CAPITOLO XI C’È LA TERRA CHE ATTENDE

Rimasero così, l’uno di fronte all’altro, immobili, per lo spazio di tre battiti del cuore… e poi il soldato abbassò la sua arma di qualche millimetro, e disse, raucamente:

«Fuori! Svelto!»

Don guardò il fucile; il soldato fece un gesto con la sua arma. Don uscì. Aveva il cuore gonfio e tumultuoso; avrebbe voluto, con tutte le sue forze, uccidere quel soldato che aveva ucciso il Vecchio Charlie. Per lui non voleva dir niente che il suo padrone fosse stato ucciso in stretta osservanza degli usi di guerra. Don non era in condizioni di spirito tali da permettere una valutazione degli atti legali o illegali. Ma era nudo, contro un’arma che non ammetteva discussioni; perciò obbedì all’ordine. Mentre usciva, il soldato cominciò a usare il fucile Reynolds; Don udì il sibilo, quando il raggio termico colpì il legno secco.

Il soldato appiccò fuoco all’edificio senza risparmiare energia; il ristorante parve quasi esplodere. Quando Don uscì dalla porta, il fuoco stava già divampando in una dozzina di punti diversi. Il soldato uscì di corsa, dietro di lui, e lo pungolò con il proiettore ancora caldo, appoggiandolo per un breve istante alla schiena del giovane.

«Muoviti! In cima alla strada.» Don si mise a correre, attraversò il vicolo e si trovò in Strada Buchanan.

La strada era piena di gente, e dei soldati in uniforme verde stavano guidando quella folla verso il centro, come dei pastori avrebbero guidato una mandria sbandata. Molti edifici stavano bruciando, su entrambi i lati della strada; gli invasori stavano distruggendo l’intera città, ma davano agli abitanti la possibilità di sfuggire all’olocausto. Particella di una folla senza volto, granello di polvere nella spiaggia, Don scoprì di venire trascinato da quella corrente, e poi di essere costretto a entrare in un vicolo secondario che non stava ancora bruciando. Dopo qualche tempo, ebbero oltrepassato i limiti della città, ma la strada continuava; Don non era mai uscito dalla città in quella direzione, ma aveva appreso, dopo pochi minuti, dalle parole di coloro che lo circondavano, dove essi erano diretti… al Promontorio Est.

E verso il campo di concentramento che il nuovo governo aveva usato per i nemici stranieri. Quasi tutti i componenti della folla parevano troppo storditi per farci caso. Vicino a Don una donna stava urlando, con la voce che si alzava e si abbassava, come quella di una sirena d’allarme. Don non riuscì a vedere di chi si trattava.

Il campo di concentramento era gremito, dieci volte almeno al di sopra della sua capienza. Gli alloggi del campo non permettevano neppure di stare in piedi; tutti i posti erano occupati. E anche all’aperto i coloni dovevano stare gomito a gomito. Le guardie si limitarono a spingerli all’interno del reticolato, e poi a ignorarli del tutto; gli storditi coloni restarono dov’erano, o vagarono intorno con aria assente, mentre le soffici ceneri grige di quelle che erano state le loro case erano come una pioggia che scendeva sui loro visi, portata dall’umido vento e dalle nebbie dense.

Don aveva ritrovato l’autocontrollo, durante la marcia di trasferimento dalla città al campo di concentramento. Quando fu all’interno, tentò per prima cosa di trovare Isobel Costello. Girò avanti e indietro per il campo, attraversò la folla, cercando, domandando, scrutando i volti. Più di una volta pensò di averla trovata, e poi venne deluso… e non riuscì neppure a trovare il padre della ragazza. Parlò con diverse persone che credevano di averla vista; ma ogni volta l’indizio offerto non riuscì a portarlo da lei. Cominciò ad avere degli incubi a occhi aperti, incubi nei quali la sua giovane, impetuosa amica era morta nel fuoco, o giaceva in un vicolo, con un foro nella fronte.

Fu fermato, nella sua ricerca ormai stanca, da una voce metallica che ruggiva nell’aria, scaturiva dal nulla, apparentemente, e raggiungeva ogni angolo del campo, attraverso il sistema interno di altoparlanti.

«Attenzione!» rimbombò la voce severa e carica d’autorità, attraverso gli altoparlanti. «Silenzio! Attenzione agli ordini… sono il colonnello Vanistart delle Forze di Pace della Federazione, e parlo a nome del Governatore Militare di Venere. È stata concessa amnistia con condizionale a tutti i coloni, a eccezione di coloro che hanno occupato posizioni ufficiali nel governo ribelle, e degli ufficiali superiori dell’esercito ribelle. Sarete rilasciati, non appena la vostra identità sarà stata accertata. Il codice delle leggi in vigore prima della rivolta viene da questo momento ripristinato, soggetto comunque alle nuove leggi che potranno essere promulgate a discrezione del governatore militare. Attenzione: ora vi darò lettura della Legge di Emergenza Numero Uno! Le città di Nuova Londra, Buchanan, e Città CuiCui, sono abolite e dichiarate illegali. Da questo momento, non sarà permessa alcuna comunità composta di una popolazione superiore alle mille unità. Non più di dieci persone potranno radunarsi senza preventiva autorizzazione del prevosto locale. È proibita la formazione di bande armate, o di qualsiasi organizzazione di tipo paramilitare, e nessun colono potrà possedere armi a energia; coloro che venissero trovati in possesso di tali armi, e comunque coloro che violassero la prima legge di emergenza, saranno passibili della pena di morte, senza processo.»

La voce fece una pausa. Don udì qualcuno dire, alle sue spalle:

«Ma cosa si aspettano che facciamo, ora? Non abbiamo alcun luogo in cui andare, non sappiamo più dove vivere…»

Fu data immediata risposta a quella domanda rettorica. La ferrea voce proseguì:

«Nessuna assistenza verrà fornita ai ribelli dispersi da parte della Federazione. I soccorsi ai profughi dovranno essere forniti dai coloni che non sono stati espropriati. Quando sarete stati liberati, vi consigliamo di disperdervi nelle campagne limitrofe, e chiedere temporaneo asilo ai contadini, ai proprietari delle fattorie, e ai villaggi più piccoli.»

Una voce amara disse:

«Ecco la risposta che volevi, Clara… a loro non importa un accidente, se noi riusciamo a sopravvivere o no. Forse ci preferiscono morti.»

La prima voce rispose:

«Ma come possiamo andarcene? Non possediamo neppure una gondola.»

«A nuoto, immagino. O camminando sull’acqua.»

Diversi soldati entrarono nel recinto, e condussero i prigionieri ai cancelli, in gruppi di cinquanta unità, selezionandoli come mandriani selezionano il bestiame. Don si era spinto verso il cancello, nella speranza di trovare Isobel durante le operazioni di controllo, e venne scelto, contro la sua volontà, nel secondo gruppo. Quando gli fu chiesto di presentare la sua carta d’identità, lo fece, e immediatamente si trovò di fronte a un ostacolo; il suo nome non figurava nei registri della città. Spiegò all’ispettore che era arrivato su Venere, durante l’ultimo viaggio del Nautilus.

Questa spiegazione produsse una reazione inaspettata.

«Perché non l’hai detto subito?» brontolò il soldato che svolgeva i compiti d’ispettore. Si voltò, ed estrasse di tasca un’altra lista. «Hannegan… Hardecker… eccolo qui. Harvey, Donald J. Accidenti! Aspetta un momento… qui c’è un contrassegno! Sergente, sergente! Accanto al nome di quest’uomo c’è un contrassegno rosso!»

«Portalo dentro,» rispose il sergente, con voce annoiata.

Don si trovò spinto nella garitta che presidiava il cancello, insieme a un’altra dozzina di cittadini dall’aria preoccupata. Quasi immediatamente fu condotto in un piccolo ufficio che si trovava sul retro. Un uomo, che sarebbe stato alto, se non fosse stato così grasso, si alzò in piedi, come una montagna di gelatina, e disse:

«Donald James Harvey?»

«Sono io.»

L’uomo venne verso di lui e lo squadrò ben bene, e il suo viso flaccido si raggrinzì in un sorriso di felicità.

«Benvenuto, ragazzo mio, benvenuto! Come sono felice di vederti!»

Don parve sconcertato da quell’accoglienza. L’uomo proseguì:

«Suppongo che dovrei presentarmi… Stanley Bankfield, al tuo servizio. Ufficiale Politico di Prima Classe, I.B.I., attualmente con la mansione di consigliere speciale di sua eccellenza il Governatore.»

Nel sentire menzionato il nome dell’I.B.I., Don s’irrigidì. L’uomo notò la cosa… i suoi occhietti seminascosti dalle pieghe di grasso parevano notare tutto, con implacabile chiarezza.

«Calma, figliolo! Non sentirti a disagio. Non ti voglio fare alcun male; sono semplicemente felice di vederti. Ma devo dirti che mi hai fatto fare un bell’inseguimento… una splendida caccia, attraverso metà del sistema solare. A un certo punto, ho perfino creduto che tu fossi rimasto ucciso nel deplorevole, spaventoso disastro del Cammino della Gloria, e ho pianto amare lacrime sulla tua perdita. Sissignore! Lacrime sincere. Ma adesso questo è passato, e tutto è bene quel che finisce bene. Così, dammelo pure.»

«Che cosa?»

«Andiamo, andiamo! So tutto di te… so quasi ogni parola che tu hai pronunciato, da quando eri bambino. Ho perfino dato dello zucchero al tuo cavallo, Sonno. Così, dammelo.»

«Ma che cosa?»

«L’anello, l’anello!» Bankfield tese la mano grassoccia.

«Non so di che cosa stia parlando.»

Bankfield si strinse pesantemente nelle spalle. Parve il tremolio di una colossale montagna di grasso.

«Sto parlando di un anello di plastica, contrassegnato con un’iniziale, «H», che ti è stato dato dal defunto dottor Jefferson. Come vedi, so di che cosa sto parlando; so che l’hai tu… e intendo averlo io. Un ufficiale che lavorava al mio servizio è stato così stupido da lasciarti andare via con quell’anello… e questo errore gli è costato molto caro. Non vorrai che questo succeda a me, ne sono sicuro. Così, dammi l’anello.»

«Adesso capisco di quale anello lei sta parlando,» rispose Don. «Ma io non l’ho.»

«Eh? Che cosa dici? Dov’è, allora?»

La mente di Don stava lavorando furiosamente, tumultuosamente. Non gli occorse praticamente alcun tempo per decidere che non doveva mettere l’I.B.I. sulle tracce di Isobel… no, era una cosa che doveva evitare, a costo di farsi strappare la lingua per non parlare. Sapeva per esperienza cosa significasse avere a che fare con quella gente.

«Suppongo che sia bruciato nell’incendio,» rispose.

Bankfield piegò il capo da una parte.

«Donald, ragazzo mio, io credo che tu mi stia dicendo una bugia… lo credo davvero! Hai esitato, solo per una frazione di secondo, prima di rispondere. Nessuno, all’infuori di un vecchio sospettoso come me, l’avrebbe notato. Ma io l’ho notato!»

«È vero,» insisté Don. «O almeno, credo che sia vero. Uno di quegli scimmioni che lavorano per lei ha appiccato il fuoco all’edificio, nel momento in cui io uscivo. Suppongo che l’edificio sia bruciato completamente, con dentro l’anello. Ma forse non è stato distrutto.»

Bankfield parve dubbioso.

«Di quale edificio parli?»

«Il Ristorante Due Mondi, in fondo al Vicolo Paradiso, una laterale di Strada Buchanan.»

Bankfield, con una rapidità sorprendente per un uomo delle sue dimensioni raggiunse la porta, e diede degli ordini.

«Usate tutti gli uomini necessari,» concluse, «E passate al setaccio ogni grammo di cenere. Muovetevi, presto!» Si rivolse di nuovo a Don, sospirando. «Non bisogna trascurare nessuna possibilità,» disse, «Ma ora torniamo alla possibilità che tu abbia mentito. Perché avresti dovuto toglierti l’anello in un ristorante?»

«Per lavare piatti.»

«Eh?»

«Mi guadagnavo i pasti lavorando là, e abitavo nel ristorante. Non mi piaceva l’idea di mettere troppo spesso l’anello nell’acqua calda, così lo tenevo nella mia camera.»

Bankfield strinse le labbra.

«Riesci quasi a convincermi. La tua storia regge, devo ammetterlo. Eppure, preghiamo entrambi che tu mi stia ingannando. Se tu hai mentito, e sei in grado di condurmi fino a quell’anello, ti sarò enormemente grato. La mia riconoscenza è una cosa buona: tu potresti ritornare sulla Terra, con tutte le comodità possibili, e in condizioni eccellenti. C’è sempre la Terra che aspetta, lo sai, e si tratta del pianeta più bello del sistema solare… non c’è confronto con questo mondo selvaggio, pieno di nebbie, e di malattie, e di paludi! Posso perfino prometterti una moderata rendita annua; noi disponiamo di fondi speciali, per questi scopi. Sì, ragazzo mio, noi possiamo essere molto generosi… e sarebbe una grande occasione, questa, per la tua vita.»

«È molto difficile che io possa ottenere tutto questo… a meno che i suoi uomini non riescano a trovare intatto l’anello nel ristorante.»

«Povero me! In questo caso, suppongo che né io, né tu, potremo mai più tornare sulla Terra. Nossignore, credo che in un caso simile sarebbe meglio, per me, restare qui dove sono… dedicando i miei ultimi anni di vigore al compito di rendere infelice la tua vita.»

A questo punto, sorrise.

«Scherzavo… sono certo che troveremo l’anello, con il tuo aiuto. E adesso, Don, dimmi che cosa ne hai fatto.» Circondò col braccio le spalle di Don, con aria paterna.

Don cercò di scrollarsi dalle spalle quel braccio odioso, e scoprì che non poteva farlo. La stretta era ferrea. Sempre in tono affettuoso, quasi paterno, Bankfield continuò:

«Potremmo risolvere la questione con estrema rapidità, se qui avessimo l’equipaggiamento più adatto. Oppure potrei fare così…» Il braccio che circondava le spalle di Don si abbassò rapidamente; improvvisamente, Bankfield gli afferrò il mignolo della mano sinistra, e lo strinse rabbiosamente. Involontariamente, Don lanciò un gemito di dolore.

«Oh, mi dispiace! Metodi simili mi ripugnano. Colui che li applica, in un eccesso di zelo, frequentemente danneggia il suo cliente, in modo che non ne può più derivare alcun frammento di verità… nel bene o nel male. No, Don, credo che noi aspetteremo qualche minuto, finché non avremo notizie dal servizio medico… il pentothal sodico sembra il metodo più indicato. Ti renderà più disposto a collaborare, non pensi?» Bankfield andò di nuovo sulla porta; «Attendente! Metti in frigorifero questo ragazzo. E manda qui quel Mathewson.»

Don fu condotto fuori della garitta di guardia, e fu fatto entrare in un recinto circondato da filo metallico, usato per ricevere i prigionieri. Il recinto era largo circa dieci metri, e lungo trenta; uno dei suoi lati era comune con la barriera di filo spinato, percorso da elettricità, che circondava l’intero campo di concentramento, il lato opposto lo tagliava fuori dal mondo libero. L’unico accesso era attraverso la garitta di guardia.

C’erano decine di prigionieri, nel recinto, quasi tutti dei civili, benché Don vedesse un certo numero di donne, e un buon numero di ufficiali della Media Guardia e delle Forze di Superficie… ancora in uniforme, ma disarmati.

Immediatamente, Don passò in rassegna i volti delle donne, scrutandoli uno dopo l’altro, speranzoso; ma nessuna di loro era Isobel. Non si era aspettato di trovarla in quel luogo, eppure il non trovarla lo riempì di delusione. Il tempo ormai si faceva breve, per lui; ogni secondo scandiva l’avvicinarsi della sua condanna. Si rese conto, con un’ondata crescente di panico, che probabilmente sarebbero passati ancora pochi minuti, prima che lui venisse portato via, legato e disteso su un lettuccio operatorio, mentre qualcuno gli avrebbe iniettato nelle vene una droga potente… che lo avrebbe trasformato in un bambino balbettante, incapace di resistere all’interrogatorio, anzi, ansioso di parlare, di rispondere a ogni parola. Lui non era stato mai sottoposto a interrogatori con uso di narcotici, ma conosceva fin troppo bene quali sarebbero stati gli effetti della droga. Dai suoi effetti era impossibile proteggersi… neppure un profondo comando post-ipnotico, impiantato solidamente nel suo cervello, come un blocco stabile, avrebbe potuto reggere, nelle mani di un operatore capace.

E qualcosa gli diceva che Bankfield doveva essere uno degli operatori più capaci che esistessero.

Camminò fino all’estremità opposta del recinto, senza alcun motivo reale per farlo, seguendo lo stesso meccanismo psicologico che fa indietreggiare un animale, fino al lato più lontano della gabbia. E si fermò in quel punto, guardando in alto, verso la sommità del recinto, che si trovava a diversi metri di altezza, sopra il suo capo. Il filo spinato era forte e fittissimo, praticamente a prova di qualsiasi tentativo di assalto umano… solo un drago avrebbe forse potuto sfondarlo. Un uomo, però, avrebbe potuto aggrapparsi al reticolato… trovare dei supporti a sufficienza, sia pure ferendosi le mani… il reticolato non era uniforme, e le punte più aguzze si trovavano verso la base. Il reticolato poteva essere scalato. Però, al di sopra della rete metallica, c’erano tre strati di semplice filo; a ogni tre metri, sullo strato più basso, c’era una targhetta rossa… con un teschio e le ossa incrociate, e le parole ALTA TENSIONE.

Don si voltò indietro. L’onnipresente nebbia, rinforzata dal fumo che veniva in pesanti volute dalla città in fiamme, nascondeva quasi la garitta di guardia. Il vento aveva cambiato direzione, e il fumo si stava facendo più denso; Don fu sicuro che nessuno potesse vederlo, all’infuori degli altri prigionieri del recinto.

Tentò di scalare il reticolato, scoprì che le sue scarpe non riuscivano a entrare nelle maglie della rete metallica; allora si tolse le scarpe, e tentò di nuovo.

«Non farlo!» di’sse una voce, alle sue spalle.

Don si voltò. Un maggiore delle Forze di Superficie, senza cappello e con una manica strappata e insanguinata, era in piedi alle sue spalle.

«Non tentare di farlo,» disse il maggiore, in tono ragionevole. «Ti ucciderebbe subito. Lo so; sono stato il supervisore dell’installazione.»

Don si calò al suolo.

«Non c’è alcun modo per togliere la corrente?»

«Certamente… dall’esterno.» L’ufficiale fece un amaro sorriso «A questo ho pensato io stesso. Un interruttore nella garitta di guardia, racchiuso in un contenitore ermetico… e un altro, nella centrale di alimentazione della città, nel quadro di controllo principale. Ma da nessun’altra parte.» A questo punto, s’interrruppe, e tossì. «Scusa… è il fumo.»

Don guardò in direzione della città in fiamme.

«La centrale di distribuzione, in città, e il suo quadro di comando,» disse, sommessamente. «Mi sto domandando se…»

«Eh?» Il maggiore seguì il suo sguardo. «Non so… non saprei dire. La centrale è a prova d’incendio.»

Una voce, alle loro spalle, gridò, nella nebbia:

«Harvey! Donald J. Harvey! Presentarsi alla porta!»

Don si arrampicò in fretta sul reticolato, senza curarsi delle piccole ferite prodotte dagli aculei.

Ebbe un momento di esitazione, un attimo prima di toccare il più basso dei tre strati di filo, e lo sfiorò con il palmo della mano. Non accadde nulla… e allora Don scavalcò il reticolato, e cadde, gettandosi dall’altra parte. Cadde male, facendosi male a un polso, ma si rialzò subito in piedi, e si mise a correre, disperatamente.

Si udirono delle grida, alle sue spalle; senza fermarsi, si arrischiò a guardare indietro. Nel momento in cui guardava, udì il sibilo di un proiettore a raggi. La figura in alto, sulla barriera, sobbalzò e si contrasse, come una mosca toccata da una lingua di fuoco.

La figura sollevò il capo. Don udì la voce del maggiore gridare, con uno squillante, trionfante tono baritonale:

«Venere e Libertà!»

Il maggiore ricadde all’interno del recinto.

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