ARYA

Il gatto selvatico con un orecchio solo, nero come il carbone, arcuò la schiena e sibilò minacciosamente.

Arya avanzò lungo il vicolo tenendosi in equilibrio sulla parte anteriore dei piedi nudi, ascoltando il pulsare del proprio cuore, i respiri lenti, profondi. “Silenziosa come un’ombra, leggera come una piuma” si ripeteva. Il gatto la osservò venire avanti con occhi guardinghi.

Acchiappare gatti, era un compito duro. Aveva le mani coperte di graffi cicatrizzati a stento e tutt’e due le ginocchia spellate a causa del continuo ruzzolare sulle pietre del selciato. Sulle prime, perfino il grasso gattone delle cucine era stato capace di sfuggirle, ma Syrio Forel aveva continuato a spronarla, giorno e notte. E quando correva da lui con le mani sanguinanti, il suo commento era sempre lo stesso: «Così lenta? Va’ più in fretta, figliola. Sarà ben di peggio di qualche graffio che t’infliggeranno i tuoi nemici». Le medicava le ferite con il Fuoco di Myr, un unguento che bruciava al punto da costringerla a mordersi il labbro per non urlare. Dopo di che, la rimandava a caccia di gatti.

La Fortezza Rossa era piena di gatti: vecchi sornioni che si crogiolavano al sole, acchiappatopi dall’occhio freddo e dalla coda ondeggiante, gattini dalle unghie più affilate di lame, eleganti gatti da compagnia tutti pettinati e fiduciosi, spelacchiate ombre da immondizia. Uno dopo l’altro, Arya li aveva presi e li aveva tutti orgogliosamente portati a Syrio Forel. Tutti tranne uno: il diavolo nero con un orecchio solo. «È lui il vero re del castello» le aveva detto uno degli armigeri dalle cappe dorate. «Più vecchio del peccato e due volte più cattivo. Un giorno, il re era a un banchetto assieme al padre della regina. E quel fetente è saltato dritto sul tavolo e ha strappato un’intera quaglia arrosto dalle dita di lord Tywin. Robert ha riso da scoppiare. Meglio che tu ti tenga alla larga da quello, ragazzina.»

Ma Arya l’aveva inseguito per metà del castello: due volte attorno alla torre del Primo Cavaliere, lungo il ponte coperto interno, attraverso tutte le stalle, giù per le scale a chiocciola, oltre la cucina piccola, l’aia dei maiali e il cortile delle guardie, fino alla base delle mura sul fiume, su per altre scale a chiocciola, avanti e indietro sul Cammino dei traditori, giù fino al grande portale, dentro e fuori tutta una serie di strane strutture. E adesso Arya non aveva più la minima idea di dove fosse finita.

Ma per lo meno, il bastardo nero era in trappola. Alte mura da ogni lato, una massa di pietra priva di finestre davanti. “Silenziosa come un’ombra” si ripeté. “Leggera come una piuma.”

Li separavano tre passi quando il gatto schizzò via, prima a sinistra, poi di colpo a destra. Arya andò a destra, deviò a sinistra, gli tagliò la via di fuga. Il felino soffiò nuovamente e cercò di infilarsi fra le sue gambe. “Veloce come una vipera” pensò Arya. Le sue mani si serrarono attorno a lui. Tenne l’animale stretto al petto e girò su se stessa ridendo mentre gli artigli le graffiavano il davanti del gilè di cuoio. Rapidissima, gli diede un bacio proprio tra gli occhi e arretrò appena prima che gli artigli sguainati trovassero la sua faccia. Il gatto soffiò e sputò.

«Ma che cosa fa a quel gatto?»

Arya lasciò cadere l’animale e si girò di scatto. In un batter d’occhio, il felino era svanito. C’era una bambina all’estremità opposta del vicolo cieco, una massa di riccioli biondi, un vestito di satin blu che la faceva apparire deliziosa come una bambolina. Accanto a lei stava un bambino biondo e grassottello, con un cervo in pieno salto ricamato sul farsetto e una piccola spada alla cintola.

“La principessa Myrcella e il principe Tommen” pensò Arya.

Alle spalle di entrambi incombeva una septa grande e grossa quanto un cavallo da tiro. E dietro tutti quanti, due imponenti armigeri che indossavano mantelli color oro e porpora: guardie di Casa Lannister.

«Cosa facevi a quel gatto, ragazzino?» chiese di nuovo Myrcella, in tono di rimprovero. Poi si rivolse al fratello. «È proprio un ragazzino cencioso» ridacchiò. «Guardalo.»

«Un ragazzino cencioso, sporco e puzzolente» concordò Tommen.

“Non mi riconoscono!” comprese Arya. “Non vedono nemmeno che sono una ragazza!” Sorprendente? Per nulla. Arya era scalza, sudicia, i capelli arruffati dopo la lunga corsa attraverso il castello, con indosso un giubbetto di pelle tutto graffiato e rozzi pantaloni marrone tagliati alla meglio all’altezza del ginocchio. Non si indossano gonne di seta per catturare gatti. Rapidamente, Arya chinò il capo e andò con un ginocchio a terra. Forse avrebbero continuato a non riconoscerla. In caso contrario… nemmeno voleva pensarci. Septa Mordane sarebbe stata terribilmente umiliata e Sansa non le avrebbe mai più rivolto la parola per la vergogna.

«Come sei arrivato fin qui, ragazzo?» La grossa septa fece un passo verso di lei. «Non dovresti trovarti in questa parte del castello.»

«Non si riesce a tenere questa feccia fuori dalle mura» commentò una delle mantelle porpora. «Sono peggio dei ratti.»

«A chi appartieni, ragazzo?» riprese la septa. «Rispondi. Cos’è, hai perso la lingua?»

Ad Arya, la voce si strozzò in gola. Se avesse aperto bocca, Tommen e Myrcella l’avrebbero immediatamente riconosciuta.

«Godwyn» ordinò la septa «portamelo qui.»

Il più alto dei due armigeri si avviò per il vicolo. Arya si sentì afferrare dal panico, una stretta invisibile che parve la presa di un gigante. Non sarebbe riuscita a parlare neppure se fosse stato l’unico modo per salvarsi la vita. “Calma come acqua stagnante” si disse. Godwyn allungò una mano per prenderla. Arya si mosse. “Veloce come una vipera.” S’inclinò verso sinistra, lasciando che le dita di lui le sfiorassero il braccio, e lo aggirò. “Liscia come seta.” La guardia cominciò a girarsi e lei era già in volata giù per il vicolo. “Rapida come un cervo.” La septa si mise a gridare. Arya s’infilò tra le sue gambe, bianche e robuste come colonne di marmo, tornò in piedi con un balzo e urtò frontalmente il principe Tommen mandandolo a sedere per terra. Guizzò attorno al secondo armato e fu fuori, correndo come il vento.

Alle proprie spalle udì passi affrettati, grida. Si raccolse su se stessa e rotolò sul selciato. Una cappa color porpora incespicò e la oltrepassò, lottando per stare in piedi. Arya tornò a saltare in piedi. Vide una finestra appena sopra di lei, alta e stretta, poco più di una feritoia per arcieri. Spiccò un salto, trovò un appiglio, si issò a forza di braccia. Espirò tutto il fiato che aveva dentro e si insinuò nella fenditura. “Guizzante come un’anguilla.” Atterrò ai piedi di una serva stupefatta, intenta a lavare il pavimento. Arya si diede un’inutile ripulita agli abiti e ripartì di corsa. Fuori della porta, via per un lungo corridoio, giù per una rampa di scale, oltre un cortile nascosto, dietro un angolo, al di là di un muro, dentro un’altra stretta finestra, fino a uno scantinato nero come la pece. Dietro di lei, i rumori si fecero sempre più remoti.

Arya era senza fiato e perduta chissà dove nelle viscere della Fortezza Rossa. Se era stata riconosciuta l’aspettavano guai grandiosi, ma era convinta di no. Si era mossa troppo velocemente. “Rapida come un cervo.”

Sedette sui talloni a ridosso del muro di pietra gocciolante umidità e tese le orecchie. Nessun altro suono oltre al pulsare del suo cuore e a un lontano stillicidio d’acqua. “Silenziosa come un’ombra” si disse. Ma dov’era finita? Al loro arrivo ad Approdo del Re, lei aveva avuto sogni paurosi, nei quali finiva con il perdersi nei meandri del castello. Suo padre le aveva detto che la Fortezza Rossa era più piccola di Grande Inverno, ma nei suoi sogni era immensa: un labirinto di pietra senza fine, con muri che parevano spostarsi e cambiare forma. Si ritrovava a vagare lungo corridoi oscuri, oltre vecchi arazzi sbiaditi, scendeva infinite scale a chiocciola, correva attraverso cortili, lungo ponti coperti. Gridava, ma non appariva mai nessuno. In alcune di quelle sale, le pietre parevano grondare sangue e in nessun posto c’erano finestre. A volte udiva la voce di suo padre, ma sempre flebile, lontana. Così lei correva e correva, cercando di raggiungerla, ma era inutile. Per quanto lei corresse, la voce si perdeva e infine svaniva. E Arya restava sola nelle tenebre.

Ora le tenebre la stavano realmente assediando. Raccolse le gambe contro il petto e si abbracciò le ginocchia rabbrividendo. Avrebbe aspettato con calma, contando fino a diecimila. E poi sarebbe riuscita a strisciare via e a ritrovare la strada per tornare indietro.

Quando arrivò a ottantasette i suoi occhi si erano abituati all’oscurità e la stanza le appariva più chiara, più definita. Forme mostruose la circondavano. Dalla penombra, enormi orbite vuote la stavano fissando con avidità, e sotto di esse balenavano lunghe zanne. Perse il conto. Chiuse gli occhi, si morse il labbro e allontanò la paura. “Calma come acqua stagnante.” Nel momento in cui avrebbe guardato di nuovo, i mostri sarebbero andati via. Perché non erano mai esistiti. “Forte come un orso.” Immaginò che Syrio Forel fosse lì con lei, nel buio, e che le sussurrasse all’orecchio. “Feroce come un furetto.” Riaprì gli occhi.

I mostri c’erano ancora, ma la paura era svanita.

Si alzò e cominciò a muoversi lentamente. Le teste la circondavano. Piena di curiosità, ne toccò una chiedendosi se era reale. Le sue dita sfiorarono una mandibola massiccia. Reale quanto bastava. Incontrò una delle zanne, nera, affilata, simile a una daga di pure tenebre. Ebbe un brivido.

«Sei morto» disse ad alta voce. «Sei solo un teschio, non puoi farmi del male.»

Non aveva senso, eppure le vestigia di quel mostro sembravano sapere che lei era là. Poteva percepire lo sguardo dei suoi occhi vuoti. E in quella stanza cavernosa, piena di oscurità, c’era qualcosa di malevolo. Arretrò e finì con la schiena contro un altro teschio, più grosso del primo. Per un istante, fu come se quelle zanne tentassero di morderla, di affondare nella sua spalla. Arya si girò di scatto. Il cuoio del suo giubbetto s’impigliò in una zanna e si strappò. Si mise nuovamente a correre. Un altro teschio, di fronte a lei, il più grosso di tutti. Arya non rallentò neppure. Spiccò un balzo proprio sopra una nera arcata dentaria; irta di zanne lunghe come spade, s’immerse in quelle cave fauci fameliche e si lanciò verso la porta.

Le sue mani trovarono un pesante anello metallico alloggiato in una nicchia nel legno. Tirò con tutte le sue forze. Per un momento la porta resistette, poi, lentamente, cominciò ad aprirsi verso l’interno con un cigolio così sonoro che Arya fu certa che l’avrebbero udito in tutta la città. Aprì la porta quel tanto che bastava per infilarcisi e sgusciò fuori.

La sala dei teschi mostruosi era buia, il corridoio al di là di quella porta era più tenebroso della più profonda fossa dei sette inferi. “Calma come acqua stagnante” si disse Arya, concedendo ai propri occhi un altro lungo momento per abituarsi all’oscurità. Non c’era niente da vedere, eccetto l’indistinta cornice grigia della porta che aveva appena varcato. Fece andare la mano avanti e indietro di fronte al viso. Percepì l’aria muoversi, ma non vide nulla. Era cieca.

“Un danzatore dell’acqua vede con tutti i sensi” rammentò a se stessa. Chiuse gli occhi, regolarizzò il respiro, si lasciò compenetrare dal silenzio. Ora poteva protendere le mani in avanti.

A sinistra, le sue dita incontrarono pietra scabra. Avanzò seguendo il muro, a piccoli passi nelle tenebre, la mano che ne sentiva la superficie. “Tutti i corridoi portano da qualche parte. Dovunque esista un’entrata, esiste anche un’uscita. La paura uccide più della spada.” Arya non avrebbe avuto paura. Continuò a camminare. Fu certa di aver camminato molto a lungo quando il muro finì di colpo e un’inattesa corrente d’aria fredda le sfiorò il viso, scompigliandole i capelli.

Da qualche parte più in basso le giunsero dei rumori. Suole di stivali contro la pietra, voci soffocate. Una debole luce baluginò contro le pareti e Arya si rese conto di trovarsi vicino all’imboccatura di un vasto pozzo buio, un cilindro di almeno venti piedi di diametro che pareva sprofondare senza fine nel ventre della terra. Grosse pietre erano state collocate a sbalzo nella parete ricurva, formando gradini che scendevano e scendevano, perdendosi in tenebre impenetrabili come quelle descritte dalla vecchia Nan nelle sue storie sulle discese agli inferi. E adesso, qualcosa stava uscendo da quelle tenebre, dalle viscere della terra…

Arya si protese oltre il bordo e il vento nero le soffiò gelido in faccia. Più in basso vide la luce di una torcia, piccola quanto la fiamma di una candela. E in quella luce, le ombre di due uomini, ombre distorte, gigantesche contro le pareti del pozzo. Poté udire gli echi delle loro voci rimbalzare contro la pietra.

«…riuscito a trovare uno dei bastardi» stava dicendo la prima voce. «Il resto non potrà tardare. Un giorno, due giorni, forse una settimana»

«E quando avrà scoperto la verità» disse una seconda voce con l’accento melodioso delle Città Libere «che cosa farà?»

«Lo sanno gli dei.» Arya riuscì a individuare l’esile filo di fumo generato dalla torcia, lo vide salire contorcendosi nella semioscurità come un serpente. «Gli idioti hanno cercato di assassinare suo figlio e, quel che è peggio, hanno trasformato l’attentato in una farsa da guitti. Lui non è uomo da dimenticare una cosa simile. Ti avverto: tra non molto, che ci piaccia o no, il lupo e il leone si azzanneranno alla gola.»

«Troppo presto, troppo presto» si lamentò la voce con l’accento delle Città Libere. «A che ci servirebbe una guerra adesso? Non siamo pronti. Devi ritardare gli eventi.»

«Tanto varrebbe chiedermi di fermare il tempo. Chi credi che io sia, uno stregone, forse?»

«Meglio di uno stregone» ridacchiò l’altro.

Le fiamme continuavano a torcersi nell’aria fredda. Le ombre distorte erano quasi alla fine della salita. Un momento dopo, l’uomo che reggeva la torcia le apparve di fronte, il suo accompagnatore al fianco. Arya indietreggiò strisciando e si appiattì comprimendo il proprio corpo contro la parete. Trattenne il fiato mentre i due uomini raggiungevano la cima della scala.

«Cosa vorresti che facessi?» chiese quello che portava la torcia, un uomo dalla corporatura massiccia, con una corta mantella di pelle sulle spalle. Calzava stivali pesanti, ma i suoi piedi parevano fluttuare senza rumore sul pavimento. Sotto l’elmo d’acciaio a calotta c’era una faccia rotonda, disseminata di cicatrici e scurita da una barba incolta. Portava una cotta di maglia di ferro sopra una tunica di cuoio e alla cintura aveva una spada corta e un pugnale. C’era qualcosa di famigliare in lui.

«Come è morto un Primo Cavaliere, può morirne un secondo» rispose l’uomo con l’accento delle Città Libere. Aveva una barba biforcuta di colore giallo. «E tu, amico mio, hai già partecipato a questa danza.» Arya non l’aveva mai visto prima, ne era certa. Era molto grasso, però pareva camminare con leggerezza, spingendo il proprio peso sulla parte anteriore dei piedi come avrebbe fatto un danzatore dell’acqua. Nel chiarore della torcia, i suoi anelli mandavano lampi: argento pallido e oro rosso, tempestati di rubini, zaffiri, occhi di tigre. Aveva un anello per dito, in qualcuno addirittura due.

«Quella volta non è questa» disse l’uomo sfregiato avanzando nel corridoio. «E questo Primo Cavaliere è ben diverso da quello che l’ha preceduto.»

“Immobile come la pietra.” Passarono a un palmo da lei. “Calma come acqua stagnante.” Abbacinati dalla fiamma della torcia non la videro, appiattita contro il muro, vicinissima.

«Forse no» replicò barba biforcuta fermandosi un momento a riprendere fiato al termine della lunga salita. «Ma dobbiamo comunque guadagnare tempo. La principessa aspetta un bambino. Il khal non si muoverà finché suo figlio non sarà nato. Tu sai come sono fatti questi barbari.»

L’uomo con la torcia premette qualcosa. Arya udì un brontolio profondo. Un’enorme lastra di pietra, rossa nella luce della fiamma, calò dal soffitto con un boato tale che per poco non le strappò un urlo. E adesso, l’entrata al pozzo che conduceva fino alle viscere della terra era scomparsa. Al suo posto, non rimaneva altro che un impenetrabile pavimento di roccia.

«Ma se il khal non si muove in fretta, potrebbe essere troppo tardi» riprese lo sfregiato. «Questa non è più una partita a due, se mai lo è stata. Stannis Baratheon e Lysa Arryn sono fuggiti dove non posso raggiungerli, e si sussurra che entrambi stiano radunando spade. Il Cavaliere di fiori invia messaggi ad Alto Giardino, facendo urgenza al lord suo padre d’inviare sua sorella a corte. Una fanciulla di quattordici anni, bella, dolce e docile. Lord Renly e ser Loras parlano di darla in sposa a re Robert, di fare di lei la nuova regina… E Ditocorto… solo gli dei sanno a quale gioco sta giocando. Ma è lord Stark quello che turba i miei sonni. Ha trovato il bastardo, ha trovato il libro e non gli ci vorrà molto per trovare la verità. E ora, grazie agli intrighi di Ditocorto, sua moglie ha preso prigioniero Tyrion Lannister. Lord Tywin vedrà questo come un oltraggio, e lo Sterminatore di re prova un distorto amore nei confronti del Folletto. Se i Lannister avanzano sul Nord, i Tully verranno trascinati nella mischia. Tu dici: ritarda gli eventi. Io rispondo: accelera gli eventi. Neppure il re dei giocolieri può riuscire a tenere cento palle in aria per sempre.»

«Tu sei ben più di un giocoliere, amico mio. Tu sei un autentico stregone. Tutto quello che ti chiedo è di continuare a eseguire trucchi magici per un altro po’ di tempo.»

I due procedettero lungo il corridoio dal quale era venuta Arya e oltrepassarono la sala dei mostri.

«Farò ciò che potrò» replicò l’uomo con la torcia a bassa voce. «Mi serve altro oro. E altri cinquanta uccelletti.»

Arya diede loro un buon vantaggio, poi si mise a seguirli. “Silenziosa come un’ombra.”

«Così tanti?» Le voci erano più indistinte per la distanza, la fiamma della torcia ondeggiava nel buio. «Quelli che vuoi sono difficili da trovare… giovani, in grado di leggere e scrivere… forse più in età… non morire così facilmente…»

«No. Vanno meglio quelli giovani… trattali con gentilezza…»

«…tenere a freno la lingua…»

«…il rischio…»

Le voci si persero del tutto, ma Arya continuò a vedere la torcia, una stella fumigante che le indicava la via. Per due volte parve svanire nelle tenebre ma Arya non si fermò ed entrambe le volte si trovò in cima a rampe di scale ripide e strette, la torcia che baluginava più sotto. Seguì la luce, in basso, sempre più in basso. Una volta inciampò malamente su una pietra che sporgeva e picchiò contro un muro di nuda terra sostenuto da pali di legno; finora il tunnel era ricoperto di pietra.

Doveva avere strisciato dietro di loro per miglia. Adesso erano svaniti, ma le restava un’unica direzione: in avanti. A tentoni, ritrovò il muro e riprese a muoversi, cieca, perduta. Immaginò che Nymeria fosse al suo fianco nelle tenebre. Avanzò sul fondo ora allagato del tunnel, l’acqua putrida che le arrivava alle ginocchia. Avrebbe voluto saper danzare su di essa come sapeva fare Syrio. Si chiese se avrebbe mai rivisto la luce.


Riemerse sulla superficie della terra che era notte fonda. Era uscita dall’imboccatura di una cloaca che scaricava nel fiume delle Rapide nere. Aveva addosso un puzzo che toglieva il fiato, perciò si spogliò lì dove si trovava e si tuffò nella corrente scura. Nuotò avanti e indietro finché non si sentì pulita, tornò a riva e si mise a risciacquare i vestiti intrisi di liquame, tremando di freddo. Passarono alcuni cavalieri, ma non degnarono di un’occhiata quella ragazzina nuda e magra che lavava stracci nel fiume al chiarore della luna.

Era a miglia di distanza dal castello, ma non aveva importanza. Non c’era nessun rischio di non riuscire a tornare indietro perché la Fortezza Rossa, dominando l’intera città dalla cima della collina di Aegon, era perfettamente visibile da qualsiasi punto di Approdo del Re. Arya arrivò al corpo di guardia che i suoi vestiti erano pressoché asciutti. La saracinesca del grande portale, era sbarrata, perciò andò al più piccolo accesso laterale. C’erano due guardie dai mantelli dorati a sorvegliarla, e sghignazzarono quando lei disse loro di lasciarla entrare. «Vattene» disse uno dei due. «I resti delle cucine sono finiti e non vogliamo mendicanti dopo il tramonto.»

«Non sono una mendicante. Io vivo qui.»

«Ho detto: vattene! O vuoi un corno per sordi per aiutarti a sentire meglio?»

«Voglio vedere mio padre.»

«Certo. E io voglio fottermi la regina» disse il soldato più giovane. «Chissà quanto ci divertiremmo.»

«Di’ un po’, ragazzino» fece quello più vecchio. «E chi sarebbe tuo padre, l’acchiappatopi del porto, forse?»

«Il Primo Cavaliere del re.»

Tutti e due le risero in faccia. Poi il più vecchio le allungò un manrovescio, il gesto distratto di chi cerca di allontanare un cane molesto. Arya vide arrivare il colpo ancora prima che la mano si muovesse. Danzò all’indietro, evitando di essere colpita. «Non sono un ragazzino!» Sputò loro addosso. «Sono Arya Stark di Grande Inverno. Provate a toccarmi anche solo con un dito, e mio padre avrà le vostre teste su una picca. Non mi credete? Allora chiamate Jory Cassel oppure Vayon Poole, dalla torre del Primo Cavaliere.» Si piazzò le mani sui fianchi. «Allora, vi decidete ad aprirla, questa porta, o volete un corno per sordi per aiutarvi a sentire meglio?»


Furono Tom il Grasso e Harwin a portarla su. Suo padre era solo nel solarium, chino su un libro al caldo chiarore di una lanterna a olio. Era il libro più imponente che Arya avesse mai visto, rilegato in cuoio antico, le pagine ingiallite, fessurate, coperte di fitta scrittura. Lord Eddard lo chiuse, ascoltò il rapporto di Tom il Grasso, infine ringraziò le guardie e le congedò.

«Arya, ti rendi conto che ho mandato fuori metà dei miei uomini a cercarti? Septa Mordane era fuori di sé dalla paura. È ancora nel tempio, a pregare per il tuo ritorno. Quante volte ti ho detto che non devi mai uscire dalle porte del castello senza il mio permesso?»

«Non sono uscita dalle porte… Ecco, non intendevo farlo. Ero nel torrione, ma poi sono finita in quel tunnel. Era tutto buio. Non avevo una torcia, non avevo niente per fare luce. Così sono andata avanti a tentoni. Solo che poi, non ho più potuto tornare per la stessa strada per colpa dei mostri… Padre, parlavano di ucciderti! Voglio dire, non i mostri: due uomini. Loro non mi hanno vista. Io stavo immobile come una roccia e silenziosa come un’ombra, però li ho uditi. Hanno detto che tu avevi un libro e un bastardo. Hanno detto che se un Primo Cavaliere era morto, poteva morirne anche un altro. È quello il libro? E il bastardo è Jon, non è così?»

«Jon? Arya, di che cosa stai parlando? Chi ha detto tutto questo?»

«Ma loro! Uno era grasso con la barba gialla biforcuta e tanti anelli a ogni dito e quell’altro portava una maglia di ferro e un mezzo elmo d’acciaio, e il grasso ha detto di ritardare, ma quell’altro gli ha detto di non poter continuare a fare il giocoliere e che il lupo e il leone si sarebbero sbranati uno con l’altro e che era venuta fuori una farsa da guitti.» Fece uno sforzo per ricordare il resto, ma non aveva capito bene quello che aveva udito e adesso nella sua testa sembrava essersi ammucchiato tutto quanto. «Il ciccione ha detto che la principessa aspetta un bambino. Quello con l’elmo d’acciaio, che aveva una torcia, ha detto che dovevano sbrigarsi. Credo che fosse un mago.»

«Un mago.» Ned Stark non stava sorridendo. «E aveva anche una lunga barba bianca e un cappello a punta con sopra tante stelle?»

«No, padre! No! Non era affatto come nelle storie della vecchia Nan. Non aveva l’aspetto di un mago, ma il grasso ha detto che lo era.»

«Arya, ti avverto: se stai inventando tutto…»

«No! Te l’ho detto! È stato nei sotterranei del torrione, in un posto dove c’è un passaggio segreto. Stavo dando la caccia ai gatti e allora…» Si morse la lingua: se avesse ammesso di aver mandato il principe Tommen a gambe levate, suo padre si sarebbe arrabbiato sul serio. «Insomma, ho raggiunto la finestra. Ed è lì che ho trovato i mostri.»

«Mostri e maghi. Si direbbe, Arya, che hai avuto una notevole avventura. E due uomini parlavano di giocolieri e guitti?»

«Ecco… sì» ammise lei. «Però…»

«Erano guitti, Arya. In questo periodo, dev’esserci almeno una dozzina di carovane di teatranti ad Approdo del Re. Gente venuta a fare qualche soldo divertendo le folle del torneo. Non so che cosa ci facessero questi due nel castello, ma forse il re ha chiesto uno spettacolo.»

«No!» Lei scosse la testa con ostinazione. «Non erano guitti, padre!…»

«In ogni caso non dovresti andartene in giro a spiare le persone, Arya. Né sono entusiasta all’idea di mia figlia che insegue gatti randagi e dà la scalata a strane finestre. Cara, guarda come sei ridotta. Le braccia piene di graffi, i vestiti stracciati. Tutto questo è andato avanti abbastanza. Di’ a Syrio Forel che voglio parlare con lui…»

Un secco bussare lo interruppe. «Le mie scuse, lord Eddard.» Desmond aprì la porta di una fessura. «Un confratello dei Guardiani della notte chiede udienza. Dice che è urgente. Ho creduto volessi esserne informato, mio signore.»

«La mia porta è sempre aperta per i Guardiani della notte» rispose lui.

L’uomo che Desmond introdusse era brutto, storto, con una barbaccia ispida e gli abiti puzzolenti. Ciò nonostante il lord suo padre lo accolse con un abbraccio e gli chiese gentilmente il suo nome.

«Yoren, mio signore. Accetta le mie scuse per l’ora.» S’inchinò ad Arya. «E questo dev’essere un tuo figliolo, glielo vedo scritto in viso.»

«Sono una ragazza» disse Arya, esasperata. Ma se quel vecchio veniva dalla Barriera, doveva essere passato per Grande Inverno. «Li conosci, i miei fratelli?» gli chiese tutta eccitata. «Robb e Bran sono a Grande Inverno, Jon è sulla Barriera. Jon Snow, è anche lui nei Guardiani della notte, lo devi conoscere per forza, ha un meta-lupo albino con gli occhi rossi. E Jon l’hanno già fatto ranger? Sono Arya Stark.» Il vecchio in nero dagli abiti puzzolenti la osservava in modo strano, ma Arya proprio non riuscì a fermarsi. «Quando ritorni alla Barriera, porteresti a Jon una lettera che voglio scrivergli?» Quanto avrebbe voluto che Jon fosse lì con lei in quel momento! Lui avrebbe certo creduto alla sua avventura e al grassone con la barba biforcuta e al mago dall’elmo d’acciaio.

«Mia figlia spesso dimentica le buone maniere.» Un vago sorriso addolcì le parole di Eddard Stark. «Le mie scuse, Yoren. È stato mio fratello Benjen a mandarti?»

«Non è stato nessuno a mandarmi, mio signore, a parte il lord comandante Mormont. Sono qui a cercare uomini per la Barriera. Quando re Robert concederà udienza, mi inginocchierò e gli presenterò la nostra invocazione. Forse, nelle loro segrete, il re e il Primo Cavaliere hanno feccia della quale vogliono sbarazzarsi. Ma dici il vero nel supporre che Benjen Stark è la ragione per la quale stiamo parlando. Il suo sangue adesso è il sangue dei confratelli in nero. Lui è mio fratello come è tuo fratello. È in suo nome che sono qui. Ho cavalcato duro, per poco non ho ucciso il cavallo, ma gli altri me li sono lasciati alle spalle.»

«Quali altri?»

«I mercenari sono come rifiuti.» Yoren sputò a terra. «La locanda era piena di loro e io li ho visti sentire l’odore. Quello del sangue oppure quello dell’oro, alla fine il tanfo è lo stesso. Nessuno di loro viene ad Approdo del Re, però. Alcuni hanno galoppato verso Castel Granito, che non era lontano. Ormai lord Tywin deve aver saputo, su questo puoi contare.»

«Saputo cosa?» La fronte di lord Eddard era aggrottata.

«Qualcosa che va detta in privato.» Yoren lanciò un’occhiata ad Arya. «Con il tuo permesso, mio signore.»

«Come preferisci. Desmond, accompagna mia figlia nelle sue stanze.» Baciò Arya sulla fronte. «Finiremo domani la nostra conversazione.»

Arya restò impalata lì dov’era. «A Jon non è successo niente, vero?» chiese a Yoren. «E neanche a zio Ben, giusto?»

«Ebbene, di Stark, non so dire. Il ragazzo Snow stava bene quando me ne sono andato dalla Barriera. Non sono loro la mia preoccupazione.»

«Andiamo, mia lady.» Desmond prese Arya per mano. «Hai sentito cos’ha detto il lord tuo padre.»

Desmond non era Tom il Grasso. Con Tom, inventando una scusa, Arya sarebbe riuscita a soffermarsi fuori della porta per un altro po’, in modo da sentire che cos’altro Yoren aveva da dire. Ma Desmond era tutto d’un pezzo e non era facile imbrogliarlo. Arya non ebbe scelta se non andare con lui e farsi scortare verso le sue stanze.

«Desmond, quante guardie ha mio padre?»

«Qui ad Approdo del Re? Cinquanta.»

«Tu non permetteresti a nessuno di fargli del male, non è così?»

«Non temere, piccola lady» rise Desmond. «Lord Eddard è sorvegliato giorno e notte. Non corre alcun pericolo.»

«Però i Lannister hanno ben più di cinquanta uomini» osservò Arya.

«Vero. Ma un solo uomo del Nord ne vale dieci di queste spade del Sud, per cui puoi dormire sonni tranquilli.»

«E se a ucciderlo venisse mandato uno stregone?»

«Devi sapere, piccola lady, che gli stregoni crepano tali e quali a tutti gli altri uomini» Desmond sfoderò la spada lunga «una volta che gli hai tagliato la testa.»

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