CAPITOLO SEDICESIMO

Un urlo, che non era un Grande Urlo ma la voce stessa del vento, esplose dalla bocca di Morgon. Il corpo del Supremo divenne fiamma fra le sue mani, e poi fu soltanto un ricordo. Il suono da lui creato echeggiò nella torre: una nota bassa che crebbe e crebbe finché le pietre intorno a lui cominciarono a tremare. I venti si precipitarono nelle finestre vibrando come corde d’arpa al suo dolore. Ed egli non seppe mai, fra tutte le caotiche e selvagge voci che risuonavano, quale fosse la propria. Annaspò in cerca dell’arpa. Le stelle su di essa erano diventate nere come la notte. La colpì con una mano, o forse con un vento più affilato di un coltello, e le corde si schiantarono. Nell’istante in cui la corda più bassa gemeva, spezzandosi, la pietra e l’illusione della pietra che lo circondava si squarciò all’esterno e tutto precipitò nel vuoto.

Il suo corpo fu squassato da venti che avevano il colore delle pietre: d’oro e di fuoco, d’avorio e di tenebra. Con un boato l’intera torre collassò, rovinando al suolo in un gigantesco cumulo di macerie. Quando il polverone si diramò e Morgon riprese la sua forma, si ritrovò in ginocchio con le mani fra le erbacce poco lontano da lì. Non percepiva da nessuna parte la presenza del potere di Ghisteslwchlohm, né quello di Eriel, come se nel suo momento fatale il Supremo li avesse legati alla sua morte e portati nel nulla con sé. Sopra di lui roteava la neve, in fiocchi che si scioglievano appena a contatto del terreno. Il cielo era bianco come le ossa dei morti.

La sua mente era intrecciata alla legge della terra. Sentì il silenzio delle radici dell’erba che aveva sotto le dita; vide il mucchio di pietrisco in cui era crollata la Torre del Vento attraverso gli occhi di uno spettro di An fermo al bordo della piana. Fu un grande albero che si piegava sotto il temporale sull’umido fianco di un colle nell’entroterra. Fu un trombettiere dell’esercito di Astrin, con il boccaglio del suo lungo strumento dorato poggiato alle labbra. In lui riecheggiarono i pensieri dei sovrani, pieni di paura e di dolore senza che essi capissero il perché. L’intero reame gli sembrò chiuso lì nell’erba fra le sue mani, penetrava in lui e lo scuoteva, dal gelo del settentrione alla sfarzosa corte di Anuin. Lui era di pietra, acqua, un campo abbandonato, un uccello che lottava col vento, un Re ferito e disperato sulla costa della Piana del Vento, era tutti i vesta, gli spettri, mille misteri del suolo, una timida strega, un branco di maiali parlanti e molte torri solitarie le cui stanze erano quelle della sua mente. Il trombettiere aspirò l’aria e soffiò con tutta la sua forza. Nello stesso momento un Grande Urlo si levò dall’esercito di An, echeggiando a meridione della piana. Quei suoni, insieme al repentino afflusso di conoscenza e al lutto che gravava sul suo cuore, d’un tratto sopraffecero Morgon. Con un gemito cadde bocconi, immergendo la faccia nell’erba bagnata.

In quel momento un flusso di energia gli attraversò la mente, stravolgendo i legami che aveva stretto con la terra. Comprese che la morte del Supremo aveva rimesso in libertà tutti i poteri dei Signori della Terra. Sentì le loro personalità antiche, selvagge come il mare e il fuoco, affascinanti e mortali, tese nella volontà di distruggerlo. Non aveva idea di come opporsi a loro. Senza muoversi poté vederli con gli occhi della mente che avanzavano sulla Piana del Vento, arrivando dalla parte di mare come un’ondata, in forma sia di animali che di uomini, anch’essi protendendo avanti sonde psichiche in esplorazione. E quelle sonde lo colpirono più volte, sradicando la conoscenza da lui, rompendo i legami che aveva ereditato, finché la sua consapevolezza delle immense foreste, dei vesta, dei cavalli da tiro di Hed, dei contadini di Ruhn e di ogni frammento del reame cominciò a svanire dalla sua memoria.

Questo gli causò un altro senso di perdita, tremendo e sconvolgente. Mentre l’ondata vivente gli si avvicinava tentò di battersi, ma era come se cercasse d’impedire alla marea di strappare i granelli di sabbia dalle sue mani. L’esercito di Mathom e quello di Astrin si stavano gettando nella piana da nord e da sud, con gli stendardi di battaglia che sventolavano sgargianti sullo sfondo della nebbia invernale. Sarebbero stati distrutti, rifletté Morgon, i vivi e i morti; nessuna creatura vivente e nessuno spettro tenuto al mondo dai suoi ricordi avrebbero potuto sopravvivere a poteri capaci di annientare perfino i suoi. Mathom cavalcava alla testa delle sue forze; fra gli alberi Har si stava preparando a liberare i vesta sulla pianura. I minatori di Danan, affiancati dalle guardie della Morgol, erano alla retroguardia dell’esercito di Astrin. E lui non sapeva come aiutarli. Poi ricordò che nei boschi del lato meridionale Eliard e i contadini di Hed, armati con rozzi utensili o a mani nude, stavano avanzando con ostinata tenacia per salvare lui.

Rialzò la testa; anche la sua consapevolezza di loro svanì, mentre sonde psichiche gli si affondavano nella mente. L’intero reame sembrava oscurarsi, intere porzioni della sua vita gli venivano strappate. Cercò di trattenerle, e con le mani artigliate al suolo sentì che tutte le speranze riposte in lui dal Supremo erano destinate al niente. Poi, in qualche nebuloso angolo oltre i suoi pensieri, una porta si aprì. Vide Tristan uscire sotto la veranda di Akren, tremando un poco nel vento freddo, e con occhi colmi di paura guardare verso il continente percorso dalla guerra.

Si tirò in ginocchio e poi in piedi, con tutta l’indistruttibile testardaggine che la sua piccola isola aveva istillato in lui. Una raffica di vento gli frustò il volto, facendogli quasi perdere l’equilibrio. Era nel cuore stesso del caos. I vivi, i morti ed i Signori della Terra stavano convergendo su di lui; le leggi della terra del reame gli venivano strappate; lui aveva liberato i venti. Essi stavano impazzando in ogni territorio, e le loro voci gli parlavano di foreste i cui alberi venivano sradicati, di villaggi e fattorie dai tetti sconvolti e gettati in aria. Sul mare si sollevava una burrasca spaventosa che, se lui non fosse intervenuto, avrebbe ucciso Hereu Ymris. Eliard si sarebbe fatto ammazzare, se egli non l’avesse fermato. Cercò i pensieri di Eliard, ma mentre sondava la piana andò a ingarbugliarsi in un groviglio di altre menti.

Gli strappavano la conoscenza e il potere come ondate che divorassero una morbida spiaggia. Sembrava che non ci fosse fuga da loro, né immagine di pace che potesse costruire nella mente per deviare il loro attacco. Poi vide qualcosa scintillare davanti a lui: la sua arpa rotta giaceva sull’erba, con le corde spezzate che tintinnavano al vento.

D’improvviso una furia che non era la sua lo attraversò, come una frustata rovente che spazzò via tutti gli arpioni mentali conficcati nei suoi pensieri. La testa gli si schiarì all’istante. Si volse e vide accanto a sé Raederle, la cui rabbia disperata bruciava in lui di una fiamma purificatrice; e il vederla viva, il vederla vicina, gli restituì la forza di alzarsi in ginocchio. Fu nel momento di chiarezza regalatogli da Raederle che lui comprese ciò che doveva fare. Poi le forze del reame si scontrarono col nemico, a poca distanza da lì. Le ossa dei morti, le armi baluginanti e gli scudi dei vivi, i vesta simili a una valanga di candida neve, e le guardie della Morgol con le loro lance in resta, caricarono al galoppo contro lo spietato e inumano potere dei Signori della Terra.

Per la prima volta sentì come fosse acuto e triste il grido di un vesta morente, quasi un addio ai suoi compagni. E sentì i nomi dei morti divampare in lui simili a fiamme che si spegnessero urlando. I guerrieri e le ragazze in uniforme rossa attaccavano con le lance e le spade, gli scudi e le asce da guerra un nemico che non aveva una forma singola, bensì un continuo e allucinante mutare di sembianze che atterriva e confondeva gli esseri umani, portando loro disperazione e morte. E Morgon li sentì morire, come parti del suo corpo che si spegnessero. I minatori di Danan cadevano con la pesantezza di alberi recisi alle radici; i contadini di Hed, di fronte a un avversario sconvolgente oltre ogni loro immaginazione, sembravano troppo storditi perfino per difendersi. Le loro vite venivano estorte come radici dal cuore stesso di Morgon. La piana era un groviglio di forme viventi che gli si agitavano negli occhi, pezzi del suo corpo che si battevano senza nessuna speranza di sopravvivere contro oscure e possenti forme sinuose, animalesche, mortali, decise ad annientare il reame. Fu in quei momenti iniziali della battaglia che lui sentì morire il primo dei sovrani.

Nella mente di Hereu Ymris percepì l’angoscia, quasi che, ferito e senza aiuto, tentasse di comprendere il caos esploso nella terra cui era legato. Il suo corpo non era abbastanza forte per un tormento simile. Egli morì da solo, con gli orecchi pieni del ruggito del mare e delle urla d’agonia nella Piana del Vento. Morgon sentì la forza vitale del Re defluire nel territorio da lui amato. E sul campo di battaglia Astrin, che stava lottando per la sua vita, cadde in ginocchio sopraffatto dall’improvviso dolore e dal passaggio del governo della terra esploso in lui.

La sofferenza per la morte di Hereu, per quella del Supremo, per il reame che combatteva e moriva in suo nome, riscosse Morgon. La sua mente si spalancò in una nota d’arpa che era allo stesso tempo un richiamo per il vento del sud che spazzava l’entroterra. Nota dopo nota, in una sinfonia dolente, invocò quelle scatenate masse d’aria attirandole sulla Piana del Vento.

Esse vennero a lui dalle desolazioni del nord, ululando con voci gelide; giunsero dall’entroterra trascinando nuvole di pioggia; risposero dal mare in roteanti vortici di brina e di neve; arrivarono da Hed con l’odore intenso della terra. Erano ruggenti e devastanti, e l’erba venne appiattita al suolo da un capo all’altro della piana. Il corpo di Morgon ne fu smaterializzato e roteò in alto nel vortice dei venti. Essi muggirono della sua tenebrosa angoscia, squarciarono l’aria con stridenti urla di furia, e precipitandosi fra le due armate avverse le separarono come fossero composte da fili di paglia. I cavalieri furono disarcionati a migliaia e i loro destrieri fuggirono, gli scudi vennero dispersi nell’aria come foglie secche, uomini e donne rovesciati al suolo cercarono di ripararsi strisciando in ogni buca. E anche i Signori della Terra furono gettati indietro, poiché nessuna delle forme da loro assunte poteva resistere alla forza di quelle raffiche.

Coi pensieri frammentati in tutte quelle note d’arpa, Morgon dovette lottare per mettervi una parvenza d’ordine. Il vento del nord rombava in lui con una nota bassa; se ne lasciò permeare la mente finché l’ebbe perfezionata ed accordata, e la lasciò libera. Poi afferrò un’altra voce, fiera e selvaggia, quella venuta dal remoto entroterra. Essa girò in lui con ira terribile, ma la dominò e la assorbì. Un altro vento cantava la sua mortale canzone sul mare sterminato, ed egli vi penetrò per raddolcirne i toni; le acque che stavano infuriando sulle coste di Hed cominciarono a calmarsi. Un vento diverso dagli altri sibilava in lui, fatto col silenzio invernale del Passo Isig e con la musica d’arpa che ancora echeggiava nel Monte Erlenstar. Morgon plasmò quel silenzio e quella tenebra in una canzone nuova.

Era scarsamente consapevole delle menti dei Signori della Terra, intanto che lottava per assumere il controllo dei venti. Il loro potere lo riempiva e lo sfidava, e tuttavia lo difendeva. Nessuno di quelli che erano sulla piana avrebbero potuto aggredire i suoi pensieri, permeati com’erano delle forze dell’aria. Una remota parte di essi continuava a vegliare sul reame a cui era legato. Moltissimi guerrieri stavano fuggendo nelle foreste sul confine, costretti ad abbandonare le armi e impossibilitati perfino a portare i feriti con sé. I rumori della battaglia di Morgon coi venti scatenati vennero uditi lontano, fino a Caithnard e a Caerweddin. I maghi avevano abbandonato la piana, e lui s’era accorto dell’allontanarsi dei loro poteri, misti a sensazioni di sbigottimento e di terrore. Poco dopo venne il tramonto; scese la sera, e Morgon lottò con le fredde e indomite voci da lupo dei venti delle tenebre.

Affilò le loro energie trasformandole in strumenti di precisione, al punto che avrebbe potuto dirigere il vento dell’est sul cumulo di macerie accanto a lui e fargli sparpagliare le pietre su tutta la pianura. Sarebbe riuscito a sollevare un singolo fiocco di neve dal terreno, o a rivoltare supina una delle guardie della Morgol rimaste semisepolte dalla neve per guardarla in viso. Lungo tutto il bordo del territorio aperto erano stati accesi centinaia di fuochi, ed essi arsero tutta la notte mentre gli uomini e le donne del reame attendevano insonni il destino che lui preparava per loro con la sua lotta, un’ora dopo l’altra. Curarono alla meglio i feriti, cercarono di riorganizzarsi, e si domandarono se sarebbero sopravvissuti al passaggio di poteri dal Supremo alle mani del suo erede. E se non altro, lui regalò loro ancora un’alba da vivere.

Il sole che si levò dal mare fu soltanto un pallido occhio che lo fissava dalla nebbia. Morgon ritornò in se stesso, una figura umana con le mani colme di vento. Era del tutto solo, e la piana appariva tranquilla. I Signori della Terra avevano portato le loro forze a ovest, e si stavano spostando entro i confini di Ruhn. Per un poco restò in piedi in quella calma, chiedendosi se avesse appena vissuto una singola notte oppure un secolo di tenebra. Poi mescolò i pensieri alla luce dell’alba e cercò le tracce dei Signori della Terra.

Vide che erano fuggiti attraverso Ruhn: casolari, paesetti e ville nobiliari erano stati ridotti in rovina; i campi e boschi e frutteti recavano pesanti tracce di devastazione. Oltre agli animali, gli uomini, le donne e i bambini intrappolati nel raggio d’azione delle loro menti erano stati massacrati. Mentre la sua consapevolezza scivolava lungo quella terra così calpestata sentì una musica d’arpa crescere in sé. I venti che controllava presero a ruggire, rabbiosi e mortali, spingendolo di nuovo fuori dalla sua forma finché fu metà uomo e metà vento, un arpista che suonava una musica di morte su un’arpa senza corde.

Poi chiamò a sé tutto il potere che aveva sentito sepolto sotto le antiche città in rovina di Ymris. L’aveva captato anche dalla mente del Supremo, e in quel momento seppe perché i Signori della Terra avevano combattuto per ritornare su quelle loro città. Tutte quante erano immensi sepolcri, monumenti ormai sgretolati alla memoria dei loro morti. E il potere aveva dormito sottoterra con essi per migliaia d’anni. Ma come quelle degli spettri di An le loro menti potevano essere chiamate dal ricordo dei vivi, e Morgon conficcò i pensieri come una zappa sotto quelle pietre, svegliandoli col suo dolore. Non li vide, né erano fatti per esser visti. Ma sulla Piana del Vento e a Pian Bocca di Re, fra le macerie che costellavano Ruhn e l’est di Umber, un potere invisibile si solidificò e aleggiò su quei sepolcri, simile all’insopportabile e tremenda calma che precede l’uragano. Quella tensione stregata fu avvertita a Caerweddin e in ogni città accanto a cui vi fossero le antiche rovine. Nessun uomo aprì bocca in quell’alba gravida di timori; tutti attesero.

Morgon cominciò a spostarsi sulla Piana del Vento. Intorno a lui avanzava un’armata di Signori della Terra morti millenni prima, che fluttuarono attraverso Ymris alla ricerca dei Signori della Terra da cui erano stati assassinati, per metter fine alla guerra. I venti scacciarono i Signori della Terra fuori dalle forme di pietra e di vegetazione in cui s’erano nascosti; i morti li incalzarono spingendoli inarrestabilmente via dalla terra che un tempo avevano amato. Essi cercarono di disperdersi nell’entroterra, nelle foreste umide e oscure, fra le colline spoglie, e lungo le superfici gelate dei Laghi di Lungold. Morgon, preceduto dai venti che ululavano in quella caccia, seguito dall’odio implacabile dei morti, li inseguì fin sulla soglia dei ghiacci eterni. Fu spietato e inflessibile nello spingerli avanti, così come essi l’avevano spinto mesi addietro verso il Monte Erlenstar.

E in vista della grande montagna, prima che li costringesse ad entrarvi, essi cercarono di opporsi e combatterlo un’ultima volta. Ma i morti fecero muro intorno a lui, ed i venti li spazzarono avanti in un’orda di forme mutevoli e disperate. Seppe che avrebbe potuto ucciderli, strappando loro ogni potere come avevano tentato di fare con lui. Ma quello che della loro bellezza era rinato in Raederle gli fece capire cosa fossero stati un tempo, o cos’avrebbero potuto essere, e decise di non distruggerli. Non volle neppure toccare i poteri che avevano. Li forzò a penetrare nei recessi del Monte Erlenstar, dove essi per sfuggirgli si trasformarono in acque e gemme. Ma Morgon sigillò l’intera montagna — cunicoli e sorgenti nascoste, la superficie esterna e il suo cuore di roccia — con il suo nome. Fra gli alberi e le pietre, nelle ombre e nelle luci intorno a quel luogo, distribuì i morti e li legò alla terra affinché sorvegliassero in eterno la montagna. Poi lasciò liberi i venti di tornare alle loro leggi, ed essi distribuirono le nevi e le piogge invernali sul verde silenzio del reame.

Solo allora fece ritorno a Piana del Vento, ricordando chi aveva lasciato laggiù. La neve aveva ricoperto la terra spoglia, ammucchiandosi attorno e sopra le macerie nel suo centro. Fra gli alberi intorno alla pianura il fumo dei bivacchi rivelava che nessuno se n’era ancora andato. Gli uomini e le donne, coi loro cavalli e le armi, erano lì ad attendere di sapere se lui sarebbe tornato. Avevano seppellito i morti e mandato a prendere altre scorte di cibo. Il loro accampamento faceva pensare che ormai si preparassero a svernare sulla piana.

Morgon lasciò il vento, scese presso le tende montate intorno alle macerie della torre e riprese la forma umana. Poco lontano la Morgol stava parlando con Goh; vide Har intento a curare la zampa di un vesta ferito. Si rese conto di non sapere neanche se Eliard fosse vivo. Alzando gli occhi all’enorme cumulo di pietre si mosse lentamente nella sua ombra. Con un ansito poggiò la fronte su uno di quei gelidi frammenti colorati e lo strinse fra le mani, sentendosi come se sotto di essi fosse sepolto il suo cuore. D’improvviso ebbe l’impressione d’essere un fantasma, quasi che in quelle macerie avesse lasciato il passato e se stesso. Ma non fu per questo che pianse, mentre gli uomini si radunavano lentamente attraverso la piana nevosa. Li vide senza far loro caso, con gli occhi della mente: figurette ammantellate che avanzavano sulla coltre bianca. Quando infine si girò li trovò riuniti in un cerchio silenzioso intorno a lui.

Sentì che la sua presenza li aveva attirati come lui era sempre stato attratto da Deth: senza nessuna ragione precisa, senza far domande, per semplice istinto. I sovrani del reame ed i quattro maghi lo stavano osservando, muti. Sembrava che non sapessero cosa dirgli, vedendolo lì nel suo potere e nel suo lutto; si limitavano a rispondere con la loro presenza all’uomo che aveva riportato la pace in quell’antica terra.

Lui fissò i volti che conosceva tanto bene. Su di essi si leggeva il dolore per il Supremo e per i loro morti. Scorgendo fra loro Eliard un fremito improvviso gli accelerò i battiti del cuore. Mai aveva visto quell’espressione negli occhi del fratello: era pallido e rigido come la maschera dell’inverno sulla terra. Un terzo dei contadini di Hed erano stati riportati nell’isola, per essere sepolti dove giacevano tutti i loro antenati. L’inverno sarebbe stato durissimo per i sopravvissuti, e Morgon non sapeva come confortarlo. Ma nel guardare Morgon, senza parole, gli occhi di Eliard rivelarono infine qualcosa che non aveva mai fatto parte della testarda schiatta dei Principi di Hed: egli era stato sfiorato dal brivido del mistero.

Lo sguardo di Morgon si spostò su Astrin, che sembrava ancora stordito dalla morte di Hereu e dal potere piombato all’improvviso sulle sue spalle. — Mi dispiace — gli disse. Le parole gli parvero lievi e senza significato come la neve su quelle pietre. — L’ho sentito morire. E non ho… non ho potuto aiutarlo. Ho sentito morire molti…

L’occhio bianco di Astrin non mutò espressione. — Tu sei vivo — sussurrò. — Tu, Supremo. Sei sopravvissuto fino a dare questo nome a te stesso, e hai portato la pace nel nostro giorno.

— Pace! — Sfiorò le pietre dietro di lui, fredde come il ghiaccio.

— Morgon — disse Danan a bassa voce, — quando abbiamo visto crollare questa torre, nessuno di noi si aspettava di arrivare vivo all’alba.

— Molti dei tuoi minatori sono morti. Troppi.

— Troppi, sì. Ma abbiamo ancora una grande montagna piena d’alberi. Tu ci hai dato una casa a cui tornare.

— Abbiamo vissuto per vedere il passaggio del potere dal Supremo al suo erede — disse Har. — Abbiamo pagato un prezzo per questo, ma… siamo sopravvissuti. — I suoi occhi azzurri ebbero una scintilla gentile, e si aggiustò il mantello sulle spalle; un vecchio e ossuto Re con i più antichi ricordi del reame nel suo cuore. — Hai giocato splendidamente la tua gara e hai vinto. Non addolorarti per il Supremo. Era vecchio, e vicino alla fine del suo potere. Ti ha lasciato un reame in guerra, un’eredità quasi impossibile e tutte le sue speranze. E tu non l’hai deluso. Ora noi possiamo tornare a casa in pace, senza più temere lo straniero che bussa alla nostra porta. E quando accadrà che una raffica di vento apra la porta, se alzeremo gli occhi dal focolare forse sorrideremo vedendo comparire il Supremo a farci visita. Vedremo te. Lui ci ha lasciato questo dono.

Morgon tacque. Malgrado le loro parole in lui c’era il freddo della tristezza. Poi percepì in uno di essi un lutto così greve che nessuna riflessione avrebbe potuto lenire. Scrutò attorno in cerca di quei pensieri e li lesse sul volto di Mathom, stanco e oscurato da un’angoscia funerea.

Fece un passo verso di lui. — Chi?

— Duac — mormorò il Re. Trasse un lungo respiro, immobile e cupo come uno spettro sulla neve. Si è rifiutato di restare ad Anuin… la sola volta che ho perso in una discussione con lui. Il mio Erede con gli occhi di mare…

Morgon chinò il capo, muto, chiedendosi quanti altri legami fossero stati spezzati, quanti altri uomini non avesse sentito morire. Ripensando al passato disse: — Tu sapevi che il Supremo sarebbe morto qui.

— Lui diede il nome a se stesso — rispose Mathom. — Non ho avuto bisogno di sognare questo. Seppelliscilo qui, dove ha scelto di morire. E cerca di darti pace.

— Non posso — sussurrò lui. — Io sono stato la sua morte. Lo sapeva. Per tutto questo tempo lo ha sempre saputo. Ero il suo destino, come lui era il mio. Le nostre vite sono state un’interminabile gara di enigmi… Ha forgiato la spada che lo avrebbe ucciso, e io l’ho portata qui. Se solo avessi capito… se avessi saputo!

— Cos’avresti potuto fare? Lui non aveva la forza per vincere la guerra; sapeva che l’avresti avuta tu, se ti avesse dato il suo potere. Dunque a suo modo ha vinto. Accetta il fatto.

— Non posso… non ancora. — Sfiorò con un’ultima carezza il cumulo di pietre prima di allontanarsi. Poi alzò gli occhi a esplorare il cielo in cerca di qualcosa che la sua mente non percepiva. Si accigliò, impallidendo. — Dov’è Raederle?

— È stata con me, per un poco — lo informò la Morgol. Appariva calma, quasi assorbita dalla pace che quel mattino invernale soffondeva sul mondo. — Poi è andata via per cercarti, o così credevo, ma forse aveva bisogno di piangere da sola. — Gli mise una mano su una spalla. — Morgon, lui è morto. Ma almeno, per un po’ tu gli hai dato qualcosa da amare.

— Anche tu gli hai dato molto — sussurrò lui. E poi volse loro le spalle e se ne andò, per cercare un po’ di conforto da qualche parte nel reame. Diventò neve, o aria, o forse restò se stesso; non ci badò e non ne fu certo. Seppe soltanto che non volle lasciare impronte nella neve, perché nessuno potesse seguirlo.

Vagò attraverso molte terre, assumendo ora l’una ora l’altra forma, e rinsaldò i legami spezzati, finché non vi fu più un albero o un insetto o un uomo nel reame di cui non fosse conscio, eccetto una donna. I venti che tutto sfioravano nella loro indiscreta curiosità gli dissero di guerrieri senza più casa ospitati alla corte di Astrin, di mercanti in viaggio sul mare per portare grano da An a Herun, e birra da Hed al continente sconvolto dalla guerra. Lo informarono quando i vesta fecero ritorno in Osterland, e di come il Re di An avesse nuovamente legato i suoi spettri alle Tre Parti del regno. Essi ascoltarono i maghi, a Caithnard, allorché discussero il progetto di riaprire la Scuola di Lungold, mentre i Maestri scrivevano le ultime risposte sulla lista degli enigmi non risolti. Sentì che Har si aspettava di vederlo ben presto, seduto davanti al caminetto coi suoi lupi accovacciati ai piedi. E sentì gli occhi d’oro della Morgol guardare ogni tanto oltre i colli di Herun, in cerca di lui, talora in cerca di Raederle, piena di domande su ambedue.

Cercò di metter fine al suo dolore stando seduto per giorni e giorni nelle desolazioni del nord, come un ciocco radicato al suolo, concentrato su quel che aveva fatto l’arpista, una manovra dopo l’altra, finché ogni azione di lui gli fu chiara. Ma capire non gli portò conforto. Cercò di suonare l’arpa, usando come strumento il vento che spirava nel cielo colmo di stelle, e neanche questo gli diede la pace. Si spostò dai ghiacci alle colline pietrose e alle foreste, e andò perfino a sedersi davanti al fuoco nelle taverne e nelle fattorie, dove gli sconosciuti che vagavano nel freddo tornavano ad essere accolti con animo lieto. Non sapeva quali desideri si agitavano nel suo cuore, perché nel cuore aveva ancora il fantasma dell’arpista che non riusciva a dissolversi e ad avere riposo.

Un giorno si trascinò fuori da sotto un cumulo di neve, nel settentrione desolato, attirato verso il sud da qualcosa che non riuscì a definire. Scese attraverso il reame mutando forma varie volte senza che nessuna di esse smorzasse la sua inquietudine, mentre anche nelle regioni fredde arrivava la primavera. I venti dell’ovest e del meridione portavano l’odore della terra fertile e del sole, e le invisibili corde della sua arpa avevano assunto note più gentili. Ma lui non si sentiva ingentilito affatto. Avanzò in forma-orso schiantando il sottobosco delle foreste, e quando sentì il calore del sole s’innalzò in forma-falco nella luce. Per tre giorni restò appollaiato sul pennone di una nave mercantile che beccheggiava sul mare agitato, finché i marinai, stanchi di vedere quell’uccello dagli occhi così strani, lo scacciarono. Seguì allora la costa di Ymris, talora in volo, talaltra a nuoto, oppure al galoppo con branchi di cavalli selvatici, finché non giunse sulla riva di Meremont. Lì sentì l’odore dei ricordi rimasti sulla Piana del Vento.

Fu sulla piana che riassunse le sembianze di un Principe di Hed dalle mani rigate di cicatrici e con tre stelle sulla fronte. Intorno a lui echeggiava ancora una battaglia, le pietre cadevano senza rumore e svanivano. L’erba fremeva come le corde spezzate di un’arpa. Un raggio di sole gli colpì gli occhi nel tramonto. Si volse a oriente e vide Raederle.

La giovane donna era a Hed, sulla spiaggia accanto a Tol. Sedeva su uno scoglio e stava gettando in mare gusci di conchiglie, mentre le onde si frangevano ai suoi piedi. Qualcosa del suo volto, uno strano miscuglio di tristezza e d’inquietudine, sembrava rispecchiare quel che lui aveva nel cuore. Ne fu attirato come da una mano. Volò attraverso le acque, nella luce del sole e nell’ombra delle nuvole, e dopo esser atterrato su uno scoglio di fronte a lei tornò alla forma umana.

Raederle lo fissò ammutolita, con una conchiglia fra le mani. Neppure lui trovò parole da dire, tanto che dovette chiedersi se nelle solitudini del nord non avesse dimenticato la sua stessa lingua. Dopo un poco si spostò al suo fianco, desideroso di sentirla vicina. Le tolse la conchiglia dalle dita e la gettò fra le onde.

— Mi hai attirato tu fin qui, dalle solitudini del nord — disse. — Io ero… non so cos’ero. Qualcosa di freddo.

Dopo qualche istante lei alzò una mano a togliersi una ciocca di capelli dagli occhi. — Mi chiedevo se saresti venuto qui. Pensavo che saresti tornato da me quando ti fossi sentito pronto. — Sembrava rassegnata a qualcosa che stava oltre la comprensione di lui.

— Perché avrei dovuto venire qui? Non sapevo dove tu fossi andata, dopo aver lasciato la Piana del Vento.

Lei lo fissò un poco. — Credevo che tu sapessi tutto. Sei il Supremo. Probabilmente sai perfino ciò che sto per dire.

— No che non lo so — disse lui. Raccolse una conchiglia da una crepa dello scoglio, la lasciò cadere nell’acqua. — Tu non sei legata alla mia mente. Avrei voluto essere con te fin da allora, solo che non sapevo dove in nome di Hel cominciare a cercarti.

Lei restò in silenzio, osservandolo. Infine Morgon tornò a cercare i suoi occhi, ebbe un sospiro e le passò un braccio attorno alle spalle. Sentì che i capelli di lei profumavano di sale; il volto le aveva assunto una delicata abbronzatura. — Sono tormentato dai fantasmi — mormorò. — È come se il mio cuore fosse rimasto sepolto sotto quella torre.

— Lo so. — Lo baciò, poi gli si rannicchiò accanto poggiandogli una tempia sulla spalla. Un’onda venne a lambire loro i piedi e si ritrasse. Il molo di Tol era in via di ricostruzione; tronchi di pino portati dal continente erano allineati sulla spiaggia. Raederle spinse lo sguardo oltre il mare, verso le brume lontane che velavano Caithnard. — La Scuola dei Maestri degli Enigmi è stata riaperta.

— Lo so.

— Se sai tutto, di cosa potremo mai parlare?

— Non lo so. Di niente, suppongo. — Rivide una nave salpare da Tol attraverso il mare, con a bordo un Principe di Hed e un arpista. La nave attraccò a Caithnard; i due sbarcarono e cominciarono il loro viaggio… ebbe un fremito, chiedendosi quando esso sarebbe finito. Strinse più forte a sé Raederle e le poggiò una guancia sui capelli. In quella luce morente gli sarebbe piaciuto avere un’arpa da suonare, ma l’arpa stellata era distrutta, il dolore ne aveva spezzato le corde. Toccò un mitile abbarbicato allo scoglio e rifletté che quella era una forma che non aveva mai preso. Il mare si acquietò un istante, sussurrando fra i sassi, e in quella pausa lui ebbe l’impressione di udire alcune note di una canzone che un tempo aveva amato.

— Che ne hai fatto dei Signori della Terra?

— Non li ho uccisi — disse piano Morgon. — Non ho neppure toccato i loro poteri. Li ho rinchiusi nel Monte Erlenstar.

Lei emise un ansito quasi impercettibile. — Avevo paura di domandartelo! — sussurrò.

— Non potevo annientarli. Come avrei potuto? Erano una parte di te, e di Deth… Resteranno prigionieri fino alla morte. La loro o la mia, se la mia avverrà prima… — Stancamente cercò d’immaginare i secoli o i millenni che li attendevano. — Lo studio degli enigmi. Questa ne sarà la fine? Ogni enigma è morto là, in quella torre senza tetto? Mi sento come se l’avessi costruita io, pietra per pietra, e l’ultima pietra messa al suo posto l’avesse distrutta.

— Non lo so. Quando morì Duac per me fu terribile; mi sentii strappare un pezzo di cuore. Mi sembrò così ingiusto che in quella guerra fosse morto proprio lui, che era il più ragionevole e paziente di noi. Poi mi rassegnai. Ma l’arpista… continuo a sentire la sua arpa nello sciacquio delle onde, nel vento… non so perché non riusciamo a darci pace.

Morgon fermò i capelli di lei che sventolavano nella brezza e li accarezzò. A caso esplorò la continua corrente di pensieri che gli giungevano da ogni parte, scorrendo sotto il livello della sua coscienza. Udì Tristan chiacchierare tranquillamente con Eliard, mentre apparecchiava la tavola ad Akren. A Hel, Nun e Raith di Hel stavano esaminando un porcellino appena nato. A Lungold, Iff restaurava libri fra le rovine bruciate della biblioteca dei maghi. Nella Città dei Cerchi Lyra conversava con un giovane nobile di Herun, e gli stava raccontando particolari della battaglia di Lungold che non aveva mai detto a nessuno. Sulla Piana del Vento l’erba e la polvere stavano seppellendo pian piano i frammenti di una spada.

Morgon aspirò l’odore del tramonto di Hed, misto del profumo dell’erba nuova, della terra arata di fresco e delle foglie scaldate dal sole. Lo strano ricordo di una canzone che non era una canzone lo colpì di nuovo; tendendo gli orecchi poté quasi udirla. Anche Raederle parve ascoltarne le note; si mosse contro di lui, il volto rilassato nella luce calda.

Morgon disse: — A Hel è appena nato un maialino parlante. Nun è là col Nobile di Hel.

Lei sorrise. — È il primo, da tre secoli a questa parte. Mi chiedo cosa potrà dire. Morgon, mentre ti aspettavo dovevo trovar qualcosa da fare, così ho esplorato il mare. E ho trovato una cosa che ti appartiene. È ad Akren.

— Che cosa?

— Non lo sai?

— No. Vuoi che te lo legga nella mente?

— No. Mai. Come potrei parlare con te, altrimenti? — La sua espressione era d’un tratto mutata, e il sorriso le svanì dalla bocca.

— La corona di Peven?

— Eliard ha detto che è quella. Non l’avevo mai vista. Era coperta d’erbe marine e di cirripedi, salvo la grande pietra frontale… Ho sempre amato il mare. Forse vivrò nel mare.

— E io vivrò fra i ghiacci — disse lui. — E una volta ogni cento anni tu emergerai dalla schiuma del mare ed io verrò a te, o manderò i venti a cercarti, suonando l’arpa… — E finalmente la udì, nel sussurro delle onde, nello scoglio su cui sedevano, calda e antica, sepolta profondamente nella terra e nel mare. Il suo cuore cominciò ad aprirsi, incerto, a qualcosa che non sentiva da anni.

— A cosa pensi? — La giovane donna lo guardava sorridendo, gli occhi colmi dell’ultima luce del giorno. Lui restò in silenzio ad ascoltare ancora per un poco. Poi la prese per mano e si alzò. Si avviarono a braccetto lungo la via che dalla riva serpeggiava sui colli. Il sole spandeva luce dorata sul verde dei campi, e la strada dinnanzi a loro sembrava salire senza fine nella luce. Lui si fermò, la mente aperta come il solco di un aratro, assorbendo da tutta Hed, da tutto il reame, la familiare serenità che scaturiva dal cuore di ogni cosa vivente.

Quel silenzio scese in fondo ai pensieri di Morgon e rimase lì. Se fosse un ricordo, o parte della sua eredità, o un enigma senza risposta, lui non l’avrebbe saputo dire. Strinse a sé Raederle con più forza, una volta tanto felice senza capirne il perché. Scesero pian piano lungo la carrareccia verso Akren. In tono tranquillo Raederle cominciò a parlargli delle perle, dei pesci luminosi e della musica delle correnti che scorrevano nel profondo del mare. Il sole tramontò lentamente; l’ombra del crepuscolo si sparse sul reame, fluttuò alle loro spalle sulla strada: uno straniero dai capelli d’argento con la notte dietro di sé, il viso sempre rivolto verso l’alba.

E un senso di pace, tremulo e inatteso, insinuò dolcemente le sue radici nel cuore di Morgon.


FINE
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