CAPITOLO DECIMO

Tornò a riprendere la sua forma umana in un umido e piovoso giorno d’autunno. In piedi nel vento freddo, sbattendo le palpebre contro la pioggia che gli tempestava la faccia, cercò di rendersi conto di quanto tempo aveva trascorso in quel luogo. Grigio come una lama di coltello l’Ose scorreva accanto a lui; i picchi rocciosi intorno al Passo erano seminascosti da pesanti nuvole. Gli alberi circostanti continuavano ad aggrapparsi alla terra, occupati soltanto ad esistere. Gli comunicavano una sorta di pressione, invitante. La sua mente scivolò nelle loro dure cortecce alla ricerca di quel posto quieto intorno al quale s’indurivano gli anelli protettivi. Ma poi ricordò il vento scatenato, la montagna che si scuoteva sopra di lui, l’acqua che lo trascinava, e di nuovo aprì gli occhi alla pioggia. Riluttante strappò il legame che lo univa ancora alla terra, e si volse al Monte Erlenstar. Vide l’immensa cicatrice aperta sul versante, velata dalla nebbia, e lo scuro torrente d’acqua mineralizzata che ne sgorgava fuori per riversarsi nell’Ose.

A lungo restò con gli occhi fissi su di esso, rimettendo insieme i frammenti del tormentoso sogno che gli sembrava d’aver sognato. Quei particolari servirono a svegliarlo del tutto, e mentre la pioggia gli ruscellava addosso fu scosso da un tremito. Esplorò l’uggioso pomeriggio della zona con uno scandaglio mentale e scoprì che sul Passo non c’era anima viva, né cacciatori, né maghi, né cambiaforma. Lontano un corvo si lasciava portare a zonzo dalle raffiche di vento, e lui contattò la sua mente. Ma accorgendosi che quel volatile non conosceva il linguaggio degli uomini lo lasciò andare. Fra i picchi echeggiava soltanto la voce selvaggia del vento; gli alberi che oscillavano intorno a lui odoravano già d’inverno. Infine volse le spalle al Monte Erlenstar, e s’incamminò lungo l’Ose per seguirne il corso fino alle terre abitate.

Ma non aveva fatto che un passo quando si fermò di nuovo, fissando quelle acque che correvano via verso Isig e Osterland ed i porti mercantili nel settentrione del reame. La consapevolezza del suo stesso potere lo bloccava: nel reame non c’era alcun posto per un uomo che scatenava le leggi della terra e la furia del vento. Il fiume mormorava con voci che lui aveva già udito, parlando linguaggi che neppure i maghi potevano capire. Ripensò all’oscura e imperscrutabile entità di vento che era il Supremo, e che non gli aveva dato niente eccetto la vita.

— A che scopo? — mormorò. Fu tentato di urlare quella domanda alla faccia inespressiva del Monte Erlenstar, ma il vento si sarebbe limitato ad assorbire il suo grido. Fece un altro passo sulla riva verso Harte, dove Danan Isig gli avrebbe dato rifugio, calore e conforto. E tuttavia il Re non avrebbe potuto offrirgli delle risposte. Era intrappolato nel passato, nelle conseguenze di un’antica guerra che infine stava cominciando a comprendere. Il vago desiderio di esplorare meglio i suoi strani e imprevedibili poteri lo spaventò un poco. A lungo indugiò sulla riva del fiume, finché la nebbia sui picchi prese a scurirsi e il versante orientale del Monte Erlenstar divenne una parete d’ombra. Infine gli volse ancora le spalle, incamminandosi attraverso la nebbia fredda e la pioggia verso le montagne al confine delle desolazioni settentrionali.

Nell’attraversarle mantenne le sue sembianze, sebbene fra le cime più alte la pioggia talvolta si mutasse in grandine e le rocce fra cui s’arrampicava fossero di ghiaccio sotto le sue mani. Nei primi giorni mise a repentaglio la vita, anche se non se ne accorse né se ne curò. Si trovò a mangiare animali che non ricordava di aver cacciato, o a svegliarsi all’alba in qualche caverna asciutta senza sapere come c’era entrato. Pian piano, mentre capiva la sua scarsa inclinazione all’uso del potere, si dedicò di più al pensiero della sopravvivenza. Uccise delle capre selvatiche, le trascinò in una grotta e le spellò, nutrendosi della carne intanto che le pellicce si asciugavano. Affilò una costola, tagliò le pelli e per lacci usò strisce della sua tunica. Si confezionò un mantello col cappuccio, largo e peloso, e rafforzò gli stivali con fasce di pelliccia. Quando le suole furono pronte poté indossarli e camminare più speditamente, giù per i versanti settentrionali delle terre desolate.

In quei gelidi territori pioveva poco, ma in compenso tirava incessantemente un vento crudele, e le monotone piane erano coperte di ghiaccio che al tramonto s’arrossava come fuoco. Si spingeva avanti silenzioso e spettrale egli stesso, cacciando quand’era affamato, dormendo all’aperto e quasi inconscio del freddo, come se il suo corpo fosse diventato parte del vento che procedeva con lui. Un giorno s’accorse che non si stava più dirigendo a nord: aveva deviato a oriente e stava vagando senza meta verso il sole nascente. In distanza vide una lunga catena di colline sovrastata dai picchi grigio azzurri del Monte Fosco. Ma erano immagini così sfumate e lontane che non le riconobbe. Continuò a camminare nell’autunno inoltrato, senza udire mai altra voce che quella del vento. Una notte, seduto davanti al fuoco e a mala pena conscio delle raffiche che gli scompigliavano la pelliccia, abbassò gli occhi e vide nelle sue mani l’arpa stellata.

Non ricordava d’averla chiamata a sé. Vi tenne gli occhi sopra, guardando i riflessi della fiamma sulle corde ben tese. Dopo un poco ebbe un brivido, e la imbracciò. Mosse le dita a caso e ne trasse dei sussurri appena udibili, seguendo la rozza e selvaggia canzone del vento.

Non sentiva alcun impulso a muoversi da lì. Rimase dunque in quella zona isolata nella desolazione nordica, le cui uniche caratteristiche erano pochi ammassi di rocce, qualche stento cespuglio, e una spaccatura nel terreno indurito dove un ruscello faceva la sua breve comparsa per svanire poco più in là. Lasciava quel posto solo per cacciare e non ebbe mai difficoltà a trovare la strada del ritorno, quasi che a guidarlo fosse l’eco della sua arpa rimasto fra i macigni. Suonò l’arpa seguendo la musica del vento che soffiava dall’alba al tramonto, talvolta usando soltanto la corda più alta, poiché quella era la nota portata dal vento dell’est; e a volte facendole vibrare tutte, poiché la corda di basso tuonava con lo stesso ruggito del vento del nord. Talora, alzando lo sguardo, scopriva un gufo delle nevi intento ad ascoltarlo roteando in cerchio su di lui, o intercettava gli occhi stupiti di un falco. Ma col finire dell’autunno gli animali si fecero rari, poiché migravano verso le montagne in cerca di cibo e di riparo. Così egli restò solo con la sua arpa, uno strano e peloso animale la cui voce nasceva da ciò che teneva fra le mani. La sua sensibilità era sintonizzata sulle raffiche del vento, i suoi pensieri dormivano dello stesso sonno di quel territorio. Quanto a lungo fosse rimasto lì non avrebbe saputo dirlo. Finché una notte, alzando gli occhi dal fuoco disturbato dalle scintille che gli volavano in faccia, davanti a sé vide Raederle.

La giovane donna era abbigliata in ricchi indumenti di pelliccia argentea, e i lunghi capelli le sfuggivano dal cappuccio come filamenti di fiamma. Lui restò seduto a guardarla, le mani paralizzate sulle corde. Quando la ragazza s’inginocchiò accanto al fuoco poté vederle più chiaramente il volto; era pallida come la neve, stanca, sempre deliziosamente bella. Poi notò il tremito che la scuoteva con violenza. Lei si tolse i guanti, sporse le mani verso il fuoco e dalle dita emise un bagliore che lo fece ardere con più forza. Nella mente di Morgon si fece strada la consapevolezza del tempo trascorso dall’ultima volta che avevano parlato.

— Lungold — mormorò. La parola gli parve senza significato nella desolazione che lo circondava. Ma lei aveva viaggiato fin oltre i limiti del mondo per cercarlo. Si sporse a lato del fuoco e le accarezzò dolcemente una guancia. Lei lo fissò senza parlare e si sedette. Sollevò le ginocchia e le circondò col mantello per difendersi dal vento.

— Ho sentito la tua arpa — disse. Lui sfiorò le corde senza produrre suoni, ricordando il passato.

— Un giorno ti promisi che avrei suonato quest’arpa. — Aveva la voce arrugginita dal disuso. Si schiarì la gola, incuriosito. — Dove sei stata? So che mi hai seguito nell’entroterra, e che eri con me nel Monte Erlenstar. Poi sei svanita.

Lei lo fissò a lungo, tanto che si dovette chiedere se gli avrebbe risposto, poi disse: — Non io. Sei stato tu a svanire, dalla faccia del reame. — La sua voce si fece tremula. — I maghi ti stanno cercando dappertutto, e così hanno fatto i cambia… i cambiaforma. E anch’io. Credevo che tu fossi morto. Ma ecco che sei qui, a suonare l’arpa in un vento gelido come la morte, e sembra che tu non lo senta neppure.

Lui taceva. L’arpa che aveva suonato col vento gli parve d’un tratto fredda come il ghiaccio sotto le dita. La poggiò a terra al suo fianco. — Come hai fatto a trovarmi?

— Ti ho cercato. In ogni forma a cui riuscivo a pensare. Dapprima mi dissi che forse eri coi vesta. Allora sono andata da Har, e gli ho chiesto d’insegnarmi la forma-vesta. Ci ha provato, ma appena ha sfiorato la mia mente ha smesso, e ha detto che secondo lui era meglio non farlo. Così ho dovuto spiegargli tutto. Ha voluto che gli raccontassi ciò che era successo al Monte Erlenstar, e poi è stato d’accordo sul fatto che bisognava rintracciarti. Infine mi ha portata sul Monte Fosco, fra i branchi di vesta. Ed è stato mentre viaggiavo con loro che ho cominciato a sentire la tua arpa in un angolo della mente, quando spirava il vento… Morgon, se ho potuto trovarti io ci riusciranno anche altri. Ti sei isolato qui per imparare a suonar l’arpa? O solo per fuggire?

— Sono fuggito, semplicemente.

— Be’, stai… stai pensando di tornare indietro?

— A che scopo?

Lei non replicò. Il fuoco ondeggiava nel vento creando sul suo volto selvaggi riflessi rossastri. Allungò una mano a placare la fiamma, senza togliergli gli occhi dalla faccia. Ad un tratto si spostò al suo fianco e lo abbracciò strettamente, immergendo il viso nel suo rozzo mantello di pelliccia.

— Potrei imparare a vivere qui nel gelo, suppongo — sussurrò. — È una terra così fredda e spoglia, morta… ma i venti e la tua arpa mi terranno compagnia.

Lui chinò la testa. La strinse a sé e le tirò un po’ indietro il cappuccio, per poter poggiare una guancia contro la sua. Qualcosa, una spina di freddo o forse un palpito struggente di calore umano, gli toccò il cuore.

— Tu hai sentito le voci dei cambiaforma nel Monte Erlenstar — le mormorò all’orecchio. — Tu sai cosa sono. Conosco tutte le lingue. Sono i Signori della Terra, ancora in guerra contro il Supremo dopo migliaia di anni. E io sono l’esca per la loro trappola. Questo è il motivo per cui non mi hanno mai ucciso. Vogliono lui. Se lo distruggeranno, sarà distrutto anche il reame. E se non riusciranno a trovare me, forse non troveranno neppure lui. — Lei fece per parlare ma la voce di Morgon la interruppe, facendosi più dura e secca: — Tu sai ciò che ho fatto in quella montagna. Ero abbastanza irritato da uccidere, e ho preso la forma del vento per farlo. Non c’è posto nel reame per chi abbia un tale potere. Cosa potrei farmene io? Sono il Portatore di Stelle, sono una promessa fatta ai morti: combattere una guerra più antica del nome del reame. Sono nato con un potere che fa di me una creatura senza nome nella mia stessa terra… e con un mostruoso impulso a farne uso.

— E così sei venuto qui nelle desolazioni del nord, dove non hai alcuna ragione che ti spinga a usarlo.

— Sì.

Lei si passò una mano sotto il cappuccio, massaggiandosi le sopracciglia e gli zigomi arrossati dal freddo. — Morgon — disse sottovoce. — Credo che se tu trovassi un motivo per usarlo, lo useresti. Tu mi hai dato una ragione per usare il mio potere, a Lungold e nell’entroterra. Io ti amo, e mi batterò per te. Oppure starò qui seduta con te in questa terra morta finché la neve ci seppellirà. Se il bisogno dei sovrani, e di tutti quelli che ti amano, non basta a strapparti da qui, cos’altro potrà riuscirci? Che cos’è che ti ha tanto ferito, nel buio del Monte Erlenstar?

Lui non rispose subito. Il vento ruggiva nella notte, un caos di raffiche che sembravano convergere su quell’unico punto di luce. Non aveva volto, non aveva un linguaggio che lui potesse capire. Si guardò intorno, mormorando: — Il Supremo non può pronunciare il mio nome, non più di quanto possa farlo un macigno di granito. Lui e io siamo legati in qualche modo, ne sono certo. Per lui la mia vita ha un valore, ma non sa neppure quale sia. Io sono il Portatore di Stelle. Lui mi ha dato la vita. Ma nient’altro. Nessuna speranza, nessuna giustizia, nessuna compassione. Queste parole le usano solo gli uomini. Qui nella desolazione io non minaccio nessuno. Proteggo me stesso, tutelo il Supremo, e tengo il reame al riparo da un potere troppo pericoloso per essere adoperato.

— Il reame è già in pericolo. I sovrani hanno deposto la loro speranza in te molto più che nel Supremo. A te almeno possono parlare.

— Se io mi rassegnassi a essere l’arma che i cambiaforma potrebbero usare, neppure tu mi riconosceresti.

— Forse. Una volta mi hai dato un enigma, quando avevo paura del mio stesso potere. Quello su una donna di Herun chiamata Arya, che si portò in casa un animaletto nero, sconosciuto e spaventato. Non mi hai mai detto come andò a finire.

Lui sollevò la testa. — Arya morì di paura.

— E l’animale? Che creatura era?

— Nessuno lo seppe mai. Pianse per sette giorni e sette notti sulla tomba di lei, con una voce così piena di amore e di dolore che chi la udì non riuscì a dormire né a mangiare. E poi anch’esso morì.

Lei alzò gli occhi a fissarlo, a bocca aperta, e il suo sguardo fece ripensare a Morgon a una scena di un passato ormai morto: seduto nella sua cameretta a Caithnard, mentre studiava gli enigmi e si sentiva palpitare il cuore per la gioia o per la tristezza o per l’orrore alla loro inattesa conclusione. Aggiunse: — Questo non ha nulla a che fare con me.

— Suppongo di no. Tu dovresti saperlo.

Di nuovo lui tacque. Si spostò per farle poggiare la testa contro una spalla, e la cinse col braccio. — Sono stanco — disse, accarezzandole i capelli. — Ho risposto a troppi enigmi. I Signori della Terra cominciarono una guerra prima dell’inizio della nostra storia, una guerra che uccise i loro stessi bambini. Se potessi combatterli lo farei, per la salvezza del reame; ma credo che provocherei soltanto la mia morte e quella del Supremo. Così faccio l’unica cosa che per me ha un senso: niente.

A lungo lei restò senza rispondere. Giacque contro di lui quietamente, fissando il fuoco che le gettava ombre e luci sulla pelliccia argentea. Poi disse: — Morgon, c’è un altro enigma a cui forse dovrai rispondere. Hai strappato ogni potere a Ghisteslwchlohm, hai dato un nome ai cambiaforma, hai svegliato il Supremo dal suo silenzio. Ma c’è un’altra cosa a cui non hai dato un nome, ed essa non morirà… — La voce le si ruppe. D’improvviso lui avvertì il battito del suo cuore anche attraverso la pelliccia.

— Che cosa? — Il suo fu appena un sussurro, e lei forse non lo udì ma gli rispose ugualmente:

— A Lungold, nella forma-corvo, parlai con Yrth. Allora io non sapevo che fosse cieco. Andai a Isig a cercarti e lo trovai là. I suoi occhi hanno il colore della luce riflessa nell’acqua. Mi disse che Ghisteslwchlohm lo aveva accecato durante la distruzione di Lungold. Io gli credetti e non domandai nulla. È un uomo alto e anziano, gentile. Il nipote di Danan Isig lo seguì per tutta la montagna quando uscì a cercare te fra le rocce e gli alberi. Una sera, Bere gli portò un’arpa che aveva costruito nell’officina e gli chiese di suonarla. Yrth rise, e disse che una volta era stato conosciuto come l’arpista di Lungold, ma che non toccava un’arpa da sette secoli. Tuttavia la suonò… e, Morgon, io riconobbi quel modo di suonare. Era lo stesso goffo e incerto arpeggiare che tu udisti sulla Strada dei Mercanti, e che ti condusse nelle mani di Ghisteslwchlohm.

Lui le sollevò il mento con una mano. D’un tratto sentiva il freddo del vento penetrargli fin nelle ossa. — Che stai dicendo?

— Non lo so. Ma quanti arpisti ciechi che non riescono più a suonare possono esserci al mondo?

Morgon respirò a fondo il vento. Se lo sentì scendere nei polmoni come ghiaccio liquido. — Lui è morto!

— E allora ti sta sfidando dalla tomba. Quella sera Yrth suonò l’arpa davanti a me perché io ti portassi questo enigma, dovunque tu fossi.

— Ne sei certa?

— No. Ma so che voleva che ti trovassi. E che se era lui l’arpista che si faceva chiamare Deth che viaggiò con te sulla Strada dei Mercanti, allora ha creato questi enigmi così segretamente, e con tale abilità, da ingannare perfino Ghisteslwchlohm. Perfino te… il Maestro degli Enigmi di Hed. Penso che tu dovresti scoprire chi è. Perché lui sta giocando la sua silenziosa e mortale partita personale, e potrebbe essere l’unico in questo reame a sapere esattamente cosa sta facendo.

— In nome di Hel, chi è? — Un brivido lo scosse. — Deth prese il Nero dei Maestri a Caithnard. Era un Maestro degli Enigmi. Conosceva il mio nome ancor prima di me. Una volta sospettavo che fosse un mago di Lungold, e glielo domandai apertamente.

— Che cosa ti rispose?

— Disse di essere l’arpista del Supremo. Così gli chiesi che stava facendo a Isig al tempo in cui Yrth costruì la mia arpa, ben cento anni prima della sua data di nascita. Lui m’invitò a dargli fiducia. Al di là della ragione, al di là della logica, al di là della speranza. E poi mi tradì. — La attrasse più vicina a sé, ma il vento ora tagliava come una lama. — È freddo. Non è mai stato tanto freddo come stanotte.

— Che pensi di fare?

— Quale può essere il suo scopo? Che sia un Maestro della Terra occupato a muovere le sue pedine in cerca del potere? Mi vuole vivo oppure morto? E vuole salvare o distruggere il Supremo?

— Io non lo so. Sei tu l’esperto di enigmi. Ti ha gettato una sfida. Rispondigli.

Nella mente di lui tornò il ricordo dell’arpista che sulla Strada dei Mercanti lo aveva attirato, senza una parola, col suo solo arpeggiare brancolante, nelle grinfie di Ghisteslwchlohm. Mormorò: — Mi conosce fin troppo bene. Credo che qualunque cosa voglia la otterrà. — Uno scossone lo gettò di lato, e nelle narici gli penetrò un odore di neve e di pelliccia. Per qualche attimo restò come stordito. E quando si volse vide che Raederle aveva improvvisamente cambiato forma: davanti a lui c’era un vesta femmina dalle grandi corna dorate, che lo fissava con occhi di porpora. Si alzò e le accarezzò il collo, il suo respiro caldo e umido gli alitò sul volto. Accigliato Morgon sfidò il quadrupede con lo sguardo. — E va bene! — esclamò, con un filo d’ironia. — Giocherò questa gara di enigmi con Deth. Da che parte si va per Isig?

Lei lo condusse a sud attraverso le terre desolate fino all’alba, e il giorno dopo fino al tramonto, quindi oltrepassò le colline e scese verso oriente, e all’alba del secondo giorno dopo la partenza Morgon vide l’immensa parete del Monte Isig coperta di abeti al di là dell’Ose. Giunsero alla dimora del Re al crepuscolo di un grigio e freddo giorno autunnale. Le cime dei monti erano già incappucciate di neve e i grandi abeti che circondavano Harte frusciavano al vento. Prima di entrare a Kyrth i due viaggiatori lasciarono la forma-vesta, e salirono a piedi sulla strada che s’inerpicava fino alla fortezza. La porta era chiusa e sorvegliata, ma i minatori, armati con larghe spade temprate nelle fonderie di Danan, li riconobbero e li lasciarono passare. Danan, Vert e mezza dozzina di bambini si alzarono dal tavolo della cena per accoglierli allorché li videro entrare. Danan, vestito in uno spesso abito di pelliccia, li strinse entrambi in un abbraccio da orso e mandò i bambini e i servi a preparare i loro alloggi. Ma quando s’accorse che erano sfiniti rivolse loro una sola domanda.

— Ero nel settentrione — disse Morgon. — Suonavo l’arpa. Raederle mi ha trovato. — Non si rese neppure conto di quanto suonasse strana la sua risposta. Aggiunse: — Prima ancora ero un albero, sulla riva dell’Ose. — E vide un sorriso nascere negli occhi del Re.

— Ricordi cosa ti dissi? — mormorò Danan. — Ti dissi che nessuno ti avrebbe trovato, in quella forma. — Li accompagnò alle scale della torre occidentale. — Avrei mille domande, ma sono un vecchio albero paziente e le farò aspettare fino a domattina. Yrth è alloggiato in questa stessa torre; accanto a lui sarete più al sicuro.

Nel salire le scale Morgon capì quale particolare l’aveva reso perplesso fin’allora. — Danan, non avevo mai visto sentinelle alla tua porta. I cambiaforma sono venuti qui a cercarmi?

Il Re strinse i pugni. — Sono venuti — disse cupamente. — E ho perduto un quarto dei miei minatori. Sarebbe andata anche peggio se Yrth non si fosse battuto al nostro fianco. — Morgon s’era fermato. Il Re gli mise una mano su una spalla e lo condusse avanti. — Abbiamo sofferto anche troppo a causa loro. Se soltanto sapessimo chi sono, cosa vogliono… — Intuendo qualcosa in Morgon lo fissò accigliato. — Tu lo sai!

Morgon non rispose e Danan non volle insistere, ma le rughe che gli segnavano il volto s’erano approfondite.

Li lasciò in una camera della torre i cui mobili, oltre al pavimento e alle pareti, erano tappezzati interamente in pelliccia. L’aria era fredda, ma Raederle accese il fuoco e quasi subito giunsero i servi con cibi caldi, vino, bracieri per il letto e ricchi indumenti invernali. Bere entrò con un paiolo colmo d’acqua fumante; mentre lo stava appendendo a un gancio nel camino si volse a sorridere a Morgon, e i suoi occhi erano pieni di domande, ma fece lo sforzo di tenersele dentro. Morgon si lavò dalla polvere che il vento impetuoso del nord gli aveva fatto penetrare nella pelle, indossò una pesante tunica ricamata e un paio di pantofole. Ripulito, con lo stomaco pieno, sedette nel velluto di una poltrona davanti al focolare e ripensò con stupore al suo comportamento degli ultimi mesi.

— Io ti ho lasciata — disse a Raederle. — Posso capire il perché di tutto il resto, ma non di questo. Mi sono allontanato dal mondo, e anche da te…

— Eri stanco — mormorò lei, insonnolita. — L’hai detto tu stesso. Forse avevi soltanto bisogno di riflettere. — S’era distesa su una spessa pelliccia accanto a lui, e scaldata dal vino e dal fuoco si stava addormentando pigramente. — O forse desideravi un posto dove cominciare a suonare l’arpa…

La sua voce si spense in uno sbadiglio, e un attimo dopo il sonno le chiuse gli occhi. Lui le stese sopra un paio di coperte, poi restò seduto a guardare le luci e le ombre danzare sul suo volto stanco. Le raffiche di vento si rompevano contro le mura della torre frusciando come le onde del mare. Dentro di esse vibrava l’eco di una nota che tormentava i suoi ricordi. Con un gesto automatico fece materializzare l’arpa, ma poi rifletté che non avrebbe potuto suonare quella nota nella dimora del Re senza disturbarne la fragile pace.

Suonò leggermente le altre corde, frammenti di ballate che sentiva vagare nei brontolii confusi del vento. Poco più tardi le sue dita si arrestarono su una nota. Restò seduto e la fece vibrare a lungo, senza suono, mentre nelle fiamme del caminetto una faccia appariva e svaniva ripetutamente. Infine depose l’arpa e tese gli orecchi. La grande dimora era silenziosa in quell’ala, e le sole voci che captò attraverso i muri erano lontane. In punta di piedi girò intorno a Raederle, rese inconscie della sua presenza le guardie armate di servizio sulle scale e uscì. Al piano di sopra l’appartamento era chiuso da una tenda di pelliccia bianca oltre la quale si scorgevano i vaghi bagliori di un caminetto acceso. La scostò cautamente e avanzò nella penombra del breve corridoio, fermandosi sulla soglia della camera.

Il mago stava sonnecchiando su una poltrona dinnanzi al fuoco, con la bianca testa china sul petto e le mani rugose aperte sulle ginocchia. Morgon lo trovò più alto di quel che ricordava, con spalle ampie che sotto la lunga tunica scura apparivano ossute e curve. Dopo qualche istante lo vide svegliarsi ed aprire occhi pieni di luce fissi nel niente. Si chinò con un sospiro, a tentoni trovò un pezzo di legno e con cura lo sistemò sulle braci, dopo aver saggiato con le dita sensibili la posizione del fuoco. Il ciocco cominciò a bruciare e illuminò il suo volto, duro come la corteccia di un albero pietrificata dall’età. D’un tratto dovette accorgersi che non era solo, perché s’irrigidì. Morgon avvertì il quasi impercettibile tocco della sua mente. Sbattendo le palpebre il mago rialzò la testa.

— Morgon? — La sua voce era sonora e profonda. Stranamente ricolma di cose nascoste, come quella di un pozzo. — Entra. O sei già entrato?

Dopo un momento Morgon si mosse. — Non volevo disturbarti.

Yrth scosse il capo. — Ho sentito la tua arpa, poco fa. Ma non mi aspettavo di parlarti fino a domattina. Danan mi ha detto che Raederle ti ha trovato nelle terre del nord. Ti inseguivano? È per questo che ti eri nascosto là?

— No. Andai in quella zona, semplicemente, e poi vi restai perché non vedevo alcun motivo di tornare indietro. Ma Raederle mi ha trovato e quel motivo me l’ha dato…

Il mago guardava nella direzione da cui proveniva la sua voce. — Tu sei un uomo sorprendente — disse. — Vuoi sederti un poco?

— Come sai che non sono seduto? — chiese Morgon, incuriosito.

— Riesco a vedere la sedia che hai davanti. Non senti il legame mentale? La sto guardando attraverso i tuoi occhi.

— L’ho sentito a malapena…

— Questo è perché non sono legato ai tuoi pensieri, ma soltanto agli occhi. Io ho viaggiato lungo la Strada dei Mercanti guardando con gli occhi di altri uomini. La notte che tu fosti aggredito dai ladri di cavalli compresi che uno di loro era un cambiaforma perché vidi, attraverso i suoi occhi, le tre stelle che tu tenevi celate alla gente comune. Cercai di raggiungerlo e di ucciderlo, ma lui mi sfuggì.

— E la notte che io seguii il suono dell’arpa di Deth? Anche allora vedesti dietro quell’illusione?

Il mago taceva. Chinò la testa, evitando lo sguardo di Morgon; sul volto duro e rugoso gli era comparsa una smorfia di vergogna così amara che il giovane fece un passo verso di lui, pentito d’avergli fatto quella domanda.

— Morgon, mi spiace. Io non potevo affrontare Ghisteslwchlohm.

— Non avresti potuto far nulla per aiutarmi. — Attanagliò le mani alla spalliera della sedia. — Non senza mettere in pericolo Raederle.

— Feci quel poco che potevo, rafforzando la tua illusione quando svanisti, ma… purtroppo fu assai poco.

— Ci hai salvato la vita. — Gli portò a mente il volto dell’arpista, e gli occhi vacui che erano rimasti fissi nel fuoco allorché lui gli s’era materializzato davanti nella notte. Lasciò la sedia e si passò una mano sul volto. Sentì Yrth muoversi sulla poltrona.

— Io sono cieco.

Lasciò ricadere le braccia e sedette, ottuso per la stanchezza. Il vento roteava intorno alla torre in una confusione di voci. Yrth attese, rispettando il suo silenzio; ma quando esso cominciò a prolungarsi troppo disse, gentilmente: — Raederle mi ha riferito ciò che ha compreso di quanto è accaduto al Monte Erlenstar. Ma non ho esplorato la sua mente. Vorresti lasciarmi esaminare i tuoi ricordi? O preferisci dirmelo a voce? In un modo o nell’altro, bisogna che io sappia.

— Entra nella mia mente.

— Non sei troppo stanco?

Lui scosse il capo. — Non importa. Prendi da me ciò che vuoi.

Davanti a lui il fuoco si fece più basso, sembrò stralciarsi in scintille di ricordi. Di nuovo rivisse il volo selvaggio e solitario nell’entroterra, e dal cielo precipitò nelle viscere del Monte Erlenstar. La torre si riempì di tenebra; deglutì saliva amara come l’acqua del lago. I ceppi scoppiettavano in una lingua che non riusciva a capire. Una raffica di vento disperse quelle voci spazzandole via dalla sua mente. Le pietre dell’edificio tremarono, scosse fino in profondità dalla nota che vibrava nitida in quel vento. Ci fu un lungo silenzio durante il quale lui sonnecchiò, scaldato dall’ultimo sole estivo. Poi fu di nuovo sveglio, una creatura selvatica avvolta in pelli grezze che sventolavano nell’aria. S’immerse sempre più profondamente nelle pure e mortali voci dell’inverno.

Seduto accanto a un fuoco da campo ascoltò i venti. Ma essi gli parlavano da oltre un circolo di pietra; non sfioravano né lui né il bivacco. Si raddrizzò, sbatté le palpebre, stupito dal volto del mago che si sovrapponeva a quelle immagini notturne. I suoi pensieri tornarono alla realtà che lo circondava. Si piegò avanti con un borbottio, così stanco che avrebbe voluto mescolarsi al fuoco morente. Il mago si alzò e fece qualche passo, fermandosi quando urtò in una cesta piena d’abiti.

— Cosa facevi nelle terre del nord?

— Suonavo l’arpa. Potevo suonare quella nota là fuori, quella che fa tremare la pietra… — Udì la sua voce come da lontano, meravigliandosi che fosse ancora vagamente razionale.

— Come sei sopravvissuto?

— Non lo so. Forse ero parte del vento, per un po’… avevo paura di tornare indietro. Cosa ne farò di questo potere?

— Usalo.

— Non oso. Ho potere sulla legge della terra. Lo voglio. Desidero usarlo. Ma non ne ho il diritto. La legge della terra è un’eredità dei sovrani, legata in loro dal Supremo. Io distruggerei ogni legge…

— Forse. Ma la legge della terra è anche la più grande sorgente di potere del reame. Chi può aiutare il Supremo se non tu?

— Lui non ha chiesto aiuto. Forse che una montagna chiede aiuto? O un fiume? Loro esistono, semplicemente. Se toccassi il suo potere lui potrebbe accorgersi fin troppo di me, e distruggermi, ma…

— Morgon, non riesci davvero a riporre alcuna speranza in quelle stelle che ho fatto per te?

— No. — Chiuse gli occhi. Con uno sforzo che lo fece quasi gemere li riaprì. — Io non parlo il linguaggio della pietra. Per lui io esisto, e basta. Non vede niente se non le tre stelle che riemergono da secoli di tenebra, durante i quali forme senza potere chiamate uomini sfiorarono appena la terra, neppure abbastanza da disturbarlo.

— Lui ha dato loro le leggi della terra.

— Io ero una forma che possedeva la legge della terra. Ora sono soltanto una forma senza nessun destino fuorché nel passato. Non toccherò mai più il potere di un altro governatore della terra.

Il mago esitò, rivolto al fuoco in cui si perdevano gli occhi di Morgon. — Sei davvero così irritato col Supremo?

— Come posso irritarmi con un macigno?

— I Signori della Terra hanno assunto tutte le forme. Cosa ti fa tanto sicuro che il Supremo si sia dato la forma di qualunque cosa, fuorché quella di uomo?

— Perché… — Tacque, e fissò la fiamma finché essa bruciò le ombre di sonno che gli intorpidivano i pensieri. — Tu vuoi che io liberi i miei poteri nel reame.

Yrth non rispose. Morgon lo osservò, restituendogli l’immagine del suo stesso volto, duro, anziano, potente. D’improvviso vide il Supremo non più come un macigno tetragono al vento, ma come un’entità in pericolo vulnerabile, a cui si dava la caccia, la cui unica arma era il silenzio. Il pensiero lo fece irrigidire, meravigliato. Pian piano divenne conscio del silenzio che aumentava istante dopo istante fra la sua domanda e la risposta che attendeva.

Trattenne il respiro e ascoltò quel silenzio che lo tormentava stranamente, come il ricordo di qualcosa che un tempo lui aveva nutrito in sé. Le mani del mago si volsero un attimo verso la luce e si chiusero, nascondendo le loro cicatrici. Disse: — Ci sono poteri scatenati per tutto il reame alla ricerca del Supremo. I tuoi non saranno i peggiori. Dopotutto, tu sei legato da un peculiare sistema di restrizioni. La migliore, e la meno comprensibile di queste, sembra essere l’amore. Tu puoi ottenere il permesso dei sovrani. Hanno fiducia in te. E quando né tu né il Supremo sembravate esistere ancora, hanno conosciuto la più cupa disperazione.

Morgon chinò il capo. — Non pensavo a loro. — Non s’accorse che Yrth s’era mosso finché non si sentì sfiorare dalla sua tunica scura. Il mago gli poggiò una mano su una spalla, dolcemente, così come avrebbe potuto toccare un animale selvatico che gli si fosse accostato esitante nella boscaglia.

Il suo tocco risucchiò da Morgon ciò che lo angosciava: confusione, ira, interrogativi, perfino la forza e la volontà di resistere a quel sottile atto del mago. Lasciò in lui soltanto il silenzio, e una nostalgia disperata e incomprensibile.

— Io troverò il Supremo — disse. E aggiunse, come un avvertimento o una promessa: — Nulla lo distruggerà. Lo giuro. Nulla.

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