Robert A. Heinlein Guerra nell’infinito

CAPITOLO I UN MESSAGGIO DA MARTE

«Buono, amico, buono!»

Don Harvey tirò le redini, per fermare il piccolo pony grasso; il cavallo, che generalmente faceva del suo meglio per meritare il nome che gli era stato impartito — e cioè Sonno — quel giorno pareva intenzionato a conoscere nuovi orizzonti. Non che Don lo biasimasse per questo. Era una di quelle giornate che si vedono soltanto nel Nuovo Messico, con il cielo limpido, pulito, azzurro, incredibilmente lavato da un rapido temporale, e con la terra già asciutta, ma con una pennellata d’arcobaleno ancora spruzzata all’orizzonte. Il cielo era troppo azzurro, le colline isolate, a strapiombo, erano troppo rosee, e il paesaggio all’orizzonte era troppo nitido, troppo chiaro, per apparire davvero convincente. Una pace incredibile era sospesa sul paesaggio, e quella pace era come un respiro trattenuto, un’attesa ansiosa che accadesse qualcosa di meraviglioso.

«Abbiamo un’intera giornata a disposizione,» avvertì sottovoce Sonno, «E non è il caso di correre tanto. Abbiamo una scalata piuttosto ripida, davanti a noi.» Don cavalcava da solo, perché aveva adornato Sonno con una splendida sella messicana che i suoi genitori gli avevano fatto recapitare per il suo compleanno. Era bellissima, scintillante d’argento, chiassosa, ma era fuori di posto nella scuola-fattoria che lui frequentava, come un abito da sera indossato per mungere le vacche… cosa, questa, che i suoi genitori non avevano capito. Don ne era orgoglioso, ma gli altri ragazzi avevano delle selle funzionali, spoglie; e così lo prendevano impietosamente in giro, e avevano trasformato «Donald James Harvey» in «Don Jaime», nel momento stesso in cui l’avevano visto apparire con essa.

Improvvisamente, Sonno s’impennò. Don si guardò intorno, scoprì il motivo di questo comportamento, estrasse la pistola, e fece fuoco. Poi scese di sella, lasciando pendere le redini, in modo che Sonno rimanesse dov’era, e andò a esaminare il suo lavoro. Nell’ombra di una roccia, un serpente di dimensioni ragguardevoli, con sette sonagli sulla coda, si stava ancora torcendo. La testa giaceva a poca distanza, recisa di netto dal colpo. Don decise di non conservare la coda; se avesse centrato perfettamente la testa, l’avrebbe portata con sé come prova della sua perizia. Invece, era stato costretto a tagliarla lateralmente, con il raggio della pistola, prima di colpirla. Se avesse portato con sé il cadavere di un serpente ucciso in una maniera così goffa, qualcuno gli avrebbe certamente chiesto perché non aveva usato una pompa da giardino.

Lasciò il serpente dov’era, e risalì in sella, dicendo a Sonno:

«Era solo un vecchio rettile buono a nulla,» fece, in tono rassicurante. «Ha avuto più paura lui di te.»

Ridacchiò, e fece ripartire il pony. Dopo poche centinaia di metri, Sonno s’impennò di nuovo, questa volta non per un serpente, ma per un suono inaspettato. Don tirò le redini, e disse, in tono severo:

«Grassone stupido che non sei altro! Quando imparerai a non saltare, quando suona il telefono?»

Sonno fece guizzare i muscoli delle spalle, in segno di sovrano disprezzo, e sbuffò rumorosamente. Don allungò la mano verso il pomo della sella, staccò il microfono, e rispose:

«Mobile 6-J-233309. Parla Don Harvey.»

«Don, sono il signor Reeves,» rispose la voce del direttore di Ranchito Alegre. «Dove ti trovi?»

«Sto scalando la mesa di Fossa del Viaggiatore, signor Reeves.»

«Torna indietro più presto che puoi.»

«Uh… che succede, signore?»

«Un radiogramma dei tuoi genitori. Manderò l’elicottero a prenderti, se il cuoco è già tornato… insieme a qualcuno che possa prendere il tuo cavallo.»

Don esitò. Non voleva che il primo venuto cavalcasse Sonno, senza saperlo trattare nella maniera giusta. D’altro canto, un messaggio dei suoi genitori non poteva non essere importante. I genitori di Don erano su Marte, e sua madre gli scriveva regolarmente, una lettera per ogni astronave… ma i radiogrammi all’infuori degli auguri di Natale e del compleanno, erano una cosa priva di precedenti.

«Corro subito, signor Reeves.»

«Bene.» Il signor Reeves tolse la comunicazione. Don fece girare Sonno, e cominciò a ripercorrere il sentiero dal quale erano venuti. Sonno parve deluso, e piegò il muso, voltandosi più volte a guardarlo con aria accusatrice.

L’elicottero li avvistò quando si trovavano a meno di mezzo miglio dalla scuola. Don indicò a grandi gesti al pilota di allontanarsi, e proseguì per la sua strada, in sella a Sonno. Malgrado la curiosità, indugiò nel recinto, per dissellare il pony e dargli da bere; poi entrò nell’edificio. Il signor Reeves lo stava aspettando nel suo ufficio, e non appena Don fece capolino, gli fece segno di entrare. Porse subito il messaggio al ragazzo.

C’era scritto: CARISSIMO DON, PASSAGGIO RISERVATO A TUO NOME SU VALCHIRIA CIRCUM-TERRA DODICI APRILE BACI — MAMMA E PAPÀ.

Don batté le palpebre, e rilesse il messaggio, faticando ad assimilare quelle semplici parole:

«Ma questo significa partire subito!» esclamò.

«Sì. Non te lo aspettavi?»

Don rifletté sulla domanda. Certo, si era aspettato di tornare a casa, più o meno confusamente… se poteva definire ‘tornare a casa’ la faccenda, quando in realtà lui non aveva mai messo piede su Marte… alla fine dell’anno scolastico. Se i suoi genitori avevano prenotato il passaggio a bordo della Vanderdecken, fra tre mesi…

«Be’, non esattamente. Non riesco a capire per quale motivo mi abbiano mandato a chiamare, prima della fine dell’anno scolastico.»

Il signor Reeves riunì le punte delle dita, con metodica calma.

«Personalmente, direi che il motivo è evidente.»

Don sobbalzò, sorpreso.

«Cosa intende dire? Non sarà… signor Reeves, lei non penserà davvero che ci saranno delle complicazioni, no?»

Il direttore rispose in tono grave:

«Don, io non sono un profeta. Ma immagino che i tuoi genitori siano sufficientemente preoccupati, per volerti allontanare da una potenziale zona di guerra al più presto possibile.»

Don faticava ancora a orientarsi. Le guerre, dopotutto, erano cose che si studiavano sui libri di storia, non cose che potessero accadere davvero. Naturalmente, durante il corso di storia contemporanea, si erano tenuti al corrente dell’attuale crisi negli affari coloniali, ma, ciononostante, la cosa era sembrata ugualmente remota, anche per una persona che aveva viaggiato ampiamente come lui… una faccenda che riguardava soltanto, i diplomatici e gli uomini politici, non una cosa reale.

«Mi ascolti, signor Reeves, loro potranno essere nervosi, ma io no. Vorrei mandare un messaggio radio, per avvertirli che partirò con la prossima astronave, subito dopo la fine della scuola.»

Il signor Reeves scosse il capo.

«No. Non posso permetterti di disobbedire alle istruzioni esplicite ricevute dai tuoi genitori. In secondo luogo, be’…» Apparentemente, il direttore aveva qualche difficoltà nello scegliere le parole, «…puramente in linea teorica, voglio dire, Donald, che in caso di guerra potresti trovare la tua posizione qui, come possiamo definirla?, be’, imbarazzante.»

Un vento freddo, apparentemente, era riuscito a trovare qualche fessura per entrare nell’ufficio del direttore. Don si sentì più solo e più adulto di quanto avrebbe dovuto sentirsi.

«Perché?» domandò, rigidamente.

Il signor Reeves si studiò accuratamente le unghie.

«Sei perfettamente certo di conoscere a chi tu debba obbedienza?

Don si sforzò di riflettere su questa domanda. Suo padre era nato sulla Terra; sua madre era una colona venusiana della seconda generazione. Ma né la Terra, né Venere, erano, in realtà, la loro patria; si erano conosciuti, e sposati, sulla Luna, e avevano compiuto le loro ricerche di planetologia in numerose regioni del sistema solare. Lo stesso Don era nato nello spazio siderale e il suo certificato di nascita, rilasciato dalla Federazione, aveva lasciato aperto il problema della sua nazionalità. Lui avrebbe potuto chiedere una doppia cittadinanza, per discendenza paterna e materna; questo gli sarebbe stato possibile. Lui non si considerava un colono di Venere; era passato tanto tempo, dall’ultima volta in cui la sua famiglia aveva visitato Venere, che quel mondo era distorto, aveva acquistato, nella sua mente, contorni vaghi e irreali. D’altra parte, lui aveva posato lo sguardo sulle dolci, verdi colline della Terra per la prima volta solo quando aveva compiuto undici anni.

«Sono cittadino del Sistema Solare.» disse, con voce un po’ incerta.

«Già, già,» rispose il direttore, pensieroso. «Questa è una frase bellissima, e può darsi che un giorno possa significare qualcosa. Nel frattempo, parlando da amico, ti posso dire che sono d’accordo con i tuoi genitori. È molto probabile che Marte rimanga un territorio neutrale; e tu sarai al sicuro, lassù. E, sempre parlando da amico… qui sulla Terra le cose potrebbero farsi piuttosto spiacevoli, per chiunque non abbia una posizione sufficientemente chiara nel conflitto.»

«Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la mia fedeltà! Secondo la legge, è come se io fossi nato sulla Terra; sono un cittadino come tutti gli altri.»

Il direttore non rispose. A questo punto, Don esplose:

«Si tratta di una faccenda stupida, fin dall’inizio! Se la Federazione non avesse cercato di dissanguare fino all’ultima goccia Venere, nessuno avrebbe mai parlato di guerra.»

Reeves s’irrigidì, e si alzò in piedi.

«Questo è tutto, Don. Non intendo mettermi a discutere di politica con te.»

«Ma è vero. Legga la Teoria dell’Espansione Coloniale di Chamberlain.»

Reeves trasalì visibilmente.

«Un momento.» Tornò a sedere, e fissò Don negli occhi. «Dove hai potuto mettere le mani su quel libro? Certamente non nella biblioteca della scuola.»

Don non rispose. Si morse la lingua, e capì di essersi lasciato trasportare troppo dall’emozione. Era stato suo padre a spedirgli il libro, ma lo aveva avvertito di tenerlo nascosto, e di non farlo vedere in giro, né di farsi sorprendere a leggerlo; si trattava di uno dei libri proibiti… sulla Terra, per lo meno. Reeves continuò:

«Don, hai avuto a che fare con qualche clandestino

Don non rispose.

«Donald, rispondi!»

Dopo qualche tempo, Reeves fece un profondo sospiro, e disse:

«Non importa. Sali in camera tua, e prepara i bagagli. L’elicottero ti porterà ad Albuquerque all’una in punto.»

«Sì, signore.» Si era voltato, ed era già sulla porta, quando il direttore lo richiamò.

«Solo un momento. Nel calore della nostra, uh, discussione, quasi dimenticavo di avere ricevuto un altro messaggio per te.»

«Eh?» Don prese il foglio; c’era scritto: CARISSIMO DON, NON DIMENTICARE DI SALUTARE LO ZIO DUDLEY PRIMA DI PARTIRE — MAMMA.

Questo secondo messaggio lo sorprese, sotto molti aspetti, assai più del primo; faticò a capire che sua madre aveva certamente inteso parlare del dottor Dudley Jefferson… un amico dei suoi genitori, ma certamente non un parente, e, con ancora maggiore certezza, una persona che non aveva avuto la minima importanza nella vita di Don. Ma apparentemente il signor Reeves non aveva visto nulla di strano nel messaggio, così Don lo infilò nella sua Levis e uscì dalla stanza.


Dato che era rimasto legato alla Terra per tanti anni, Don avrebbe potuto dimenticare lo spirito autentico dello spaziale; non era così. Si mise al lavoro nella sua camera, iniziando i preparativi con la mentalità di chi conosce le realtà e i problemi dello spazio siderale. Sapeva che il suo passaggio gli avrebbe dato diritto solo a cinquanta libbre di carico gratuito; così, cominciò una rigorosa selezione dei suoi effetti personali. In breve, ebbe due mucchi… uno minuscolo, sul letto… gli abiti indispensabili, alcune capsule di microfilm, il regolo, e un vreetha, uno strumento musicale marziano assai simile a un flauto, che non suonava da molto tempo, per le violente obiezioni dei compagni di scuola. Sul letto del suo compagno di camera c’era un mucchio assai più consistente di oggetti scartati.

Prese il vreetha, tentò un paio di accordi, e poi lo mise sul mucchio più grande. Portare un prodotto marziano su Marte era come portare sabbia nel Sahara, o carbone a Newcastle. Il suo compagno di camera, Jack Moreau, entrò proprio nel momento in cui l’ultimo oggetto veniva lanciato sul mucchio.

«Cosa diavolo succede?» domandò. «Stai facendo le pulizie?»

«Sto partendo.»

Jack s’infilò un dito nell’orecchio.

«Devo essere diventato sordo. Avrei giurato che tu stavi dicendo di stare partendo.»

«Hai sentito bene.» Don interruppe il suo lavoro e diede le opportune spiegazioni, mostrando a Jack il messaggio dei genitori.

Jack parve addolorato.

«Questo non mi va giù. Naturalmente sapevo benissimo che questo era il nostro ultimo anno… e che dopo il diploma saremmo partiti tutti. Ma non immaginavo che tu abbandonassi prima. Probabilmente, non riuscirò a dormire, senza sentirti russare. Perché tanta fretta?»

«Non lo so. Davvero non lo so. Il direttore dice che i miei vecchi sono stati punti dalla tarantola della guerra, e che non riusciranno a dormire fino a quando il loro prezioso figliolo non sarà al sicuro, lontano dalla zona del pericolo. Ma questo è stupido, non trovi? Voglio dire che oggi la gente è troppo civile, per pensare seriamente alla guerra.»

Jack non rispose. Don aspettò, poi disse, in tono urgente:

«Sei d’accordo, no? Non ci sarà nessuna guerra.»

Jack rispose, lentamente:

«Può darsi di sì. E può darsi di no.»

«Oh, non dire sciocchezze!»

Il suo compagno di camera rispose:

«Vuoi che ti aiuti a fare i bagagli?»

«Non ci sono bagagli da fare.»

«E tutta questa roba?»

«È tua, se la vuoi. Prendi quel che ti pare, poi chiama gli altri, e lascia che prendano quello che vogliono dei resti.»

«Eh? Accidenti, Don, non voglio prenderti quello che hai. Ci penserò io a farne un pacco, e a spedirlo con la prossima astronave.»

«Hai mai spedito qualcosa sui pianeti? Non ne vale la pena.»

«Allora vendila. Sai cosa ti dico? Dopo cena, faremo un’asta.»

Don scosse il capo.

«Non c’è tempo. Devo partire all’una.»

«Cosa? Davvero, non mi piace il modo in cui precipiti le cose, amico. Non lasci il tempo di riflettere.»

«Non l’hanno lasciato neanche a me; quindi, non posso farci nulla.» Don ricominciò il suo lavoro.

Quasi tutti i suoi amici vennero a salutarlo. Don non aveva diffuso la notizia, e non supponeva che il direttore avesse parlato, eppure, in quella misteriosa rete di comunicazioni che sfugge a qualsiasi definizione razionale, e che scuole, eserciti, collegi e conventi conoscono così bene, la voce era stata raccolta e diffusa. Invitò gli amici a servirsi dal mucchio, lasciando comunque la priorità della scelta a Jack.

Dopo qualche tempo, Don notò che nessuno di loro chiedeva il motivo della sua partenza. Questo lo turbò, molto più profondamente che se ne avessero parlato. Avrebbe voluto dire a qualcuno, chiunque fosse, che era ridicolo dubitare della sua lealtà… e che in ogni modo non ci sarebbe stata nessuna guerra, che era inconcepibile, assurdo!

Rupe Salter, uno studente di un’altra ala, si affacciò alla porta, e osservò con aria indolente i preparativi.

«Stai tagliando la corda, eh? L’ho sentito dire, e ho pensato di venire a controllare.»

«Sto partendo, se è questo che vuoi dire.»

«È quello che ho detto. Stammi a sentire, ‘Don Jaime’, che te ne fai di quella sella da circo? Sono pronto a toglierti il pensiero, se il prezzo è onesto.»

«Non è in vendita.»

«Uh? Non ci sono cavalli, dove vai tu. Dimmi il prezzo.»

«Appartiene a Jack.»

«E non è in vendita,» aggiunse subito Moreau.

«Così, eh? Fate i vostri comodi.» Salter proseguì, con il solito tono indolente. «Un’altra cosa… hai già lasciato in eredità quella tua specie di cavallo?»

I cavalli degli studenti, con rarissime eccezioni, erano di proprietà della scuola, ma esisteva una tradizione solida e di antica data, secondo la quale un diplomato aveva il privilegio di assegnare in ‘eredità’ la bestia che aveva avuto in proprietà temporanea, nel corso degli anni di studio, a uno studente da lui scelto. Si trattava di una tradizione accettata da tutti, allievi e direzione della scuola; e nel sentire quelle parole, Don capì che fino a quel momento non aveva pensato a Sonno. Si rese conto, provando un autentico dolore, di non poter portare con sé il grasso pony pigro… né di avere preso alcuna decisione per il futuro dell’animale, e per garantire che fosse trattato bene, e avesse un buon padrone.

«La questione è già risolta,» rispose, aggiungendo, tra sé: per quello che riguarda te.

«Chi l’ha avuto? Potrei farti una buona offerta. Non che valga molto, come cavallo, ma non vedo l’ora di sbarazzarmi di quella specie di capra che mi hanno dato.»

«La questione è già risolta.»

«Sii ragionevole. Posso rivolgermi al direttore, e ottenere comunque il cavallo. Dare in eredità un cavallo è un privilegio riservato ai diplomati, e tu lasci la scuola prima del tempo.»

«Fila subito!»

Salter sorrise.

«Permaloso, eh? Proprio come tutti i mangia-nebbia, troppo permaloso per arrivare a capire quel che ti conviene. Be’, un giorno o l’altro avrete tutti una bella lezione… e non dovremo aspettare molto.»

Don, che era già nervoso, si sentì troppo in collera per azzardare una risposta… delle cui conseguenze avrebbe potuto pentirsi. «Mangia-nebbia», usato per descrivere un abitante di Venere, il pianeta avvolto in una coltre di nubi perpetue, era un termine scherzoso, vagamente dispregiativo, ma non peggiore di Yankee o Limey… a meno che il tono di voce e il contesto lo rendessero, come in quella circostanza, un insulto deliberato. Gli altri lo guardarono, aspettandosi una reazione.

Jack si alzò frettolosamente dal letto, e si avvicinò a Salter.

«Fila subito, Salter. Siamo troppo occupati per stare ad ascoltare le tue scemenze.»

Salter guardò Don, poi guardò Jack, si strinse nelle spalle, e disse:

«Io sono troppo occupato per restare qui a perdere tempo… ma non troppo occupato, se avete qualcosa in mente.»

Si udì suonare la campana di mezzogiorno, che chiamava tutti, alla mensa; il suono servì a spezzare la tensione. Diversi ragazzi si diressero verso la porta; Salter uscì con loro. Don rimase dov’era. Jack gli disse:

«Andiamo… vieni a mangiare.»

«Jack?»

«Sì?»

«Che ne diresti di prendere tu Sonno?»

«Accidenti, Don! Mi piacerebbe farti qualsiasi favore… ma cosa ne farei di Lady Maude?»

«Oh, penso che tu abbia ragione. Cosa posso fare?»

«Lasciami pensare…» Il viso di Jack si rischiarò. «Conosci quel ragazzo, Squinty Morris? Quello nuovo, che è venuto dal Manitoba? Non ha ancora una cavalcatura permanente; fa a turno con gli altri, con le capre. Sono sicuro che tratterà bene Sonno; lo so, perché gli ho lasciato cavalcare Lady Maude una volta. È di mano leggera.»

Don si sentì sollevato.

«Vuoi pensarci tu? E parlarne con il signor Reeves?»

«Eh? Puoi parlargli tu a pranzo. Vieni.»

«Non vengo a pranzo. Non ho fame. E non ho molta voglia di parlare al direttore, adesso.»

«Perché?»

«Be’, non saprei. Quando mi ha chiamato in ufficio, stamattina, non mi è sembrato esattamente… amichevole.»

«Cosa ti ha detto?»

«Non sono state le sue parole, ma il tono che ha usato. Forse io sono davvero permaloso… ma ho avuto l’impressione che fosse felice di vedermi partire.»

Don si aspettò che Jack facesse delle obiezioni, per convincerlo di avere frainteso. Invece il giovane rimase in silenzio per un momento, e poi disse, con voce calma:

«Non prendertela troppo, Don. Il direttore, probabilmente, è più nervoso di te. Lo sai che ha ricevuto gli ordini?»

«Come? Quali ordini?»

«Tu sapevi che il signor Reeves era un ufficiale della riserva, vero? Si è presentato al comando, per chiedere ordini, e li ha avuti… efficaci con decorrenza immediata. La signora Reeves assumerà la direzione della scuola… finché lo stato di guerra non sarà finito.»

Don, già teso oltre ogni limite, sentì di perdere il controllo della situazione. La testa gli girava. Finché lo stato di guerra non sarà finito? Com’era possibile dire una cosa simile, quando non esisteva uno stato di guerra? Era assurdo, inconcepibile.

«È sicuro,» continuò Jack. «L’ho saputo direttamente dal cuoco.» Fece una pausa, e poi aggiunse, «Ascolta, vecchio mio… noi siamo amici, vero?»

«Eh? Ma certo!»

«Allora dimmelo subito, sinceramente: tu parti davvero per Marte? O vai su Venere, per arruolarti?»

«Ma come ti è venuta in testa un’idea simile?»

«Non pensarci più, allora. Credimi: questo non farebbe nessuna differenza, tra noi. Il mio vecchio dice che quando è il momento di venire contati, la cosa più importante è quella di essere abbastanza uomo da alzare il braccio.» Lanciò un’occhiata al viso di Don, e continuò, «Quello che farai sarà soltanto una tua scelta; tocca a te. Sai che il mese prossimo compirò gli anni?»

«Sì… be’, certo, lo so.»

«Quindi, sarò maggiorenne. Bene, quello stesso giorno mi arruolerò come allievo pilota. È per questo che volevo sapere quali erano i tuoi progetti.»

«Oh…»

«Ma questo non fa la minima differenza… non tra noi. E poi, tu vai su Marte.»

«Sì. Sì, è esatto.»

«Bene!» Jack lanciò un’occhiata all’orologio. «Devo correre… oppure butteranno la mia minestra ai maiali. Non vuoi proprio venire?»

«No.»

«Ci vediamo.» Corse via, verso la mensa.

Don restò fermo per un momento, cercando di riordinare le idee. Il vecchio Jack doveva avere preso la faccenda molto sul serio… per rinunciare alla possibilità di frequentare Yale, per rimandare o annullare una carriera universitaria, per diventare una recluta dell’esercito, e venire addestrato come pilota. Ma aveva torto… doveva avere torto.

Don indugiò per qualche altro minuto, poi uscì dalla camera, percorse il lungo corridoio, uscì da quell’ala dell’edificio, e raggiunse il recinto degli animali.

Sonno rispose subito al suo richiamo, e poi col muso cominciò a fiutare le sue tasche, alla ricerca di zucchero.

«Mi dispiace, vecchio mio,» disse Don, con tristezza. «Non ho nemmeno una carota. L’ho dimenticata.» Rimase fermo, appoggiando il viso al muso del cavallo, e grattandogli affettuosamente l’orecchio. Gli parlò a bassa voce, spiegandogli la situazione, come se Sonno avesse potuto realmente capire tutte quelle parole difficili.

«Perciò, le cose stanno così,» concluse. «Devo andarmene, e non mi permettono di portarti con me.» Ritornò mentalmente al giorno in cui era iniziata la loro società. Sonno era stato allora un puledro inesperto, ma Don aveva avuto paura di lui. Gli era sembrato enorme, pericoloso, probabilmente carnivoro. Prima di venire sulla Terra, lui non aveva mai visto un cavallo; Sonno era il primo equino che lui aveva visto da vicino. Tanti anni fa, gli sembravano più di quelli che erano stati in realtà… poi lui era cresciuto, gli anni di scuola erano passati, uno dopo l’altro, e Sonno gli era diventato familiare…

Improvvisamente, Don non riuscì più a parlare, perché un nodo perfido gli stringeva la gola. Abbracciò il lungo collo dell’equino, e cominciò a piangere, silenziosamente.

Sonno emise un nitrito soffocato, rendendosi conto che c’era qualcosa che non andava, e cercò di toccare il giovane con le narici umide. Don sollevò il capo.

«Addio, amico. Abbi cura di te.»

Poi si voltò, bruscamente, e si mise a correre verso i dormitori.

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