CAPITOLO VII LA STRADA TORTUOSA

Subito dopo la distruzione di Circum-Terra, il segnale di allarme dell’incrociatore ululò, e gli altoparlanti ruggirono, ordinando a tutti gli uomini di raggiungere i posti di accelerazione. Il Nautilus partì, con una grande vampata dei razzi, tracciando la propria orbita per il lungo viaggio per Venere. Quando l’incrociatore siderale fu alla massima velocità di crociera, e i pìccoli razzi laterali avevano dato inizio a una rotazione dell’astronave sul proprio asse, per fornire un minimo di gravità, la sala di comando ordinò di slacciare le cinture. Don slacciò le sue cinture, e si diresse rapidamente verso la sala radio. Fu costretto a discutere per un paio di volte, per superare delle sentinelle.

Trovò la porta aperta; tutti coloro che si trovavano all’interno parevano occupatissimi, e non gli prestarono alcuna attenzione. Egli esitò, poi fece un passo avanti, ed entrò. Una lunga mano parve scaturire dal nulla, e lo afferrò per il gomito.

«Ehi! Dove diavolo credi di stare andando?»

Don rispose, umilmente:

«Voglio soltanto spedire un messaggio.»

«Solo questo, eh? Che cosa ne pensi, Charlie?» Il suo catturatore si rivolse a un soldato che era chino su un apparecchio dai complessi circuiti.

Il secondo soldato sollevò un auricolare della cuffia che portava in testa.

«Sembrerebbe un sabotatore. Probabilmente in ogni tasca ha una bomba atomica.»

Un ufficiale uscì in quel momento da una sala interna.

«Cosa succede qui?»

«L’abbiamo trovato qui chissà come, signore. Dice che vuole mandare un messaggio.»

L’ufficiale squadrò ben bene Don.

«Spiacente. Impossibile. Silenzio radio. Nessuna emissione.»

«Ma…» rispose disperatamente Don, «Io devo trasmettere il messaggio.» Rapidamente, spiegò la sua situazione. «Così,» concluse, «Devo far sapere ai miei genitori dove sono, signore.»

L’ufficiale scosse il capo.

«Non potremmo comunicare con Marte, neppure se non fossimo in silenzio radio.»

«Lo so, signore, ma potreste trasmettere il messaggio alla Luna, che lo ritrasmetterebbe a Marte.»

«Sì, suppongo che potremmo farlo… ma non lo faremo. Vede, giovanotto, mi dispiace davvero per i suoi guai, ma non esiste alcuna possibilità, neppure la più remota, che l’ufficiale comandante permette di violare il silenzio radio per qualsiasi motivo, anche per un motivo assai più importante del suo. La sicurezza dell’astronave ha la precedenza su tutto.»

Don meditò per qualche istante su quelle parole.

«Già, immagino che sia così,» ammise alla fine, depresso.

«Comunque, non mi preoccuperei eccessivamente, se fossi in lei. I suoi genitori scopriranno certamente dove si trova.»

«Uh? Non vedo come. Loro credono che io sia in viaggio per Marte.»

«No, invece… e anche se lo credono, tra poco cambieranno idea. Non c’è alcun segreto su quello che è accaduto; l’intero sistema solare ne è al corrente. Loro potranno scoprire che lei è arrivato fino a Circum-Terra; e potranno sapere anche che il Cammino della Gloria non l’ha riportata sulla Terra. Per eliminazione, rimane solo la possibilità che lei sia in viaggio per Venere. Immagino che in questo stesso momento stiano tempestando di chiamate l’Interplanet, per sapere notizie.»

L’ufficiale gli voltò le spalle, e disse:

«Wilkin, prepara un cartello da appendere alla porta. Scrivi, ‘Silenzio Radio — Non Si Accettano Messaggi’. Ci mancherebbe soltanto che tutti i civili che sono a bordo dell’astronave si presentassero qui, chiedendo di mandare i saluti alla vecchia zia.»


Don si sistemò in un compartimento di terza classe, insieme a tre dozzine di uomini e ad alcuni ragazzi più giovani. Alcuni passeggeri, che avevano pagato un biglietto per sistemazioni migliori, si lamentarono. Anche il biglietto di Don era di prima classe… per la Valchiria e con destinazione Marte… ma fu ben lieto di non essere stato così stupido da protestare, quando vide gli scontenti ritornare con la coda tra le gambe. Le cabine di prima classe, che si trovavano a prua, erano occupate dall’Alta Guardia.

La sua cuccetta era sufficientemente comoda, e un viaggio spaziale, monotono in qualsiasi circostanza, era un po’ meno monotono nel rumore e nei pettegolezzi continui di una corsia comune, mentre in una splendida cabina di prima classe il silenzio e la noia diventavano opprimenti. Durante la prima settimana di viaggio, il medico di bordo annunciò che chiunque lo desiderasse poteva sottoporsi al sonno-freddo. Nel giro di un paio di giorni la grande corsia si era quasi svuotata; i passeggeri mancanti erano stati drogati e congelati e stivati nei serbatoi del sonno-freddo, che occupavano l’intero compartimento poppiero. Ibernati e incoscienti, quei passeggeri avrebbero passato sognando le lunghe settimane che li aspettavano.

Don non scelse il sonno-freddo. Rimase ad ascoltare una discussione, nella corsia, una discussione piena di equivoci e di fatti compresi a metà, sull’influenza o meno del sonno-freddo sulla durata di una vita umana.

«Secondo me, le cose stanno così,» pontificò un passeggero. «Noi abbiamo tanto tempo da vivere… giusto? La durata è già nei nostri geni; salvo incidenti, si può vivere per un determinato periodo. Ma quando ci si fa congelare, tutto il corpo è rallentato. Il nostro orologio si ferma, per usare un modo di dire efficace. In questo periodo, il tempo non può agire contro di noi Se la nostra vita deve durare, diciamo, ottant’anni, nel caso del lungo-sonno la vita durerà ottant’anni più tre mesi, o qualunque sia il periodo del sonno-freddo. Così, io sono favorevole.»

«Lei si sbaglia moltissimo,» gli fu risposto. «Più di così è impossibile. Scegliendo il sonno-freddo, lei semplicemente perde tre mesi di vita. No, non fa per me, spiacente!»

«Lei è pazzo. Io ho deciso.»

«Si serva pure. E un’altra cosa…» Il contradditore a questo punto si era avvicinato ancor più agli altri, e aveva abbassato la voce, con aria circospetta. «Dicono che quei ragazzi del servizio medico interrogano chi si sottopone al sonno-freddo, quando inizia la perdita di conoscenza. E vuole sapere il perché? Perché il commodoro pensa che a Circum-Terra delle spie siano riuscite a intrufolarsi a bordo.»

A Don non importava sapere chi dei due avesse ragione. Lui si sentiva troppo vivo per cercare deliberatamente una ‘morte provvisoria’, solo per ingannare la noia di un lungo viaggio. Ma quest’ultimo commento lo aveva fatto sobbalzare. Delle spie? Era possibile che l’I.B.I. fosse riuscita a piazzare degli agenti a bordo, proprio sotto il naso dell’Alta Guardia? Gli pareva assurdo. Eppure l’I.B.I. aveva fama di riuscire a intrufolarsi dappertutto. Si guardò intorno, passò in rassegna gli altri passeggeri, chiedendosi quale, tra loro, potesse viaggiare sotto una falsa identità.

Abbandonò il problema, dopo poco tempo… almeno l’I.B.I. non si interessava più a lui.

Se Don non avesse saputo di trovarsi a bordo del Nautilus, diretto a Venere, avrebbe potuto tranquillamente credere di essere sulla Valchiria, in volo per Marte. Le astronavi erano della stessa classe, e una regione del vuoto spazio siderale è generalmente uguale a qualsiasi altra regione. Certo, il Sole ingrandiva frazionalmente ogni giorno, invece che rimpicciolire… ma nessuno guarda mai direttamente il Sole, neppure da Marte. La vita di bordo seguiva la stessa, monotona giornata di Greenwich adottata da tutti gli incrociatori siderali; la colazione era pronta all’ora esatta del ‘mattino’; la posizione dell’astronave veniva annunciata regolarmente a ‘mezzogiorno’; le luci venivano attenuate di ‘notte’.

Perfino la presenza dei soldati, a bordo dell’incrociatore, non era ingombrante, né influiva troppo sulla vita degli altri. I militari se ne stavano nei loro quartieri, a prua, quartieri che erano proibiti ai civili, se non per motivi di lavoro. Passarono quarantadue giorni di viaggio, prima che Don avesse nuovamente occasione di andare a prua… per farsi medicare un taglio al dito nell’infermeria. Dirigendosi verso prua, sentì una mano sulla spalla, e si fermò di colpo, voltando il capo.

Riconobbe il sergente McMasters. Il sergente portava la stelletta di commissario di bordo, appartenente al servizio di polizia dell’astronave.

«Cosa sta facendo da queste parti?» domandò il sergente. «Curioso, eh?»

Don sollevò il dito ferito.

«Non stavo curiosando; volevo farmi medicare questo.»

McMasters guardò il dito.

«Si è ferito, eh? Be’, lei è nel corridoio sbagliato. Questo conduce alla sala delle bombe, non ai quartieri passeggeri. Un momento… ma non ci siamo già conosciuti, noi due?»

«Certo!»

«Ah, adesso ricordo! Tu eri il ragazzo convinto di andare su Marte!» Il tono del sergente si fece più amichevole, e il ‘lei’ formale fu sostituito da un atteggiamento assai più confidenziale.

«Sono ancora convinto di andare su Marte.»

«Davvero? A quanto sembra, tu preferisci prendere la via tortuosa, e più lunga… diciamo, più lunga circa cento milioni di miglia. A proposito della via tortuosa, non mi hai spiegato per quale motivo ti trovo nella direzione della sala delle bombe.»

Don sentì che le guance gli diventavano rosse.

«Io non so dov’è la sala delle bombe. Se mi trovo nel corridoio sbagliato, mi mostri quello giusto.»

«Vieni con me.» Il sergente lo accompagnò, discendendo per due ponti, fino a un punto in cui la rotazione dell’astronave li rendeva lievemente più pesanti; dopo un altro corridoio, Don fu condotto in un ufficio. «Siediti. L’ufficiale di guardia sarà qui subito.»

Don restò in piedi.

«Io non voglio vedere l’ufficiale di guardia. Voglio tornare nel mio compartimento.»

«Siediti, ho detto. Adesso ricordo benissimo il tuo caso. Forse la strada più lunga sei stato costretto a prenderla, ma esiste la remota possibilità che tu l’abbia imboccata di proposito.»

Don inghiottì, cercando di soffocare l’aspra risposta che avrebbe voluto dare, e tacque.

«Senza offesa,» disse McMasters. «Che ne diresti di una tazza di solubile?» Si avvicinò a una caffettiera automatica, e versò due tazze della bevanda.

Don esitò, poi ne accettò una. Era la miscela venusiana, nera e amarissima e molto forte. Don scoprì che il sergente. McMasters cominciava a essergli simpatico. Il sergente sorseggiò con calma la bevanda, fece una serie di smorfie, e poi disse:

«Tu devi essere nato con la camicia. In questo momento, avresti dovuto essere un cadavere.»

«Eh?»

«Avresti dovuto ritornare a bordo del Cammino della Gloria, no? L’ordine era partito dal Vecchio, quindi era più o meno irrevocabile. E allora?»

«Non riesco a seguirla.»

«La notizia non è trapelata? Be’, suppongo che sia rimasta a prua. Il Cammino non ce l’ha fatta.»

«Eh? Si è schiantato?»

«Neanche per sogno! Tra l’altro, non avrebbe fatto in tempo. I terricoli della Federazione si sono innervositi, e l’hanno cancellato dal cielo, con un paio di missili ben diretti. Non riuscivano a entrare in comunicazione con l’astronave, e l’hanno immaginato che ci fossero delle bombe, o peggio, a bordo… una specie di testa sul ponte, suppongo. Comunque, l’hanno fatta esplodere prima ancora che rientrasse nell’atmosfera.»

«Oh…»

«È per questo che dico che sei nato con la camicia… dato che avresti dovuto tornare a bordo del Cammino.»

«Ma io non dovevo tornare sulla Terra. La mia destinazione è Marte.»

McMasters lo fissò, spalancando gli occhi, poi scoppiò in una grande risata:

«Ragazzo mio, non ho mai visto una mente più a senso unico della tua! Sei testardo come un ‘vieni-sopra’.»

«Può darsi, ma continuo a dire che arriverò su Marte.»

Il sergente posò la sua tazza.

«Perché non ti metti a ragionare, e la pianti con queste sciocchezze? Vedi, probabilmente questa guerra durerà dieci o quindici anni. È probabile che non ci sarà più un’astronave diretta a Marte per tutto questo periodo… Per lo meno, non una nave passeggeri.»

«Be’… sono sicuro che riuscirò a trovare la maniera per andarci, in un modo o nell’altro. Non saprei dire come, ma lo sento. Però…» meditò un istante sulle parole del soldato. «Cosa le fa pensare che la guerra sarà così lunga?»

McMasters lo fissò.

«Hai studiato la storia?»

«Un po’.»

«Ricordi in quale modo le colonie d’America riuscirono a liberarsi dal dominio dell’Inghilterra? Portarono avanti una guerriglia per otto anni, combattendo solo raramente, qua e là… eppure l’Inghilterra era così potente, che avrebbe potuto schiacciare letteralmente le colonie in un giorno. Perché non lo ha fatto?»

Don non lo sapeva.

«Bene,» rispose McMasters, «Forse tu non sarai uno studioso della storia antica, ma il commodoro Higgins lo è. È stato lui lo stratega che ha preparato questo colpo di mano. Fagli qualche domanda su qualsiasi ribellione sia mai accaduta sulla Terra; lui ti saprà dire perché ha avuto successo, o per quale motivo è fallita. L’Inghilterra non ha schiacciato le colonie, perché era impegolata fino alle orecchie in guerre più grosse in altri luoghi. La rivolta americana era semplicemente una ‘azione di polizia’… non importante. Ma l’Inghilterra non aveva potuto dedicare a quella semplice azione l’attenzione necessaria; e così, dopo qualche tempo, la cosa era già diventata troppo costosa e troppo scomoda, così l’Inghilterra rinunciò e riconobbe l’indipendenza delle colonie.»

«Lei pensa che la situazione sia uguale, adesso?»

«Sì… perché il commodoro Higgins ha dato una buona spinta nella direzione giusta. Mettendo le cifre e i fatti sulla carta, la Repubblica di Venere non ha una sola possibilità di vittoria contro la Federazione. Vedi, io sono un patriota, come tutti gli altri… ma so affrontare i fatti. Venere non possiede neppure una minima frazione della popolazione della Federazione, né l’uno per cento della sua ricchezza. Venere non può vincere… a meno che la Federazione non sia troppo occupata, per permettersi il lusso di combattere. E adesso è troppo occupata, infatti, o lo sarà entro breve.»

Don rifletté su quelle parole.

«Ho paura di essere completamente stupido. Non ci arrivo.»

«Non hai afferrato il significato della distruzione di Circum-Terra? In una sola incursione, il commodoro ha reso la Terra totalmente indifesa. Avrebbe potuto bombardare tutte le città della Terra. Ma a che cosa sarebbe servito questo? Semplicemente, l’intero globo terrestre sarebbe stato pervaso dal sacro fuoco della vendetta nei nostri confronti. Ci avrebbero odiati. Agendo così, invece, abbiamo indotto due terzi della popolazione terrestre a inneggiare alla nostra azione. E non solo a inneggiare… perché questa gente della Terra si sente ora più sicura, più forte, ed è pronta a ribellarsi a sua volta, ora che Circum-Terra non è sospesa lassù nel cielo, pronta a lanciare delle bombe al minimo segno di disordini. Ci vorranno anni alla Federazione, prima di riportare la pace nelle nazioni federate… se mai riuscirà a farlo. Oh, il commodoro è un uomo astuto!» McMasters sollevò lo sguardo. «Attenti!» esclamò, e balzò in piedi, eseguendo un perfetto saluto.

Sulla porta c’era un tenente dell’Alta Guardia. Egli disse:

«È stata una conferenza molto interessante, professore, ma avrebbe potuto risparmiarla per le ore di scuola.»

«Non ‘professore’, tenente,» disse McMasters, con aria convinta. «’Sergente’, se non le dispiace.»

«Molto bene, sergente… ma lasci perdere le conferenze.» Si rivolse a Don. «Chi è costui, e perché se ne sta seduto qui senza fare niente?»

«Stava aspettando lei, signore.» McMasters spiegò le circostanze.

«Vedo,» rispose l’ufficiale di guardia. Si rivolse a Don, «Lei rinuncia al suo diritto di non testimoniare contro se stesso?»

Don sembrò perplesso.

«Vuole dire,» spiegò McMasters, «Che dobbiamo scegliere. Dobbiamo provare su di te il congegno, o preferisci terminare il viaggio in cella di rigore?»

«Il congegno?»

«La macchina della verità.»

«Oh. Fate pure. Non ho niente da nascondere.»

«Vorrei poterlo dire anch’io. Siediti lassù.» McMastes aprì lo sportello di un armadietto a muro, sistemò degli elettrodi sulle tempie e sulla nuca di Don, e una specie di misuratore della pressione intorno al braccio… una fascia elastica, con un quadrante e una lancetta. «E adesso,» disse, «Dimmi il vero motivo per cui tu stavi passeggiando intorno alla sala delle bombe!»

Don confermò la sua versione dei fatti. McMasters fece molte altre domande, mentre il tenente consultava un apparecchio che si trovava dietro la nuca di Don. Dopo qualche tempo, il tenente disse:

«È tutto, sergente. Lo rimandi nei suoi quartieri.»

«Subito, signore. Vieni con me, ragazzo.» Lasciarono insieme l’ufficio. Quando furono oltre la portata delle orecchie del tenente, McMasters continuò, «Come stavo dicendo quando siamo stati brutalmente interrotti, è questo il motivo per cui dobbiamo aspettarci una guerra lunga. Lo ‘status’ rimarrà ‘quo’, mentre la Federazione sarà troppo occupata, in casa sua, con una serie d’insurrezioni e di disordini civili. Di quando in quando, manderanno da noi qualche ragazzo, con l’ordine di svolgere un lavoro da uomo; noi daremo una lezioncina al ragazzo, e lo rispediremo a casa sua. Quando la faccenda sarà continuata per qualche anno, la Federazoine deciderà che noi costiamo più di quanto l’impresa valga, e ci riconoscerà come una nazione libera. In tutto questo tempo, non ci saranno delle astronavi in rotta per Marte. Un vero peccato!»

«Non so come, ma io riuscirò ad arrivarci,» insisté Don.

«Dovrai andare a piedi.»

Raggiunsero il ponte «G». Don si guardò intorno, e disse:

«Da questo punto, conosco la strada. Devo essere sceso un ponte di più.»

«Due ponti,» lo corresse McMasters. «Ma io ti accompagnerò, finché non sarai tornato nei tuoi quartieri. C’è un modo in cui tu potresti arrivare su Marte… probabilmente l’unico modo.»

«Uh? Come? Me lo dica.»

«Prova a immaginarlo. Non ci saranno navi passeggeri, fino a quando la guerra non sarà finita, ma è più che certo il fatto che sia la Federazione che la Repubblica invieranno un corpo di spedizione su Marte, prima o poi, con l’intenzione di precedere la parte avversa, e di assicurarsi le risorse del pianeta rosso, impedendo al nemico di utilizzarle a sua volta. In una guerra interplanetaria, è impossibile che i contendenti trascurino un pianeta importante come Marte… e lo raggiungeranno, prima o poi. Se fossi in te, mi arruolerei nell’Alta Guardia. Non nella Media Guardia, né nelle Forze di Superficie… la fanteria non avrà mai la possibilità di raggiungere lo spazio… ma nell’Alta Guardia.»

Don rifletté sul suggerimento.

«Ma anche se lo facessi, non avrei molte possibilità di essere prescelto per la missione, no?»

«Non sai nulla della politica delle caserme? Be’, si tratta di un’arte antica come il mondo, e molto più efficace della politica normale. Procurati un lavoro da impiegato… qualcuno dei servizi sedentari, ai quali si accede con un po’ d’istruzione. Se hai un po’ di talento nell’arte di baciare il piede giusto, un lavoro di questo tipo ti farà restare nelle vicinanze della Base Centrale. Sarai vicino alla fabbrica delle voci, e scoprirai tempestivamente quando saranno decisi a inviare una spedizione su Marte. Bacia di nuovo il piede giusto, e mettiti in lista, offrendoti volontario per il lavoro. Questo è l’unico metodo con il quale potrai forse raggiungere Marte. Ecco la tua porta. Fa’ attenzione a non perderti di nuovo a prua.»


Le parole di McMasters riecheggiavano nella mente di Don, che le soppesò a lungo, nei giorni che seguirono. Si era aggrappato ostinatamente all’idea che, una volta giunto su Venere, sarebbe riuscito a ottenere un passaggio per Marte, in un modo o nell’altro. McMasters lo aveva costretto a rivedere tutte le sue idee, e a iniziare un processo ragionativo completamente diverso da quello iniziale. Sì, era molto bello dire che, in un modo o nell’altro, lui sarebbe riuscito a salire a bordo di un’astronave diretta a Marte… legalmente o illegalmente, come passeggero pagante, come membro dell’equipaggio, perfino come clandestino. Ma nel caso non ci fossero più state astronavi dirette a Marte? Nel caso che la guerra avesse chiuso totalmente le linee di comunicazione tra i mondi, lasciando il sistema solare nella situazione precedente alle Intese, ai voli cosmici, alla Federazione? Un cane perduto avrebbe potuto ritrovare la strada e raggiungere il padrone… sì, ma un uomo non era capace di percorrere un solo miglio, nello spazio vuoto, senza trovarsi a bordo di un’astronave. Era un’impossibilità totale…

Ma c’era qualche merito, nell’idea di arruolarsi nell’Alta Guardia? Pareva una soluzione troppo drastica, perfino se avesse potuto funzionare… e benché Don sapesse pochissimo sulle organizzazioni militari, aveva il cupo sospetto che il sergente avesse semplificato eccessivamente le cose. Servirsi dell’Alta Guardia per arrivare su Marte per i propri scopi avrebbe potuto rivelarsi insoddisfacente e pericoloso come tentare di rubare un passaggio a bordo di un razzo sedendosi sugli alettoni.

D’altra parte, Don si trovava in un’età alla quale l’idea di prestare servizio militare aveva un fascino già di per se stessa. L’idea della divisa, della vita militare, aveva una certa attrazione anche su di lui. Se i suoi sentimenti nei confronti di Venere fossero stati appena più forti, lui avrebbe potuto facilmente convincersi del fatto che era suo dovere schierarsi dalla parte dei coloni, e arruolarsi nell’esercito venusiano… sia che questo potesse condurlo fino a Marte, oppure no.

Arruolarsi era attraente anche per un altro motivo: l’atto avrebbe dato una prospettiva e una direttrice di marcia alla sua vita. Lui cominciava ad avvertire il primordiale, lacerante senso di tragedia del profugo in tempo di guerra… come un albero che aveva perduto le radici, come una perla che era stata scagliata fuori dell’ostrica. L’uomo ha bisogno della libertà, ma sono pochissimi gli uomini tanto forti da sentirsi felici nella libertà assoluta. Un uomo ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo, con relazioni accettate e rispettate. Alcuni uomini si arruolano nelle legioni straniere per spirito di avventura; moltissimi altri — e sono la maggioranza — giurano fedeltà su un pezzo di carta allo scopo di acquistare un’intelaiatura di doveri e obblighi, di tradizioni e tabù, un orario per lavorare e un orario per oziare, un camerata con il quale litigare e un sergente da odiare… in breve, per appartenere a qualcosa.

Don era un «profugo», come qualsiasi vagabondo senza terra della storia; non aveva neppure un pianeta suo. Non era consapevole di questa sua necessità spirituale… ma da quel giorno, cominciò a guardare i soldati dell’Alta Guardia, quando essi passavano, cercando d’immaginare che cosa avrebbe provato indossando quell’uniforme.


Il Nautìlus non prese terra, né si accostò a una stazione spaziale. Invece, la sua velocità venne ridotta, mano a mano che l’incrociatore si avvicinava al pianeta, fino a farlo entrare in un’orbita di parcheggio circumpolare di due ore; a pochissime miglia di distanza dalle prime propaggini dell’argentea coltre di nubi eterne del pianeta. Le colonie di Venere erano troppo giovani e troppo povere per permettersi il lusso di una grande stazione orbitale nello spazio, ma una rapida orbita circumpolare di parcheggio faceva sì che l’astronave sorvolasse ogni porzione del globo ruotante, uno «spicchio d’arancio» a ogni orbita… Un traghetto partito dalla superficie avrebbe potuto decollare da qualsiasi punto di Venere, stabilire un appuntamento orbitale con l’incrociatore, e poi sbarcare nel suo porto di partenza, o in qualsiasi altro punto di arrivo, dopo avere usato il minimo teorico di carburante possibile. Non appena il Nautìlus fu entrato nell’orbita di parcheggio, una lunga teoria di traghetti siderali cominciò a sciamare intorno al grande incrociatore cosmico. I traghetti erano più simili ad aeroplani che ad astronavi, perché, benché ciascuno di essi fosse sigillato e pressurizzato per operare fuori dell’atmosfera, al momento di stabilire il contatto con le astronavi in orbita, ognuno era fornito di ali e alettoni, ed era alimentato sia da reattori atmosferici, sia da motori a razzo. Come le rane, i traghetti erano anfibi; potevano sopravvivere nell’aria e nel vuoto interplanetario.

Il Sole era molto più grande, nello spazio venusiano, e le stelle erano quasi sommerse dallo splendore dell’astro; ma il nero cosmico era più vellutato che mai. Grandi sciami meteorici percorrevano quello spazio, in direzione del Sole; ma lo scenario, a parte la maggiore vicinanza alla primaria, era abbastanza simile a quello che ogni uomo può vedere, non appena lascia i vincoli dell’atmosfera che ha respirato il giorno della sua nascita.

Un traghetto sarebbe stato scagliato, come il proiettile di una fionda, dalla superficie; i reattori sarebbero entrati in funzione, ed esso sarebbe salito grazie alle proprie ali, raggiungendo le altezze rarefatte e gelide della stratosfera, a velocità superiori alle tremila miglia orarie. Là, nello splendore fiammeggiante dello spazio venusiano, quando i reattori avrebbero smesso di funzionare per mancanza di aria, sarebbero entrati in funzione i motori a razzo, che avrebbero fornito l’ultima ‘spinta’ per raggiungere una velocità orbitale di circa dodicimila miglia orarie, permettendo al traghetto di affiancarsi a un incrociatore siderale, e stabilire il rendez-vous nel cosmo.

Una manovra accurata, e ben realizzata. Per arrivarci, era necessario un computo estremamente preciso dei tempi, delle orbite, del consumo di carburante, e delle condizioni meteorologiche dell’alta atmosfera; tutto questo si riduceva a un’elaborata serie di calcoli matematici, che potevano essere realizzati anche da un cervello elettronico. Quello che i calcoli matematici e i cervelli elettronici non potevano dare — e che era necessario per il buon esito dell’impresa — era il virtuosismo dei piloti, che erano tra i migliori esistenti, e anche tra i più coraggiosi; ma l’intera operazione faceva risparmiare denaro. Una volta compiuto il carico del traghetto, dopo l’appuntamento con l’incrociatore, era necessario accendere i razzi per qualche istante, frenando la velocità orbitale, in senso contrario all’orbita, e subito il traghetto sarebbe precipitato in un’orbita più bassa, che finalmente avrebbe incontrato l’atmosfera, permettendo al pilota di compiere un ‘tuffo’ in caduta libera verso la superficie, scivolando come un aliante, annullando la tremenda velocità inerziale con il continuo abbassamento nell’atmosfera sempre più densa e naturalmente frenante. Anche per questo, il pilota doveva essere un artista autentico, perché doveva, nello stesso tempo, frenare la velocità inerziale e conservarla per raggiungere la destinazione desiderata. Un traghetto che fosse atterrato nelle giungle o nelle paludi, a mille miglia di distanza da un astroporto, non avrebbe mai più viaggiato, anche se il pilota e i passeggeri fossero riusciti ad allontanarsi a piedi, vivi, dal punto di atterraggio; cosa già di per sé difficile.

Don lasciò l’incrociatore a bordo del Cyrus Buchanan, un piccolo scafo aerodinamico di meno di trecento piedi di apertura d’ala. Da un oblò, Don assisté al rendez-vous orbitale, osservando il lento avvicinamento nello spazio ai portelli stagni; notò che i tre globi della Interplanet Lines erano stati cancellati frettolosamente, e inadeguatamente, da un nuovo strato di vernice, sulla prua; sopra era stato scritto, con la vernice: MEDIA GUARDIA — REPUBBLICA DI VENERE. Quell’emblema cancellato gli fece comprendere l’esistenza e l’entità della rivoluzione con maggiore intensità di quanto lo stesso attacco a Circum-Terra, e la conseguente esplosione nel cosmo, avessero potuto fare. L’Interplanet era forte come il governo… alcuni dicevano che la compagnia era il governo. Ora, degli audaci ribelli avevano osato l’impensabile… avevano espropriato le navi della grande compagnia di trasporto e comunicazioni, avevano cancellato quei tre globi orgogliosi, il simbolo della Triplanetaria…

Don sentì in quel momento i venti gelidi della storia soffiare raggelanti intorno a lui. McMasters aveva ragione. Ora lui credeva, senza più ombra di dubbio, che nessuna astronave sarebbe più partita da Venere per il rosso pianeta Marte.

Quando venne il suo turno, attraversò, prendendo la spinta dalle pareti, i doppi portelli stagni, e sempre in caduta libera si trovò a bordo del Cyrus Buchanan. Lo steward di bordo indossava ancora la divisa dell’Interplanet, ma l’emblema della compagnia era stato staccato, e dei galloni dorati a V erano stati cuciti sulle maniche. E con questo mutamento, era venuto anche un mutamento di modi; l’uomo trattò i passeggeri con efficienza, ma senza l’ossequio a pagamento della persona a metà strada tra il funzionario e il servitore.

La discesa fu lunga, tediosa, e torrida, come lo è sempre una decelerazione in caduta libera attraverso l’atmosfera. Dopo un’ora dal distacco incontrarono le prime propaggini rarefatte della stratosfera; ben presto Don e gli altri passeggeri si sentirono schiacciare da un peso quasi completo, e affondarono nei lettucci antigravitazionali; poi il pilota fece alzare il traghetto, decidendo evidentemente che il Cyrus Buchanan si stava surriscaldando, e lo fece impennare tangenzialmente, in caduta libera. Questo accadde più volte, gravità e caduta libera, pressione e imponderabilità, come un sasso che rimbalza sulla superficie di un lago, un’altalena che dava la nausea e stordiva, un cosmico battello tra i flutti della costa e degli scogli, un’esperienza scomoda e tremendamente faticosa.

Don non fece caso alla scomodità. Ormai era ritornato uno spaziale; il suo stomaco era indifferente alle improvvise accelerazioni, e perfino ai vuoti di gravità. Dapprima provò una grande eccitazione, per essere ritornato tra le nubi di Venere; ma dopo qualche tempo l’eccitazione cedette il passo alla noia. Dopo molto tempo, fu bruscamente risvegliato da un cambiamento di moto; il traghetto stava scendendo nell’ultima discesa, e il pilota stava osservando col radar lo spazio davanti a sé, preparandosi all’atterraggio. Poi il Cyrus Buchanan toccò terra, sussultò, e vibrò a lungo nell’acqua che scorreva sotto lo scafo. Finalmente rallentò, e si fermò. Dopo una considerevole attesa, quello che era diventato un battello fu trainato fino alla sua banchina di arrivo. Lo steward si alzò in piedi, e gridò:

«Nuova Londra! Repubblica di Venere! Preparate i vostri documenti.»

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