CAPITOLO VIII «LE VOLPI HANNO TANE E GLI UCCELLI DELL’ARIA HANNO NIDI…»

Matteo, VIII: 20


L’immediato proposito di Don era quello di chiedere la strada dell’ufficio della I.T. T., dove avrebbe potuto compilare un radiogramma per i suoi genitori, ma non poté sbarcare immediatamente; prima i passeggeri dovevano sottoporsi all’esame dei documenti, e a un esame fisico e a un interrogatorio. Don si trovò, diverse ore dopo, ancora seduto fuori dell’ufficio della sicurezza, in attesa di venire interrogato. Il suo status irregolare lo aveva messo all’ultimo posto della fila.

Oltre ad essere affamato, stanco, e annoiato, aveva le braccia indolenzite… erano coperte, dalla spalla al polso, da forellini d’iniezioni, prodotti dagli innumerevoli test d’immunità alle innumerevoli malattie bizzarre e orrende, e agli infiniti parassiti fungoidi che provocavano innominabili infezioni, un’intera gamma di morbi alieni esistenti sul secondo pianeta del sistema solare. Avendo un tempo vissuto lassù, egli conservava un’immunità completa dagli strani pericoli di Venere… una cosa ottima, pensò, perché altrimenti avrebbe dovuto trascorrere settimane e settimane in quarantena, settimane durante le quali gli sarebbero stati iniettati tutti gli antidoti e i vaccini senza i quali un organismo terrestre non avrebbe potuto sopravvivere neppure un mese all’atmosfera umida del pianeta delle nebbie. Si stava massaggiando le braccia, e si stava già domandando se non fosse giunto il momento per cominciare a protestare con una certa violenza, quando la porta si aprì e venne chiamato il suo nome.

Lui entrò subito. Un ufficiale della Media Guardia era seduto dietro una scrivania, e stava osservando i documenti di Don.

«Donald Harvey?»

«Sì, signore.»

«Francamente, il suo caso mi rende perplesso. Non abbiamo nessun inconveniente nell’identificarla; le sue impronte coincidono con quelle registrate durante il suo precedente soggiorno. Ma lei non è un cittadino.»

«Certo che lo sono! Mia madre è nata qui.»

«Uhm…» L’ufficiale tamburellò sul piano della scrivania con il pollice e il medio. «Io non sono un avvocato. Capisco quel che lei vuole dimostrare, ma, dopotutto, quando sua madre è nata, non esisteva nessuna nazione chiamata Repubblica di Venere. A me sembra che lei sia un caso unico, con i precedenti ancora da stabilire.»

«E allora in quale posizione mi trovo?» disse lentamente Don.

«Non lo so. Non sono neppure certo che lei abbia il diritto legale di trovarsi qui.»

«Ma io non voglio restare qui! Sono soltanto di passaggio.»

«Eh?»

«Io sto andando su Marte.»

«Oh, quello! Già, ho visto i suoi documenti… un vero peccato. E adesso parliamo di cose sensate, d’accordo?»

«Vede, signore, io sono deciso ad andare su Marte,» ripeté Don, con ostinazione.

«Ma certo, ma certo. E quando morirò, io andrò in paradiso. Nel frattempo, lei è un residente di Venere, che ci piaccia o no. Senza dubbio i tribunali decideranno, a suo tempo, se lei possa essere considerato anche un cittadino. Signor Harvey, ho deciso di lasciarla in libertà.»

«Uh?» Don fu sorpreso; non aveva pensato neppure per un momento che la sua libertà potesse essere in discussione.

«Sì. Lei non mi pare una minaccia alla sicurezza della Repubblica di Venere, e io non ho desiderio di trattenerla indefinitamente in quarantena. Basta che tenga il naso fuori da questioni sospette, e mi telefoni il suo indirizzo, non appena avrà trovato un posto in cui fermarsi. Ecco qui i suoi documenti.»

Don ringraziò l’ufficiale, raccolse i suoi bagagli, e uscì in fretta. Una volta fuori, indugiò per grattarsi ben bene le braccia, prima il destro e poi il sinistro.

Alla banchina di fronte all’edificio una lancia anfibia era ormeggiata; il timoniere era appoggiato al timone, pigramente. Don disse:

«Mi scusi, ma io voglio mandare un messaggio radio. Potrebbe dirmi dove devo andare?»

«Certo. All’I.T. T. Edificio di Strada Buchanan, Isola Centrale. È arrivato con il Nautilus

«Esatto. Come ci arrivo?»

«Salti su. Dovrò fare un altro viaggio tra cinque minuti. Devono arrivare degli altri passeggeri?»

«Non credo.»

«Lei non parla come un mangia-nebbia.» Il timoniere lo squadrò ben bene.

«Sono cresciuto qui,» gli assicurò Don. «Ma sono stato via, a scuola, per diversi anni.»

«È riuscito a scivolare per un pelo sotto il reticolato, eh?»

«Già, penso di sì.»

«Fortunato. Penso che la patria sia sempre il posto migliore.» Il timoniere si guardò intorno, con aria soddisfatta, guardò il cielo livido e fangoso e le acque scure e limacciose.

Ben presto, accese il motore e staccò gli ormeggi. Il piccolo battello cominciò a muoversi lentamente, attraverso gli stretti canali, girando intorno alle isole e ai banchi di terra che si vedevano appena a pelo d’acqua. Pochi minuti dopo Don sbarcò in fondo a Strada Buchanan, l’arteria principale di Nuova Londra, capitale di Venere.

C’erano diverse persone che oziavano intorno alla banchina di sbarco; costoro lo guardarono con attenzione. Due persone erano i galoppini di qualche pensione o gruppo di camere ammobiliate; Don se ne liberò in fretta, e si avviò per Strada Buchanan. La strada era piena di gente, ma era stretta, sinuosa, e piena di fanghiglia. Due grandi insegne al neon, una su ciascun lato della strada, disperdevano con la loro luce brillante l’eterna nebbia di Venere. Su una c’era scritto: ARRUOLATI OGGI STESSO!!! LA TUA NAZIONE HA BISOGNO DI TE; l’altra esortava, in lettere più grandi: Bevi COCA-COLA - Imbottigliata nello Stabilimento di NUOVA LONDRA!

Il Palazzo dell’I.T. T. era a qualche centinaio di metri di distanza, lungo la strada, quasi all’estremità opposta di Isola Centrale, ma era facile trovarlo, poiché si trattava dell’edificio più grande dell’isola. Don salì sul bordo rialzato dell’edificio, e si trovò nell’ufficio locale della Corporazione Interplanetaria Telefono e Televideo. Una giovane donna era seduta dietro una scrivania, a uno sportello.

«Vorrei spedire un radiogramma,» disse Don.

«Siamo qui per questo.» La giovane donna gli porse un blocco e una penna.

«Grazie.» Don compose un messaggio, con un notevole sforzo di concentrazione, cercando di essere nello stesso tempo rassicurante ed esauriente, usando il minor numero di parole. Alla fine, porse il testo definitivo alla giovane donna.

La ragazza inarcò un sopracciglio, alla vista dell’indirizzo, ma non fece commenti. Si limitò a contare le parole, consultò un libriccino, e disse:

«Fanno centottantasette e cinquanta.»

Don contò la somma, notando, preoccupato, che si stava producendo una voragine nel suo patrimonio.

La ragazza lanciò un’occhiata alle banconote, e le respinse.

«Lei sta scherzando, vero?»

«Cosa succede?»

«Mi offre del denaro della Federazione. Cerca di mettermi nei guai?»

«Oh.» Ancora una volta, Don avvertì un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, e gli parve che il pavimento si dissolvesse sotto di lui, lasciandolo in un abisso oscuro… una sensazione che ormai gli era familiare. «Senta… sono appena arrivato con il Nautilus. Non ho avuto il tempo di cambiare il denaro. Potrei inviare il messaggio con tassa a carico del destinatario?»

«A Marte

«E cosa dovrei fare?»

«Be’, c’è la banca, proprio in fondo alla strada. Se fossi in lei, proverei là.»

«Penso che abbia ragione. Grazie.» Fece per prendere il messaggio; lei lo fermò.

«Stavo per dirle che lei può passarci il suo messaggio, se vuole. Avrà due settimane di tempo per pagarlo.»

«Uh? Be’, grazie!»

«Non mi ringrazi. Il messaggio non potrà partire, prima di due settimane, e lei non dovrà pagarlo finché non saremo pronti a trasmetterlo.»

«Due settimane? Perché?»

«Perché Marte in questo momento si trova esattamente dall’altra parte del Sole; il messaggio non arriverebbe. Dovremo aspettare che il pianeta esca dal cono d’ombra solare.»

«Be’, che cos’hanno i satelliti relé?»

«C’è una guerra in corso… spero che se ne sia accorto.»

«Oh…» Don si sentì un perfetto stupido.

«Accettiamo ancora dei messaggi privati, in arrivo e in partenza, sul canale Terra-Venere… sotto il diretto controllo della censura… ma non potremmo assicurare la ritrasmissione del suo messaggio dalla Terra a Marte. A meno che lei non possa dare istruzione a qualcuno, sulla Terra, per pagare la seconda trasmissione.»

«Uh… temo che questo sia impossibile.»

«Forse è meglio così. Può darsi che non le ritrasmettano il messaggio, nemmeno se lei avesse qualcuno pronto a pagare il conto. La censura della Federazione potrebbe sopprimerlo. Così, mi dia quel modulo, e io lo metterò in lista di attesa. Potrà pagare dopo.» Lanciò un’occhiata al messaggio. «A quanto pare, lei ha cominciato ad attraversare un periodo di sfortuna nera. Quanti anni ha,» diede un’altra occhiata al modulo, «Don Harvey?»

Don glielo disse.

«Uhm… dimostra più dei suoi anni. Io sono più vecchia di lei; credo che questo mi renda più o meno sua nonna. Se ha bisogno di qualche altro consiglio, si fermi qui, e chieda a nonna Isobel… Isobel Costello.»

«Uh, grazie, Isobel.»

«Niente di speciale. Normale servizio dell’I.T. T.» Gli fece un caldo sorriso. Don se ne andò, sentendosi incredibilmente confuso.


La banca era vicina al centro dell’isola; Don ricordò di essere passato davanti all’edificio. La scritta sul pannello di vetro diceva: BANCA D’AMERICA E HONGKONG. Sopra questa scritta era stato incollato del nastro adesivo, che cancellava quasi completamente le lettere, e più in basso c’era un’altra scritta, dipinta a mano con vernice bianca: COMPAGNIA DI DEPOSITI E CREDITI DI NUOVA LONDRA. Don entrò, scelse la fila più breve, e dopo un po’ di attesa spiegò le sue esigenze. L’impiegato indicò con il pollice una scrivania, dietro una grata metallica.

«Chieda a lui.»

Dietro la scrivania era seduto un anziano cinese, che indossava una specie di lunga vestaglia nera. Quando Don si avvicinò il cinese si alzò, s’inchinò profondamente, e disse:

«Posso esserle utile, signore?»

Don spiegò nuovamente la situazione, e posò il suo fascio di banconote sulla scrivania del banchiere. L’uomo guardò il denaro senza toccarlo.

«Oh, sono infinitamente dolente…»

«Per quale motivo?»

«Lei giunge dopo la data fino alla quale si poteva cambiare legalmente il denaro della Federazione con valuta della Repubblica.»

«Ma non ho avuto la possibilità di venire prima! Sono appena arrivato.»

«Sono molto dolente. Purtroppo non sono io a fare le leggi.»

«Ma che cosa posso fare?»

Il banchiere chiuse gli occhi, poi li riaprì.

«In questo mondo imperfetto, è necessario avere del denaro. Lei ha qualcosa da offrire in pegno?»

«Uh, penso di no. Solo i miei vestiti, e questi bagagli.»

«Non ha preziosi? Gioielli? Oggetti di valore?»

«Be’, ho un anello, ma non credo che possa valere molto.»

«Me lo faccia vedere.»

Don sfilò l’anello dal dito, l’anello che il dottor Jefferson gli aveva spedito per posta, e lo diede al cinese. Il banchiere sistemò sull’occhio una lente da orologiaio, ed esaminò l’anello.

«Temo che lei abbia ragione. Non si tratta neppure di vera ambra… soltanto un’imitazione plastica. Però… un simbolo di pegno legherà l’uomo onesto come una catena. Sono pronto ad anticiparle cinquanta crediti, su questo pegno.»

Don riprese l’anello, ed esitò. L’oggettino non poteva valere neppure un decimo di quella somma… e il suo stomaco gli ricordava che la carne aveva dei bisogni impellenti. Eppure… sua madre aveva speso almeno il doppio di quella somma, per assicurarsi che quell’anello gli giungesse (o meglio la carta che lo avvolgeva, si corresse) e il dottor Jefferson era morto, per un motivo che doveva avere, apparentemente, qualche relazione con quell’insignificante souvenir.

Se lo rimise al dito.

«Non sarebbe onesto. Penso che farò meglio a cercare un lavoro.»

«Un uomo d’orgoglio. C’è sempre lavoro da trovare in una città nuova e crescente; buona fortuna. Quando avrà trovato un impiego, torni qui, e potremo concederle un anticipo sugli introiti futuri.» Il banchiere infilò la mano tra le pieghe della sua veste, e tirò fuori una banconota da un credito. «Ma prima mangi… uno stomaco pieno rende fermo il giudizio. Mi faccia l’onore di accettare questo, come nostro benvenuto al nuovo ospite.»

Il suo orgoglio diceva di no; il suo stomaco diceva SÌ! Don prese il credito, e disse:

«Uh, grazie! È infinitamente gentile da parte sua. Lo restituirò alla prima occasione.»

«Piuttosto, quando potrà, lo anticipi a qualche altro fratello che ne abbia bisogno.» Il banchiere sfiorò un bottone che si trovava sulla scrivania, poi si alzò in piedi.

Don lo salutò, e uscì.

C’era un uomo appoggiato pigramente al muro, accanto alla porta della banca. Lasciò che Don facesse un paio di passi avanti, poi lo seguì, ma Don non gli prestò alcuna attenzione, essendo completamente assorbito dalle proprie disavventure. Lentamente, dentro di lui si stava facendo strada la comprensione che per molto tempo era rimasta nascosta, ai confini del subcosciente. Aveva rimandato quella consapevolezza di giorno in giorno, vivendo in una specie di confuso stupore, lasciandosi portare dagli eventi senza mai accettarli completamente; ma adesso non era più possibile ingannarsi. Il suo mondo, quel mondo che aveva conosciuto e nel quale era nato e cresciuto, un mondo fatto di pianeti e di navi siderali e di una Federazione unita nel sistema solare, era andato in mille pezzi; come un giocattolo delicato, si era frantumato di fronte a lui, senza che lui se ne rendesse ben conto, e non esisteva alcun modo per rimetterlo assieme, né per farlo ritornare almeno in parte com’era stato. Per tutta la vita aveva vissuto nella sicurezza; non aveva mai sperimentato emotivamente, nella propria persona, i fatti storici fondamentali, che si riducevano a una sola realtà: e cioè che il genere umano vive sempre sull’orlo del pericolo, lottando con le unghie e coi denti, combattendo per la sopravvivenza, senza nulla ad aiutarlo, se non il suo fisico e la sua intelligenza… a volte riuscendo a vincere, ma molto più spesso perdendo… e morendo.

Ma senza arrendersi, mai. Percorrendo cento metri di una strada fangosa, sotto un cielo livido, coperto da un’eterna coltre, Don cominciò a maturare, a rendersi consapevole della situazione, e a prenderne il controllo. Lui si trovava a più di cento milioni di miglia dal luogo in cui i suoi genitori avrebbero voluto che fosse. Non aveva alcun modo immediato per fare sapere ai suoi genitori dov’era, né si trattava semplicemente di aspettare per due settimane… era al verde, e non poteva pagare l’alta tariffa richiesta.

Al verde, affamato, e senza un luogo per dormire… senza amici, neppure un conoscente… salvo, naturalmente, voler considerare «Sir Isaac», ma, per quello che ne sapeva, il suo amico drago avrebbe potuto trovarsi sull’altra faccia del pianeta. Certamente, non abbastanza vicino per aiutarlo a risolvere il problema della cena!

D’altra parte, la storia insegnava — e l’esperienza ricordava — che altri uomini, prima di lui, si erano trovati in situazioni ancora peggiori. Lui era giovane… ma più di esperienza che di età. Essere giovani o adulti è un concetto relativo, dipendente dalle realtà storielle dell’epoca, e dall’ambiente; in un altro tempo, un ragazzo dell’età di Don sarebbe già stato adulto, esperto, un pioniere già sposato e con una famiglia da mantenere, o un rivoluzionario, o perfino un esploratore di mondi nuovi. In un mondo nel quale la sicurezza era stata quasi un dogma, dove chi apparteneva alle classi privilegiate poteva vivere nella più assoluta tranquillità, perfino nel lusso, Don non aveva avuto modo di vivere certe esperienze; ma questo non gli impediva, potenzialmente, di risolvere i problemi. Questo era un punto che lui non conosceva razionalmente, ma che intuiva, sia pure confusamente.

Decise di risolvere il problema più pressante… quello della cena… immediatamente, spendendo la banconota che il banchiere gli aveva dato. Ricordò di avere visto un ristorante, a poca distanza, e si fermò di colpo; il gesto fu così brusco che un uomo si scontrò con lui.

Don disse: «Mi scusi,» e notò che l’uomo era un altro cinese… lo notò senza sorpresa, perché una buona metà degli uomini ingaggiati come operai, e in realtà stivati come schiavi a bordo delle astronavi, e venduti e rivenduti come schiavi dai padroni delle fattorie venusiane, nei primi tempi della colonizzazione di Venere, erano stati degli orientali. Gli parve che il viso dell’uomo fosse familiare… un altro passeggero del Nautilus? Poi ricordò di averlo visto sulla banchina, all’inizio della strada.

«Colpa mia,» rispose l’uomo. «Dovrei guardare dove vado. Mi dispiace di averla urtata.» Sorrise, con aria molto accattivante.

«Nulla di male,» replicò Don. «Ma in realtà, la colpa è stata mia. Ho deciso improvvisamente di voltarmi e tornare indietro.»

«Tornare alla banca?»

«Uh?»

«Non è affar mio, lo so, ma l’ho vista uscire dalla banca.»

«Francamente,» rispose Don, «Non stavo tornando alla banca. Sto cercando un ristorante, e ricordo di averne visto uno più indietro.»

L’uomo guardò i bagagli di Don.

«È arrivato adesso?»

«Sono appena sceso dal Nautilus.»

«Lei non vorrà andare certamente in quel ristorante… a meno che non abbia del denaro da cacciare via. Si tratta esclusivamente di una vistosa trappola per turisti.»

Don pensò alla solitaria banconota da un credito che aveva in tasca, e si preoccupò.

«Uh, dove si può trovare qualcosa da mangiare? Un buon ristorante a buon mercato?»

L’uomo lo prese per il braccio.

«Venga, glielo mostrerò io. Un posticino vicino all’acqua, laggiù, e il padrone è mio cugino.»

«Oh, non voglio darle disturbo!»

«Non ci pensi nemmeno. Anch’io stavo per andare a placare i morsi dello stomaco. A proposito, io mi chiamo Johnny Ling.»

«Piacere di conoscerla, signor Ling. Io mi chiamo Don Harvey.»

Il ristorante si trovava in un vicolo cieco, una traversale di Strada Buchanan. L’insegna annunciava RISTORANTE DUE MONDI — Tavoli per Signore - BENVENUTI GLI SPAZIALI. Tre vieni-sopra indugiavano in prossimità dell’entrata, fiutando gli odori e premendo i nasi tremolanti contro la porta chiusa da una fitta rete. Johnny Ling scostò gli animali con una spinta, e fece entrare Don nel locale.

Un grasso cantonese era in piedi dietro il bancone, a presidiare nello stesso tempo i fornelli e il registratore di cassa. Ling lo chiamò:

«Ciao, Charlie!»

Il grassone rispose:

«Salve, Johnny,» poi esplose in una ricca cantilena d’imprecazioni, mescolando con notevole imparzialità il cantonese, l’inglese, il portoghese, e il linguaggio sibilato dei nativi. Uno dei vieni-sopra era riuscito a infilarsi nel locale, quando la porta era stata aperta, e si stava dirigendo con decisione verso il ripiano dei dolci; i piccoli zoccoli della creatura ticchettavano vigorosamente sul pavimento. Muovendosi con estrema rapidità, malgrado la sua pinguedine, l’uomo chiamato Charlie scacciò l’animale, prendendolo per l’orecchio e spingendolo fuori. Sempre imprecando, Charlie ritornò al ripiano dei dolci, tirò fuori una mezza torta che aveva conosciuto tempi migliori, e ritornò alla porta. Lanciò la torta alle bestie, che si buttarono in quella direzione, in un concerto di belati e di guaiti.

«Se tu non dessi loro da mangiare, Charlie,» fu il commento di Ling, «Non se ne starebbero sempre qui attorno.»

«Tu impicciati degli affari tuoi, accidenti!»

Diversi clienti stavano mangiando al banco; nessuno di loro prestò attenzione al piccolo incidente. Ling si avvicinò al cuoco, e disse:

«È vuota la sala sul retro?»

Charlie annuì, e gli voltò la schiena. Ling condusse Don verso una porta girevole; si trovarono, dall’altra parte, in una sorta di separé, sul retro dell’edificio. Don sedette e prese il menu, chiedendosi cosa avrebbe potuto prendere facendo durare il più a lungo possibile quell’unico credito che possedeva. Ling gli tolse il menu di mano.

«Permette che sia io a ordinare? Charlie è davvero un cuoco di prima grandezza.»

«Ma…»

«Lei è mio ospite. No, non discuta. Insisto.» Charlie fece la sua apparizione a questo punto, infilandosi silenziosamente nella tenda che divideva il. separé. Lui e Ling si scambiarono qualche frase, in una rapida cantilena della quale Don non capì nulla; il cuoco si allontanò, ritornando dopo poco tempo con delle splendide frittate farcite e fumanti. L’aroma era meraviglioso, e lo stomaco di Don smise finalmente di protestare, facendo nel contempo dissolvere la protesta di Don sull’offerta di una cena.

Le frittate furono seguite da una pietanza che Don non riuscì a identificare. Si trattava di cucina cinese, ma certamente non era uno degli esempi meno degni di una nobile tradizione. Don pensò di avere identificato, grazie ai ricordi della sua infanzia, delle verdure venusiane, in quella pietanza, ma non poté esserne sicuro. Qualunque cosa fosse, era esattamente quello di cui lui aveva bisogno; cominciò a provare un caldo senso di benessere, e smise di preoccuparsi di tutto il resto.

Mentre mangiava, scoprì che stava raccontando a Ling la storia della sua vita con particolare enfasi sui più recenti avvenimenti, gli stessi che lo avevano condotto a un inaspettato atterraggio su Venere. Era molto facile parlare con il cinese, che era un eccellente interlocutore e un attento, incoraggiante ascoltatore, e non gli pareva cortese starsene semplicemente seduto, mangiando come un lupo il cibo offerto dal suo ospite, facendo scena muta.

Dopo qualche tempo, Ling si appoggiò allo schienale del suo posto, e si passò un tovagliolo sulle labbra.

«Certamente lei ha vissuto un’esperienza molto strana, e molto sconcertante, Don. Cos’ha intenzione di fare, adesso?»

Don corrugò la fronte.

«Vorrei saperlo. Devo trovare un lavoro, in un modo o nell’altro, e un posto per dormire. Dopo avere fatto questo, dovrò guadagnare, o risparmiare, o prendere a credito, il denaro sufficiente per avvertire i miei genitori. Immagino che saranno in ansia.»

«Lei ha portato del denaro con sé?»

«Uh? Oh, certo, ma si tratta di denaro della Federazione. Non posso spenderlo.»

«E lo Zio Tom non ha voluto cambiarglielo. È un vecchio figlio di una cagna, con il cuore più duro di una pietra, malgrado tutti i suoi sorrisi. In fondo è rimasto sempre un usuraio.»

«Lo zio Tom? Il banchiere è suo zio?»

«Eh? Oh, no, no… solo un modo di dire. Tanti anni fa ha aperto un negozio di prestiti su pegno. I cercatori andavano da lui, e impegnavano i loro contatori Geiger. Al viaggio successivo, lui li spolpava vivi. Dopo poco tempo, era diventato proprietario di una buona metà dei giacimenti d’uranio della zona, ed era diventato anche un banchiere. Ma continuiamo a chiamarlo ‘lo zio Tom’.»

Don ebbe la vaga sensazione che Ling fosse stato troppo ansioso di negare la parentela con il banchiere, ma non seguì quel ragionamento fino in fondo, perche tutto sommato non gli pareva importante. Ling stava parlando ancora:

«Vede, Don, la banca non è l’unico posto in cui si possa cambiare il denaro della Federazione.»

«Cosa intende dire?»

Ling sfiorò con la punta del dito una macchia di acqua rimasta sul tavolo, e tracciò il segno universale del credito.

«Naturalmente, si tratta dell’unico posto legale. Questo la preoccuperebbe?»

«Be’…»

«Non è come se ci fosse qualcosa di male, nel cambiare il denaro. Si tratta di una legge arbitraria, e l’hanno approvata senza chiedere il parere a nessuno. Lei non ne sapeva niente, no? E dopotutto si tratta del suo denaro. È giusto, no?»

«Credo di sì.»

«Si tratta del suo denaro, e lei può farne quello che vuole. Ma questo discorso è rigorosamente confidenziale… se ne rende conto?»

Don non disse niente, e Ling proseguì:

«E adesso, parlando solo per ipotesi… quanto denaro della Federazione possiede?»

«Uh, circa cinquecento crediti.»

«Vediamo.»

Don esitò. Ling disse, seccamente:

«Andiamo. Non si fida di me? Dopotutto, in questo momento si tratta solo di carta straccia.»

Don tirò fuori il suo denaro. Ling lo osservò, ed estrasse il suo portafogli, cominciando a contare delle banconote.

«Sarà difficile piazzare alcune di queste banconote di grosso taglio,» fu il suo commento. «Che ne dice del quindici per cento?» Il denaro che egli posò sul tavolo aveva l’identico aspetto di quello che Don possedeva, solo che, su ogni banconota, era stata sovrastampata lo dicitura REPUBBLICA DI VENERE.

Don fece un rapido calcolo. Il quindici per cento di quel che possedeva gli dava settantacinque crediti, più o meno… nemmeno la metà di quello che gli era necessario per mandare un radiogramma a Marte. Riprese il suo denaro e fece per rimetterlo nel portafogli.

«Cosa c’è?»

«Non mi serve. Le ho detto che avevo bisogno di centottantasette crediti e cinquanta, per pagare il radiogramma.»

«Be’… il venti per cento. E le sto facendo un favore, perché lei è un giovane nei guai.»

Il venti per cento era sempre poco, cento crediti.

«No, grazie. Lasciamo perdere.»

«Cerchi di essere ragionevole! Non posso piazzare il denaro a più di un punto o due da questa percentuale; potrei subire una perdita. Le cose stanno andando male, e la moneta subisce una svalutazione dell’otto per cento. Questa roba deve essere nascosta, e la svalutazione le farà perdere l’otto per cento del valore ogni anno. Se la guerra continua per molto tempo, si tratterà di una perdita. Cosa si aspetta di ottenere?»

Le teorie economiche non importavano, in quel momento, a Don; lui sapeva, semplicemente, che gli interessava soltanto il costo di un radiomessaggio per Marte. Scosse il capo.

Ling si strinse nelle spalle, e riprese il suo denaro.

«È lei a perderci. Ehi, è un bellissimo anello quello che porta al dito.»

«Grazie.»

«Di quanto denaro ha bisogno, mi aveva detto?»

Don ripeté la somma.

«Vede, io devo avvertire la mia famiglia. In realtà, non ho bisogno di denaro per nient’altro; per mangiare e alloggiare, sono perfettamente in grado di trovarmi un lavoro.»

«Le dispiace se do un’occhiata a quell’anello?»

Don non voleva passarlo a quell’uomo, ma apparentemente non c’era alcun modo per evitarlo senza apparire scortese. Ling infilò l’anello; era piuttosto largo, per il suo dito ossuto.

«Proprio la mia misura. E c’è anche la mia iniziale.»

«Uh?»

«Il mio secondo nome, Henry. Sa cosa le dico, Don? Veramente, io vorrei aiutarla a uscire dai guai. Che ne dice di accordarci per il venti per cento sul suo denaro, e per il saldo della somma della quale ha bisogno per spedire il messaggio, prenderò l’anello. D’accordo?»

Don non avrebbe saputo spiegare per quale motivo aveva rifiutato. Ma cominciava a trovare odioso Ling, cominciava a pentirsi di avere contratto l’obbligo di una cena, con lui. L’improvvisa sensazione diede più forza al suo innato e ostinato orgoglio.

«È un ricordo di famiglia,» rispose. «Non è in vendita.»

«Eh? Lei non è in condizione di essere sentimentale. L’anello vale più qui che sulla Terra… ma le offro ugualmente molto più di quanto non valga. Non faccia lo stupido!»

«Lo so che mi offre molto più di quanto l’anello valga,» rispose Don. «E non riesco a capire il perché. In ogni caso, l’anello non è in vendita. Me lo restituisca.»

«E se lo tenessi?»

Don sospirò profondamente.

«Be’, in questo caso,» disse, lentamente, «Suppongo che dovrò lottare per riaverlo.»

Ling lo fissò per un momento, poi si sfilò l’anello dal dito e lo lasciò cadere sul tavolo. Poi si alzò in piedi e uscì dal separé, senza aggiungere altro.

Don fissò la tenda, anche quando il cinese fu scomparso, cercando di trovare un senso a tutti quei misteri. Stava ancora riflettendo, quando la tenda si aprì, e il padrone del ristorante apparve. Fece cadere un biglietto sul tavolo.

«Uno e sei,» disse, con voce piatta.

«Non è stato il signor Ling a pagare? Mi ha invitato a cena con lui.»

«Uno e sei,» ripeté Charlie. «Lei ha mangiato. Lei paga.»

Don si alzò in piedi.

«Dove si lavano i piatti, qui? Tanto vale che cominci subito.»

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