il richiamo lontano di un gufo.

Gli Estranei non emettevano alcun suono.

Will percepì un movimento con la coda dell’occhio. Pallide ombre nel bosco. Girò il volto e colse una sagoma bianca nelle tenebre. Svanì in un soffio.

I rami dell’albero-sentinella si agitarono nel vento, strisciando gli uni contro gli altri come dita scheletriche. Will aprì la bocca per lanciare un avvertimento, ma la voce gli si congelò in gola. Forse si era sbagliato. Forse era stato solamente un uccello notturno, un riflesso sulla neve, uno scherzo del chiaro di luna. In fondo, che cosa esattamente credeva di aver visto?

«Will, dove sei?» chiamò ser Waymar rivolto verso l’alto. «Riesci a vedere niente?»

Royce ruotava lentamente su se stesso, di colpo guardingo, la spada in pugno. Anche lui doveva averli sentiti, nello stesso modo in cui li aveva sentiti Will. Sentire, certo. Ma niente da vedere. «Will! Rispondi! Perché fa così freddo?»

Faceva freddo. Un freddo improvviso, innaturale. Tremando, Will si aggrappò con maggior forza alla biforcazione, la faccia premuta contro il tronco dell’albero-sentinella, il sentore dolciastro, appiccicoso della resina sulla guancia.

Dalle tenebre della foresta emerse un’ombra che andò a fermarsi di fronte a ser Waymar. Una sagoma alta, scavata, dura come vecchie ossa, la pelle livida che pareva d’alabastro. Ogni volta che si muoveva, la sua armatura sembrava cambiare colore: un momento appariva candida come neve appena caduta, il momento dopo era nera come una caverna. Il tutto andava a mescolarsi, a compenetrarsi con lo sfondo grigio-verde degli alberi in un sinistro caleidoscopio che mutava a ogni passo, simile ai raggi della luna su acque agitate.

Will udì ser Royce esalare un lungo sibilo.

«Non avvicinarti oltre» intimò il giovane, la voce incrinata come quella di un ragazzino spaventato.

Si gettò dietro le spalle le falde della cappa d’ermellino liberando le braccia e preparandosi al duello, entrambe le mani strette attorno all’impugnatura della spada. Il vento aveva cessato di soffiare. L’aria era di ghiaccio.

L’Estraneo continuò ad avanzare senza rumore. Nella destra aveva una spada lunga, diversa da qualsiasi altra Will avesse mai visto. Nessun metallo noto all’uomo era stato usato per forgiare quella lama. No, nessun metallo, infatti: la lama era di cristallo. Pareva un’entità vivente, talmente sottile da svanire quando la si guardava di taglio. Emanava una luminescenza azzurra, un alone spettrale che si faceva indistinto ai bordi. E Will sapeva che quei bordi erano più affilati di quelli di qualsiasi rasoio.

«Vuoi danzare?» Ser Royce affrontò l’avversario con coraggio. «Allora danza con me.»

Sollevò la spada alta sopra la testa, pronto al duello. Le sue mani tremavano, forse per il peso dell’arma o forse per il freddo. Eppure, in quell’istante, Will non ebbe dubbi: ser Royce aveva cessato di essere un ragazzo ed era diventato un uomo, un vero guerriero dei Guardiani della notte.

L’Estraneo si fermò. Will vide i suoi occhi. Erano azzurri, di un azzurro molto più profondo e intenso di qualsiasi occhio umano, un azzurro in grado di ustionare come il morso del ghiaccio. Quegli occhi si soffermarono sulla lama della spada levata, sui freddi riflessi che la luce della luna traeva dall’acciaio. Per un breve istante, Will osò dare spazio alla speranza.

Nuove ombre emersero dalle ombre. Prima due… poi tre… poi quattro… cinque… Ser Waymar doveva aver percepito il freddo che arrivò assieme a esse, ma non le vide, non le udì. Will avrebbe dovuto gridare l’allarme, avvertire il suo signore. Era quello il suo dovere, anche a costo della vita. Tremò, si afferrò al tronco dell’albero-sentinella. E rimase in silenzio.

La pallida spada di cristallo si mosse, fendendo l’aria della notte.

Ser Waymar la intercettò con la sua spada d’acciaio. Non ci fu alcun impatto di metalli quando le lame cozzarono, solo una vibrazione acutissima, simile al lamento d’agonia di chissà quale animale, appena percettibile da orecchio umano. Ser Waymar bloccò un secondo fendente, un terzo, poi arretrò di un passo. Un altro vortice di colpi lo costrinse ad arretrare ancora di più.

Alla sua destra, alla sua sinistra, dietro di lui, tutt’attorno a lui, le ombre continuavano a osservare. Ombre pazienti e silenziose, senza volto, quasi senza forma definibile nelle loro armature mimetiche, caleidoscopiche contro le più profonde ombre della foresta. Continuarono a osservare. Nessuna di esse dava il benché minimo cenno di voler interferire.

Le spade tornarono a incrociarsi, a cozzare l’una contro l’altra, un fendente dopo l’altro, un affondo dopo l’altro, una parata dopo l’altra, fino a quando Will non fu costretto a coprirsi le orecchie. Quel sibilo angosciante generato dall’urto delle lame: non voleva più sentire, non voleva più udire.

Il respiro di ser Waymar si fece pesante per la fatica. Il suo fiato condensava in ritmiche nuvole biancastre nel chiaro di luna. La sua lama era coperta di ghiaccio. Quella dell’Estraneo continuava a scintillare di luminescenza azzurra.

E alla fine ser Waymar fu lento, troppo lento. La pallida lama di cristallo arrivò a mordere la cotta di maglia di ferro sotto il suo braccio. Il giovane urlò di dolore. Sangue gocciolò sugli snodi della maglia metallica, sangue che fumava nell’aria glaciale e sembrò rosso fuoco liquido quando cadde nella neve. Ser Waymar tastò il punto in cui era stato colpito. Quando ritirò la mano, le dita del suo guanto di camoscio erano fradice.

L’Estraneo disse qualcosa in un linguaggio sconosciuto a Will, la voce che pareva lo spezzarsi della crosta di un lago congelato mentre pronunciava parole di ignota derisione.

Ser Waymar ritrovò il proprio furore. «Per re Robert!» gridò.

Andò all’attacco con un urlo rabbioso, la lunga spada incrostata di ghiaccio impugnata a due mani, un attacco trasversale carico di tutta la sua forza. La parata dell’Estraneo fu un movimento pigro, quasi annoiato.

All’impatto, l’acciaio della lama di ser Waymar andò in mille pezzi.

Una specie di urlo riverberò per la foresta. La miriade di frammenti metallici che erano stati una lama splendidamente forgiata volò a disperdersi chissà dove, come una manciata di inutili schegge. Royce cadde in ginocchio gridando, gli occhi coperti dalle mani. Altro sangue gli ruscellava tra le dita.

Le ombre avanzarono tutte assieme, come rispondendo a qualche segnale, e si chiusero su di lui. In un silenzio da incubo, le loro spade si sollevarono. Poi calarono e calarono e calarono. Nient’altro che un freddo mattatoio. Le pallide lame di cristallo fecero a brandelli la maglia di ferro come se fosse stata seta. Di nuovo, Will chiuse gli occhi. Sotto di sé continuò a udire parole incomprensibili e risate taglienti, acuminate come stalattiti.


Più tardi, molto più tardi, trovò la forza di guardare. La cima dell’altura era vuota.

Rimase nascosto sull’albero, terrorizzato al punto che non osava respirare, mentre la luna percorreva il proprio cammino attraverso il cielo nero. Alla fine, con i muscoli intorpiditi e le dita intirizzite dal freddo, si decise a scendere.

Royce giaceva nella neve, faccia in sotto, un braccio disteso di lato. La spessa pelliccia di ermellino era squarciata in una dozzina di punti. Povero corpo non di un uomo ma di un ragazzo: adesso si vedeva bene. A qualche passo di distanza c’era quanto restava della sua spada, la punta ridotta a un moncone frastagliato, simile a un albero colpito in pieno dalla folgore. Will s’inginocchiò, gettò attorno a sé un’occhiata guardinga, quindi afferrò la spada. Così spezzata, sarebbe stata la prova necessaria. Gared avrebbe capito. E se non avesse capito lui, lord Mormont, il Vecchio orso, o maestro Aemon, di certo non avrebbero avuto dubbi. Gared… Era ancora là, assieme ai cavalli? Doveva andarsene di lì. Subito.

Will si raddrizzò.

Ser Royce si alzò in piedi, sovrastandolo. I suoi abiti eleganti erano ridotti a stracci insanguinati, il volto era devastato. Nell’occhio sinistro era conficcata una scheggia della sua spada distrutta.

L’occhio destro era spalancato. La pupilla era accesa da una fiamma di luce azzurra. In grado di vedere.

Le dita di colpo inerti di Will lasciarono cadere la spada spezzata. Chiuse gli occhi e cominciò a pregare. Mani lunghe, affusolate, eleganti, salirono ad accarezzargli il viso, poi si strinsero attorno alla sua gola. Erano coperte del più soffice camoscio e appiccicose di sangue, ma al tocco erano gelide come ghiaccio.

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