CAPITOLO IV «IL CAMMINO DELLA GLORIA»

Aveva ancora molte cose da fare; non poteva restarsene là per tutta la notte, in una galleria di una città straniera. Prima di tutto, supponeva che avrebbe fatto meglio ad andare alla stazione a prendere i suoi bagagli. Si cercò in tasca lo scontrino, chiedendosi come avrebbe fatto ad arrivarci; non aveva denaro contante con cui pagare un tassi automatico.

Non riuscì a trovare lo scontrino del deposito bagagli. Dopo qualche tempo, vuotò completamente le tasche. Non mancava nulla; c’era la sua lettera di credito; c’era la sua carta d’identità, c’erano i messaggi dei suoi genitori, c’era una foto bidimensionale di Sonno, c’era il suo certificato di nascita, e c’erano tutti gli altri oggetti che aveva portato con sé… ma dello scontrino non trovò nessuna traccia. E ricordava benissimo di averlo messo in tasca.

Pensò di ritornare nell’edificio dell’I.B.I.; adesso era certissimo che gli doveva essere stato tolto nel momento in cui si era addormentato. Proprio strano, il modo in cui si era addormentato così, di colpo, in un momento del genere. Lo avevano drogato? Decise di non tornare indietro. Non solo lui non conosceva il nome dell’ufficiale che lo aveva interrogato, né alcuna maniera precisa per identificarlo, ma, cosa ben più importante, lui non sarebbe ritornato in quel labirinto per tutti i bagagli contenuti nel deposito della Stazione Gary. Meglio lasciar perdere, meglio lasciar perdere… prima del decollo, avrebbe potuto procurarsi dei calzini e degli slip di ricambio come e quando avesse voluto!

Decise, invece, di andare subito all’Hilton. Per prima cosa, doveva scoprire dove si trovava; camminò lentamente lungo la strada sotterranea, cercando qualcuno che non sembrasse troppo indaffarato o troppo importante, per chiedergli delle informazioni. Trovò la persona desiderata… un venditore di biglietti della lotteria, alla più vicina intersezione di due gallerie.

Il venditore lo squadrò ben bene.

«Ehi, fratello, lei non vorrà andare certamente in un posto simile. Io posso procurarle qualcosa di buono davvero… un ragazzo in gamba come lei avrà bisogno di divertirsi, nelle notti di Nuova Chicago, no?» E gli strizzò l’occhio.

Don annunciò che lui sapeva benissimo quel che voleva. L’uomo si strinse nelle spalle.

«Va bene, come non detto, amico. Vada diritto, fino a una piazza che ha al centro una fontana elettrica, poi prenda il marciapiede sud. Chieda a chiunque dove dovrà scendere. In quale mese è nato?»

«In luglio.»

«Luglio! Amico, lei è fortunato… mi è rimasto solo un biglietto con la combinazione del suo oroscopo. Eccolo qui.» Don non aveva la minima intenzione di comprare il biglietto, e avrebbe voluto dire all’ambulante che lui considerava gli oroscopi stupidi come un paio d’occhiali messi a una mucca… ma si accorse di avere comprato il biglietto con l’ultima moneta che gli era rimasta in tasca. Infilò in tasca il biglietto, sentendosi spaventosamente stupido. Il venditore disse, «Dritto lungo il marciapiede, per circa mezzo miglio. E prima di entrare, cerchi di togliersi quell’aria di provincia. Non è igienico essere troppo forestieri a Nuova Chicago.»

Don trovò il marciapiede mobile senza difficoltà, e scoprì che si trattava di uno scorrevole rapido, con pagamento alla salita. Essendo la macchina disinteressata in lotto e lotterie, Don camminò lungo il marciapiede fisso parallelo alla strada mobile, dirigendosi verso l’albergo. Non ebbe alcuna difficoltà a trovarlo; l’entrata illuminata vividamente occupava almeno cento metri della galleria.

Nessuno gli venne incontro per aiutarlo, quando entrò. Si presentò al banco di accettazione, e chiese una camera. L’impiegato lo squadrò con aria dubbiosa:

«Qualcuno ha già preso in consegna il suo bagaglio, signore?»

Don spiegò di non averlo con sé.

«Bene… sono ventidue e cinquanta, anticipati. Firmi qui, per favore.»

Don firmò, e premette il pollice sul tampone, poi estrasse la lettera di credito di suo padre:

«Posso cambiare questa lettera in contanti?»

«Per quale importo?» L’impiegato prese la lettera, e poi disse, «Certamente, signore; mi può dare un momento la sua carta d’identità, grazie?» Don gli passò il documento. L’impiegato lo prese, prese la nuova impronta del pollice, e sottopose entrambe a una macchina esaminatrice. La macchina, con un cordiale bip-bip, annunciò il suo consenso; l’impiegato restituì a Don la carta d’identità. «Lei è proprio lei, d’accordo.» Contò accuratamente il denaro, sottraendo il prezzo della camera. «Il suo bagaglio arriverà più tardi, signore?» I suoi modi indicavano che la condizione sociale di Don era salita enormemente, negli ultimi secondi.

«Uh, no, ma dovrebbe arrivare posta; per lo meno, la stavo aspettando.» Don spiegò che sarebbe partito il mattino dopo, a bordo del Cammino della Gloria.

«Lo chiedo subito al nostro ufficio postale.»

La risposta fu negativa; Don mostrò il suo disappunto. L’impiegato disse:

«Trasmetto il suo nome al nostro ufficio postale; l’addetto lo metterà in evidenza. Se arriverà qualcosa prima del momento del decollo, lo riceverà certamente… anche se dovessimo mandare un fattorino fino al campo.»

«Mille grazie!»

«Neanche a parlarne. Inserviente!» Don si lasciò guidare dall’impeccabile inserviente, e si rese conto di essere completamente sfinito. Il grande orologio del foyer gli diceva che era già domani, che lo era già da ore… in realtà, lui pagava sette e cinquanta all’ora, all’incirca, per avere il privilegio di un letto, ma da come si sentiva avrebbe pagato il triplo di quella cifra, pur di potersi infilare in un buco da topi.

Non andò immediatamente a letto, comunque. L’Hilton Caravanserraglio era un hotel di lusso; anche le camere «economiche» possedevano gli elementi minimi della vita civile. Regolò il bagno per un ciclo di acqua calda e fredda, partendo dal caldo; si spogliò, e dopo qualche tempo galleggiò nell’acqua fumante, che gli scorreva intorno, facendosi lentamente più tiepida. L’acqua gli diede un caldo senso di benessere; dopo un poco, Don cambiò le proporzioni, e l’acqua immobile lo abbracciò dolcemente, tiepida e carezzevole.

Trasalendo, uscì da quel torpore, e si alzò. Si era quasi addormentato nella vasca. Dieci minuti dopo, perfettamente asciugato da soffici getti d’aria calda, dopo essersi sottoposto a un altro getto di talco, e al massaggio elettronico che gli aveva riattivato la circolazione, facendogli formicolare piacevolmente tutto il corpo, Don ritornò nella camera da letto, sentendosi meravigliosamente riposato. La scuola-fattoria era stata deliberatamente monastica, letti di stile antico e semplici docce; quel bagno valeva da solo il prezzo della camera.

La lampada sull’apertura del condotto interno di recapito s’illuminò, brillando di luce verde; Don l’aprì, e trovò tre cose. La prima era un pacco voluminoso, racchiuso da un contenitore plastico e con la scritta: «PICCOLO NECESSAIRE DELL’HILTON CARAVANSERRAGLIO»; conteneva un pettine e uno spazzolino da denti, una pillola di sonnifero, una polvere contro l’emicrania, un film storico per il proiettore inserito nel soffitto della camera, una copia del Notiziario di Nuova Chicago, e il menu della colazione. Il secondo oggetto era una cartolina del suo compagno di camera alla scuola-fattoria; la terza cosa era un pacchetto, un normale involucro postale. La cartolina diceva: Caro Don, è arrivato un pacchetto per te nel pomerìggio… ho convinto il Direttore a lasciarmelo portare alla partenza dell’espresso della sera. Squinty ha ottenuto Sonno, e se lo sta accarezzando, felice come una Pasqua. Adesso chiudo; devo consegnare il pacco. Buona fortuna e cari saluti… Jack.

Buon, vecchio Jack, pensò Don, e sollevò il cilindro postale. Guardò l’indirizzo del mittente, e si rese conto, con un brivido improvviso, che quello doveva essere il pacco del quale il dottor Jefferson si era tanto preoccupato, il pacco che a quanto pareva era stato la causa indiretta della sua morte. Lo fissò, stordito, domandandosi se realmente era possibile, in quella civiltà e in quell’epoca, che un cittadino venisse trascinato via dalla propria casa, e poi maltrattato così crudelmente da farlo morire.

Ma l’uomo con il quale aveva cenato poche ore fa era davvero morto? Oppure l’agente della sicurezza gli aveva mentito, per qualche motivo che Don non poteva verosimilmente conoscere?

Una parte di quanto aveva detto era certamente vera; lui stesso aveva visto i poliziotti in attesa nella casa, per arrestare il dottore… in fondo, anche lui era stato arrestato, e minacciato, e interrogato, e il suo bagaglio gli era stato virtualmente rubato… per niente, perché lui non aveva fatto niente di niente! Lui non aveva mosso un dito, non aveva battuto ciglio, non si era mai sognato neppure di fare qualcosa… aveva semplicemente pensato ai propri affari, perfettamente legali e perfettamente onesti!

Bruscamente, scoprì di tremare, scosso da un’ondata di collera violenta. Si era lasciato spingere di qua e di là, contro la propria volontà, come un burattino senza volontà; fece il voto solenne di non permettere che questo accadesse un’altra volta. Ora si accorgeva che avrebbe potuto impuntarsi in almeno una dozzina di punti. Se avesse combattuto fin dall’inizio, come avrebbe potuto fare, forse in ultima analisi il dottor Jefferson sarebbe stato ancora vivo… se era davvero morto, si affrettò a correggersi.

Ma si era lasciato dominare dalla situazione apparentemente sfavorevole. Si ripromise di non lasciarsi più condizionare dalle apparenze, per quanto sfavorevoli esse fossero, né dalle probabilità avverse, ma di tenere sempre e comunque in mente il risultato finale, e i fatti concreti.

Controllò il tremito del suo corpo, e aprì il pacchetto.

Un attimo dopo, si sentì completamente sconcertato. Il cilindro non conteneva nulla, all’infuori di un anello da uomo, un oggettino di plastica a buon mercato, uguale a quelli che si trovavano in qualsiasi bancarella di souvenir. Una grossa «H» maiuscola racchiusa in un circolo era stata premuta sulla decorazione dell’anello, e le scanalature erano state colmate di smalto bianco. Era vistoso, ma comunissimo, privo di valore… poteva colpire soltanto una persona di gusti infantili, o di gusti volgari.

Don lo rigirò tra le dita, poi lo mise in disparte, ed esaminò l’involucro. Non c’era altro, nemmeno un messaggio, si trattava solo di carta bianca usata per imballare l’anello. Don rifletté sull’intera, singolare disposizione degli eventi.

L’anello, evidentemente, non era la causa di tutta quell’eccitazione. Gli sembrava che le possibilità fossero soltanto due: primo, che il servizio di sicurezza avesse cambiato il pacco… se era accaduto questo, ormai lui non poteva farci più nulla… e. secondo, se l’anello non era importante, ma si trattava del pacco giusto, allora il resto del contenuto del pacco doveva essere importante, anche se apparentemente non era altro che carta da imballaggio.

L’idea di essere il portatore di un messaggio scritto con inchiostro invisibile lo eccitò, e cominciò a studiare il modo per portare alla luce il messaggio. Con il calore? Con dei reagenti chimici? Con delle radiazioni? Nel rendersi conto di queste possibilità, Don capì anche, con un certo rammarico, che se un messaggio simile fosse davvero esistito, non era certo quello il luogo o il momento per portarlo alla luce, o comunque cercare di decifrarlo. Il suo compito sarebbe stato semplicemente quello di recapitarlo a suo padre.

Decise, inoltre, che era assai più probabile che si trattasse di un finto pacco, di un sostituto innocuo mandatogli dalla polizia. Gli era impossibile stabilire cosa avessero potuto strappare al dottor Jefferson; dal colloquio con il tenente, Don aveva capito che quella gente conosceva il proprio lavoro, e per quanto fossero discutibili i mezzi che usavano, sapevano servirsene senza scrupoli e con estrema efficacia.

Già. Questo gli ricordava che esisteva ancora una cosa che lui poteva fare per controllare la veridicità delle affermazioni della sicurezza… anche se il tentativo sembrava talmente stupido e scontato da scartarlo. E probabilmente era proprio stupido e inutile come lui pensava. Si avvicinò al visifono, e chiese di essere messo in comunicazione con la residenza del dottor Jefferson. Vero, il dottore gli aveva detto di non chiamarlo… ma le circostanze erano cambiate.

Dovette aspettare qualche minuto, poi lo schermo si illuminò… e Don scoprì di stare guardando il viso del tenente della sicurezza che lo aveva interrogato. L’ufficiale di polizia spalancò gli occhi a sua volta.

«Oh, santa pazienza!» esclamò, con voce stanca. «Così tu non mi hai creduto? Torna subito a letto; dovrai alzarti tra meno di un’ora.»

Don tolse la comunicazione senza pronunciare una sola parola.

Così i casi erano due: o il dottor Jefferson era davvero morto, o si trovava ancora nelle mani della polizia. Benissimo; avrebbe accettato la possibilità che la carta venisse realmente dal dottore… e avrebbe consegnato quella carta, malgrado tutti i trucchi viscidi della polizia che tutta Nuova Chicago avrebbe potuto disporre sulla sua strada! L’espediente che Jefferson aveva apparentemente usato per mimetizzare l’importanza e lo scopo della carta lo conduceva a riflettere sul passo successivo… e cioè, come avrebbe potuto nascondere, lui, l’importanza della carta. Rifletté per qualche minuto, e finalmente raggiunse una conclusione. Estrasse di tasca una penna, spianò il foglio gualcito, e iniziò una lettera. La carta era molto simile a carta da lettere… per lo meno, quel tanto che rendeva plausibile la simulazione… sì, lui aveva scritto, a volte, su carta ben peggiore. Cominciò a scrivere, «Carissimi mamma e papà, ho ricevuto il vostro radiogramma stamattina, e sono stato così emozionato!» Continuò, limitandosi a coprire dello spazio vuoto usando una scrittura larga, e finì, quasi alla fine del foglio, menzionando l’intenzione di aggiornare la lettera, e di farla trasmettere non appena astronave sarebbe stata entro il raggio delle comunicazioni radio di Marte, per preannunciare il suo arrivo. Poi piegò il foglio, lo infilò nel portafoglio, e infilò il tutto in una tasca.

Quando finì, lanciò un’occhiata all’orologio. Santo cielo! Avrebbe dovuto alzarsi tra un’ora; non valeva quasi la pena mettersi a letto. Ma gli occhi erano pesanti, gli si chiudevano mentre pensava a questo; vide che la sveglia automatica del letto aveva un quadrante regolabile da «Gentile Bisbiglio» a «Terremoto»; girò la manopola fino all’estremità, e s’infilò tra le coperte.


Lo stavano sbattendo qua e là, una luce accecante gli lampeggiava negli occhi, e una sirena ululava lacerante lungo tutta la scala acustica. Don, gradualmente, si accorse che stava scendendo malvolentieri, faticosamente, dal letto. Blandito da questa obbedienza, il letto smise lo spaventoso trambusto.

Decise di non fare colazione in camera, temendo di riaddormentarsi, e incespicando, con gli occhi semichiusi e gonfi di sonno, s’infilò i vestiti e andò a cercar il bar dell’albergo. Quattro tazze di caffè e un pasto abbondante più tardi, salutato dal personale e armato di spiccioli per il tassi automatico, egli si diresse verso la Stazione Gary. All’ufficio prenotazioni della Interplanet Lines domandò il suo biglietto. Un impiegato diverso da quello del giorno prima si affannò a cercarlo, e poi disse:

«Non lo trovo. Non è con i permessi della sicurezza.»

Questa, pensò Don, è l’ultima goccia.

«Cerchi ancora. Deve esserci!»

«Ma non… un momento!» L’impiegato prese un biglietto bianco. «Donald James Harvey? Lei dovrà ritirare il suo biglietto nella stanza 4012, all’ammezzato.»

«Perché?»

«Non lo chieda a me; io sono un semplice impiegato. Le ho detto quel che è scritto qui.»

Perplesso e completamente disgustato, Don cercò la stanza in oggetto. La porta era spoglia, a eccezione di una targhetta «ENTRATE»; egli eseguì… e si trovò di nuovo davanti al tenente della sicurezza della notte prima.

L’ufficiale sollevò lo sguardo dalla scrivania ingombra di carte.

«Che ne diresti di toglierti dal viso quell’espressione astiosa, Don?» fece, seccamente. «Neanch’io ho dormito molto, sai?»

«Che cosa vuole da me?»

«Togliti i vestiti.»

«Perché?»

«Perché adesso dobbiamo perquisirti. Non avrai pensato davvero che io ti lasciassi decollare senza perquisirti, no?»

Don puntò i piedi.

«Ne ho abbastanza di tutte queste imposizioni,» disse, lentamente. «Se vuole che mi tolga i vestiti, dovrà prenderseli da solo.»

Il poliziotto aggrottò la fronte.

«Potrei darti un paio di risposte convincenti, ma si dà il caso che abbia esaurito le mie riserve di pazienza. Kelly! Arteem! Spogliatelo.»

Tre minuti dopo, Don aveva un occhio chiuso che cominciava a pulsare sordamente, e si stava massaggiando un braccio ammaccato. Decise che, dopotutto, non era rotto. Il tenente e i suoi assistenti erano scomparsi in una stanza attigua, con i suoi vestiti e la sua borsa. Gli venne in mente che la porta esterna non pareva chiusa, ma lasciò perdere subito l’idea; mettersi a fuggire attraverso la Stazione Gary, con l’unico indumento che gli aveva dato sua madre il giorno della nascita, non pareva un’idea molto sensata.

Malgrado l’inevitabile sconfitta, aveva il morale più alto di quando non lo avesse avuto nelle ultime dodici ore.

Il tenente ritornò dopo qualche minuto, e spinse i vestiti verso di lui.

«Eccoli qua. Ed ecco il tuo biglietto. Probabilmente vorrai indossare qualcosa di pulito; i tuoi bagagli sono dietro la scrivania.»

Don accettò il tutto in silenzio, e ignorò il suggerimento di cambiarsi per risparmiare tempo. Mentre si stava vestendo, sentì che il tenente domandava:

«Dove hai preso quell’anello?»

«Mi è stato spedito dalla scuola.»

«Fammelo vedere.»

Don lo sfilò dal dito, e lo lanciò al tenente.

«Se lo tenga, ladro!»

Il tenente lo prese al volo e disse, in tono blando:

«Vedi, Don, non si tratta di un fatto personale. Devi credermi.» Osservò accuratamente l’anello, e poi disse. «Prendilo!» Don lo prese al volo e lo infilò al dito, raccolse i bagagli, e si avviò alla porta. «Cielo aperto,» disse il tenente.

Don lo ignorò.

«’Cielo aperto’, ho detto.»

Don si voltò di nuovo, guardò il tenente negli occhi, e disse:

«Un giorno spero di poterla incontrare… socialmente.» E uscì dalla porta. Avevano trovato la carta, dopotutto; quando si era infilato di nuovo gli abiti e aveva assicurato la borsa alla cintura, si era subito accorto della sua mancanza.


Questa volta Don usò la precauzione di farsi fare un’iniezione antivomito prima del decollo. Dopo avere fatto la fila di fronte al pronto soccorso, gli rimase appena il tempo di passare il peso, prima del segnale di avviso. Quando stava per salire sull’ascensore, vide quella che gli parve una figura familiare, mastodontica sul montacarichi vicino all’ascensore… «Sir Isaac Newton». Almeno, pareva la stessa creatura che aveva fuggevolmente conosciuto il giorno prima, benché Don dovesse ammettere che la differenza di aspetto tra un drago e un altro a volte era troppo sottile per l’occhio umano.

Si trattenne dal sibilare un saluto; gli eventi delle ultime ore lo avevano un po’ smaliziato, e reso più prudente. Rifletté su quegli avvenimenti, quando l’ascensore cominciò a salire lungo la lucida fiancata dell’astronave. Incredibile ma vero, erano passate soltanto ventiquattro ore, anzi, ancor meno, da quando aveva ricevuto il messaggio radio. Gli pareva che fosse passato un mese, e lui, personalmente, si sentiva invecchiato di dieci anni.

Amaramente, pensò che in fondo si erano dimostrati più furbi di lui. Il messaggio nascosto in quel pezzo di carta, qualunque fosse stato, adesso se ne era andato per sempre. Per il bene o per il male, era inutile pensarci più.

La Cuccetta 64, a bordo del Cammino della Gloria, si trovava sul terzo ponte, e faceva parte di un gruppo di sei; il compartimento era quasi vuoto, e sul ponte c’erano i segni nei punti dai quali altre cuccette erano state staccate. Don trovò il suo posto, e legò i bagagli all’apposito scomparto, ai suoi piedi. Mentre stava facendo questo, udì una flemmatica voce britannica alle sue spalle; si voltò, e sibilò un saluto.

«Sir Isaac Newton» veniva cautamente introdotto nel compartimento dalla stiva, che era situata al livello inferiore; per aiutare il venusiano c’erano sei robusti facchini dell’astroporto. Il drago rispose con un cortese sibilo di saluto, continuando a dirigere la difficile opera dei sei uomini per mezzo del voder.

«Piano, amici, piano e tutto sarà facile! Ora, se due, tra voi, vorranno essere così cortesi da posare il piede della mia gamba mediana sinistra sulla scaletta, non dimenticando che io non posso vederlo… Per Giove! Attenti alle dita. Ecco; ora penso di potercela fare da solo. C’è niente che si possa rompere, sulla strada della mia coda?»

Il capo facchino rispose:

«Tutto sgombro, capo. Via gli ormeggi!»

«Se il senso delle sue parole è quello che mi sembra di capire,» rispose il venusiano, «Allora, sulla sua parola… via!» Si udì un rumore di metallo sottoposto a tensioni intollerabili, si udì il tintinnio di vetro che si rompeva, e il gigantesco sauriano si mosse, uscendo dal supporto sul quale era stato sistemato. Una volta entrato nel compartimento, si guardò intorno, con cautela, e si sistemò nello spazio lasciato vuoto per lui. I facchini dell’astroporto lo seguirono, e lo assicurarono al ponte servendosi di cinture metalliche. Il drago girò un occhio in direzione del capo facchino.

«Mi pare che sia lei il capitano di questo gruppo?»

«Sono il caposquadra.»

I sottili tentacoli del venusiano lasciarono i tasti del voder, frugarono in una borsa appesa accanto al congegno, e ne estrassero un fascio di banconote. Il drago posò il denaro sul ponte, e ritornò a manipolare il voder.

«Allora, signore, vuol farmi l’onore di accettare questa testimonianza della mia gratitudine per un arduo servizio bene eseguito, e distribuirla tra i suoi assistenti equamente e in perfetto accordo con le vostre usanze, quali che possano essere?»

L’uomo raccolse il denaro, e se lo infilò nella borsa.

«Sicuro, capo. Grazie.»

«L’onore è mio.» I facchini se ne andarono, e il drago rivolse la sua attenzione a Don, ma, prima che i due potessero scambiarsi una sola parola, l’ultimo contingente di carico umano del compartimento discese dal ponte superiore. Si trattava di una famiglia; durante il tragitto, la madre gettò un’occhiata all’interno, e urlò.

Risalì come un fulmine per la scaletta, provocando un ingorgo del traffico nel quale furono coinvolti i suoi discendenti e il suo sposo. Il drago piegò due occhi nella direzione della donna, agitando gli altri nella direzione di Don.

«Povero me!» disse, premendo i tasti del voder. «Lei crede che la situazione potrebbe migliorare un poco, se io assicurassi alla signora di non avere tendenze antropofaghe?»

Don provò un acutissimo imbarazzo; avrebbe desiderato, in qualche modo, di disconoscere quella donna quale sua sorella di sangue e membro della medesima razza.

«È soltanto un’idiota,» rispose. «La prego, non le presti alcuna attenzione.»

«Temo che non sia sufficiente affrontare la cosa in maniera puramente negativa.»

Don sibilò un intraducibile suono di disprezzo, nella lingua dei draghi, e continuò dicendo:

«Che la sua vita possa essere lunga e tediosa.»

«Be’, be’,» replicò il drago. «Una collera irragionevole non è una cosa reale. ‘Comprendere significa perdonare’… come ha detto uno dei vostri filosofi.»

Don non riconobbe la citazione, e quella filosofia, in ogni caso, gli pareva troppo esasperata. Era certo che esistevano delle cose che lui non avrebbe mai perdonato, per quanto potesse comprenderle… aveva alcuni esempi recentissimi, certi fatti che rimanevano bene impressi nella sua memoria. Stava per dire questo al drago, quando l’attenzione di entrambi venne attirata da una serie di suoni che uscivano dalla paratia interna aperta. Due, o forse più, voci maschili erano impegnate in una violenta discussione con una stridula voce femminile, che si levava altissima e a volte sommergeva le voci degli interlocutori. A quanto pareva, (a) lei voleva parlare con il comandante, (b) lei era stata allevata civilmente, e non le era mai capitato d’imbattersi in cose simili, (c) che a quegli orribili mostri non avrebbe mai dovuto essere permesso di scendere a insozzare la Terra; avrebbero dovuto essere sterminati; (d) che se Adolf fosse stato un uomo almeno per metà, non sarebbe rimasto là come un palo, permettendo che sua moglie venisse trattata a quel modo; (e) lei intendeva scrivere alla compagnia, e la sua famiglia non era del tutto priva d’influenza e (f) lei insisteva perentoriamente per parlare con il comandante.

Don avrebbe voluto dire qualcosa, per coprire il suono di quella voce, ma scoprì di esserne quasi ipnotizzato. Dopo qualche tempo, i suoni si allontarano e svanirono nel silenzio; un ufficiale di bordo varcò la paratia aperta, e si guardò intorno.

«È a suo agio?» domandò l’ufficiale a ‘Sir Isaac Newton’.

«Perfettamente, grazie.»

L’ufficiale si rivolse a Don.

«Prenda i suoi bagagli, giovanotto, e venga con me. Il comandante ha deciso di concedere a sua grazia, qui, un compartimento tutto per lui.»

«Perché?» domandò Don. «Il mio biglietto dice cuccetta sessantaquattro, e mi piace stare qui.»

L’ufficiale di bordo si grattò il mento, e guardò attentamente Don, poi si rivolse al venusiano:

«Per lei va bene?»

«Ma certamente. Sarò onorato dalla compagnia di questo giovane signore.»

L’ufficiale si rivolse a Don.

«Be’… d’accordo. Probabilmente, se fossi stato costretto a spostarla, avrei dovuto appenderla a un chiodo.» Guardò l’orologio, e bestemmiò sommessamente. «Se non mi affretto, perderemo il decollo e dovremo aspettare un giorno intero.» Uscì immediatamente dal compartimento.

L’ultimo allarme interno suonò, trasmesso dal sistema di comunicazione di bordo; una voce rauca seguì il suono, gridando:

«A tutti gli uomini: assicurarsi le cinture! Prepararsi al decollo…»

L’ordine fu seguito da una registrazione della chiassosa marcia di Le Compte, Decollo! Il cuore di Don cominciò a battere più in fretta; l’emozione si accumulò dentro di lui. Si sentiva felice, meravigliosamente, incredibilmente felice di ritornare finalmente nello spazio, nel luogo che era la sua patria. Le cose spiacevoli, confuse del giorno precedente furono cancellate dalla sua mente; anche il ricordo della fattoria e di Sonno impallidì.

La musica registrata era programmata con tale scelta di tempo, che il coro finale — il quale dava l’effetto del rombo dei motori — si mescolò al vero ruggito degli ugelli dell’astronave; il Cammino della Gloria cominciò a vibrare e a sollevarsi… poi si lanciò in alto, lontano, nell’azzurro cielo aperto.

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