CAPITOLO II «CONTATO, CONTATO, PESATO E DIVISO»

Mene, mene, tekel, ufarsin

Daniele, V: 25


L’elicottero della scuola lo fece scendere all’aeroporto di Albuquerque. Fu costretto a correre per non perdere il razzo, poiché il controllo del traffico aveva ordinato loro di non sorvolare il Sandia Weapons Center, ma di descrivere un ampio giro intorno. Quando si presentò al peso, s’imbatté in una nuova pignoleria dei servizi di sicurezza.

«Hai una macchina fotografica là dentro, figliolo?» aveva domandato il direttore del peso, quando Don gli aveva consegnato il bagaglio.

«No. Perché?»

«Perché rovineremmo la pellicola, passando il bagaglio al fluoroscopio, ecco il perché.» Evidentemente i raggi X non rivelarono alcuna bomba nascosta nella biancheria; il bagaglio gli fu riconsegnato, e Don salì a bordo… sul razzo Espresso di Santa Fé, che faceva servizio tra il Sud-Ovest e Nuova Chicago. Una volta a bordo, si allacciò le cinture di sicurezza, affondò nei comodi cuscini del sedile imbottito, e aspettò.

Dapprima, il frastuono del decollo gli diede più fastidio della pressione. Ma il rumore diminuì, o meglio, si allontanò, quando essi superarono la barriera del suono, mentre l’accelerazione diventò sempre peggiore; a un certo punto, Don perse i sensi.

Riacquistò conoscenza mentre il razzo era in caduta libera, e stava descrivendo un’alta parabola ad arco sopra le grandi pianure. Immediatamente, provò un enorme sollievo nel non sentire più quel peso schiacciante, tremendo, premergli su tutto il corpo, sottoporre il suo cuore a una tensione quasi insopportabile, trasformare i suoi muscoli in acqua… ma, prima di poter godere realmente quel benedetto sollievo, si accorse di una nuova sensazione; lo stomaco, animato da chissà quali oscuri propositi, aveva cominciato a scalare le pareti del tubo digerente, e tentava con un certo successo di salirgli in gola.

Dapprima si allarmò, non potendo giustificare l’inattesa e sgradevolissima sensazione. Poi gli venne d’un tratto un folle sospetto… poteva essere quello? Oh, no! Non poteva essere… non poteva trattarsi di mal di spazio, non poteva capitare a lui. Lui era nato in caduta libera, dopotutto; la nausea spaziale era una cosa che riguardava i terricoli striscianti, non lui!

Ma il sospetto continuò a crescere, trasformandosi in certezza; lunghi anni di vita tranquilla, facile, sulla superficie di un pianeta, avevano logorato la sua immunità. Con un crescente imbarazzo segreto, ammise che certamente lui si comportava come un terricolo. Non gli era venuto in mente di chiedere un’iniezione antinausea, prima del decollo, benché fosse passato tranquillamente davanti allo sportello sul quale era dipinta una grande croce rossa.

Ben presto, il suo imbarazzo segreto diventò pubblico; ebbe appena il tempo di afferrare il sacchetto di plastica che veniva fornito per quello scopo. Dopo si sentì meglio, anche se molto più debole, e ascoltò distrattamente la descrizione registrata del territorio verso il quale stavano scendendo, la descrizione che gli altoparlanti di bordo trasmettevano senza soste. Finalmente, nelle vicinanze di Kansas City, il cielo nerissimo diventò di nuovo purpureo, gli strati più alti dell’atmosfera scintillarono di colori iridescenti e toccarono il razzo, le grandi ali pieghevoli vennero aperte, e i passeggeri avvertirono nuovamente il peso, mentre il razzo scendeva come un aliante, lungo la sua parabola, avvicinandosi a Nuova Chicago mentre l’urlo dell’aria si faceva sempre più violento. Don fece assumere di nuovo al sedile-cuccetta la posizione eretta, e si rimise a sedere.

Venti minuti dopo, quando l’aeroporto parve salire incontro a loro, i razzi del muso dell’apparecchio vennero azionati dal radar, e l’Espresso di Santa Fé frenò la sua caduta, per atterrare dolcemente. L’intero viaggio aveva occupato un tempo inferiore al trasferimento in elicottero dalla scuola ad Albuquerque… meno di un’ora per lo stesso tragitto, in direzione est, che i carri coperti avevano un tempo percorso in ottanta giorni, con l’aiuto della buona sorte e della clemenza del tempo e degli indiani. Il razzo locale atterrò su di un campo alla periferia della città, un campo che si trovava accanto all’immenso campo, ancora lievemente radioattivo, che era il più grande astroporto del pianeta e, nello stesso tempo, la precedente ubicazione della Vecchia Chicago.

Don indugiò, lasciando sbarcare prima di lui una famiglia di indiani navajos, e si accodò alla squaw. Una passerella mobile era stata accostata al razzo; Don salì su di essa, e si lasciò trasportare fino alla stazione. Una volta all’interno, rimase abbagliato dalle enormi dimensioni del posto, un dedalo fatto di decine di differenti livelli, sopra e sotto la superficie. La Stazione Gary non serviva solamento l’Espresso di Santa Fé, la Strada 66, e i molti razzi locali che collegavano Nuova Chicago al Sud-Ovest; serviva anche una dozzina di altre linee locali, insieme agli anfibi delle linee sottomarine, i numerosi tubi di recapito, e le astronavi che collegavano la Terra a Circum-Terra… e, di là, permettevano i contatti con la Luna, Venere, Marte, e le lune di Giove; era il cordone ombelicale di un impero che abbracciava ben più di un solo mondo.

Ormai avvezzo da molti anni al vasto e vuoto deserto del Nuovo Messico, e, prima di questo, alle ben più vaste e desolate distese degli spazi siderali, Don si sentì oppresso e irritato da quella massa brulicante e chiassosa di persone e di attività. Avvertì il senso di perdita di dignità che si sprigionava dall’immagine umiliante di uomini che si comportano come formiche, anche se, naturalmente, questo pensiero non si formò a parole, ma fu soltanto una sensazione inesprimibile. Eppure, doveva affrontare quel mondo tumultuoso… riuscì a individuare i tre globi intrecciati della Interplanet Lines, e, seguendo una lunga teoria di frecce luminose, raggiunse gli uffici di prenotazione della grande compagnia interplanetaria.

Un impiegato del tutto indifferente alle sue richieste gli assicurò che il suo ufficio non aveva ricevuto alcuna prenotazione per la Valchiria a nome del signor Donald Harvey. Pazientemente, Don spiegò che la prenotazione era stata fatta da Marte, ed esibì il radiogramma dei suoi genitori. Infastidito fino al punto da decidere un’azione fisica, l’impiegato finalmente acconsentì a telefonare a Circum-Terra, facendo oscuramente capire a Don che le conseguenze di quella coercizione inconsulta sarebbero molto verosimilmente ricadute su di lui; ma la grande stazione spaziale, in orbita fissa intorno alla Terra, confermò l’esistenza della prenotazione. L’impiegato tolse la comunicazione, e si rivolse a Don, con aria infastidita e affaticata a un tempo:

«Va bene, allora, puoi pagare il biglietto qui.»

Don ebbe la sensazione di precipitare nel vuoto.

«Io credevo che il biglietto fosse già stato pagato.» Aveva in una tasca interna la lettera di credito di suo padre, ma la somma non era sufficiente a pagare il passaggio dalla Terra a Marte.

«Eh? Non hanno detto niente, su un pagamento già effettuato.»

Dietro le insistenze di Don, l’impiegato telefonò di nuovo alla stazione spaziale. Sì, il passaggio era già stato pagato anticipatamente, poiché la prenotazione era stata fatta da Marte; l’impiegato aveva studiato o no il regolamento della compagnia? Schiacciato da tutti i lati, l’impiegato consegnò a Don, con aria astiosa e impermalita, un biglietto per la Cuccetta 64, astronave Cammino della Gloria, in partenza dalla Terra per Circum-Terra alle ore 9, 3 minuti e 57 secondi del mattino dopo.

«Hai il permesso di uscita?»

«Eh? Di che si tratta?»

L’impiegato parve gonfiarsi, e illuminarsi in viso, a quella che parve una legittima opportunità di rifiutare di svolgere il proprio lavoro, dopo tutti quegli inconvenienti. Ritirò il biglietto.

«Non ti disturbi a seguire i notiziari, eh? Dammi il tuo documento d’identità.»

Riluttante, Don diede all’impiegato la carta d’identità; l’impiegato la infilò in una macchina per fotocopie, e la restituì al giovane.

«Adesso, l’impronta del pollice.»

Don obbedì, premendo le dita sul tampone, e poi disse:

«Questo e tutto? Posso avere il mio biglietto?»

«’Questo è tutto’, dice! Presentati qui, domani, un’ora prima del decollo. Allora potrai ritirare il tuo biglietto… a patto che l’I.B.I. dica che nulla osta.»

L’impiegato gli girò ostentatamente le spalle. Don, sentendosi depresso, fece lo stesso. Ora non sapeva con precisione quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Aveva detto al Direttore Reeves che avrebbe pernottato all’Hilton, trattandosi dell’albergo dove la sua famiglia si era fermata anni prima, e l’unico che lui conoscesse di nome. D’altro canto, lui doveva tentare di trovare il dottor Jefferson… «lo zio Dudley»… dato che sua madre aveva annesso tale importanza, alla cosa, da dedicarle un radiogramma separato. Era ancora il primo pomeriggio; decise di depositare i bagagli, e di cominciare la ricerca.

Liberatosi dei bagagli, trovò una cabina di comunicazione vuota, e cercò il numero di codice del dottore, che poi programmò nella macchina. Il visifono del dottore dichiarò cortesemente il proprio rammarico per il fatto che il dottor Jefferson non fosse in casa, e gli chiese di lasciare un messaggio. Don lo stava dettando, quando una voce calda lo interruppe:

«Per te sono in casa, Donald. Dove sei adesso, ragazzo mio?» Lo schermo si illuminò a quel punto, e Don si trovò di fronte ai lineamenti conosciuti del dottor Dudley Jefferson.

«Oh! Sono qui, alla stazione… alla stazione Gary, dottore. Sono appena arrivato.»

«In questo caso, prendi subito un tassi, e vieni qui.»

«Uh, non voglio darle nessun fastidio, dottore. Ho chiamato, perché mia madre ha detto di salutarla.» Segretamente, aveva sperato che il dottor Jefferson fosse stato troppo occupato per perdere del tempo con lui. Benché la sua mentalità lo portasse a disapprovare l’esistenza stessa delle grandi città, lui non voleva passare l’ultima notte sulla Terra in uno scambio di convenevoli con un vecchio amico di famiglia; voleva andare un po’ in giro, e scoprire cosa avesse da offrire quella moderna Babilonia nel campo dei divertimenti, per un giovane turista. La sua lettera di credito era come un peso, in tasca; voleva alleggerire un po’ quel peso.

«Nessun fastidio! Ci vediamo tra qualche minuto. Nel frattempo, io vado a cercare il vitello grasso per ucciderlo. A proposito… non hai per caso ricevuto un pacco da me?» Il dottore parve d’un tratto molto serio.

«Un pacco? No.»

Il dottor Jefferson brontolò qualcosa sul servizio postale, e Don disse:

«Forse mi verrà inoltrato; potrebbe raggiungermi. Era importante?»

«Be’, lasciamo stare; ne parleremo poi. Hai lasciato un recapito?»

«Sì, dottore… l’Hilton.»

«Bene… frusta i cavalli, e vedi quanto tempo ci metti per arrivare qui. Cieli aperti!»

«E atterraggio sicuro, signore.» Tolsero entrambi la comunicazione. Don uscì dalla cabina, e si guardò intorno, alla ricerca di una fermata di tassi. La stazione sembrava più affollata di prima, con una parata di uniformi in bella evidenza… non le uniformi dei piloti e del personale delle astronavi e dei razzi, ma uniformi militari di numerose armi… e sempre, l’onnipresente servizio di sicurezza, le speciali divise di quello speciale corpo di polizia. Don riuscì ad aprirsi un varco tra la folla, scese per una scala mobile, percorse una galleria dal pavimento scorrevole, e finalmente trovò quello che cercava. Davanti ai tassi c’era una lunga coda di clienti in attesa; Don si mise in fila.

Accanto alla fila era distesa la grossa, bizzarra forma sauriana di un «drago» venusiano. Quando Don fu sufficientemente avanzato, nella fila, da trovarsi accanto alla creatura, fischiò educatamente un saluto.

Il drago girò il tremolante peduncolo di un occhio nella sua direzione. Assicurato con cinghie al «petto» della creatura, tra le zampe anteriori e sotto, a portata delle mani-tentacoli, c’era una scatoletta, un voder. I tentacoli si dimenarono sui tasti, e il venusiano gli rispose, servendosi del traduttore meccanico del voder, invece che sibilare nella sua lingua madre.

«Saluto anche lei, mio giovane signore. È piacevole davvero, tra stranieri e in terra straniera, udire i suoni che si sono uditi nell’uovo.» Don notò, con piacere, che l’alieno aveva un accento distintamente londinese, nell’uso della sua macchina.

Con una veloce successione di sibili, espresse i suoi ringraziamenti, e la speranza che il drago potesse morire piacevolmente.

Il venusiano lo ringraziò, ancora servendosi del voder, e aggiunse:

«Per quanto il suo accento, possa essere affascinante, vorrebbe usarmi la squisita cortesia di parlare nella sua lingua, affinché io possa fare pratica di essa?»

Don sospettò che la modulazione dei suoi sibili fosse così atroce da rendere difficilmente comprensibili al venusiano le sue parole; immediatamente, cominciò a esprimersi in parole umane.

«Io mi chiamo Don Harvey,» rispose, e sibilò di nuovo… solo per fornire il suo nome venusiano, «Nebbia sulle Acque»; il nome era stato scelto da sua madre, e Don non vedeva niente di buffo in esso.

E neppure il drago. Egli sibilò per la prima volta, per annunciare il suo nome, e aggiunse, servendosi del voder:

«Sono chiamato ‘Sir Isaac Newton’.» Don capì che il venusiano, con questa etichetta, seguiva la comune usanza dei draghi di acquisire, come nome di comodo, il nome di qualche umano della Terra ammirato da colui che sceglieva di usarlo.

Don avrebbe voluto chiedere a «Sir Isaac Newton» se per caso egli conoscesse la famiglia di sua madre, ma la coda si stava muovendo rapidamente, e il drago era sdraiato, immobile, senza fare alcuno sforzo per proseguire; così Don fu costretto a spostarsi, per non perdere il posto. Il venusiano seguì il suo movimento con un occhio oscillante, e sibilò per esprimere la speranza che anche Don potesse morire piacevolmente.

Ci fu un’interruzione, nel flusso di tassi automatici che si avvicinava alla fermata; un camion chiuso, con conducente umano, si fermò e fece uscire una scaletta. Il drago si rizzò sulle sue sei solide gambe, e salì a bordo. Don sibilò un saluto… e improvvisamente si accorse, con spiacevole intensità, che un agente della sicurezza gli stava dedicando un’insolita e nettissima attenzione. Fu lieto di poter salire a bordo del suo tassi automatico, e di chiudere subito dopo la copertura.

Compose sul disco il codice dell’indirizzo prescelto, e si appoggiò allo schienale. Il piccolo veicolo partì, salì una breve rampa, attraversò una galleria di carico, e salì su un ascensore automatico. Dapprima Don cercò di seguire con attenzione il percorso, ma le incredibili complicazioni dell’immenso formicaio chiamato «Nuova Chicago» avrebbero provocato violenti attacchi di fegato a un esperto topologo; così, rinunciò all’impresa. Il tassi automatico pareva sapere benissimo dove stava andando e, senza dubbio, il cervello elettronico dal quale l’unità-robot del tassi riceveva gli ordini doveva saperlo, e doveva lanciare i segnali corretti alla macchina. Don passò il resto del viaggio meditando sul fatto che il biglietto non gli fosse stato ancora consegnato, preoccupandosi della sgradita attenzione dell’agente di sicurezza, e, finalmente, ponendosi delle domande sul pacco che avrebbe dovuto consegnare al dottor Jefferson. Quest’ultimo problema non lo preoccupava affatto; semplicemente, gli dava fastidio l’idea che la posta si perdesse. Sperò che il signor Reeves si rendesse conto che tutta la posta non inoltrata entro il pomeriggio avrebbe dovuto seguirlo fino a Marte.

Poi ripensò a «Sir Isaac». Era simpatico imbattersi in qualcuno di casa, in un luogo così pieno di stranieri.


L’appartamento del dottor Jefferson era sotterraneo, a una notevole profondità, in uno dei quartieri più costosi della città. Don non riuscì quasi ad arrivarci; il tassi si era fermato davanti alla porta dell’appartamento, ma quando il giovane aveva cercato di uscire, la porta non si era aperta. Questo gli aveva ricordato che prima doveva pagare l’importo della corsa, che era indicato dal tassametro… e in quel momento aveva scoperto di avere commesso l’incredibile ingenuità di noleggiare un veicolo automatico senza avere le monete necessarie per soddisfare il tassametro. Era sicuro che il piccolo veicolo, intelligente com’era, non si sarebbe degnato neppure di annusare la sua lettera di credito. Sconsolato, stava già aspettando che la macchina lo recapitasse direttamente alla più vicina stazione di polizia, quando venne salvato dall’apparizione del dottor Jefferson.

Il dottore gli diede le monete necessarie per pagare la corsa, e lo fece entrare nell’appartamento.

«Non pensarci più, ragazzo mio. A me succede almeno una volta la settimana. Il sergente del commissariato di quartiere tiene un cassetto pieno di monete, solo per liberarmi dalla custodia delle nostre padrone meccaniche. Mondo delle macchine, e così sia. Gli restituisco il denaro una volta al mese, con gli interessi. Siediti. Un bicchiere di sherry?»

«Uh… no, grazie, dottore.»

«Allora un caffè. Crema e zucchero sono in quel contenitore. Cosa mi dici dei tuoi genitori? Novità?»

«Be’, le solite cose, dottore. Stanno bene, lavorano sodo, e così via.» Nel parlare, Don si guardò intorno. La stanza era ampia, comoda, perfino lussuosa, benché pile e pile di libri, accumulati disordinatamente su scaffali, appoggiati sui mobili e sulle poltrone, e perfino sui tavoli e sulle sedie, nascondessero un poco l’eleganza del locale. In un angolo c’era un caminetto, nel quale scintillava e scoppiettava quello che pareva un fuoco vero, e non una simulazione meccanica. Attraverso una porta aperta, si poteva vedere una successione di altre stanze. Don cercò di fare un calcolo approssimativo del costo di un appartamento simile a Nuova Chicago. La somma, benché favolosa, doveva essere del tutto inadeguata.

Di fronte a loro c’era una finestra-veranda, che avrebbe dovuto mostrare le viscere della città; invece essa mostrava un torrente di montagna, circondato da una pineta. Mentre Don guardava, una trota scintillò argentea sulla superficie delle acque, e si immerse di nuovo.

«Che stiano lavorando sodo è fuori discussione,» rispose il suo ospite. «Lo fanno sempre. Tuo padre cerca di disseppellire, nello spazio breve di una vita umana, segreti che si sono accumulati per milioni di anni. Un compito impossibile… ma nei limiti umani, tuo padre ha ottenuto risultati grandiosi. Figliolo, ti rendi conto che quando tuo padre ha cominciato la sua carriera nessuno aveva ancora sognato che un tempo esisteva il primo impero solare? Che questa ipotesi non era stata avanzata neppure dagli scienziati e dagli archeologi più fantasiosi?» Aggiunse, pensieroso. «Se davvero quell’impero è stato il primo.» Poi proseguì, «Ora, noi siamo riusciti a scorgere le rovine sul fondo di due oceani… e le abbiamo collegate a quanto è emerso su altri quattro pianeti. Naturalmente non è stato tuo padre a compiere tutto questo, e neppure la maggiore parte del lavoro… ma il suo lavoro è stato indispensabile. Tuo padre è un grand’uomo, Donald… e anche tua madre è una donna eccezionale. Quando io parlo di uno parlo implicitamente anche dell’altra, e viceversa; tutte le grandi cose che hanno realizzato sono state il frutto di un lavoro comune. Prendi pure tutti i sandwich che vuoi.»

Don rispose:

«Grazie,» e si servì, riuscendo così a schivare una risposta diretta. Era profondamente lusingato, nel sentire elogiare così i suoi genitori, ma non gli pareva appropriato dichiararsi d’accordo, o fare commenti di sorta.

«Naturalmente, forse noi non riusciremo mai a conoscere tutte le risposte. Com’era il pianeta più grande, la culla della civiltà, il seggio della grandezza dell’Impero, la patria stessa di quegli antichi colonizzatori dei pianeti… quel mondo che ora non è altro che rottami interplanetari,ciottoli dispersi nello spazio siderale? Tuo padre ha trascorso quattro lunghi anni nella Cintura degli Asteroidi… c’eri anche tu allora, no?… e non è mai riuscito a trovare una risposta decisiva. Si trattava di un sistema binario, come il nostro sistema Terra-Luna, e l’equilibrio cosmico è stato spezzato dalle tensioni gravitazionali, da una specie di gigantesca marea? Oppure il pianeta è esploso, o è stato fatto esplodere?»

«Fatto esplodere?» protestò Don. «Ma questo è teoricamente impossibile… o no?»

Il dottor Jefferson, con un gesto spazientito, accantonò l’obiezione.

«Tutto è teoricamente impossibile, finché non viene fatto. Si potrebbe scrivere una storia della scienza alla rovescia, raccogliendo i solenni pronunciamenti delle più alte autorità intorno a ciò che non avrebbe mai potuto essere fatto, e a quello che non avrebbe mai potuto accadere. Hai studiato un po’ di filosofia matematica, Don? Conosci qualcosa della teoria della variabilità dell’universo infinito e dei sistemi postulati aperti?»

«Uh, temo di no, dottore.»

«Un’idea semplice, e molto tentatrice. L’idea che tutto è possibile… e intendo dire assolutamente tutto… e che tutto è è già accaduto. Tutto. Il nostro universo è tutti gli universi. L’universo nel quale tu hai accettato lo sherry, e ti sei ubriacato come una puzzola. Un altro in cui il quinto pianeta non è mai esploso. Un altro ancora, nel quale l’energia atomica e le armi nucleari sono impossibili come ritenevano i nostri antenati. Quest’ultimo universo potrebbe avere i suoi pregi, almeno per le mammolette come me.»

Si alzò in piedi.

«Non mangiare troppi sandwich. Ho intenzione di portarti in un ristorante dove potrai trovare anche del cibo, tra molte altre cose… e un cibo come quello che Zeus promise agli dei… senza mai riuscire a darlo.»

«Non voglio farle perdere troppo tempo, dottore.» Don sperava ancora di poter uscire da solo, in quella città tentacolare, quella sera. Di fronte ai suoi occhi si dipingeva la squallida prospettiva di una cena consumata in qualche noioso circolo per milionari, seguita da una serata di discorsi noiosi e muffi. E quella era la sua ultima notte sulla Terra.

«Tempo? E cos’è il tempo? Ogni ora che ci aspetta è nuova e fresca come quella che abbiamo appena consumato. Ti sei registrato all’Hilton?»

«No, signore. Ho semplicemente depositato i bagagli alla stazione.»

«Bene. Stanotte resterai qui; manderemo a prendere i tuoi bagagli più tardi.» I modi del dottor Jefferson subirono un lieve mutamento. «Ma la posta doveva esserti inoltrata all’albergo?»

«È esatto.»

Don fu sorpreso, nel notare che il dottor Jefferson appariva chiaramente preoccupato.

«Be’, vedremo di sistemare anche questo più tardi. Quel pacco che ti ho spedito… ti verrà inoltrato subito?»

«Veramente, non lo so, dottore. In genere la posta arriva due volte al giorno. Se il pacco è arrivato dopo la mia partenza, in genere avrebbe aspettato fino al mattino. Ma se il direttore ci ha pensato, probabilmente può averlo inoltrato dalla città, servendosi dell’elicottero della sera, in modo che io possa riceverlo prima del decollo di domattina.»

«Vuoi dire che non c’è un tubo pneumatico nella scuola?»

«No, signore, è il cuoco a portare la posta del mattino, quando va in città a fare acquisti, e la posta del pomeriggio viene lanciata col paracadute dell’elibus di Roswell.»

«Un’isola deserta! Be’… faremo un controllo, verso mezzanotte. Se il pacco non sarà ancora arrivato… non importa.» Malgrado queste parole, il dottore parve turbato, e pronunciò pochissime parole durante il tragitto dall’appartamento al ristorante.

Il ristorante era eufemisticamente chiamato Il Retrobottega, e fuori non c’era alcuna insegna per indicarne l’ubicazione; si trattava semplicemente di una tra le tante porte di una galleria laterale. Malgrado ciò, molte persone parevano sapere dove si trovava, e parevano altrettanto ansiose di entrarvi, ma i loro tentativi d’ingresso erano frustrati da un dignitario dal viso arcigno che difendeva un cordone di velluto. Questo ambasciatore riconobbe il dottor Jefferson, e mandò a chiamare il maître d’hotel. Il dottore fece un gesto che tutti i camerieri sapevano comprendere, dall’inizio della storia, il cordone fu calato, ed essi vennero condotti in una processione regale fino a un tavolo di prima fila. Don rimase a bocca aperta, alla vista delle dimensioni della mancia. Così si trovò prontissimo, con la più adatta espressione facciale, per la seconda, e più sensazionale sorpresa: la vista della cameriera che veniva a servirli.

La sua reazione alla giovane donna fu semplice: si trattava, così gli parve, della visione più bella sulla quale i suoi occhi si fossero mai posati, sia nella persona, sia nello splendido costume topless che rivelava con dovizia di affascinanti particolari le meraviglie di quella persona. Il dottor Jefferson si accorse dell’espressione di Don, e ridacchiò.

«Non consumare tutto il tuo entusiasmo, figliolo. Quelle che abbiamo pagato per vedere appariranno là.» Con un gesto della mano, indicò la pista al centro del ristorante. «Vuoi cominciare con un cocktail?»

Don disse che pensava di no, grazie.

«E allora accomodati. Sei un uomo, e la visione di qualche bella rotondità femminile non ti potrà fare altro che bene. Un solo assaggio non dovrebbe produrre danni permanenti, comunque. Ma trascurando questo argomento… che ne diresti se ordinassi io la cena?»

Don si dichiarò d’accordo. Mentre il dottor Jefferson si consultava con la principessa prigioniera intorno alle qualità e ai meriti del menu, Don, dopo essersi ampiamente appagato la vista con quella rosea e rigogliosa immagine di pura femminilità, si guardò intorno. La sala simulava un ambiente aperto, a tarda sera; in alto, nella volta violetta del ‘cielo’, cominciavano a tremolare guizzanti le prime stelle. Un’alta parete di mattoni circondava la sala, nascondendo l’inesistente prospettiva e unendo con incredibile realismo il pavimento al falso cielo. Sopra la parete si vedevano spuntare le fronde degli alberi, verdi meli che stormivano nella brezza del tramonto. Un antico pozzo, con la sua carrucola e il secchio, si trovava al di là dei tavolini, sul lato opposto della sala; Don vide un’altra «principessa prigioniera», anche lei in topless, anche lei con una gonna microscopica e sufficientemente trasparente per rivelare i contorni, avvicinarsi al pozzo, chinarsi graziosamente sopra di esso, scoprendo anche quel poco di pelle che la microgonna aveva tenuto nascosto, cominciare a girare la carrucola, e togliere un secchiello d’argento dal secchio, un secchiello pieno di ghiaccio, che conteneva una bottiglia incartata.

Ai bordi della pista, proprio di fronte a loro, un tavolino era stato tolto per dare spazio a una grossa capsula trasparente a ruote. Don non ne aveva mai vista una simile, ma riconobbe subito la sua funzione; si trattava di una «carrozzella» da marziano, una unità portatile a condizionamento d’aria che serviva a fornire l’aria fredda e rarefatta necessaria a un indigeno marziano. Era possibile vedere indistintamente l’occupante, con il suo corpo fragile sostenuto da un servotelaio metallico articolato, un aiuto necessario per adattarsi alla ben più forte gravità del terzo pianeta. Le pseudoali della creatura erano malinconicamente pendule, e il marziano non si muoveva. Don provò pena per lui.

Anni prima, ancora bambino, aveva incontrato dei marziani sulla Luna, ma il debolissimo campo gravitazionale della Luna era ancora inferiore a quello di Marte; non li trasformava in fragili minorati, paralizzati da un campo gravitazionale troppo doloroso per il loro schema evolutivo. Era difficile e pericoloso per un marziano correre il rischio di scendere sulla Terra; Don si chiese quale motivo avesse indotto quel particolare marziano a sostenere quella prova. D’altra parte, i marziani erano molto misteriosi e riservati; e si raccontavano migliaia di storie sui loro nidi e sulla loro mentalità, tante da confondere anche il più acuto osservatore. Probabilmente, quel marziano si trovava in missione diplomatica… oppure no?

Il dottor Jefferson congedò la cameriera, che si allontanò lanciando un’occhiata compiaciuta a Don — evidentemente lusingata dell’ammirazione che aveva saputo suscitare nel giovane; il dottore sollevò lo sguardo, e notò che Don stava guardando il marziano. Don disse:

«Mi stavo chiedendo perché sia venuto qui. Non certo per mangiare.»

«Probabilmente, vuole vedere il pasto degli animali. I marziani sono curiosi, per certi spettacoli. Questo è, in parte, il motivo che spinge anche me, Don. Guardati intorno attentamente: non vedrai mai più uno spettacolo simile.»

«No, penso di no… non su Marte.»

«Non è questo che intendo dire. Sodoma e Gomorra, ragazzo mio… ormai marce sotto l’aspetto opulento, scivolano sempre più verso l’abisso. Forse sono già state pesate e giudicate. Forse questa è la fine di un Impero… e forse è capitato lo stesso al Primo Impero, e ne è rimasto solo un ricordo. Ma io parlo troppo. Divertiti; non durerà molto.»

«Dottor Jefferson… a lei piace vivere qui?»

«A me? Io sono decadente come la città che infesto; è il mio elemento naturale. Ma questo non mi impedisce di distinguere un’aquila da una rana.»

L’orchestra, che fino a quel momento aveva suonato in sottofondo, apparentemente senza scaturire da nessuna origine in particolare, d’un tratto tacque, e il sistema sonoro del locale annunciò, «Notiziario!». Nello stesso tempo, il cielo violetto in alto si fece nero come l’inchiostro, e delle lettere illuminate cominciarono a scorrere su quel fondo nero. La voce portata dall’impianto acustico lesse ad alta voce le parole che si formavano e passavano in lenta processione sul soffitto: BERMUDA: UFFICIALE: IL MINISTERO DEGLI AFFARI COLONIALI HA ANNUNCIATO IN QUESTO MOMENTO CHE IL COMITATO PROVVISORIO DELLE COLONIE VENUSIANE HA RESPINTO LA NOSTRA NOTA. UNA FONTE VICINA AL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE AFFERMA CHE QUESTO SVILUPPO DELLA SITUAZIONE ERA ATTESO, E NON DEVE COSTITUIRE MOTIVO DI ALLARME.

Le luci si accesero, e la musica ricominciò. Le labbra del dottor Jefferson erano tese in un sorriso senza allegria.

«Com’è appropriato!» fu il suo commento. «E com’è scelto bene il tempo! Lo scritto sulla parete!»

Don fece per commentare l’inatteso evento, ma fu distratto dall’inizio dello spettacolo. La pista davanti a loro era affondata e scomparsa, senza che nessuno lo notasse, durante il notiziario. Ora, dal pozzo buio così creato, venne una nuvola cangiante, galleggiante, illuminata dall’interno di guizzi di porpora e di rosso fiamma e di rosa. La nube parve sciogliersi, e Don vide che la pista era di nuovo al suo posto, e popolata di ballerini. C’era una montagna, sullo sfondo.

Il dottor Jefferson aveva detto bene: le ragazze degne di essere guardate si trovavano sulla pista, e non servivano ai tavoli. L’attenzione di Don era così intensa che egli non si accorse che il cibo era stato posato davanti a lui. Il suo ospite gli sfiorò il gomito.

«Mangia qualcosa prima di svenire.»

«Uh? Oh, sì, signore!» Mangiò subito, con entusiasmo e buon appetito, ma con gli occhi fissi sulle ballerine. C’era un uomo nel balletto, che raffigurava Tannhäuser, ma Don non sapeva né si curava di sapere chi volesse rappresentare; lo notò soltanto quando compariva di fronte a quelle splendide donne, impedendo la visione più dettagliata di qualche particolare di quei corpi in agile movimento. Analogamente, mangiò due terzi di quello che era stato messo davanti a lui, senza notare quel che stava mangiando.

Il dottor Jefferson disse:

«Ti piace?»

Don sobbalzò, rifletté un momento, e capì che il dottore stava alludendo al cibo, e non alle ballerine.

«Oh, sì! È squisito.» A questo punto, abbassò lo sguardo sul piatto. «Ma che cos’è?»

«Non riconosci la pietanza? Sono cuccioli di gregari al forno.»

Don impiegò un paio di secondi per ricordare con esattezza cosa fosse un gregario. Quando era stato bambino, ne aveva visti a centinaia… aveva conosciuto quei piccoli bipedi simili a satiri… faunas gregariaus veneris Smythii… ma sul momento non aveva saputo associare il comune nome commerciale con le stupide creature amichevoli che lui e i suoi compagni di gioco, insieme a tutti gli altri coloni di Venere, avevano sempre chiamato «vieni-sopra», a causa della loro cronica abitudine di salire a frotte su di un essere umano, accarezzarlo, fiutarlo, sederglisi sui piedi, e manifestare in centinaia di altri modi il loro insaziabile appetito di affetto fisico.

Mangiare un vieni-sopra cucciolo? Si sentì improvvisamente un cannibale, e per la seconda volta in un giorno solo cominciò a comportarsi come un terricolo nello spazio. Deglutì, e riuscì a controllarsi, ma non poté più toccare un altro boccone.

Guardò di nuovo la pista. Venusberg scomparve, sostituita da un uomo degli occhi stanchi, che cominciò a roteare delle torce infuocate, eseguendo ogni tipo di prodigioso esercizio. Don non si divertì a quello spettacolo; il suo sguardo abbandonò il giocoliere, e vagabondò per la sala. A tre tavoli di distanza un uomo incontrò il suo sguardo, e poi distolse lo sguardo, con aria disinvolta. Don notò il particolare, ci pensò un poco, poi squadrò attentamente l’uomo, e decise di averlo riconosciuto.

«Dottor Jefferson?»

«Sì, Don?»

«Per caso lei non conosce un drago venusiano che si fa chiamare ‘Sir Isaac Newton’?» Don aggiunse con una breve serie di sibili la versione indigena del vero nome del venusiano.

«Non farlo!» disse seccamente l’uomo.

«Che cosa non devo fare?»

«Non rivelare pubblicamente la tua origine in un momento come questo, se non sei costretto a farlo. Perché mi hai chiesto se conosco questo, uh, ‘Sir Isaac Newton’?» Il dottore tenne la voce bassa, muovendo appena le labbra.

Don gli raccontò il casuale incontro alla stazione Gary.

«Quando sono passato oltre, ho avuto la certezza che un agente della sicurezza mi stesse sorvegliando. E ora lo stesso uomo è seduto a quel tavolo, solo che non indossa più l’uniforme.»

«Ne sei sicuro?»

«Mi sembra di sì.»

«Uhm… potresti sbagliarti. Oppure, lui potrebbe essere qui solo per caso… fuori servizio… benché non mi sembri possibile che un poliziotto della sicurezza frequenti un luogo simile, non con lo stipendio che riceve. Ascolta… non prestargli più alcuna attenzione, e non parlare più di lui. E non parlare del drago, né di qualsiasi altra cosa vagamente imparentata con Venere e i venusiani. Comportati semplicemente come se ti divertissi un mondo, e non avessi alcun pensiero. Ma fa’ attenzione a tutto quel che io dico.»

Don cercò di obbedire alle istruzioni, ma era difficile tenere la mente concentrata su cose leggere e piacevoli. Anche quando le ballerine ricomparvero, Don provò il desiderio di voltarsi a osservare l’uomo che aveva guastato la festa. Ma Don riuscì a controllarsi, e a fissare i costumi succinti delle ballerine con sufficiente entusiasmo. Dopotutto, alla scuola non aveva mai potuto assistere a spettacoli del genere; la tendenza della società era formalmente puritana, là dove si formavano le nuove leve, anche se i costumi erano nelle città, come aveva affermato il dottor Jefferson, decadenti. Il piatto di gregari al forno fu portato via, e il dottor Jefferson ordinò per Don qualcosa che si chiamava ‘Monte Etna’. Aveva realmente la forma di un vulcano, e dalla punta usciva un filo di vapore. Don infilò un cucchiaio in quella massa, e scoprì che si trattava di fuoco e ghiaccio, e assaliva il suo palato con sensazioni violentemente in conflitto. Si domandò come qualcuno potesse trovare gradevole un piatto simile. Per pura cortesia, assaggiò un altro boccone. Dopo qualche minuto, scoprì di avere mangiato tutto, e di essere dispiaciuto che non ce ne fosse più.

Nell’intervallo dello spettacolo Don cercò di domandare al dottor Jefferson quale fosse la sua vera opinione sulla generale paura di una guerra. Il dottore spostò il discorso, con estrema fermezza, sul lavoro dei genitori di Don, e soffermò le sue considerazioni sul passato e sul futuro del Sistema.

«Non angustiarti troppo del presente, figliolo. Inconvenienti, semplici inconvenienti… preliminari necessari per il consolidamento del Sistema Solare; tra cinquecento anni, gli storici non li ricorderanno neppure. Quello che per noi è uno spaventoso nubifragio, per la storia non è che una nuvoletta passeggera. Tra cinquecento anni esisterà il Secondo Impero… e allora sarà composto di sei pianeti.»

«Sei? Dottore, lei non crederà davvero che un giorno ci sarà possibile di fare qualcosa di utile con Giove e Saturno? Oh… capisco. Lei allude alle lune gioviane.»

«No, voglio proprio parlare di sei pianeti primari. Sposteremo Plutone e Nettuno all’interno del sistema, vicino al grande fuoco del Sole, e faremo allontanare dal Sole l’arido Mercurio, in modo che la sua superficie possa raffreddarsi.»

L’idea di spostare dei pianeti nel vuoto siderale colpì Don. Pareva un’idea folle, assolutamente impossibile, ma lasciò correre, poiché il suo ospite era un uomo il quale affermava che tatto era possibile.

«Il genere umano ha bisogno di spazio, di molto spazio,» proseguì il dottor Jefferson. «Dopotutto, Marte e Venere sono abitati da razze indigene intelligenti; non possiamo comprimere ancora molto queste razze, per fare spazio agli uomini, se non vogliamo provocare un genocidio… e non siamo matematicamente sicuri della direzione che potrebbe prendere questo genocidio, neppure nei confronti dei marziani. Cosa ne sappiamo della loro strana intelligenza? Abbiamo solo grattato la superficie, ragazzo mio, ma il nocciolo della loro antica civiltà ci è segreto. Ma la ricostruzione del sistema solare è solo un problema d’ingegneria… un problema che potrà essere risolto facilmente, e che non è nulla in confronto a tutte le altre cose che potremo realizzare. Tra cinque secoli ci saranno più esseri umani della Terra all’esterno di questo sistema, nelle immensità degli spazi interstellari, che all’interno; noi sciameremo intorno a ogni stella di tipo G di questa regione della Via Lattea. Sai che cosa farei se avessi la tua età, Don? Mi assicurerei un posto a bordo del Cercatore di Orizzonti.»

Don annuì.

«L’idea mi attira.» Il Cercatore di Orizzonti, l’incrociatore interstellare progettato per un viaggio di sola andata, era un nome familiare per tutti gli abitanti del Sistema Solare. La sua costruzione avveniva sulla Luna, e nello spazio circumlunare, da molti anni… da molto prima della nascita di Don. Dapprima uno scheletro nello spazio, poi una struttura sempre più vasta e sempre più complessa; presto per la nave delle stelle sarebbe giunto il momento della partenza. Tutti, o quasi tutti i giovani della generazione di Don, dai sedicenni con gli occhi pieni di stelle ai ventunenni ancora carichi di speranze, avevano sognato, almeno una volta nella loro vita, di partire con la missione interstellare.

«Naturalmente,» aggiunse il dottor Jefferson, «Per partire, dovresti avere una moglie.» Indicò la pista, che si stava riempiendo di nuovo. «Prendiamo per esempio quella bionda laggiù. È una candidata probabile… per lo meno, sembra piena di salute.»

Don guardò la giovane donna, che si stava esibendo sulla pista, e sorrise, sentendosi un uomo di mondo.

«Forse a lei non importa niente dei pionieri. Mi sembra abbastanza felice così com’è.»

«Impossibile dirlo con certezza, se non glielo chiedi. Ecco.» Il dottor Jefferson chiamò con un gesto il maître d’hotel; una banconota cambiò mano. Dopo qualche minuto, la bionda si avvicinò al loro tavolo, ma non si mise a sedere. Era una cantante, e cominciò a sussurrare all’orecchio di Don, con l’aiuto dell’orchestra, sentimenti e situazioni che lo avrebbero messo in imbarazzo anche se espressi privatamente. Dopotutto, il sesso non era stato una delle materie d’insegnamento della scuola, né c’erano state insegnanti abbigliate in abiti come quelli, né dotate di una voce così calda e invitante. Don non si sentì più un uomo di mondo, anzi, cominciò a provare una sensazione di calore in tutto il viso. Immaginò che le sue orecchie fossero diventate paonazze, e confermò la sua risoluzione di non portare quella femmina sulle stelle. Malgrado la decisione, l’esperienza gli piacque immensamente; e qualcosa si mosse nelle sue vene, a quella vicinanza eccitante.

La pista si stava vuotando, quando, improvvisamente, le luci si spensero per un istante, per riaccendersi immediatamente, e l’impianto acustico cominciò di nuovo a gridare:

«Allarme d’incursione spaziale! Allarme d’incursione spaziale!»

A questo punto, tutte le luci si spensero.

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