CAPITOLO QUARTO

Alle prime luci dell’alba, quando lei si svegliò, cercò di insegnarle quel che sapeva. Il sole non era ancora comparso, intorno a loro la boscaglia era fredda e silenziosa. Insonnolita Raederle lo ascoltò spiegare la semplicità che costituiva l’essenza del mutamento di forma, mentre lui svegliava un falco e lo teneva sotto controllo facendolo roteare alto sugli alberi. Il volatile discese con ubbidienza e gli si appollaiò su un polso; era affamato e voleva andare a caccia. Morgon lo placò blandendo i suoi pensieri pazientemente. Poi vide l’espressione corrucciata e sofferente che aveva scurito gli occhi di lei, e lasciò libero il falco.

— Non potrai cambiare forma finché non lo vorrai davvero.

— Io voglio! — protestò lei.

— No, tu non vuoi.

— Morgon…

Lui si alzò, raccolse una sella e andò a metterla in groppa a uno dei cavalli. Stringendo le cinghie disse: — Fa lo stesso.

— Non fa lo stesso! — s’irritò lei. — Tu non ci hai neanche provato. Ti ho chiesto d’insegnarmi, e hai detto che lo avresti fatto. Io mi sto preoccupando per la nostra sicurezza. — Si spostò per bloccargli il passo mentre lui tornava a prendere l’altra sella. — Morgon!

— Va tutto bene, cara — la placò, cercando di crederci lui stesso. — Penserò io a qualche soluzione.

Nelle ore successive la giovane donna non gli rivolse la parola. Cavalcarono a un trotto svelto finché il traffico mattutino, intensificandosi, li costrinse a rallentare l’andatura assorbendoli nel suo anonimato. La strada sembrava essersi riempita di bestiame: pecore, maiali, giovani manzi bianchi inviati a Caithnard da fattorie isolate nell’interno. I branchi di animali sciolti bloccavano spesso la strada e innervosivano i cavalli. I carri dei mercanti tenevano una velocità così bassa da irritare chi era costretto a seguirli, e quelli dei contadini colmi di verdure erano così lenti che i cavalli dovevano uscire di strada per sorpassarli. La calura del mezzogiorno, mista alla polvere e all’umidità, riempiva la bocca e i polmoni dei viaggiatori. Il puzzo del bestiame era qualcosa da cui era impossibile fuggire. Raederle aveva i capelli appiccicati al collo, e ogni volta che li scostava si lasciava ditate umide sulla pelle. A un certo punto arrestò il cavallo, si ficcò il copricapo fra i denti, e sotto lo sguardo divertito di una vecchia che conduceva i suoi maiali al mercato si annodò i capelli sopra la testa, con mosse irritate. Morgon, che la osservava, non fece commenti. Il silenzio di lei cominciava a pesargli, ancor più della calura e delle continue difficoltà del traffico. Depresso si domandò se non avesse commesso un errore a portarla con sé, si domandò se fosse meglio parlarle o stare zitto, si domandò se la giovane donna non stesse rimpiangendo ogni passo che aveva fatto con lui dopo aver lasciato Anuin. Cercò d’immaginarsi come sarebbe stato il viaggio senza di lei: in quel momento avrebbe potuto essere già a metà strada, tagliando a volo d’uccello Ymris in direzione nord-ovest verso Lungold, e un’altra notte di viaggio gli avrebbe consentito di raggiungere quella strana città, per affrontare di nuovo Ghisteslwchlohm. Il silenzio di lei cominciò a costruire pietra su pietra una muraglia intorno a ogni sua sensazione, finché tornò a essere attanagliato dal ricordo di quelle notti in cui per lui c’era stato soltanto l’odore della roccia, il buio, e il mormorio di un lontano torrente sotterraneo.

Con uno sforzo si tolse quella tenebra dagli occhi e in essi penetrò ancora il mondo che lo circondava, l’aria piena di polvere, il verde della vegetazione, i riflessi del sole sulle pentole di rame che sobbalzavano sul carro di un venditore ambulante. Si tolse il sudore dalla faccia. Finalmente Raederle si affacciò da oltre il muro del suo silenzio, ma con aria ostinata:

— Si può sapere in cosa ho sbagliato? Io ti stavo ascoltando.

Stancamente le rispose: — Dicevi di sì con la voce, e di no con la mente. È la mente che conta.

Tacque un poco, fissandolo accigliata. — In cosa ho sbagliato?

— In niente.

— Sei pentito di avermi portata con te.

Lui tirò le redini. — Vuoi tornare indietro? È un tormento sentirti parlare così. Sei tu a esser pentita.

Mentre anch’ella fermava il cavallo le vide in volto un’improvvisa disperazione. Si fissarono l’un l’altra, confusi, frustrati. Un mulo ragliò alle loro spalle e ripresero a cavalcare, di nuovo oppressi dal reciproco silenzio e senza trovare il modo di uscirne, come chiusi in una torre priva di porta.

Più avanti Morgon fece arrestare senza preavviso entrambi i cavalli e li portò fuori strada per abbeverarli. I rumori si sfocarono, l’aria fu nuovamente limpida e rallegrata dal cinguettio dei passeri. S’inginocchiò sulla riva del torrente e immerse la bocca nella corrente fresca e veloce, poi si sciacquò il volto e i capelli. Ferma accanto a lui Raederle lasciava scorrere le sue riflessioni nelle acque vorticanti. Dopo un poco lui si volse a guardarla.

Non avrebbe saputo dire per quanto tempo restò immobile a fissarla, ma d’un tratto si rese conto che il viso di lei si contraeva dolorosamente. Cadde in ginocchio davanti a lui, afferrandolo per le spalle.

— Come puoi guardarmi in questo modo!

— Stavo solo guardando i miei ricordi — disse. Le tolse il copricapo, allungò una mano a scioglierle i capelli. — Negli ultimi due anni non ho fatto che pensare a te. Adesso tutto ciò che devo fare per trovare il tuo viso è di voltarmi, perché mi sei accanto. Qualche volta ne sono sorpreso, come da una magia che non sapevo di poter fare.

— Morgon cos’è che stiamo facendo? Ho paura… ho tanta paura del potere che c’è dentro di me.

— Abbi fiducia in te.

— Non posso. Tu hai visto come me ne sono servita ad Anuin. Non mi sentivo più me stessa: ero l’ombra di qualcuno di un’altra razza, una razza che sta cercando di distruggerti.

La attirò a sé e la strinse con forza. — Tu mi hai restituito me stesso — mormorò. La tenne fra le braccia a lungo, in silenzio. Poi la sondò: — Ce la fai a sopportare un enigma?

Alzò il viso, tentando un sorrisetto. — Forse.

— C’era una volta una donna, sulle colline di Herun, che si chiamava Arya e allevava animali di ogni genere. Un giorno trovò un cuccioletto nero di una razza che non conosceva. Lo portò in casa, lo nutrì, si curò di lui, e il cucciolo crebbe. E continuò a crescere. Crebbe finché tutti gli altri animali fuggirono via di casa, e lei si trovò a vivere da sola con questo bestione, enorme, nero, sconosciuto, che la seguiva in ogni stanza con passi che facevano tremare la casa. E infine, non sapendo come liberarsene, non sapendo più cosa fare, s’accorse di averne paura e cominciò a vivere nel terrore…

Lei lo interruppe poggiandogli una mano sulla bocca. A capo chino, stringendoglisi al petto, sentì che il cuore le pulsava con forza. Dopo un poco si decise a sussurrare: — E va bene. Che cosa fece?

— Tu cosa avresti fatto?

Restò in attesa della sua risposta; ma se pure lei gliene mormorò una il fruscio del torrente se la portò via prima che potesse udirla.

Quando tornarono sulla strada la trovarono più tranquilla. Le ultime ombre si allungavano sui solchi dei carri; i rami più alti delle querce si stavano impadronendo del sole; la polvere dei carri che s’erano ormai allontanati quasi tutti non aleggiava più nell’aria. Quell’improvvisa solitudine mise a disagio Morgon. Non comunicò le sue sensazioni a Raederle, ma allorché un’ora più tardi raggiunsero di nuovo i mercanti ne fu sollevato. I loro carri e i cavalli erano stati posteggiati a lato di una locanda, un antico edificio grande quanto un granaio con annesse stalle e la bottega di un fabbro. A giudicare dal clamore delle voci e delle risate che ne uscivano, la clientela doveva essere numerosa e gli affari andavano bene. Morgon abbeverò i due cavalli al truogolo davanti alle stalle. Avrebbe desiderato entrare a bere una birra, ma la prudenza lo consigliò di non farsi vedere nella locanda. Tornarono in strada mentre le ombre si confondevano nel grigiore; davanti a loro la foschia del crepuscolo aleggiava come un fantasma incolore.

Ripresero a cavalcare. Gli uccelli diurni tacevano, e il solo rumore rimasto sulla strada era quello degli zoccoli dei loro cavalli. Un paio di volte oltrepassarono gruppi nutriti di mercanti accampati intorno a grossi falò, presso il loro bestiame impastoiato e ben sorvegliato. Morgon si sarebbe sentito più sicuro vicino a quella gente, ma provava un’improvvisa riluttanza a fermarsi. Le voci svanirono alle loro spalle, e continuarono a viaggiare nel crepuscolo. Anche quando s’accorse che Raederle appariva stanca non poté decidersi a fare sosta. Infine lei allungò un braccio a toccarlo, e la guardò. Nell’accorgersi che s’era voltata a osservare la strada alle loro spalle tirò subito le redini.

Circa un miglio dietro di loro c’era un gruppo di uomini a cavallo, che dopo alcuni istanti una cunetta nascose alla vista. Quando riapparvero, indistinti nelle ombre della sera, a Morgon non parve che cavalcassero più veloci di quanto c’era da aspettarsi a quell’ora tarda. Li fissò un poco e si accigliò, poi scosse il capo intuendo ciò che Raederle stava per domandargli.

— Non ne sono sicuro, ma… — D’impulso strattonò di lato le redini, spronando il cavallo fra gli alberi del bosco.

Seguirono il corso del torrente finché fu troppo buio per vedere il terreno. Si accamparono senza accendere il fuoco, e per cena mangiarono pane e carne secca. Nel punto che avevano scelto le rive si allargavano alquanto, e l’acqua scorreva quasi senza un fruscio. Morgon riusciva a percepire ogni rumore nella notte, e fu certo che i cavalieri non li avevano oltrepassati. I suoi pensieri tornarono alla silenziosa figura che aveva intravisto nel bosco, al misterioso Urlo che era così opportunamente uscito dal nulla, e tese una mano. La spada stellata gli apparve in pugno.

— Morgon — disse Raederle. — Ieri sei stato sveglio tutta la notte. Farò la guardia io.

— Ci sono abituato — mormorò. Ma poi le consegnò la spada e si distese su una coperta. Non si addormentò; giacque in ascolto dei rumori notturni, fissando le stelle che scivolavano lente attraverso il cielo. D’un tratto udì ancora il suono di un’arpa che usciva dalle tenebre lieve ed esitante, quasi derisorio.

Balzò a sedere, incredulo. Non riusciva a scorgere fra gli alberi alcun fuoco da campo, non sentiva una voce, c’era solo quella musica lontana. Le corde dovevano esser state regolate alla perfezione, perché lo strumento produceva note dolci e cristalline, ma l’arpista suonava continuamente le stesse. Morgon si sfregò gli occhi con le dita.

— Chi, in nome di Hel… — Si alzò in piedi di scatto.

— Morgon — disse piano Raederle. — Al mondo ci sono anche altri arpisti.

— Questo sta suonando al buio.

— E come sai che è un uomo? Magari è una donna, o un giovanetto col suo primo strumento, che sta viaggiando senza compagnia verso Lungold. Se vuoi distruggere tutte le arpe del mondo farai meglio a cominciare con quella che porti con te, perché è la sola che non ti darà mai pace. — Lui non rispose. Equivocando sul suo silenzio lei aggiunse: — Te la senti di sopportare un enigma?

Si volse, contemplò il volto di lei pallido sotto la luna e la spada che le scintillava fra le mani. — No — disse. Dopo un po’ sedette al suo fianco, seccato dalle scale e dai ritornelli della vecchia ballata di Ymris che lo sconosciuto stava mandando a memoria. — Mi piacerebbe essere disturbato da un arpista migliore di quello — borbottò. Le prese la spada. — Farò io la guardia.

— Non lasciarmi sola — lo pregò lei, intuendo quel che gli passava per la testa. Morgon sospirò.

— Va bene. — Si poggiò la lama sulle ginocchia e la fissò a lungo senza vederla, mentre la luna la raffreddava col suo freddo riflesso, finché l’ignoto arpista tacque e lui poté ricominciare a pensare.


La notte dopo, e poi anche le altre che seguirono, Morgon continuò a sentire quelle note d’arpa. Risuonavano alle ore più strane, solitamente proprio quando si sedeva nel buio ad ascoltare. Spesso le udiva soltanto con un angoletto della mente; Raederle dormiva come se non le dessero il minimo fastidio. Talvolta le sentì nel sonno e si svegliò di colpo, sudato e stordito, sbucando da un sogno di tenebra in una diversa tenebra, entrambe tormentate dallo stesso inesplicabile arpeggiare. Una notte esplorò in cerca del suonatore, ma tutto ciò che ottenne fu di perdersi nel bosco. Quando tornò all’alba, stanco e sotto forma di lupo, terrorizzò i cavalli, e Raederle per difenderli gettò attorno un circolo di fiamme che gli strinarono il pelo. Questo equivoco li spinse a discutere irosamente per un po’, finché ognuno dei due nel vedere la faccia rossa e impermalosita dell’altro scoppiò a ridere.

Più viaggiavano verso ovest, e più la strada sembrava uguale a se stessa, miglio dopo miglio attraverso la boscaglia immutabile. La mente di Morgon macinava senza sosta argomenti di conversazione, prendendo spunto dalle facce della gente che oltrepassavano, dai rumori e dalle voci, dai pensieri larvali che captava negli uccelli che li sorvolavano. Ma era sempre più preoccupato, tentava di guardare davanti e dietro nello stesso tempo, cercava la presenza di arpisti, di ladri di cavalli e di cambiaforma. Se Raederle gli rivolgeva la parola, talvolta non la udiva neppure. Quando lei si trincerava in se stessa, potevano trascorrere ore prima che si accorgesse del suo silenzio. A mano a mano che si allontanavano da Caithnard il traffico diminuiva. Non di rado per miglia e miglia non vedevano un’anima. Ma l’afa era la loro costante compagna di viaggio, e ogni sconosciuto che incrociavano cominciava ad apparire per qualche verso sospetto. E tuttavia, a parte la musica dell’arpa, le loro notti erano tranquille. Ma proprio il giorno in cui Morgon si stava dicendo che erano abbastanza al sicuro, persero i cavalli.

Quella sera, esausti, s’erano accampati prima del solito. Morgon lasciò Raederle a lavarsi i capelli sul fiumiciattolo, e tornò indietro per mezzo miglio fino a una locanda per acquistare un po’ di rifornimento e raccogliere le ultime notizie. Il locale era affollato di viaggiatori: mercanti che cercavano di contrattare con chiunque, musicisti in miseria che per guadagnarsi un pasto intrattenevano gli avventori coi loro strumenti, contadini, artigiani, famiglie che avevano l’aria di esser scappate dalle loro case con le masserizie gettate alla rinfusa su dei carretti.

Nell’aria pesante vibravano voci rese allegre dal vino. Una di esse, sonora e niente affatto intonata al buonumore, attrasse l’attenzione di Morgon verso uno dei tavoli di fondo. Incuriosito si avvicinò, e vide che a parlare era un individuo grassoccio e ben vestito.

— Vent’anni! — stava dicendo l’uomo. — Per vent’anni ho abitato a un tiro di sputo da lì. Nella mia bottega vendo stoffe di buona qualità e pellicce provenienti da tutto il reame, e non avevo mai visto muoversi un’ombra fra le rovine dell’antica Scuola. Poi una notte che mi ero attardato a fare i resoconti ho visto delle luci, qua e là, oltre quelle finestre diroccate. Sapevo che nessuno si addentrava mai in quel terreno, non ci avrebbe provato neppure un ubriaco per scommessa; è un posto che porta disgrazia solo a guardarlo. Così questo mi è bastato: ho tolto tutta la mia mercanzia da quella bottega, ho lasciato detto ai miei fornitori che venissero a cercarmi a Caithnard, e me la sono filata. Se in quella disgraziata città dovesse esserci un’altra guerra fra i maghi, io intendo essere dalla parte opposta del reame.

— A Caithnard? — chiese un altro commerciante, incredulo. — Con metà della costa di Ymris subito a nord della città travagliata dalla guerra? Per lo meno a Lungold ci sono dei maghi. Caithnard non ha altro che venditori di pesce e studenti. E i pesci morti e i libri non sono buone armi di difesa. Io da Caithnard me ne sono andato. Ho deciso di stabilirmi nell’entroterra, e per buona misura non ci resterò meno di cinque o sei anni.

Morgon si guardò attorno, mentre le voci si confondevano nel brusio generale, si accorse che il gestore della locanda gli si stava avvicinando. — Desidera, nobile? — gli venne chiesto. Ordinò un boccale di birra. Era stata prodotta a Hed, e quando se la fece scivolare in gola gli parve che lavasse via la polvere di cento miglia di strada. Col boccale in mano seguitò a prestare orecchio ai frammenti di conversazione, e le parole di un mercante dall’aria inasprita attrassero la sua attenzione:

— È quella maledetta guerra in Ymris. Metà dei contadini di Ruhn si sono visti requisire dall’esercito i cavalli, animali da tiro che però discendono dai cavalli da battaglia di Ruhn. Il Re è riuscito a far attestare i suoi uomini sulla Piana del Vento, una posizione che gli sta costando però molto sangue. Nel frattempo i suoi guerrieri comprano o requisiscono tutti i cavalli che trovano, e anche i contadini ne vanno in cerca. Nessuno s’interessa più di che razza sia un cavallo o chi lo abbia allevato. Da quando sono partito da Caithnard io ho messo guardie armate ogni notte, intorno a quelli che uso per il traino dei carri.

Innervosito al pensiero di Raederle, che era sola coi loro due cavalli, Morgon depose il boccale. Un mercante gli indirizzò una domanda in tono amichevole; lui borbottò una risposta. Stava per uscire quando agli orecchi gli giunse il suo nome.

— Morgon di Hed? Corre voce che fosse a Caithnard, travestito da studente. È scomparso ancora prima che i Maestri lo avessero riconosciuto.

Morgon si volse. Seduti a un tavolo alcuni musicisti si stavano dividendo una caraffa di vino. — Era ad Anuin — disse il suonatore di zampogna, asciugando il beccuccio del suo strumento. — Non lo avete sentito raccontare? Si dice che abbia raggiunto l’arpista del Supremo ad Anuin, proprio nel salone delle udienze del Re.

— L’Arpista del Supremo! — sbottò acremente un giovanotto fornito di una collezione di minuscoli tamburi. — E intanto il Supremo cosa stava facendo? Un uomo è privato del governo della terra, viene tradito in nome del Supremo da un arpista che ha ingannato ogni sovrano del reame, e il Supremo non alza un dito, sempre che abbia dita, per fare giustizia!

— Se volete sapere come la penso io — disse la cantante del gruppo, — il Supremo è soltanto una menzogna. Inventata dal Fondatore di Lungold.

Ci furono alcuni istanti di silenzio. La cantante parve riesaminare con una smorfia le sue stesse parole, come temesse l’ipotesi che il Supremo fosse seduto dietro di lei a bere una birra e con gli orecchi tesi. Un altro brontolò: — Questa è la tua opinione. E adesso piantatela. A me interessa sentire quel che è successo ad Anuin.

Morgon si volse per andarsene, ma una mano gli si appoggiò su una spalla. Il mercante che gli aveva già rivolto la parola lo stava fissando perplesso. — Io vi conosco. Ho il vostro nome sulla punta della lingua, ne sono certo. Da qualche parte… stava piovendo, mi pare…

Morgon lo riconobbe: il mercante con cui aveva parlato molto tempo prima, a Hlurle, in un piovoso giorno d’autunno, dopo aver lasciato a cavallo le colline di Herun. In tono brusco replicò: — Ma di che state parlando? Qui non piove da settimane. Toglietemi la mano dalla spalla, se non volete che la porti con me.

— Signore, signori! — intervenne il locandiere. — Niente risse nel mio locale, prego — Il mercante si volse a prendere due boccali di birra e ne poggiò uno sul bancone di fronte a Morgon.

— Non volevo offendervi. — Stupito scrutò la sua espressione. — Bevete con me, e facciamo quattro chiacchiere. Son mesi che manco da casa mia, a Kraal, e mi piacerebbe avere qualche…

Per evitare la mano di lui Morgon si girò. Il suo gomito sinistro colpì il boccale di birra, facendolo rovesciare sulle ginocchia di un mercante seduto lì accanto, e l’uomo si alzò imprecando. Qualcosa che vide sul volto di Morgon, fosse un’ombra di potere o altro, placò però il suo impulso d’ira. — Non è questo il modo di trattare della buona birra — borbottò cupamente. — Né di offrirla a un uomo. Come avete fatto ad arrivare vivo alla vostra età, con l’abilità che avete nel creare risse dal nulla?

— Pensando agli affari miei! — disse Morgon a lui e all’altro. Gettò una moneta sul banco e uscì in fretta nel crepuscolo. La sua stessa sgarbatezza gli aveva lasciato un sapore amaro in bocca. Ricordi risvegliati in lui dalle parole dei musici lo tormentavano: la lama della sua spada sollevata nella luce del tramonto, il volto dell’arpista che si alzava a guardarla. Accelerò il passo fra gli alberi, maledicendo la lunghezza di quella strada, la polvere che c’era sopra, le stelle sulla sua fronte e tutti i ricordi che come fantasmi continuavano ad angustiarlo.

Quando giunse al luogo dove s’erano accampati per poco non lo oltrepassò senza riconoscerlo. Si fermò, stupefatto. Raederle e i due cavalli erano spariti. Per una frazione di secondo si chiese se, involontariamente, non l’avesse offesa al punto da costringerla a tornare ad Anuin. Ma le borse e le selle erano ancora lì dove le aveva deposte; non c’erano tracce di lotta sul tappeto di foglie secche sotto le querce. Poi sentì che Raederle lo chiamava, aggirò un cespuglio e la vide che attraversava il torrente saltando da un sasso all’altro.

Il volto di lei era rigato di lacrime. — Oh, Morgon! Ero qui che riempivo d’acqua la pentola, poco fa, quando due cavalieri per poco non mi hanno travolta. Ero così furiosa che non mi sono accorta che montavano i nostri cavalli finché non hanno attraversato il torrente. Così io…

— Tu li hai inseguiti? — chiese, incredulo.

— Ho pensato che fra gli alberi avrebbero pur dovuto rallentare. Ma invece sono spariti al galoppo. Mi dispiace.

— A Ymris li rivenderanno a buon prezzo — borbottò Morgon.

— Morgon, non devono essere distanti più di un miglio. Tu potresti raggiungerli facilmente.

Esitò, fissando il volto stanco e addolorato di lei. Poi si volse e raccolse le borse. — L’esercito di Hereu ne ha più bisogno di noi.

Evitò di guardare la ragazza, ma sentiva il silenzio di lei come qualcosa di tangibile. Aprì una delle borse e imprecò contro se stesso, rendendosi conto solo allora di aver scordato di comprare del cibo.

Lei mormorò: — Stai dicendo che dovremmo fare a piedi tutta la strada da qui a Lungold?

— Se è questo che vuoi. — Le sue dita ebbero un lieve tremito, mentre sganciava le fibbie dell’altra borsa.

Infine la sentì muoversi. La giovane donna andò al torrente e riempì il pentolino d’acqua. Quando tornò disse, con voce neutra: — Hai portato il vino?

— Me ne sono dimenticato. Ho dimenticato anche il cibo. — Prima che lei potesse replicare, si volse di scatto. — E non posso tornare indietro. Non senza compromettermi in una rissa da osteria.

— Ti ho forse chiesto di farlo? Non ho neppure aperto bocca. — Si chinò accanto al fuoco e vi gettò sopra dei ramoscelli. — Io ho perduto i cavalli, tu hai dimenticato di comprare da mangiare — mormorò. Sedette e chinò il volto sulle ginocchia. — Morgon — disse dopo un poco. — Mi dispiace. Io sarei capace di arrivare a Lungold strisciando, piuttosto che cambiar forma.

Lui abbassò gli occhi a fissarla. Si volse, girò intorno al fuoco e andò a fermarsi accanto al massiccio e contorto tronco di un albero. Poggiò la fronte contro la corteccia, cercando di guardare in se stesso e di capire cos’era diventato dopo aver assunto i poteri di cui disponeva. Per un momento si chiese se non fosse un errore pretendere cose simili da lei; ebbe il dubbio che perfino i suoi poteri, trovati in circostanze tanto oscure, fossero qualcosa di sospetto. Poi quelle incertezze svanirono pian piano, lasciando il posto, come sempre, all’unica cosa cui poteva aggrapparsi: la fragile e imperativa struttura etica appresa alla Scuola degli Enigmi.

— Non puoi fuggire da te stessa.

— Tu stai fuggendo. Forse non da te stesso, ma dall’enigma che hai dietro le spalle e che non hai mai affrontato.

Si girò stancamente a osservarla. Dopo un poco sistemò i ceppi sul fuoco che si stava abbassando. — Prenderò qualche pesce. Domani mattina. Tornerò alla locanda a comprare quel che ci serve. Forse potrò vendere le selle. Abbiamo bisogno di altro denaro. La strada per Lungold è lunga.

Il giorno successivo si scambiarono pochissime parole. L’afa estiva gravava loro addosso anche quando uscivano di strada per camminare all’ombra degli alberi. Morgon s’era caricato delle due grosse borse, e solo allora s’accorse di quanto fossero pesanti. Le cinghie gli tormentavano le spalle come il loro litigio gli tormentava i pensieri. Raederle si offrì di portarne una, ma le rispose in tono così brusco che lei non si azzardò a proporlo più. A mezzogiorno mangiarono tenendo i piedi a mollo nel torrente. L’acqua fresca ristorò anche il loro umore, e parlarono un poco. Quel pomeriggio la strada apparve ancor meno frequentata; riuscivano a sentire i cigolii dei carri fin da prima che fossero in vista. Ma la calura era intensa, quasi insopportabile. Prima che scendesse il tramonto furono costretti a fare frequenti soste al torrente.

Sul far della sera trovarono un posto buono per accamparsi. Morgon lasciò Raederle seduta coi piedi nell’acqua e andò a caccia, sotto le sembianze di un falco. Su un prato sorprese una lepre che sonnecchiava agli ultimi raggi del sole e la uccise. Al ritorno trovò Raederle immobile dove l’aveva lasciata. Pulì la lepre e la infilò su uno spiedo di legno verde, mettendola sul fuoco. Guardò Raederle; seduta a capo chino e in silenzio fissava l’acqua. Infine si decise a chiamarla.

Lei si alzò, inciampando fra i sassi della riva. Lo raggiunse a passi lenti e sedette molto vicina al fuoco, tirandosi intorno ai piedi l’orlo bagnato della lunga gonna. Nella luce rosata lui la fissò, dimenticando di continuare a girare lo spiedo. Era seria e quasi inespressiva, con lievi ombre di sofferenza sotto gli occhi. Nel sentirlo sospirare gli restituì lo sguardo, con una luce tesa in cui si poteva leggere un chiaro avvertimento. Ma lui era troppo preoccupato per farci caso.

— Perché non mi hai detto che soffrivi tanto? Fammi vedere i piedi.

— Lasciami stare! — rispose, in tono così secco e orgoglioso che lo sbalordì. — Ti ho detto che posso camminare fino a Lungold, e lo farò.

— E come? — Si alzò, con la gola stretta dall’ansia. — Andrò a cercare un cavallo per te.

— Con cosa pensi di pagarlo? Non siamo neppure riusciti a vendere le selle.

— Posso assumere la forma di un cavallo. Tu mi cavalcheresti.

— No! — La voce di lei tremò della stessa strana angoscia. — Non devi. E io non voglio cavalcare sopra di te fino a Lungold. Ho detto che camminerò.

— Non sei nelle condizioni di poter camminare per dieci passi.

— Ce la farò lo stesso. Gira lo spiedo, o la nostra cena prenderà fuoco.

Vedendo che non si muoveva, cambiò posto e si occupò dello spiedo lei stessa. Le tremavano le mani. Con gli occhi fissi sul suo bel viso dove luci e ombre si rincorrevano lui si chiese se la conoscesse davvero a fondo. — Raederle — supplicò. — In nome di Hel, cosa vuoi fare? Non puoi camminare, così ridotta. Non vuoi cavalcare, non vuoi cambiar forma. Vuoi tornare ad Anuin?

— No! — La voce le si ruppe, come se l’avesse offesa. — Forse non sono brava con gli enigmi, però io mantengo la mia parola.

— Quale onore puoi fare al nome di Ylon, quando guardi soltanto con odio lui e l’eredità che ti ha lasciato?

Lei si piegò in avanti, e gli parve che stesse per girare lo spiedo, ma invece raccolse una manciata di fuoco. — Fu un Re di An, un tempo. C’è dell’onore in questo. — La voce le tremava molto. Sulla mano le comparve un triangolo di fuoco, verticale, e sottili strisce di fiamma le scaturirono dalle dita collegandosi ad esso. — Io giuro, sul suo nome, che non ti permetterò mai di lasciarmi.

D’improvviso lui si accorse di quel che stava facendo. Raederle finì il suo lavoro e glielo porse: un’arpa fatta di fuoco, immobile e balenante sul suo palmo. — Tu sei il Maestro degli Enigmi. Se hai tanta fede in essi, dimostramelo. Non sai neppure fronteggiare il tuo stesso odio, e chiedi a me di rispondere a degli enigmi. C’è un nome per un uomo come te.

— Folle — disse, senza toccare l’arpa. Guardò i barbagli di luce che si rincorrevano fra le corde. — Alla fine conosco il mio nome.

— Tu sei il Portatore di Stelle. Perché non puoi lasciare che io faccia da sola le mie scelte? Chi io sia ha poca importanza.

Lui la fissò da sopra l’arpa di fiamma. Qualcosa che disse o pensò senza rendersene conto la fece dileguare in frammenti sulla sua mano. Aggirò il fuoco, la afferrò per le spalle e la tirò in piedi.

— Come puoi dirmi questo? In nome di Hel, di cos’è che hai paura?

— Morgon…

— Non ti si chiede di cambiar forma in qualcosa che né tu né io riusciremmo a riconoscere!

— Morgon! — Aggrappata lui cercò di scuoterlo, come nel disperato tentativo di fargli aprire gli occhi. — C’è proprio bisogno che te lo dica? Io non sto fuggendo da qualcosa che odio, ma da qualcosa che voglio. Il potere di quell’eredità bastarda. Io lo voglio. Il potere che dilaga attraverso Ymris, che cerca di distruggere il reame e te… Io me ne sento attratta. Ne sono legata. E amo te. L’esperto di enigmi. Il Maestro. L’uomo che deve battersi contro quella stirpe, quell’eredità. Tu dovresti tenermi lontana da cose che puoi soltanto odiare.

— No — sussurrò lui.

— I governatori della terra, i maghi di Lungold… come posso andare davanti a loro? Come posso dir loro che io sono della razza dei tuoi nemici? Come potrebbero aver fiducia in me? E come posso io stessa aver fede in me, mentre desidero un simile terribile potere…

— Raederle! — Alzò una mano a sfiorarle il viso e le asciugò le lacrime, cercando di vederla chiaramente. Ma le ombre e i riflessi del fuoco le confondevano i lineamenti, facendo di lei una persona che aveva l’impressione di non aver mai visto a fondo, una persona che non riusciva a vedere del tutto neppure adesso. In quel viso c’era qualcosa che lo eludeva, che svaniva mentre tentava di toccarlo. — Non ho mai preteso nulla da te, se non la verità.

— Tu non hai mai saputo cosa mi stavi chiedendo.

— Io non lo so mai. Mi limito a chiederlo. — La luce del fuoco che balenava fra loro gli parve contenere la risposta verso cui la sua mente brancolava. D’improvviso quei riflessi gli parvero parte di lei, della donna per cui degli uomini erano morti nella torre di Peven, della donna che aveva conformato la sua mente al fuoco, che lo amava e che litigava con lui, e che era attratta da un potere che avrebbe potuto distruggerlo. I pezzi di quell’enigma sembravano lottare l’uno contro l’altro. Poi ognuno scivolò al suo posto, e lui vide i volti dei cambiaforma che aveva conosciuto: Eriel, l’arpista Corrig morto per sua mano, i cambiaforma con cui aveva lottato nel Monte Isig. Un brivido di paura e di meraviglia lo percorse. — Se tu vedi… se vedi in loro qualcosa che vale — mormorò, — allora, in nome di Hel, cosa sono?

Stretta a lui tacque un poco; il suo volto bagnato di pianto parve irrigidirsi. — Io non ho detto questo.

— Sì, l’hai detto.

— Non è vero. Non c’è niente che abbia valore nel loro potere.

— Sì che c’è. Lo senti dentro di te. Ed è quello che vuoi.

— Morgon…

Incerta abbassò le mani. Lui la tenne per le spalle, chiedendosi cosa dire per ottenere la sua fiducia, e qualche istante dopo cominciò a capire con quali argomenti avrebbe potuto farsi ascoltare.

La lasciò, allungò una mano di lato e l’arpa stellata si materializzò dal nulla, appesa al polso per la cinghia. Nell’impugnarla sentì che le sue dita ne ricordavano ancora ogni particolare. Andò a sedersi a qualche passo dal fuoco, mentre la giovane donna lo fissava muta e immobile. Le tre stelle sulla faccia anteriore dello strumento, enigmatiche e senza risposte, polarizzarono per un poco il suo sguardo. Poi se la sistemò fra le braccia e cominciò a suonare. Mentre eseguiva scale di note dapprima stentò a concentrarsi, troppo conscio della silenziosa e attenta presenza di lei. Infine le sue dita ricordarono ritmi e ritornelli, e strapparono isolati frammenti di canzoni alle corde che tacevano da un anno. L’antica e perfetta voce dell’arpa che soltanto lui poteva suonare tornò a riempirlo di un incanto sempre inatteso. Lei gli si avvicinò lentamente, passo dopo passo, finché si accovacciò al suo fianco. Col fuoco alle spalle, il suo volto era un’ombra imperscrutabile.

Ma era un altro il suono d’arpa che echeggiava nell’oscurità della sua memoria. E più suonava per scacciare quel ricordo, più esso lo tormentava: un arpeggiare lontano, artistico e prezioso, che era giunto a lui da oltre la tenebra, da oltre il mormorio delle acque sotterranee che da migliaia d’anni scorrevano dal niente verso il niente. Il fuoco dietro le spalle di Raederle divenne sempre più piccolo, un barlume di luce che si allontanava e che svanì, lasciando il posto a quel buio terribile che lo aveva accecato. La voce tornò a farlo sussultare, risuonando fra le rocce in echi aspri e spiacevoli. Non aveva mai visto il volto. Brancolando alla cieca sentì soltanto roccia umida sotto le dita. La voce arrivava sempre inaspettata, malgrado la tensione con cui aguzzava gli orecchi in cerca dei passi. Lo costringeva a restare in perpetua attesa, disteso sulla pietra, rigido e pronto allo scontro. Ma con la voce arrivava la sonda mentale a cui non poteva opporsi, e allora il solo modo per combatterla era il dolore: battere i pugni sulla roccia per annientare i pensieri nel dolore. E arrivavano le domande, interminabili, a cui opponeva una furia disperata. Poi la furia s’era mutata in terrore, quando aveva sentito il fragile e complesso istinto del governo della terra morire dentro di lui. Aveva risposto, urlato, taciuto, risposto ancora… e aveva udito l’arpa.

Riaprì gli occhi, immobilizzandosi. Premuto contro il montante dello strumento lo zigomo destro gli doleva. Raederle sedeva accanto a lui e gli teneva un braccio intorno alle spalle. Le note dell’arpa continuavano a echeggiargli nella mente. Cercò di risvegliarsi da quell’incubo e di scacciarle, ma non se ne andarono. Poi Raederle rialzò la testa ed egli capì, mentre il sangue gli si gelava, che anch’ella stava ascoltando le stesse note.

Gli bastò un attimo per riconoscere quell’arpeggiare lieve, familiare. Si alzò in piedi, pallido e tremante, e raccolse uno dei rami che bruciavano nel fuoco. Raederle lo chiamò, ma non poté risponderle. La giovane donna cercò di seguirlo, a piedi nudi e vacillando sul terreno irregolare, ed egli non la aspettò. Accelerò il passo seguendo il suono di quell’arpa attraverso il bosco, oltrepassò la strada e s’immerse fra i cespugli, sbucando in una radura dove svegliò un mercante addormentato sotto il suo carro. Avanzò nel sottobosco a zig zag, mentre il suono di quello strumento sembrava provenire ora da una direzione ora da un’altra. Ad un tratto la sua torcia improvvisata illuminò una figura, seduta sotto un albero oltre uno spazio coperto di foglie morte: era un uomo, e fra le mani teneva un’arpa. Morgon si fermò fra la vegetazione col fiato mozzo e incapace perfino d’imprecare. Lentamente l’arpista sollevò il volto verso la luce.

Morgon era come paralizzato. Tenne alta la torcia nella notte mentre l’arpista, restituendogli lo sguardo, continuava a muovere pian piano sulle corde dell’arpa le mani stranamente contratte e arrossate, simili a strumenti ormai fuori uso.

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