Don deglutì, sbarrò gli occhi, e per poco non dimenticò le buone maniere.
«Sir Isaac! Sir Isaac!» Incespicando, corse verso di lui.
Non è pratico stringere la mano a un drago, baciarlo, o abbracciarlo. Don si accontentò di battere i pugni sui fianchi corazzati di Sir Isaac, cercando, nel frattempo, di recuperare una parte del suo autocontrollo. Molte emozioni per troppo tempo soffocate lo scossero, togliendogli voce e vista a un tempo. Era il momento dei ricordi, il momento in cui gli ultimi momenti della sua vecchia vita ritornavano vividi alla memoria. Dopotutto, dall’ultima volta in cui aveva visto Sir Isaac, erano accadute molte, troppe cose. In quel momento, parevano volere esplodere tutte nella sua gola. Sir Isaac aspettò pazientemente che quel momento di emozione passasse, e poi disse:
«E ora, Donald, se posso presentarle la mia famiglia…»
Don cercò di riprendersi, si riscosse, si schiarì la gola, e inumidì il suo fischietto. Nessuno degli altri possedeva un voder; era possibile che nessuno di loro capisse l’inglese.
«Che tutti loro possano morire in maniera sublime!»
«Noi la ringraziamo.»
Una figlia, un figlio, una nipote, un nipote, una bisnipote, e un bisnipote… contando anche Sir Isaac, un benvenuto di quattro generazioni, appena una in meno del massimo protocollo dei draghi; Don si sentì sopraffatto. Sapeva che Sir Isaac gli era amico, ma decise che questo alto grado di cerimoniale doveva essere un complimento per i suoi genitori.
«Mio padre e mia Madre vi ringraziano tutti per la grande cortesia che avete usato al loro uovo.»
«Tale il primo uovo, tale l’ultimo. Siamo molto felici di averla qui, Donald.»
Un ospite drago, onorato da una scorta, avrebbe compiuto una lenta avanzata fino alla residenza della famiglia, con a fianco i componenti della famiglia. Ma una lenta avanzata di un drago è più rapida almeno del doppio di un’andatura da marciatore di un essere umano. Sir Isaac si acquattò al suolo, e disse:
«Mio caro ragazzo, che ne direbbe se io le prestassi le mie gambe? Abbiamo da percorrere una distanza considerevole.»
«Oh, posso camminare!»
«La prego… insisto.»
«Be’…»
«’Via gli ormeggi’, allora… se ricordo correttamente l’idioma.»
Don s’arrampicò a bordo, e si sistemò subito dietro l’ultimo paio di occhi a peduncolo; i peduncoli ruotarono lentamente, e gli occhi lo fissarono. Scoprì che Sir Isaac aveva avuto la cortesia di fare sistemare due anelli, nelle piastre del collo, in modo da offrirgli un supporto.
«Tutto a posto?»
«Sì, grazie!»
Il drago si rizzò di nuovo in piedi, e cominciò a camminare; al centro della processione, Don si sentì come Toomai-degli-Elefanti.
Percorsero un affollato sentiero per draghi, così antico che era impossibile stabilire se fosse stato costruito, o se si trattasse di una formazione naturale. La strada costeggiava la spiaggia per circa un miglio; passarono davanti a molti draghi al lavoro nei loro campi acquosi, poi il sentiero cambiò direzione, piegando verso l’interno. Ben presto, nelle alteterre asciutte, la processione abbandonò il traffico, entrando in una galleria. Questa galleria era decisamente frutto dell’arte, e non della natura; si trattava di una speciale galleria, nella quale il pavimento scivolava silenziosamente e rapidamente nella direzione che era seguita da chi la percorreva (a patto che colui che la percorreva fosse un drago, o pesasse quanto un drago); la loro andatura veniva moltiplicata per un fattore considerevole. Si trattava di una brillante prova dell’ingegno della razza dominante di Venere, e si trattava anche di una notevole comodità, che già Don aveva potuto controllare in più occasioni, nei suoi rapporti con le creature venusiane. Don non fu in grado di valutare la reale velocità della loro avanzata, né la misura della distanza percorsa.
Finalmente giunsero in un vasto salone, vastissimo anche per i criteri di valutazione dei draghi; il pavimento mobile si mescolò al pavimento solido del salone, senza che fosse possibile discernere la transizione, e si fermò. Un attimo prima essi avevano continuato ad avanzare in quella specie di fluido fiume di pietra; un attimo dopo si trovarono fermi, nel titanico salone. E là erano radunati gli altri componenti della tribù, che erano stati rappresentati dai sette che erano venuti ad accoglierlo alla spiaggia. Ma in quel momento non fu richiesto a Don di cercare nel proprio cervello dei complimenti e delle formalità da usare nei confronti degli altri componenti della famiglia di Sir Isaac; invece, in stretta applicazione dell’etichetta, venne immediatamente condotto nelle sue stanze, per riposarsi del viaggio e rinfrescarsi.
Le stanze erano a malapena comode, secondo i criteri venusiani; per Don, naturalmente, erano caverne colossali. La ‘piscina’ che occupava il centro della stanza principale era profonda meno di un metro e ottanta, ai bordi, ed era abbastanza lunga perché lui potesse percorrerla con diverse bracciate, nuotando… cosa che egli fece prestissimo, con enorme piacere. L’acqua era pura almeno quanto il Mare che egli aveva appena attraversato era sporco, ed era stata riscaldata per lui, da quanto poté stabilire, nella misura esatta a garantire il massimo conforto per un essere a sangue caldo come un uomo.
Dopo essere disceso dallo scivolo che, naturalmente, sostituiva i trampolini nel regno dei draghi, e avere percorso un paio di volte la piscina, nuotando con calma e con piacere, Don si girò sulla schiena e galleggiò tranquillamente, osservando la nebbia artificiale che nascondeva il remoto soffitto. Questa, pensò, era certamente vita! Era il bagno migliore che lui faceva da… be’, da quel bagno splendido che aveva fatto a Nuova Chicago, nella sua stanza all’Hilton Caravanserraglio, e quanto tempo era passato, da allora? Cercò di ricordarlo, ma si trattava di un calcolo difficile. Don pensò, con una morsa improvvisa di nostalgia, che i suoi compagni di classe, nella fattoria-scuola, dovevano essersi diplomati già da molto tempo.
Riuscendo a stancarsi perfino di tutto quel lusso… come spesso accade agli esseri umani… uscì dalla piscina, poi prese i suoi vestiti, e cercò di togliere le vecchie incrostazioni di fango, facendo del suo meglio per rimediare a un accumularsi di fango che era avvenuto nel corso di mesi e mesi; durante il lavoro, desiderò con tutte le sue forze di avere del detersivo, o perfino il grigio sapone fatto in casa che veniva usato dagli agricoltori. Girò per la sala, scalzo, cercando qualche appiglio al quale appendere il suo bucato. Nel ‘minuscolo’ soggiorno privato, egli si fermò bruscamente.
La cena era pronta. Qualcuno aveva sistemato un tavolo per lui, completo di elegante tappeto verde… un tavolino da gioco, notò, con inciso il nome del locale al quale era appartenuto; lo stesso nome era ripetuto sotto le sedie che erano accostate al tavolo, e che Don spostò, pensieroso, per controllare.
Il tavolo era stato apparecchiato secondo le abitudini umane. Certo, la minestra era nella tazza del caffè, e il piatto della minestra conteneva il caffè, ma Don non era dell’idea di cavillare su certe piccolezze… minestra e caffè erano entrambi caldi. Ed era caldo anche il toast fatto di pane, e le uova fritte.
Don stese gli indumenti bagnati sul pavimento caldo, a piastrelle, e li ‘stirò’ in fretta con la mano, poi scostò la sedia, sedette, e si accinse a cenare.
«Come diceva sempre lei, capitano,» mormorò, «Non c’è mai andata così bene.»
C’era un materasso di gomma, sul pavimento di un altro reparto della stessa stanza; Don non ebbe bisogno di controllare, per vedere che si trattava della dotazione dei Verdi, tipo per ufficiali. C’era solo il materasso; mancava il telaio, mancava la rete, e mancavano le lenzuola, ma fondamentalmente quelle erano aggiunte non essenziali; un vero giaciglio era fatto di un buon materasso, e non c’era bisogno d’altro. Sapendo perfettamente che non sarebbe stato disturbato in alcun modo, e sapendo inoltre che nessuno si aspettava che lui si mostrasse fino a quando non gli avrebbe fatto comodo, si distese mollemente su quello splendido materasso, subito dopo la cena. Era stanco, stanchissimo, se ne rendeva conto ora, e certamente aveva molte cose sulle quali riflettere.
La ricomparsa di Sir Isaac aveva fatto emergere ricordi sepolti, che erano ritornati, vitali e imperiosi. Era passato tanto tempo; ma ora se ne rendeva conto… era come se fosse stato ieri. La sua esperienza militare lo aveva maturato, lo aveva cambiato… ma giorno dopo giorno, era stato come un sogno, qualcosa che era passato rapidamente, confusamente. Dopo la sua evasione dal campo di concentramento, era come se fosse trascorso un pomeriggio… mentre quel che era accaduto prima della svolta totale della sua vita riemergeva alla superficie della sua mente, e non era possibile fermarlo.
Ripensò alla sua scuola, e si domandò dove fosse in quel momento il suo vecchio compagno di camera. Si era arruolato anche lui… ma dall’altra parte? Sperava di no, con tutto il cuore… eppure sapeva, in cuor suo, che Jack si era certamente arruolato. Lui aveva fatto quel che doveva fare, giudicando dal suo punto di vista. Jack non era suo nemico, non poteva esserlo. Caro, vecchio Jack! Sperò, con tutte le sue forze, che i folli, imprevedibili destini della guerra non li portassero mai faccia a faccia.
Si chiese se Sonno l’avrebbe ancora riconosciuto. Chissà se il cavallo si ricordava ancora di lui.
E rivide il viso del Vecchio Charlie, che improvvisamente perdeva ogni lineamento umano, cancellato dalla vampata di un’arma termica… e di nuovo, provò una violenta ondata di collera, a quel pensiero. Ebbene, lui aveva ripagato i Verdi per la morte del Vecchio Charlie… aveva saldato il debito, e aveva aggiunto gli interessi.
Strano, come diventi facile uccidere, pensò Don. Ma era la guerra. La morte non aveva più significato. Morivano a migliaia, e ciascuno non aveva i lineamenti di un uomo. Era un nemico. Quanti ne morivano, in guerra.
Provò ancora il dolore del primo momento, per la perdita di Isobel. In cuor suo, temeva che la ragazza fosse morta nel primo attacco. Ormai era passato troppo tempo, per sperare ancora.
E finalmente rifletté sugli ordini venuti direttamente dal quartier generale, che lo avevano mandato da Sir Isaac. Era bizzarro. Laggiù c’era veramente un lavoro militare da svolgere? Oppure Sir Isaac aveva semplicemente scoperto dove lui si trovava, e l’aveva mandato a prendere? Quest’ultima ipotesi pareva la più probabile; il quartier generale delle forze di resistenza avrebbe certamente considerato una richiesta da parte di un principe dell’Uovo come un ‘obbligo’ militare, essendo i draghi così importanti per il buon andamento delle operazioni.
Si grattò la cicatrice sul braccio sinistro, e si addormentò.
La colazione fu soddisfacente come la cena. Questa volta, non ci fu alcun mistero intorno alla sua apparizione; fu portata con un carrello a ruote da una giovane dragonessa… Don capì che era giovane, perché l’ultimo paio di peduncoli era ancora rudimentale, e gli occhi non erano ancora ‘sbocciati’; non doveva essere nata da più di un secolo venusiano. Don sibilò un ringraziamento; lei rispose, educatamente, e se ne andò.
Don si domandò se Sir Isaac non impiegasse dei servitori umani; la cucina lo rendeva sconcertato… i draghi, semplicemente, non sanno cucinare. Essi preferiscono consumare crudo il loro cibo, con un po’ del fango del fondo ancora attaccato, per dare un po’ d’aroma. Riusciva a immaginare un drago intento a bollire un uovo per l’esatto periodo di tempo necessario, una volta saputo esattamente quanto fosse questo tempo; ma la sua immaginazione rifiutava di credere a qualcosa di più complicato. L’arte umana di cucinare è un’arte esoterica, e strettamente razziale.
La sua perplessità non gli impedì di apprezzare nella giusta misura l’eccellente colazione.
Dopo colazione, con il morale — e la fiducia in se stesso — sensibilmente aumentati dal fatto d’indossare degli indumenti lavati, e ragionevolmente puliti, trovò la forza per affrontare la prova di incontrare la numerosa famiglia di Sir Isaac. Avvezzo com’era a fungere da interprete di ‘vera lingua’, la prospettiva dell’incredibile dose di cerimonie e formalità, nella quale ci si aspettava da lui di recitare una parte centrale e creativa, con molta immaginazione e molto talento, lo rendeva sensibilmente nervoso. Sperò di poter condurre la prova in maniera che avrebbe riflesso onore sui suoi genitori, e non imbarazzo sul suo ospite.
Si era raso frettolosamente, e non certo in maniera perfetta, non essendoci specchi nell’appartamento, ed era già pronto a uscire, quando udì chiamare il suo nome. La cosa lo sorprese, dato che lui sapeva che non avrebbe dovuto essere disturbato… essendo un ospite appena arrivato… anche se avesse deciso di restare nelle sue stanze per una settimana, o per un mese… o per sempre.
Sir Isaac entrò, come una benevola montagna in movimento.
«Mio caro ragazzo, vuole perdonare un vecchio frettoloso, se da questo momento la tratterò con l’informalità usata comunemente soltanto con i propri figli?»
«Be’, ma certo, Sir Isaac.» Don era del tutto sconcertato. Se Sir Isaac era un drago frettoloso, certamente era il primo della storia.
«Come il padre e la madre l’uovo, come l’uovo il padre e la Madre,» sibilò Sir Isaac, passando immediatamente a una familiarità completa. «Se sei riposato e rinfrescato, allora ti prego di venire con me.»
Don obbedì, sorpreso dalla piega che gli avvenimenti avevano assunto; rifletté che dovevano averlo tenuto sotto osservazione; l’entrata di Sir Isaac era stata troppo puntuale, perché si trattasse di un caso. Il vecchio drago lo guidò fuori dell’appartamento, lo precedette lungo un passaggio interno, e lo fece entrare in un salone che un drago avrebbe considerato, probabilmente, un salotto intimo; era largo meno di trenta metri.
Don decise che doveva trattarsi dello studio di Sir Isaac, perché c’erano innumerevoli rotoli di libri-nastro disposti in grandi scaffali alle pareti, e c’era anche il ripiano girevole, sistemato all’altezza dei tentacoli prensili. Sopra uno scaffale, al centro di una parete, c’era quello che Don immaginò fosse un affresco, ma si trattava di un guazzabuglio incomprensibile, per il giovane; i tre colori, nello spettro degli infrarossi, che i draghi vedono e noi non possiamo vedere, producevano anche in questa circostanza l’usuale confusione. Ripensandoci, Don decise che il dipinto poteva anche non avere alcun significato; dopotutto, gran parte dell’arte umana non sembra significare nulla.
Ma la cosa che egli notò maggiormente, e sulla quale meditò, fu che la stanza conteneva non una, ma due sedie adatte agli esseri umani.
Sir Isaac lo invitò a sedersi. Don obbedì, e scoprì che la sedia era un mobile del più perfezionato tipo di lusso, a elaborazione interna, e adattabile; la sedia valutò immediatamente le sue dimensioni, e la forma del suo corpo, e si adattò perfettamente a lui. Don scoprì immediatamente a chi era destinata l’altra sedia di tipo terrestre; un uomo entrò a grandi passi nella stanza… un uomo sulla cinquantina, magro e severo, con una corona di capelli grigi e arruffati intorno a un cranio calvo. L’uomo aveva dei modi bruschi, e suggeriva l’idea che i suoi ordini venissero sempre obbediti.
«Buongiorno, signori!» Si rivolse a Don. «Lei è Don Harvey. Io mi chiamo Phipps… Montgomery Phipps.» Lo disse come se fosse stata una spiegazione sufficiente. «Lei è cresciuto un bel po’. L’ultima volta che l’ho vista, le ho dato una bella sculacciata, perché mi aveva morso il pollice.»
Don si sentì irritato, da quell’atteggiamento da sergente maggiore che l’uomo aveva assunto. Immaginò che si trattasse di qualche conoscente dei suoi genitori, che lui aveva conosciuto nelle vaghe, indistinte profondità dell’infanzia, ma non lo riconosceva, né riusciva a ricordare in quale occasione avesse potuto incontrarlo.
«Avevo qualche motivo per morderle il pollice?» domandò.
«Eh?» L’uomo scoppiò improvvisamente in un’aspra risata. «Suppongo che si tratti di una questione di opinioni. Ma siamo pari; io le ho dato una bella strigliata.» Si rivolse a Sir Isaac. «Verrà anche Malath?»
«Mi ha detto che avrebbe compiuto questo sforzo. Dovrebbe giungere tra breve.»
Phipps affondò comodamente sull’altra sedia, e cominciò a tamburellare sul bracciolo con il pollice e l’indice.
«Be’, immagino che dovremo aspettare, anche se non vedo alcun bisogno della sua partecipazione a questa riunione. Ormai abbiamo tardato anche troppo… avremmo dovuto tenere questa riunione ieri sera.»
Sir Isaac riuscì a trarre, miracolosamente, un’intonazione sconvolta dal suo voder.
«Ieri sera? Con un ospite appena arrivato?» Il drago era sinceramente scandalizzato, e lo dimostrava.
Phipps si strinse nelle spalle.
«Lasciamo perdere.» Si rivolse a Don. «Le è piaciuta la cena, figliolo?»
«Eccellente.»
«L’ha preparata mia moglie. Adesso è al lavoro nel laboratorio, ma la conoscerà più tardi. È un vero genio della chimica… dentro e fuori la cucina.»
«Sarei lieto di ringraziarla,» disse Don, con sincerità. «Lei ha parlato di un laboratorio?»
«Eh? Sì, sì… un posto fantastico. Lo vedrà più tardi. Ci lavorano alcuni dei più grandi talenti di Venere. Ciò che la Federazione perde, noi lo guadagnamo.»
Don riuscì a trattenere le domande che erano balzate improvvisamente alle sue labbra; qualcuno… qualcosa… stava arrivando. Don spalancò gli occhi, quando vide che si trattava di una ‘carrozzella’ da marziano… l’ambiente personale mobile senza il quale un marziano non poteva sopravvivere, né sulla Terra, né su Venere. Il piccolo veicolo si avvicinò, ed entrò nel circolo; la figura che si trovava all’interno si issò faticosamente in posizione seduta, con l’aiuto del suo esoscheletro artificiale a motore, cercò debolmente di allargare le pseudo-ali e parlò, con la sua voce pigolante, sottile e stanca amplificata da un microfono.
«Malath da Thon vi saluta, amici miei.»
Phipps si alzò in piedi.
«Malath, vecchio mio, dovresti essere nel tuo serbatoio. Ti ucciderai, facendo tutti questi sforzi.»
«Vivrò fino a quando sarà necessario.»
«Ecco il giovane Harvey. Somiglia molto a suo padre, no?»
Sir Isaac, scandalizzato da una disinvoltura simile, intervenne a quel punto, con una presentazione formale ed elaborata. Don cercò febbrilmente di ricordare qualcosa di più di due parole di Alto Marziano, rinunciò, e si accontentò di dire:
«Lieto di conoscerla, signore.»
«L’onore è mio,» pigolò la voce stanca del marziano. «’Un alto padre getta una lunga ombra’.»
Don si chiese cosa avrebbe dovuto rispondere, pensando che la rozza mancanza di buone maniere dei vieni-sopra aveva i suoi lati buoni. Phipps intervenne, dicendo:
«Vediamo di metterci al lavoro, prima che Malath si consumi completamente. Sir Isaac?»
«Molto bene. Donald, tu sai di essere il benvenuto nella mia casa.»
«Uh… be’, sì, Sir Isaac, grazie.»
«Tu sai che io ti ho esortato a farmi visita, prima di sapere qualcosa di più, sul tuo conto, della tua discendenza e del tuo grande spirito.»
«Sì, signore, lei mi ha chiesto di venire a trovarla. E ho cercato di farlo. L’ho cercato davvero… ma non sapevo dove lei fosse atterrato. Cominciavo a organizzarmi, per fare qualche piccola indagine, quando i Verdi sono atterrati. Ne sono enormemente dispiaciuto.» Don si sentiva vagamente a disagio, sapendo che aveva rimandato, semplicemente, la questione fino al momento in cui avrebbe avuto un favore da chiedere.
«E io ho cercato di trovarti, Donald… e sono stato colto dalla medesima sfortuna. Recentemente, grazie alle voci che vengono portate dalla nebbia, ho finalmente scoperto dove ti trovavi e cosa stavi facendo.» Sir Isaac fece una pausa, come se trovasse difficile la scelta delle parole. «Sapendo che questa casa è la tua casa, sapendo che tu eri il benvenuto in ogni caso, potrai mai perdonarmi, quando scoprirai di essere stato chiamato anche per un motivo estremamente pratico?»
Don decise che questo richiedeva l’uso della ‘vera lingua’.
«’Come possono gli occhi offendere la coda? O il padre offendere il figlio?’ Che posso fare per aiutarla, Sir Isaac? Avevo già intuito che stava accadendo qualcosa.»
«Come posso iniziare? Dovrei forse parlare del vostro Cyrus Buchanan, che morì lontano dal suo popolo, eppure morì felice, poiché aveva fatto anche di noi il suo popolo? O dovrei parlare degli strani e complicati costumi del tuo popolo, nei quali a volte voi… o così ci sembra… fate sì che la bocca morda la propria gamba? O dovrei discutere direttamente gli eventi che sono accaduti qui, da quando per la prima volta io e te abbiamo diviso il fango nel cielo?»
Phipps si mosse, con un certo disagio.
«Lasci fare a me, Sir Isaac. Ricordi che questo giovane e io siamo della stessa razza. Non abbiamo bisogno di perderci per ore a setacciare la boscaglia; posso spiegargli tutto in due parole. Non è complicato.»
Sir Isaac chinò la testa massiccia, in segno di assenso.
«Come vuoi, amico mio.»
Phipps si rivolse a Don.
«Giovanotto, lei non lo sapeva, ma quando i suoi genitori l’hanno chiamata a casa, su Marte, lei è diventato un corriere, con un messaggio.»
Don lo fissò, freddamente.
«Ma io lo sapevo.» La sua mente lavorava furiosamente, adattandosi a quella nuova situazione.
«Lo sapeva? Be’, è magnifico! Allora ce lo dia.»
«Che cosa?»
«L’anello… l’anello, naturalmente. Ce lo dia.»