Patricia A. McKillip La maga di Eld

1

Un tempo, il mago Heald si congiunse con una donna del popolo, nella città capitale di Mondor, e lei gli diede un figlio con un occhio verde e l’altro nero. Heald, che aveva gli occhi neri come la cupa palude di Fyrbolg, entrò e uscì come il vento dalla sua vita, ma il bimbo, chiamato Myk, rimase con la madre fino all’età di quindici anni.

Forte, largo di spalle, Myk andò come apprendista nella bottega di un maniscalco, e gli uomini che si recavano laggiù a farsi riparare il carro o ferrare il cavallo tendevano a maledire la sua lentezza e la sua scontrosità, finché, dentro di lui, non si scuoteva qualcosa di torpido e possente come una bestia di palude al suo risveglio nell’oscurità. Allora si volgeva a fissarli con il suo occhio nero ed essi si azzittivano e si allontanavano intimoriti.

C’era in quel giovane una vena di magia, così come talvolta ci può essere una vena di fuoco nella legna umida. Con gli uomini parlava poco, in tono brusco e aspro, ma quando nei giorni di mercato posava la mano su un cavallo, su un cane affamato o su una colomba in gabbia, allora nel suo occhio scuro compariva una fiamma e la voce prendeva a scorrergli dolcemente, come il sognante mormorio del Fiume Slinoon.

Finché, un giorno, Myk lasciò la città di Mondor per andare a stabilirsi sul Monte Eld.

L’Eld era la più alta montagna del regno di Eldwold: sorgeva alle spalle di Mondor e la sua ombra cupa si allungava sulla città al calar della notte, allorché il sole scendeva a perdersi nelle nebbie che ne coronavano la vetta.

Dai margini delle nebbie di Eld, i pastori e i giovani cacciatori potevano far correre lo sguardo per un lunghissimo tratto nelle terre al di là di Mondor: a occidente fino alla Piana di Terbrec, dominio dei Signori del Sirle; a nord fino alle Terre Incolte, dove si aggirava ancora, a rammaricarsi dell’ultima battaglia da lui combattuta e persa, lo spettro del terzo Re di Eldwold, sotto le cui orme silenziose e inquiete non cresceva più niente di vivo.

Laggiù, nelle dense e scure foreste del Monte Eld, protette dal candido silenzio delle nevi perenni, Myk cominciò a fare raccolta di tutti gli animali meravigliosi e leggendari.

Dalle terre selvagge e ricche di laghi dell’Eldwold settentrionale chiamò a sé il Cigno Nero di Tirlith, l’uccello dalle grandi ali e dagli occhi color della notte, che aveva portato via in volo, sul suo dorso possente, la terza figlia di Re Merroc, salvandola dalla torre di pietra dove era prigioniera.

Poi, Myk lanciò il forte, muto laccio del suo richiamo nelle impenetrabili foreste sull’altro lato dell’Eld da cui nessun uomo aveva mai fatto ritorno, e portò a sé, come un salmone preso all’amo, il Cinghiale Cyrin, dalle bianche zanne e dagli occhi rossi come la brace, che era più abile di qualsiasi menestrello a cantare le ballate, e che conosceva la risposta a tutte le domande meno una.

Dal cuore buio e silenzioso dello stesso Monte su cui si era ritirato, Myk fece uscire anche Gyld, il Drago dalle ali verdi. La mente del Drago, dopo essere rimasta per secoli a sognare il gelido fuoco dell’oro da lui posseduto, si destò con profondo piacere nell’udire il proprio nome, tra le ultime brume del sonno, nel canto che Myk gli inviava nell’oscurità. Un canto che il Drago s’era quasi scordato.

Da Gyld, Myk si fece dare una manciata di antichi gioielli e l’utilizzò per costruirsi in mezzo agli altissimi pini una casa di pietra bianca e levigata e un grande giardino per gli animali: il tutto recintato da un alto muro di pietra e chiuso da una cancellata di ferro battuto.

Infine, attirò nella casa anche una ragazza di montagna, che parlava poco e che non si lasciava intimidire né dagli animali né dal loro padrone. La ragazza veniva da una famiglia povera, aveva i capelli spettinati e le braccia muscolose; nell’abitazione di Myk vedeva ogni giorno cose che gli altri incontravano forse una sola volta nella loro vita, e solo nei versi di qualche vecchia poesia o nelle ballate di un cantastorie.

La ragazza diede a Myk un figlio con due occhi neri, che imparò a rimanere in silenzio come un ciocco di legno quando Myk lanciava i suoi appelli mentali. Myk gli insegnò a leggere le antiche storie e le leggende contenute nei libri da lui raccolti; a inviare da un capo all’altro dell’Eldwold, e nelle terre al di là dei suoi confini, il richiamo di un nome da tutti dimenticato; ad attendere in silenzio, pazientando per settimane, per mesi o per anni, fino al momento in cui la scossa dell’appello si accendeva come una fiamma nella mente lontana, possente, stupita, dell’animale che corrispondeva a quel nome.

E quando Myk uscì da se stesso per non alzarsi più dal luogo in cui s’era posto a sedere ai raggi della luna, fu suo figlio Ogam a continuare la raccolta.

Ogam attirò a sé dal Deserto Meridionale, oltre il Monte Eld, il Leone Gules, il cui manto aveva il colore del tesoro di un Re e la cui fama, nel corso dei secoli, aveva spinto molti giovani imprudenti a strane avventure che avevano compromesso la loro ragione.

Poi rubò dal focolare di una strega, in un paese assai lontano, la Gatta Moriah, grande e nera, un tempo leggendaria in tutto l’Eldwold per la sua conoscenza degli incantesimi e delle più segrete fatture.

Ter, il Falco dagli occhi azzurri che aveva fatto a pezzi i sette assassini del mago Aer, calò un giorno come un fulmine dal cielo turchino per artigliare Ogam alla spalla. Gli occhi azzurri del Falco si fissarono in quelli neri del mago, ma dopo una lotta breve e furiosa, anche la stretta rovente degli artigli si rilassò; il Falco rinunciò al proprio nome e si arrese al superiore potere di Ogam.

Con uno di quei leggeri, gelidi sorrisi che aveva ereditato da Myk, Ogam chiamò a sé anche la prima figlia di Horst, Signore di Hilt, quando un giorno la vide passare a cavallo, troppo vicina al suo Monte. Era un’adolescente bellissima e fragile, intimidita dal silenzio e dagli strani, meravigliosi animali che le ricordavano le figure intessute negli antichi arazzi del castello paterno. E temeva anche Ogam, paventando il suo potere immobile e celato come una lama entro il fodero, i suoi occhi imperscrutabili. Morì nel dare alla luce la loro prima creatura, che, stranamente, era una bambina. Quando si riebbe dalla sorpresa di scoprire che era una femmina, Ogam le diede nome Sybel.

Nell’isolamento del Monte, Sybel crebbe alta e robusta, con la figura sottile e i capelli di platino della principessa, gli occhi neri e senza paura del padre. Si prese cura delle creature e del giardino e imparò presto a soggiogare un animale contro la sua volontà; a inviare lontano, dal silenzio della sua mente, un antico nome di potere; a scrutare con il suo spirito i luoghi nascosti e dimenticati.

Orgoglioso della prontezza d’ingegno della figlia, Ogam le costruì una stanza che aveva per soffitto una grande cupola di cristallo, sottile come il vetro soffiato e dura come la pietra, dove lei poteva sedere sotto i colori del mondo della notte e inviare con serenità i suoi richiami.

Poi, quando Sybel aveva da poco compiuto i sedici anni, Ogam morì e la lasciò sola con una casa bianca e bellissima, una grande biblioteca di libri pesanti e chiusi a chiave in legature di ferro, una collezione di animali di sogno e il potere di legarli a sé.

Una sera, Sybel, non molto tempo più tardi, leggeva in uno dei suoi libri più antichi la storia di un grande uccello bianco, le cui ali scivolavano nell’aria come nivei stendardi agitati dal vento: la creatura che aveva portato sul dorso la sola Regina che l’Eldwold avesse mai avuto, in tempi ormai remoti.

Ripeté dolcemente tra sé il nome di quel meraviglioso uccello: Liralen. E subito, seduta sul pavimento sotto la cupola, con in grembo il libro ancora aperto, lanciò nell’immensa notte dell’Eldwold il richiamo che doveva far accorrere quell’animale di cui nessuno, da secoli, faceva più il nome.

Ma il richiamo venne bruscamente interrotto da qualcuno che gridava, fermo davanti alle sbarre del suo cancello chiuso.

Con una leggera carezza della mente, Sybel destò il Leone Gules, che dormiva nel giardino, ordinandogli di raggiungere il cancello con il suo passo felpato e di puntare sull’intruso il suo occhio dorato, come avvertimento.

Ma le grida continuarono, pressanti, incoerenti.

Lei sospirò, esasperata, e diede disposizioni al Falco Ter di sollevare il nuovo venuto e di buttarlo giù dalla cima del Monte Eld.

Un istante più tardi, il clamore cessò bruscamente, ma poi, con grande stupore di Sybel, il silenzio venne nuovamente interrotto dall’acuto, lamentoso vagito di un neonato.

A questo punto, Sybel finalmente si decise ad alzarsi e ad attraversare a piedi nudi il corridoio di marmo. Entrò nel giardino, dove, tutt’intorno a lei, gli animali si agitavano inquieti nel buio. Giunse al cancello, di sottili sbarre di ferro e cerniere dorate, e guardò fuori.

Vide un uomo armato, con un neonato tra le braccia e con il Falco Ter sulla spalla. L’uomo taceva, raggelato nell’immobilità, in balia della stretta del Falco; il bambino che teneva tra le braccia coperte di maglia di ferro piangeva, ignaro di tutto.

La faccia dell’uomo era immobile e indistinguibile nella penombra; da essa, lo sguardo della donna corse agli occhi del rapace.

“Ti avevo ordinato” gli disse in un colloquio mentale tra loro due soli “di buttarlo giù dalla cima del Monte Eld!”

Gli occhi azzurri e inflessibili del Falco si fissarono in quelli di Sybel.

“Tu sei giovane” le rispose mentalmente “ma hai certamente un grandissimo potere e, se me lo ordinassi una seconda volta, dovrei obbedirti.

“Ma, prima, conoscendo da innumerevoli anni le loro abitudini, desidero darti un avvertimento: se inizi a uccidere gli uomini, finirà che, un giorno o l’altro, essi, impauriti, accorreranno quassù in grande numero, raderanno al suolo la tua casa e disperderanno i tuoi animali.

“Questo ci ha ripetuto molte volte Mastro Ogam, tuo padre.”

Sybel, indispettita, batté per terra il piede scalzo. Ritornò a fissare negli occhi l’uomo e gli domandò:

— Chi siete? Perché vi presentate con tanto baccano davanti al mio cancello?

— Signora — disse l’uomo, parlando con cautela poiché le penne arruffate dell’ala del Falco Ter gli sfioravano la faccia — siete la figlia di Laran, che era figlia di Horst, Signore di Hilt?

— Laran era mia madre — disse Sybel, spostando con impazienza da un piede all’altro il peso del corpo. — Voi chi siete?

— Coren del Sirle. Mio fratello ha avuto un figlio da vostra zia… la sorella minore di vostra madre.

Poi l’uomo s’interruppe, serrando i denti e torcendo le labbra. Sybel sollevò una mano all’indirizzo del Falco Ter.

“Lascialo libero” comunicò all’animale “perché altrimenti mi costringerà a stare qui tutta la notte. Ma non allontanarti: potrebbe essere un pazzo.”

Il Falco si alzò in volo, e poi planò sino a raggiungere un ramo basso di un albero, al di sopra della testa dello sconosciuto. L’uomo strinse gli occhi per un istante; piccole perline di sangue sgorgarono come lacrime dalla sua cotta di maglia di ferro.

Alla luce della luna, sembrava molto giovane. Aveva i capelli color del fuoco. Sybel lo guardò incuriosita, perché il metallo di cui era coperto, anello dopo anello, scintillava come la superficie dell’acqua corrente sotto il cielo notturno.

— Perché siete vestito così? — gli chiese.

L’uomo riaprì gli occhi che aveva chiuso per il dolore.

— Vengo ora da Terbrec — disse.

Poi alzò lo sguardo verso la sagoma scura dell’uccello che incombeva sopra di lui.

— Dove avete trovato un simile falco? — chiese alla donna. — Con i suoi artigli ha trapassato il metallo, il cuoio e la seta…

— Una volta — disse Sybel — ha ucciso sette uomini che avevano ammazzato il mago Aer per rubargli le gemme incastonate nei suoi libri di sapienza.

— Il Falco Ter… — disse il giovane, con un filo di voce, e le sue sopracciglia si alzarono per la sorpresa.

— Chi siete? — gli chiese Sybel.

— Ve l’ho già detto. Coren del Sirle.

— Per me — disse Sybel — questo nome non significa niente. Cosa fate, qui, davanti al mio cancello, con in braccio un bambino in fasce?

Coren del Sirle rispose assai lentamente, con molta pazienza:

— Vostra madre, Laran, aveva una sorella chiamata Rianna, vostra zia. Si è sposata tre anni fa con il Re di Eldwold. Mio…

— Come si chiama il Re, attualmente? — domandò Sybel, incuriosita.

Il giovane s’interruppe per un istante, sorpreso dalla domanda, poi spiegò:

— Drede. Drede è il Re di Eldwold da quindici anni.

— Ah. Continuate… Allora, Drede ha sposato Rianna. Si tratta di cose estremamente interessanti, ma io devo chiamare il Liralen.

— Vi prego! — esclamò Coren, lanciando un’occhiata al Falco Ter.

Poi abbassando la voce:

— Ho combattuto per tre giorni sul campo di Terbrec — spiegò. — Poi mio zio mi ha gettato tra le braccia un bambino e mi ha ordinato di portarlo alla Maga del Monte Eld. “Supponiamo” gli ho detto allora io “che lei non lo voglia prendere? Che cosa se ne fa di un bambino?” E lui mi ha guardato e mi ha detto: “Quando ritornerai da quel Monte, il bambino non dovrà più essere con te. Vuoi forse vedere morto il figlio di tuo fratello?”

— Ma perché dovete darlo proprio a me? — gli chiese Sybel.

— Perché è il figlio di Rianna e di Norrel, ed entrambi sono morti.

Lei batté gli occhi, senza capire. — Ma avete detto — obiettò — che Rianna era moglie di Drede.

— Infatti.

— Allora, come fa, il bambino, a essere figlio di Norrel? C’è qualcosa che mi sfugge.

La voce di Coren divenne minacciosa. — Perché Norrel e Rianna erano amanti. E Drede ha ucciso Norrel tre giorni fa, sulla Piana di Terbrec. Allora, vi decidete a prendere questo bambino, in modo che io possa tornare laggiù a uccidere Drede?

Sybel lo guardò con quei suoi occhi neri che non tremavano mai.

— Voi non dovete alzare la voce con me — gli disse, in tono quasi inudibile.

Le mani di Coren, dentro i guanti di maglia, continuavano a serrarsi a pugno e poi ad aprirsi. Fece un passo verso di lei, e la luce della luna gli illuminò le lunghe ossa della faccia, gli sottolineò le rughe scavate dalla stanchezza sotto i suoi occhi.

— Mi dispiace — mormorò. — Ve ne prego. Cercate di capire. Ho cavalcato per gran parte del pomeriggio e per metà della notte. Mio fratello e molti dei nostri uomini sono morti. Il Signore di Niccon ha unito le sue forze a quelle di Drede, e il Sirle non può resistere a tutti e due.

“Rianna è morta dando alla luce il figlio. Se Drede troverà il bambino, lo ucciderà per vendicarsi. In tutto il Sirle non c’è un posto dove il bambino non corra pericolo. L’unico luogo dove può stare al sicuro è qui, presso di voi, dove a Drede non verrà in mente di cercarlo. Drede ha ucciso Norrel, ma io ho giurato di non fargli mai mettere le mani su questo bambino. Vi prego. Prendetevi cura di lui. Sua madre apparteneva alla vostra famiglia.”

Sybel chinò lo sguardo sul neonato. Aveva smesso di piangere; tutt’intorno, la notte era silenziosa e immobile. Il piccolo muoveva lentamente i piccoli pugni, e spingeva le braccia contro la morbida coperta in cui era avvolto. Sybel gli sfiorò il visino pallido e tondo, e il bambino girò gli occhi verso di lei, ammiccanti come stelle.

— Anche mia madre è morta nel darmi alla luce — disse Sybel. — Come si chiama il bambino?

— Tamlorn — disse Coren.

— Tamlorn. Un bel nome. Peccato che non sia una bambina.

— Se fosse una bambina — disse Coren — non avrei dovuto fare tutta questa strada per nasconderlo. Drede teme che lui, in futuro, rivendichi la legittimità e si metta a combattere contro l’erede da lui scelto.

“Il Sirle appoggerebbe la rivendicazione di Tamlorn. La mia gente mira da tempo alla corona di Eldwold: la desidera fin da quando, dopo la disfatta di Re Harth nelle Terre Incolte, Tarn del Sirle occupò il trono per dodici anni, e poi lo perse di nuovo.”

— Ma se tutti sanno che non è figlio di Drede… — disse Sybel.

— I soli che conoscevano la verità — ribatté Coren — erano Drede, Rianna e Norrel, e gli ultimi due sono morti. I figli illegittimi dei Re possono divenire molto pericolosi.

— Lui non mi sembra pericoloso — disse Sybel, e con un sussurro della mano gli passò sulla guancia le dita pallide e sottili. Sulle labbra le si disegnò per un attimo un sorriso distaccato.

Disse: — Si accorderà bene, secondo me, con il resto della collezione.

Coren si strinse al petto il bambino.

— È il figlio di Norrel — protestò. — Non è un animale.

Sybel sollevò lo sguardo, senza battere ciglio.

— No? — disse. — Mangia, e dorme, e non pensa, e richiede particolari attenzioni. Solo… non so cosa fare, con un bambino. Non è in grado di farmi sapere ciò che gli occorre.

Coren rimase in silenzio per qualche istante. Poi, quando riprese a parlare, nella sua voce comparve un velo di stanchezza.

— Voi siete una donna — disse. — Dovreste sapere queste cose.

— Perché? — chiese lei.

— Perché… perché un giorno o l’altro anche voi avrete dei figli, e dovrete sapere come prendervi cura di loro.

— Non c’è mai stata nessuna donna che si sia presa cura di me — disse Sybel. — Mio padre mi ha nutrito con latte di capra e mi ha insegnato a leggere i suoi libri. Suppongo, quando e se avrò un figlio, che gli insegnerò a prendersi cura degli animali al posto mio, per quando non ci sarò più.

Coren la fissò a bocca aperta.

— Se non fosse perché l’ho promesso a mio zio — disse piano — riporterei il bambino a casa sua, invece di lasciare il figlio di Norrel qui con voi, con la vostra ignoranza e con il vostro cuore di ghiaccio.

La faccia di Sybel, di fronte a quella di Coren, divenne immobile come quella della luna piena che campeggiava sopra di loro.

— L’ignorante siete voi — bisbigliò la ragazza. — Potrei dire al Falco Ter di farvi in sette pezzi e di gettare la vostra testa sulla Piana di Terbrec senza più una goccia di sangue, ma cerco con tutte le mie forze di moderarmi. Guardate!

Spalancò il cancello. Le tremavano le dita per la collera, una collera che soffiava dentro di lei come un chiaro vento di montagna. Lanciò bruschi ordini all’indirizzo delle menti che la circondavano, perdute nei sogni. E, come in sogno, gli animali le si avvicinarono lentamente.

Coren entrò nel giardino, fermandosi accanto a lei. Si appoggiò il bambino su una spalla, proteggendogli la schiena con le braccia coperte di maglia e reggendogli con una mano la testa. Intanto, i suoi occhi, spalancati per la meraviglia, scivolavano lungo le forme che vedeva muoversi e frusciare nell’oscurità.

Per primo li raggiunse il grande Cinghiale Cyrin dalle zanne di marmo che, bianche come un fuoco acceso nel buio, di notte continuavano ad apparire ai cacciatori come un incubo, e dalla gola di Coren uscì un suono inarticolato.

Sybel posò una mano sugli occhi del Cinghiale, piccoli e rossi, e disse:

— Credete che dopo essermi presa cura di questi animali non sia in grado di fare altrettanto per un bambino? Questi animali sono antichi, possenti come Principi, saggi, inquieti e pericolosi, e io li governo e li domino. Mi prenderò cura di questo bambino allo stesso modo. Se non siete soddisfatto, potete andarvene. Non sono stata io a chiedervi di venire qui con un lattante; se adesso intendete portarvelo via, per me fa lo stesso. Può darsi che io non conosca il vostro mondo, ma qui voi siete nel mio mondo, e siete uno sciocco.

Coren fissò il Cinghiale Cyrin, faticando a trovare le parole.

— Il Cinghiale Cyrin — mormorò. — E voi lo avete.

S’interruppe. La bocca gli era rimasta aperta; respirava a scatti. Poi prese a parlare in tono sognante, come se ricordasse cose apprese nel tempo passato.

— Rondar… — disse — Re di Runrir, s’impadronì del Cinghiale Cyrin che nessuno era mai riuscito a catturare fino a quel momento. L’elusivo Cyrin, Maestro degli Enigmi, e… Chiese o la vita di Cyrin o tutta la saggezza del mondo.

“E Cyrin sollevò una pietra che stava ai piedi di Rondar, e questi, dicendo che si trattava di una cosa inutile, si allontanò a cavallo, senza smettere di cercare…”

— Come sapete questa storia? — gli chiese Sybel, stupefatta. — Non è una storia dell’Eldwold.

— La conosco — disse Coren.

Poi sollevò la testa e tornò a stringere il bambino fra le braccia perché aveva visto scendere una grande forma silenziosa, un’ombra più nera nel buio della notte. Il Cigno chiuse elegantemente le ali davanti a lui, e Coren vide che aveva il dorso largo almeno come quello del Cinghiale, e che aveva gli occhi neri come la notte che separa tra loro due stelle.

— Il Cigno di Tirlith… È davvero il Cigno Nero? È lui, Sybel?

— Come fate a conoscere il mio nome? — bisbigliò lei.

— Lo conosco.

Coren osservò la Gatta e il Leone che giungevano senza far rumore dai due lati opposti del giardino, e deglutì a vuoto. Tamlorn si agitò fra le sue braccia, ma Coren non si mosse. La Gatta Moriah si avvicinò a loro, sollevò la testa nera e piatta per farsi accarezzare da Sybel, poi si raggomitolò sui suoi piedi e sbadigliò guardando fisso Coren, mostrando i denti simili a gemme levigate e lucide.

— La Gatta Moriah… Signora della Notte, che insegnò al mago Tak l’incantesimo che apriva la torre senza porte in cui era imprigionato. Non… non conosco il Leone…

Gules, dagli occhi simili a due polle d’oro liquido, girò attorno alle gambe di Coren, sfiorandogli la pelle, per poi sederglisi di fronte. Sotto il suo lucente mantello, i muscoli guizzavano l’uno nell’altro, sicuri e frementi.

Coren si affrettò a fare un cenno d’assenso.

— Aspettate! — disse. — Nel Deserto Meridionale c’era un Leone che dispensava saggezza alla corte di grandi signori, nutrito a ricchi bocconi, che portava collari e catene di ferro e d’oro finché non gliene passava la voglia: Gules!

— Come sapete queste cose? — gli chiese Sybel.

La grande testa del Leone si volse verso la ragazza.

“Dove hai trovato quest’uomo?” le chiese mentalmente, incuriosito.

“Mi ha portato un bambino” gli rispose lei con indifferenza. “Sa anche il mio nome, e non so come faccia a conoscerlo.”

— Una volta, il Leone parlava — disse Coren.

— Una volta — ribatté Sybel — questi animali parlavano tutti. Si sono rinselvatichiti: sono stati lontano dagli uomini per così tanto tempo che si sono dimenticati il nostro linguaggio, eccetto il Cinghiale Cyrin. Esattamente come è successo agli uomini — a molti uomini, almeno — che si sono dimenticati del loro nome. Ma voi…

Coren, accanto a lei, trasalì; anche Sybel guardò in alto. Due grandi ali salirono a nascondere la luna, si allungarono con la loro ombra a coprirli e poi si abbassarono: ognuno dei battiti di quelle ali risucchiò un respiro di vento. Tamlorn prese a scalciare, inquieto, fra le braccia di Coren e gli vagì lamentosamente all’orecchio.

Il Drago scese lentamente davanti a loro, illuminando il giovane di un vivace riflesso verde. La sua ombra si allargò ai loro piedi: era enorme. Nella mente di Sybel, la voce del Drago Gyld aveva un suono antico e scricchiolante come quello di un rotolo di pergamena.

“Conosco una caverna, nelle montagne” le suggerì “dove nessuno ritroverebbe più le sue ossa…”

“No” rispose Sybel. “Ti ho chiamato perché ero in collera, ma adesso non lo sono più. Non bisogna fargli del male.”

“È un uomo” osservò Gyld. “Ed è armato.”

“Non toccarlo.”

Sybel si volse verso Coren, che in quel momento era ancora intento a fissare il Drago. Sentendosi ignorato, Tamlorn si divincolava e piangeva fra le sue braccia. Sybel all’improvviso sorrise.

— Voi conoscete il mio Drago! — esclamò.

— Il suo nome non è così antico da essere stato dimenticato dagli uomini — rispose Coren. — Ci fu una volta un Principe di Eldwold che partì con ricchi doni da portare al di là del Monte, a un signore del Sud, da cui voleva uomini e armi. Di quel Principe non furono mai più ritrovati né il tesoro né le ossa. E si parla ancora del fuoco che scendeva su Mondor dal cielo d’estate, delle messi bruciate, del Fiume Slinoon che fumava nel suo letto.

— Adesso, il Drago è vecchio e stanco — disse Sybel. — Quel tempo è ormai passato. Io possiedo il suo nome, e lui non può liberarsi da me e tornare a fare le cose che voi dite.

Alla fine, Coren si decise a cambiare posizione a Tamlorn, e il bambino si acquietò. Gli scuri segni di stanchezza gli erano scomparsi dalla faccia, che per un momento parve solo quella di un uomo molto giovane e perplesso. L’uomo abbassò lo sguardo su Sybel.

— I vostri animali sono bellissimi — disse. — Davvero.

La fissò ancora per un istante, prima di riprendere a parlare.

— Devo andare — disse. — A Mondor saranno giunte le prime notizie della battaglia. Mi tormenta l’idea che i miei fratelli siano morti e che io non lo sappia ancora.

“Accettate di prendere con voi Tamlorn? Qui sarà certamente al sicuro, con simili guardiani! Lo amerete? Questo… questo è ciò che soprattutto gli occorre.”

Sybel annuì, senza parlare. Goffamente prese in braccio il piccino, che, incuriosito, cominciò a tirarle i lunghi capelli.

— Ma… — chiese lei — come sapete tutte queste cose? Come sapete il mio nome?

— Oh — rispose Coren. — Ho chiesto informazioni a una vecchia che abita lungo la strada, qui sotto di voi. È stata lei a darmi il vostro nome.

— Non conosco nessuna vecchia — disse Sybel.

Coren sorrise, ripensando all’episodio.

— Dovreste conoscerla — disse. — Credo che… se avrete bisogno di qualche consiglio per allevare Tamlorn, quella donna sia in grado di darvelo.

S’interruppe, per fissare il bambino. Gli sfiorò la guancia morbida e tonda, e dalle labbra gli scomparve il sorriso: sul viso gli rimase soltanto un’espressione di tristezza sorda, di stupore.

— Addio. Grazie — mormorò, voltandosi.

Lei lo seguì fino al cancello.

— Addio — gli disse da dietro le sbarre mentre lui si accingeva a montare in sella. — Non conosco la guerra, ma so cosa sia la tristezza. Ed è la sola cosa, penso, che vi state passando l’un l’altro, nella Piana di Terbrec.

Lui, con un piede già nella staffa, si voltò a guardarla.

— È vero — disse. — Lo so.

Quando si allontanò dal cancello per rientrare in casa, Sybel vide luccicare gli occhi piccoli e tondi, color della brace, del Cinghiale Cyrin. Sentì anche agitarsi, tutt’intorno a lei, la mente degli altri animali, e con uno sforzo li costrinse a tacere.

“Adesso” disse loro “potete andarvene. Mi spiace di avervi svegliato, ma ero irritata.”

Il Cinghiale Cyrin, però, non si mosse.

“Non puoi dare l’amore” le disse “se prima non l’hai avuto”.

“Bell’aiuto mi dai” gli rispose Sybel con irritazione. Il grande Cinghiale emise un breve sbuffo che per lui era l’equivalente di una risata.

“Quella vecchia” spiegò a Sybel “ha scavalcato una volta il muro di cinta per cercare delle erbe. Io le ho sbuffato contro, e lei ha sbuffato contro di me. Potrebbe davvero aiutarti. Cosa sei disposta a darmi in cambio di tutta la saggezza del mondo?”

“Niente” rispose Sybel “perché in questo momento non mi serve. Dalla a Coren del Sirle, che dice che ho il cuore di ghiaccio.”

Il Cinghiale Coryn sbuffò di nuovo, ma piano.

“Davvero” scherzò “gli servirebbe un po’ di saggezza”.

“È quanto gli ho detto anch’io” rispose Sybel.


Il mattino dopo, Sybel lasciò la casa bianca e discese lungo il sentiero che portava alla più vicina città. I grandi, antichi pini ondeggiavano al vento, cigolando e gemendo all’approssimarsi dell’inverno. Sotto i suoi piedi nudi, i loro aghi erano morbidi e freddi, rallegrati qua e là da un obliquo raggio di sole.

In una bianca e soffice coperta di lana, Sybel portava con sé Tamlorn addormentato. Lo sentiva tiepido e dolcemente pesante tra le sue braccia, morbido e profumato dopo il bagno. Una sola volta lei si fermò: per strofinare il naso contro i suoi morbidi capelli chiarissimi.

— Tamlorn — sussurrò. — Il mio Tamlorn.

Scorse infine una piccola casa in mezzo agli alberi, con il camino che fumava. Sul tetto sonnecchiava un gatto grigio, raggomitolato su se stesso; su un paio di grandi corna di cervo sopra la porta era appollaiato un corvo dalle penne nerissime.

Alcune tortore che tubavano e becchettavano nel cortile si levarono in volo quando lei imboccò il sentiero che conduceva alla porta. Il corvo la guardò di lato, aprendo soltanto un occhio, e gracchiò un’unica volta, come per rivolgerle una domanda: “Chi è qua?”

Senza curarsi di lui, Sybel spalancò la porta. Poi s’immobilizzò sulla soglia, perché all’interno non c’era pavimento, ma solo una nebbia insondabile, inquieta, che le scorreva attorno ai piedi.

Si guardò attorno, perplessa, e vide che le pareti della casa le restituivano l’occhiata: avevano gli occhi, e la bocca scura e tonda. La porta le sfuggì di mano, le si chiuse alle spalle e la nebbia scivolò verso l’alto: prima si addensò attorno agli occhi cauti e attenti delle pareti, poi li coprì del tutto, fino a nascondere anche le travi del tetto. A quel punto il corvo uscì dalla nebbia per volare fino a lei e ripeterle la domanda: “Chi è qua?”

Tra le braccia di Sybel, Tamlorn prese ad agitarsi ed emise un vagito. Lei, sovrappensiero, lo baciò. Poi chiese, rivolta a quella casa strana e guardinga:

— Chi è la padrona di questo focolare?

La nebbia si diradò fino a sparire del tutto; le facce attente si ridussero a semplici nodi delle assi di pino che costituivano le pareti. Sybel scorse una vecchia alta e magra, con indosso una vestaglia color delle foglie, la faccia incorniciata di capelli bianchi, ricci e spettinati.

La vecchia si alzò dalla sedia a dondolo su cui riposava e batté le mani. Sybel notò che aveva le dita praticamente nascoste da grandi anelli, con gemme vistose.

— Un bambino! — esclamò allegramente la vecchia.

Prese Tamlorn dalle braccia di Sybel e gli rivolse dei suoni simili a quelli delle sue tortore. Il bimbo la fissò con attenzione e allungò improvvisamente la mano, per afferrarle il lungo naso. Poi sorrise, mostrando le gengive sdentate, quando lei se lo strinse al petto.

A quel punto la vecchia volse finalmente lo sguardo verso Sybel, fissandola con due occhi grigi come l’acciaio, più affilati della spada di un Re.

— Tu — disse.

— Io — rispose Sybel. — Ho bisogno dei vostri consigli, se sarete così gentile da darmeli.

— Con il Cinghiale Cyrin e il Leone Gules a consigliarti, bambina, tu vieni proprio da me? Oh, hai davvero dei bei capelli, lo sai? Così lunghi e fini… Non te l’ha mai detto nessun uomo?

— Al Cinghiale Cyrin e al Leone Gules nessuno ha mai affidato un bambino in fasce — disse Sybel. — Io devo provvedere a lui e il bambino non è in grado di farmi sapere i suoi bisogni. Cyrin mi ha detto che voi potreste aiutarmi, visto che gli avete restituito uno sbuffo. A volte, Cyrin è davvero incomprensibile. Ma, voi, potete aiutarmi?

— Già, per quelle cipolle — disse la vecchia.

Sybel la fissò, senza capire. Poi disse:

— Vecchia, sono stata sotto lo sguardo del vostro focolare mentre voi mi osservavate, e chiunque possegga un simile occhio interiore non può essere uno sciocco. Mi aiuterete?

— Certo, bambina — disse la vecchia. — Come vedi, ti ho lasciato entrare. Quanto alle cipolle… sono quelle che hai nel tuo orto. Mi è tornato in mente l’episodio. Potrò prenderne qualcuna, di tanto in tanto?

— Certamente — disse Sybel.

— Senza cipolle, il brodo non sa di niente. Accomodati. Là, su quella pelle di pecora, accanto al fuoco. Me l’ha regalata un uomo della città, che era stanco della moglie e che desiderava sbarazzarsene — disse la vecchia tornando a sedere sul suo dondolo.

— Gli uomini della città sono molto strani — disse Sybel. — Io non sono molto esperta di amore e di odio, capisco solo l’esistere e il conoscere. Adesso devo imparare ad amare questo bambino.

S’interruppe per qualche istante, corrugando lievemente le sopracciglia. Poi riprese:

— Credo però di volergli già bene. È morbido e delicato, e mi sta bene fra le braccia. Se Coren del Sirle tornasse a riprenderlo, non vorrei più restituirglielo.

— Giustamente — disse la vecchia.

— Perché? — chiese Sybel.

— Perché è il figlio di Drede. Me lo hanno riferito i miei uccelli.

— Coren diceva che era figlio di Norrel.

Le labbra sottili della vecchia si curvarono in un sorriso.

— Ne dubito — disse. — Credo sia figlio del Re Drede. A palazzo reale c’è un corvo che non prende mai sonno.

Sybel la fissò a bocca aperta. Trasse un breve respiro.

— Io non capisco questo genere di cose — ammise. — Ma adesso devo amarlo. È una cosa molto strana. Ho i miei animali da sedici anni, e ho questo bambino da una sola notte; eppure, se dovessi scegliere tra tutti, ho l’impressione che finirei per scegliere il bambino, anche se non è capace di fare niente e non è in grado di capire niente. Forse perché gli animali, se si allontanassero da me, non avrebbero bisogno di nessuno, mentre il mio Tamlorn ha bisogno di tutto. Da me.

La donna la guardò senza parlare, continuando a dondolarsi. Sulle sue dita, le gemme rifrangevano il bagliore del fuoco.

— Sei una strana bambina… così priva di timori e così forte da poter comandare i tuoi grandi e nobili animali. Mi chiedo se non ti senti sola, a volte.

— Per quale motivo? — domandò Sybel. — Ho molti con cui parlare. Mio padre ha sempre parlato poco, e io ho imparato da lui il silenzio: un silenzio della mente che è come l’acqua immobile e chiara, sotto cui non si può nascondere niente. È stata la prima cosa che mi ha insegnato, perché, se non riuscirai a conservare un assoluto silenzio, non sarai mai in grado di udire risposta al tuo richiamo. E ieri notte, quando è arrivato Coren, stavo cercando di chiamare il Liralen.

— Il Liralen… — disse la vecchia, e il suo volto si addolcì, fino ad apparire infinitamente giovane e sognante sotto i ricci spettinati.

— Il Liralen — riprese — dalle ali che sventolano come bandiere, dalle piume color della luna… Oh, bambina, quando riuscirai finalmente a catturarle, fammelo vedere!

— Ve lo farò vedere — promise lei — ma è molto difficile da rintracciare, specialmente quando sono interrotta dall’arrivo di qualcuno che mi porta un bambino. Da piccola, mio padre mi dava del latte di capra, ma credo che a Tamlorn non piaccia.

La vecchia sospirò. — Vorrei poterlo allattare io, ma una mucca ti sarebbe più utile, a meno di non trovare qualche donna della montagna disposta a prenderlo a balia.

— È mio — disse Sybel. — Non voglio che un’altra donna cominci a volergli bene.

— Certo, bambina, certo, ma… A me permetterai di volergli bene, almeno un poco? Da tantissimo tempo non ho più avuto nessun bambino da amare. Ruberò a qualcuno una mucca, e lascerò al suo posto un gioiello.

— Potrei chiamarla io — suggerì Sybel.

— No, bambina. Se qualcuno ruba qualcosa, il ladro devo essere io. Tu devi pensare a te stessa; a quel che succederebbe se la gente cominciasse a pensare che le porti via gli animali.

— Non ho paura della gente — disse Sybel. — La gente è sciocca.

— Sì, bambina, ma riesce a essere molto forte, quando ama e quando odia. Tuo padre, quando parlava con te, ti dava un nome?

— Certo: Sybel. Ma lo sapevate senza bisogno di chiedermelo.

Gli occhi grigi della vecchia si volsero verso di lei.

— Oh, certo. I miei uccelli vanno dappertutto… Ma c’è una certa differenza tra il nome che hai sentito pronunciare da altri e quello che ti è comunicato da chi lo porta. Io mi chiamo Maelga, e come si chiama il bambino? Sei disposta a darmi in dono il suo nome?

Sybel sorrise. — Certo. Sono lieta di darvelo. Si chiama Tamlorn.

Si chinò su di lui, sfiorandogli con i bianchi e lunghi capelli la faccia piccola e tonda.

— Tamlorn. Il mio Tamlorn — mormorò, e Tamlorn rise.

Fu così che Maelga rubò una mucca, lasciando al suo posto un anello con una grossa gemma; per mesi, da quel giorno in poi, la gente lasciò aperta la porta della stalla, speranzosamente. Tamlorn crebbe alto e forte, con i capelli chiari e gli occhi grigi, ridendo e correndo nei corridoi bianchi e silenziosi, giocando con i pazienti animali e dando loro da mangiare.


Passarono gli anni, e lui divenne agile e abbronzato. Esplorò il Monte Eld insieme con i pastorelli che vi abitavano, scalandone la cima coperta di nebbie, cercandone le caverne più profonde, portando a casa volpi rosse, uccelli e rare erbe che servivano a Maelga.

Sybel continuò a cercare il Liralen, chiamandolo durante la notte, sparendo per intere giornate per poi infine ricomparire, tenendo sotto il braccio qualche antico libro adorno di gemme, chiuso da serrature di ferro, che forse conteneva il suo nome.

Dopo quei furti Maelga la sgridava sempre, e lei rispondeva, distrattamente:

— Li rubo a piccoli maghi, che d’altronde non saprebbero come usarli. Io devo avere quel Liralen. È la mia ossessione.

— Un giorno — prevedeva Maelga — offenderai un grande stregone, credendo che si tratti di un maghetto qualsiasi.

— E allora? Anch’io sono una grande maga. E devo assolutamente avere il Liralen.

Una sera, dodici anni dopo la notte in cui Coren le aveva portato Tamlorn, Sybel scese nella caverna fredda e profonda costruita da Myk per il Drago Gyld. Era dietro un rivo di acqua corrente, e gli alberi che la circondavano erano grandi e immobili come le colonne destinate a reggere la cupola di un tempio dedicato al silenzio.

Sybel scese lungo tre grandi rocce fino a raggiungere una cascata, poi vi scivolò dietro, con l’acqua che le scorreva sulla faccia come un velo di lacrime.

All’interno, la caverna era scura e umida come il cuore stesso della montagna: gli occhi verdi di Gyld brillavano come una coppia di smeraldi.

La grande massa del Drago accovacciato era solo un’ombra nel buio, ma Sybel vi si fermò davanti, come una sottile pallida fiamma della notte, e la fissò in quei suoi occhi che non battevano ciglio.

“Sì?” chiese Sybel.

Nella mente del Drago cominciarono ad affacciarsi i primi pensieri, lenti e informi come le scure bolle d’aria che si alzano dal fondo di una palude. Poi, finalmente, lasciarono il posto al crepitio secco, pergamenaceo, della sua voce mentale:

“Sono passati ormai mille anni da quando mi addormentai sull’oro del Principe Sirkel, e ricordo ancora che mi assopii mentre davo un ultimo sguardo ai suoi occhi spalancati e al suo sangue che sgocciolava lentamente da una moneta all’altra, per raccogliersi infine nella cavità di una coppa.”

La voce mentale si ridusse a un sussurro. Nel profondo silenzio, un’altra bolla di pensiero si formò, per poi scoppiare.

“Io sogno quell’oro” riprese il Drago “e spesso mi sveglio perché desidero guardarlo, ma l’oro non è qui. Quando mi sveglio, vedo solo la fredda pietra. Permettimi di radunarlo ancora una volta!”

Sybel rimase in silenzio come un sasso scaturito dal pavimento di pietra della caverna. Poi disse:

“Dovresti levarti in volo, e gli uomini ti vedrebbero e si ricorderebbero con terrore delle tue antiche imprese. Verrebbero alla mia casa, e vedendo l’oro brillare al sole niente più li frenerebbe dal distruggerla.”

“No” disse il Drago Gyld. “Volerei solo di notte e radunerei il mio oro in segreto. Se qualcuno mi vedesse, lo ucciderei senza farmi vedere.”

“In tal caso” disse lei “verrebbero a ucciderci entrambi.”

“Nessun uomo sarebbe capace di uccidermi” disse il Drago.

“E non pensi a me? E a Tamtam? No.”

La grande, informe massa del drago si scosse; Sybel sentì giungere fino a lei il suo caldo sospiro.

“Ero ormai vecchio e dimenticato” disse Gyld “quando Mastro Myk, pronunciando il mio nome, mi destò dalle arterie cave del Monte Eld e mi scosse dai sogni cantandomi le mie passate imprese. Era bello sentirsi cantare ancora una volta… è bello udire il mio nome dalle tue labbra, ma io devo assolutamente riavere il mio dolce oro.”

Rapido e contorto come un serpente, il suo pensiero si allontanò da Sybel e scivolò nelle caverne della stessa mente, fino all’oscuro labirinto che ne costituiva il centro.

Nel trasportare il proprio nome nelle profonde regioni dell’oblio, dove era sconosciuto perfino a se stesso, il Drago fu svelto come l’acqua che scompare nella sabbia, furtivo come l’uomo che ne seppellisce un altro al chiaro della luna… ma Sybel arrivò laggiù prima di lui, e lo attese dietro l’ultima porta della sua mente.

Gyld se la trovò improvvisamente di fronte, tra i confusi frammenti dei suoi ricordi di massacri, di piaceri e di pasti consumati a metà, e Sybel gli disse:

“Se il tuo desiderio si spinge fino a questo punto, cercherò di accontentarti. Non fare niente, cerca di avere pazienza. Devo rifletterci.”

Il Drago tornò a respirare, e ancora una volta, nella caverna, sgorgarono i suoi pensieri.

“Fa’ questo, solo questo, per me” disse. “Io avrò pazienza.”

Sybel uscì dalla caverna, con l’acqua che le luccicava tra i capelli, e respirò profondamente la fresca aria notturna. Pensò al volo del Drago, simile al guizzo di una liscia fiamma, e pensò a quelle due polle profonde e tranquille che erano gli occhi del Cigno Nero. Il ricordo della mente affilata del Drago e delle braci confuse della sua passione si dileguò pian piano dai suoi pensieri.

Poi, udì dietro di sé un fruscio che sembrava provenire dal terreno scuro e tranquillo, ed ebbe la netta impressione di essere spiata.

— Tamlorn? Maelga? — chiamò.

Ma non le rispose alcuna voce, non le parlò alcuna mente. Intorno a lei s’innalzavano solo gli alberi neri, simili a monoliti di pietra, che coprivano la vista delle stelle. Il fruscio scomparve nel silenzio, come lo spegnersi di un alito di vento.

Aggrottando le sopracciglia, Sybel tornò a casa.

Qualche giorno più tardi, si recò da Maelga e si sedette sulla pelle di pecora, accanto al fuoco, prendendosi fra le braccia le ginocchia. La vecchia stava facendo bollire una delle sue minestre; la guardò con attenzione.

— Nella foresta — disse Sybel — c’è una creatura senza nome.

— E tu ne hai paura? — le chiese Maelga.

Sybel sollevò lo sguardo per guardarla. Era sorpresa dalla domanda.

— No, naturalmente — disse. — Ma come posso chiamarla, se non ha nome? È molto strano. Non ricordo di avere mai letto di una creatura senza nome.

Poi cambiò discorso: — Che cosa stai preparando? Se già non avessi appetito, mi verrebbe a sentire questo profumo.

— Ci ho messo funghi — disse Maelga — cipolle, salvia, rape, cavoli, prezzemolo, zucca e altre cose che mi ha dato Tamlorn: cose senza nome.

— Un giorno o l’altro — disse Sybel — Tamlorn ci avvelenerà tutti.

Tornò ad appoggiare la testa alla pietra e trasse un profondo sospiro.

Maelga la fissò.

— Che cos’è? — le chiese. — Sei sicura che non abbia un nome?

Sybel cambiò posizione.

— Non lo so — disse. — In questo periodo sono un po’ irrequieta, ma non so esattamente cosa desidero. A volte vado a unirmi ai pensieri del Falco Ter, mentre caccia; ma non vola mai così in alto o così veloce come vorrei, anche se la terra sotto di noi pare correre a precipizio, e lui sale più in alto della vetta del Monte Eld…

“Ma poi mi trovo con lui anche quando uccide la preda. Per questo rimpiango di non avere il Liralen. Potrei cavalcargli sul dorso e volare lontano, al di là del tramonto del sole, nel mondo delle stelle. Vorrei… Desidero qualcosa di più di ciò che avevano mio padre e mio nonno, ma non so che cosa.”

Maelga assaggiò la minestra, nello sfarfallio delle gemme che portava alle dita.

— Ci vuole pepe — disse. — E timo. Soltanto ieri è venuta da me una ragazza che voleva intrappolare un giovanotto con un dolce sorriso e le braccia robuste. Quella ragazza era una sciocca: non perché desiderasse il giovane, ma perché desiderava, da lui, qualcosa di più.

— E voi l’avete aiutata? — chiese Sybel.

— Mi ha regalato una scatola di essenze profumate. E d’ora in poi sarà tormentata dalla gelosia, per il resto della sua vita.

Fissò Sybel, che sedeva accanto alle pietre con gli occhi nascosti nell’ombra, e sospirò.

— Bambina — le disse — posso fare qualcosa per te?

Sybel sollevò lo sguardo, con un debole sorriso.

— Dovrei aggiungere un uomo alla mia collezione? Non incontrerei alcuna difficoltà. Potrei chiamare chiunque desiderassi, ma non desidero nessuno.

“A volte gli animali vengono presi dall’irrequietezza, come adesso sta succedendo a me, perché sognano i giorni dei voli e delle avventure, quando accumulavano sapienza e udivano pronunciare con timore e reverenza il loro nome. Quei loro giorni sono passati; poche persone ricordano come si chiamano, ma gli animali continuano a sognare…

“Io penso al modo fermo e silenzioso in cui ho imparato ciò che so; penso che solo mio padre, e poi voi, e poi Tamlorn, mi avete restituito il mio nome. Credo che dovrei lasciare questa montagna per alcuni giorni, per andare a visitare lo strano, incomprensibile mondo che ci circonda.”

— Allora vai, bambina — disse Maelga.

— Potrei farlo. Ma chi penserà ai miei animali?

— Prendi un apprendista mago.

— Per il Falco Ter? Nessun apprendista sarebbe in grado di tenerlo. Quando avevo l’età di Tamlorn, io ero già in grado di dominarlo. Peccato che Tamlorn non sia un mezzo mago. Invece, è soltanto un mezzo Re.

— E tu non glielo hai mai detto, vero?

— Mi credete sciocca? — chiese Sybel. — Che vantaggi gli possono venire, dal saperlo? Un sogno di quel genere potrebbe dargli soltanto infelicità. E nel mondo sotto di noi, potrebbe addirittura condurlo alla morte. È meglio che pensi a giocare con i pastorelli e con le volpi, e che si sposi con qualche bella ragazza di montagna, quando avrà l’età giusta.

Sybel sospirò di nuovo, aggrottando le sopracciglia chiare. Poi si alzò in piedi, sorpresa, allorché la porta si aprì di scatto.

Entrò Tamlorn, che la fissò con preoccupazione; il ragazzo appariva teso, ed era coperto di sudore. Sulla faccia arrossata, i capelli madidi gli disegnavano chiare righe spioventi.

— Sybel. — disse. — Il Drago ha ferito un uomo. Vieni, presto!

Corse via, più rapido di una lepre, e lei lo seguì.

Quando giunse davanti alla casa, Sybel si arrestò e rimase immobile come un albero. Per cogliere i pensieri del Drago, le bastò formulare il suo nome.

“Gyld.”

Il Drago era raggomitolato nell’oscurità, in fondo alla sua umida caverna, e nella mente gli correvano i pensieri del volo, dell’oro, di una faccia pallida che si sollevava a guardarlo con la bocca spalancata, di due braccia che si alzavano bruscamente per tentare di proteggersi. A Sybel sfuggì un breve mormorio di sorpresa.

— Cos’è successo? — chiese Maelga, torcendosi nervosamente le mani.

Sybel si girò verso di lei.

— Il Drago Gyld — spiegò. — Era andato a prendere il suo tesoro, e, mentre tornava, un uomo l’ha visto. Allora, lui lo ha assalito.

— Oh, no! Cara… — esclamò Maelga. Poi, con i suoi occhi grigi, scrutò in faccia Sybel. — È un uomo che conosci?

— Sì, lo conosco — disse lei, lentamente, e la ruga che si era formata tra le sue sopracciglia si fece più profonda. — È Coren del Sirle.

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