CAPITOLO XII DESERTO UMIDO

Don continuò a correre, senza sapere dove stava andando, senza curarsi di saperlo, purché fosse una direzione opposta a quella del campo di concentramento. Udì di nuovo un rabbioso, mortale sibilo; girò a sinistra, e corse ancora più forte, poi girò di nuovo, sfiorando una macchia di piante di palude. E continuò a correre, chiamando a raccolta tutte le sue forze, ricorrendo anche all’ultima stilla di energia, con il respiro che gli ardeva in gola come un torrente umido e infuocato… poi si fermò bruscamente, con un ultimo sussulto, sulla terraferma, di fronte all’acqua.

Rimase immobile per un momento, guardando e ascoltando. Non c’era niente da vedere, all’infuori della fitta nebbia grigiastra, non c’era niente da udire, all’infuori del pulsare del suo cuore affaticato. No, non era vero, questo… qualcuno stava gridando in lontananza, ed egli udì i suoni di piedi calzati da pesanti stivali, che attraversavano gli arbusti e le piante venusiane, producendo una serie di secchi crepitii. Il rumore pareva giungere dalla sua destra; Don girò a sinistra, e corse lungo il bordo dell’acqua, cercando di scorgere, nella nebbia, il profilo di una gondola, di un ‘coccodrillo’, di una zattera, qualsiasi cosa che fosse stata in grado di galleggiare.

La banchina descriveva una curva a sinistra, piegando verso l’interno; seguì il contorno, poi si fermò, quando si accorse che lo stava conducendo alla stretta lingua di terraferma che univa l’Isola Centrale al Promontorio Est. Era più che certo, pensò, che ci fosse un corpo di guardia, o un posto di blocco, nel punto più stretto del promontorio; gli pareva di ricordare di avere visto una postazione federale in quel punto, quando lui e gli altri erano stati condotti, come un gregge al macello, dalla città al campo di concentramento.

Don ascoltò… sì, lo stavano ancora inseguendo… e gli coprivano la ritirata sul fianco. Non c’era niente, di fronte a lui, all’infuori della riva che si assottigliava, descrivendo la sua curva sempre più esigua, conducendolo irrevocabilmente a una cattura certa.

Per un momento, il suo viso fu sconvolto da una tremenda sofferenza, da una rabbiosa agonia di frustrazione, poi i suoi lineamenti riacquistarono serenità, e nello stesso momento, presa una decisione, Don oltrepassò la riva, immerse i piedi, decisamente, nell’acqua, e cominciò a camminare, allontanandosi dalla terraferma.

Don sapeva nuotare, e sotto questo aspetto differiva dalla maggior parte dei coloni di Venere. Su Venere nessuno ha mai occasione di nuotare; non ci sono acque adatte a farlo. Venere non ha una Luna che possa regolare il corso delle maree; e le maree solari perturbano solo in misura irrilevante le acque eternamente stagnanti e limacciose dell’umido pianeta. Le acque non si gelano mai, non si avvicinano mai alla temperatura critica di 4° che fa «ventilare» e muovere i laghi, i corsi d’acqua e gli stagni della Terra. Il pianeta è praticamente immune da variazioni climatiche, nel senso terrestre della parola, di cicloni, di uragani, di altre violente manifestazioni meteorologiche. Le sue acque giacciono placide sulla superficie… e sotto il loro ciglio accumulano fango e detriti, anno dopo anno, generazione dopo generazione, eone dopo eone.

Gli acquitrini di Venere, deserto umido e insidioso e mortale, giacciono immutabili sotto un cielo sempre nebbioso, tra grige nebbie perenni, stagnanti e limacciose e infide, dall’inizio del tempo, senza conoscere il movimento delle onde, o lo scintillio dei raggi del sole, o la cristallina trasparenza dei grandi ghiacci d’inverno.

Don camminò con decisione, in linea retta, sforzandosi di non pensare alla fanghiglia nera, putrida e sulfurea nella quale si stava addentrando. L’acqua era poco profonda; a cinquanta metri e più di distanza, quando il contorno della riva era indistinto, celato dalla nebbia, era sempre immerso fino alle ginocchia. Si voltò a guardare la parete di nebbia, e decise di spingersi ancor più al largo; se lui non poteva vedere la linea costiera, dalla linea costiera loro non avrebbero potuto vederlo. Si ricordò che era necessario conservare l’orientamento, per non compiere un giro vizioso, e ritornare là dove era iniziata la sua camminata.

Dopotutto, la dura scuola della fattoria era stata opportuna; in quel momento, Don ringraziò i giorni che aveva passato là.

Dopo qualche tempo, il fondo s’inabissò bruscamente, di più di trenta centimetri; facendo un passo, Don scese da quel gradino naturale nella fanghiglia, perse l’equilibrio, e cadde completamente nell’acqua, spalancando le braccia; si riprese, e s’issò nuovamente nel punto in cui il fondo era più basso, congratulandosi per essere riuscito a evitare d’immergere il viso, e soprattutto gli occhi, nella limacciosa, pericolosa acqua del pianeta.

Udì un grido, e quasi immediatamente il rumore che in genere l’acqua produce toccando un forno rovente, enormemente amplificato. A tre metri di distanza, una nube di vapore si sollevò dalla superficie dell’acqua, levandosi in lente, maestose volute nella fitta nebbia. Don tremò, e avrebbe voluto tuffarsi, o nascondersi, ma non c’era modo di nascondersi. Le grida ripresero, e attraverso l’acqua i suoni furono portati distintamente fino a lui, soffocati dalla nebbia, ma sempre comprensibili.

«Da questa parte! Da questa parte! È andato nell’acqua!»

Ancor più lontana, udì la risposta.

«Veniamo!»

Don avanzò con maggiore prudenza, mosse il piede intorno, sentì il punto in cui il fondo si inabissava, provò a discendere da quel gradino naturale, e scoprì che gli era possibile stare in piedi… l’acqua gli arrivava appena sotto le ascelle, ma non di più.

Stava avanzando lentamente, cercando di evitare ogni rumore, e facendo attenzione al suo equilibrio precario, quando udì il suono sibilante del raggio vicino a lui.

Il soldato che si trovava sulla riva aveva immaginazione; invece di sparare a casaccio, come la prima volta, nella nebbia che rendeva indistinti i contorni, e dava continue impressioni di luci e ombre, rendendo praticamente impossibile distinguere il fuggiasco, l’uomo stava prendendo di mira, a ventaglio, la superficie piatta dell’acqua, facendo del suo meglio per mantenere il raggio orizzontale, e muovendolo come lo spruzzo di una pompa. Don si acquattò, fino a quando solo il suo viso fu sopra il pelo dell’acqua.

Il raggio passò soltanto a pochi centimetri dalla sua testa; lo sentì passare, e sentì distintamente l’acre odore di ozono.

Il sibilo s’interruppe bruscamente, seguito da una serie d’imprecazioni antiche come la storia di tutti gli eserciti della terra.

«Ma, sergente…» protestò qualcuno.

«Te lo darò io il sergente! Vivo… hai capito? Hai sentito gli ordini. Se lo hai ucciso, ti farò a pezzi con un coltello arrugginito. No, anzi, non farò niente di simile; ti consegnerò nelle mani del signor Bankfield. Pezzo d’idiota che non sei altro!»

«Ma, sergente, lui stava scappando in acqua; dovevo fermarlo.»

«‘Ma sergente’! ‘Ma sergente’!… non sai dire altro! Procurati una barca! Procurati un pezzo di legno! Trova un motoscafo biposto! Chiama la base, e chiedi se ti possono mandare un elicottero!»

«E dove mi procuro una barca?»

«Trovala! Lui non può fuggire. Lo troveremo… o lui o il suo cadavere. Se troveremo il suo cadavere, farai meglio a tagliarti la gola!»

Don ascoltò, poi riprese a muoversi silenziosamente in avanti… o, per lo meno, in direzione opposta a quella dalla quale parevano giungere le voci. Non era più in grado di distinguere le direzioni esatte; non c’era nulla, all’infuori della nera superficie delle acque, e un orizzonte di nebbia. Per qualche tempo il fondo continuò a essere abbastanza livellato, poi si accorse che stava di nuovo inabissandosi. Fu costretto a fermarsi, perché non gli era più possibile tenere la testa fuori dell’acqua.

Rifletté sulla situazione, cercando di non lasciarsi prendere dal panico. Era ancora vicino a Isola Centrale, separato dalla spiaggia solamente da una coltre di nebbia. Non c’era alcun dubbio sul fatto che una ricerca condotta con mezzi appropriati… apparecchi a infrarossi, per esempio, o congegni derivati dal radar, ma più maneggevoli… lo avrebbe fatto scoprire, come uno scarafaggio su un telo bianco. Si trattava semplicemente di attendere che le apparecchiature adatte venissero portate; e poi…

Doveva arrendersi ora, per uscire da quella fanghiglia velenosa finché era in tempo? La certezza della sua imminente cattura rendeva l’idea vagamente consigliabile. Sì, arrendersi… e tornare al campo di concentramento, per dire a Bankfield di cercare Isobel Costello, se voleva trovare l’anello? Si lasciò affondare nell’acqua, spingendosi avanti, e cominciò a nuotare, cercando disperatamente di tenere il viso fuori dell’acqua immobile e limacciosa dal pesante sentore di zolfo.


Quel modo di nuotare non era certamente il suo forte, perché nelle esercitazioni spesso aveva difettato in stile e in costanza; e lo sforzo di tenere il capo fuori dell’acqua serviva soltanto a peggiorare la situazione. Il collo cominciò a fargli male; i muscoli erano tesi come corde, indolenziti; dopo qualche tempo, il dolore si propagò ai muscoli della spalla, e alla schiena. Dopo un tempo indefinito, e un indefinito numero di bracciate, e un’indefinita quantità d’acqua stagnante e limacciosa percorsa nuotando a rana, cominciò a sentire male in ogni parte del corpo, anche nei muscoli del viso, anche negli occhi… eppure, per quel che lui poteva distinguere, avrebbe potuto anche nuotare in una vasca da bagno, una vasca dalle grige pareti di nebbia. Non gli sembrava possibile che nell’arcipelago che componeva la Provincia di Buchanan una persona potesse nuotare così a lungo senza imbattersi in qualcosa… un promontorio sabbioso, una barriera di fango, un isolotto di melma.

Smise di nuotare, limitandosi a galleggiare nell’acqua, muovendo appena le gambe intorpidite e agitando lievemente le mani. Gli parve di udire il rumore di una barca a motore, ma non poté esserne sicuro. In quel momento, non gli importava più nulla; la cattura sarebbe stata un sollievo, per lui, purché lo sottraesse a quell’inferno limaccioso, nero e grigio e impenetrabile, umido e sulfureo ed estenuante. Ma il suono, o l’eco di suono lontano, smorì in lontananza, ed egli si ritrovò nel deserto umido, grigio e informe.

Curvò la schiena, per riprendere a nuotare, e il suo piede toccò il fondo. Maldestramente, con dita intorpidite, mosse i piedi intorno, cercando una conferma… sì, era il fondo… e stando in piedi, poteva tenere il mento fuori dell’acqua. Rimase immobile per qualche secondo, per riposarsi, e poi cercò intorno a sé, alla cieca. Il fondo scendeva da una parte, pareva uniforme, o pareva addirittura sollevarsi, nell’altra direzione.

Ben presto, le sue spalle riemersero, mentre lui continuava a tenere i piedi sul fondo viscido e fangoso. Cercando la strada a tentoni, come un cieco, con gli occhi inutilizzabili, se non per trovare un equilibrio, sondò i contorni del fondo, trovando delle sporgenze che s’innalzavano, per poi essere costretto a indietreggiare, quando il fondo s’inabissava di nuovo, ai lati di quella gibbosità naturale.

Era già uscito dall’acqua fino alla cintura, quando i suoi occhi scorsero una venatura più scura nella nebbia; andò in quella direzione, si ritrovò immerso fino al collo nell’acqua nera. Poi il fondo s’innalzò rapidamente; pochi istanti più tardi, finalmente, Don s’issò sulla terra asciutta.

Neppure in quel momento egli ebbe il coraggio di fermarsi subito; si spostò di qualche metro verso l’interno, e pose tra lui e l’acqua una macchia folta di alberi Chika. Protetto così da un solido schermo naturale dalle operazioni di ricerca condotte da imbarcazioni, Don trovò finalmente la calma necessaria per esaminare le proprie condizioni. Aggrappate alle sue gambe c’erano almeno dodici sanguisughe del fango, ciascuna delle quali era grossa come il pugno di un bambino. Con enorme ripugnanza, egli spazzò via le ignobili creature con il dorso della mano, poi si tolse i calzoni corti e la camicia, e trovò molti altri parassiti, che eliminò subito. Si disse che era stato incredibilmente fortunato a non fare incontri assai peggiori… i draghi erano il prodotto di una diversa linea evolutiva, ed esistevano su Venere molti loro cugini, che avevano la stessa parentela che i gorilla avevano con gli esseri umani sulla Terra. Molte di queste creature sono anfibie… e questo è uno dei motivi per cui i coloni umani di Venere non nuotavano mai.

Con riluttanza, Don indossò di nuovo i suoi indumenti luridi e bagnati, sedette a terra, appoggiando la schiena al tronco di un albero, e riposò un poco. Stava ancora riposando, quando udì di nuovo il rumore di un’imbarcazione a motore; questa volta non c’era ombra di dubbio, era impossibile confondersi. Rimase immobile dov’era, come raggelato, protetto solamente dagli alberi, pregando, tra sé, che quello schermo naturale fosse stato sufficiente, e che gli inseguitori se ne andassero.

Il suono si avvicinò alla riva, e proseguì lentamente alla sua destra; l’imbarcazione stava incrociando nelle acque poco profonde. Don cominciava a sentirsi sollevato, quando le turbine si fermarono, d’un tratto. Nel silenzio, poté udire delle voci.

«Dovremo esplorare questo scoglio di fango. Va bene, Curry… tu e Joe.»

«Che aspetto ha questo individuo, caporale?»

«Be’, ti dirò che il capitano non è stato preciso. Comunque, si tratta di un giovane, avrà circa la tua età. Per semplificare le cose, tu arresta tutto quello che vedi camminare. Non è armato.»

«Vorrei essere ancora a Birmingham.»

«Muoviti.»

Anche Don si mosse… nella direzione opposta, il più rapidamente e silenziosamente possibile. L’isola era coperta di vegetazione… Don sperò che fosse anche vasta, come la fitta vegetazione lasciava supporre. Quello che stava per condurre era un gioco precario nel quale lui era il ladro e i soldati erano le guardie, nel quale lui doveva nascondersi, e per farlo doveva usare tutte le tattiche che ricordava, o che riusciva a escogitare sul momento. Aveva percorso circa cento metri, quando un movimento davanti a lui, in alto, lo fece raggelare di terrore, e accelerò spaventosamente i battiti del suo cuore; si rese conto in quel momento, con una fitta di disperazione, che la squadra dell’imbarcazione poteva aver fatto sbarcare due gruppi di ricerca, in due punti diversi dell’isola.

Il suo panico cessò, quando egli scoprì di trovarsi di fronte non a degli esseri umani, ma a dei gregari. Anche i gregari lo scoprirono, e gli vennero incontro danzando, belando vigorosamente il loro benvenuto, e affollandosi intorno a lui.

«Zitti!» mormorò raucamente Don. «Mi farete prendere!»

I vieni-sopra non prestarono alcuna attenzione a queste parole; loro avevano soltanto voglia di giocare. Don cercò di ignorarli, e comunque di non incoraggiarli, e ricominciò a camminare, accompagnato molto da vicino dall’intero gruppo… almeno cinque gregari. Si stava ancora chiedendo in quale modo avrebbe potuto evitare di essere amato fino alla morte… o per lo meno, fino alla prigionia… quando insieme sbucarono nella radura.

E là c’era tutto il resto del branco, più di duecento capi, dai cuccioli che si strofinavano amorevolmente contro le sue ginocchia, fino al vecchio patriarca dalla barba grigia, dallo stomaco prominente, e alto fin quasi alla spalla di Don. Tutti manifestarono al di là di ogni dubbio che l’ospite era il benvenuto, e che desideravano averlo con loro per un poco.

Una cosa che l’aveva preoccupato veniva adesso chiarita… lui non aveva descritto un circolo, durante la lunga nuotata, e non era ritornato su Isola Centrale. I soli vieni-sopra che vivevano su Isola Centrale erano dei mendicanti semiaddomesticati, sempre pronti a frugare tra i rifiuti e a prendere un boccone qua e là, come quelli che avevano stazionato nei paraggi del ristorante; non esistevano interi branchi.

Improvvisamente, gli venne un’idea; era pazzesca, forse anche ridicola, ma esisteva una possibilità… vaga, remota, eppure valida… di trasformare l’onnipresente, eterna affettuosità dei bipedi in un vantaggio, invece che in una trappola mortale. Di una cosa era certo: quelle creature non l’avrebbero lasciato andare. Se avesse abbandonato il branco, alcuni lo avrebbero certamente seguito, belando e sbuffando e praticamente annunciando la sua presenza, come se lui fosse andato in giro per Venere preceduto da una banda musicale. D’altro canto…

A volte le idee più pazze sono le più geniali. In quel momento, Don se ne rese conto, sia pure confusamente. Rendersene conto e agire di conseguenza fu questione di un attimo.

Con passo deciso, penetrò nella radura, dirigendosi verso il centro, scostando a forza di gomiti la fiumana dei suoi nuovi amici, che volevano festeggiarlo calorosamente tutti insieme nello stesso momento. Si spinse nel bel mezzo del branco, e a questo punto sedette sul terreno umido.

Tre gregari più piccoli gli salirono immediatamente sulle ginocchia. Li lasciò stare dov’erano. Gli adulti, e i cuccioli, si assieparono intorno a lui, belando e ronfando e cercando di annusargli la testa. Li lasciò fare… ormai era circondato da una solida parete di carne. Così clamorosamente incoraggiati, i vieni-sopra tennero meravigliosamente fede al loro soprannome.

Di quando in quando, un adulto veniva scostato dagli altri, e tornava più indietro, ad aspettare il suo turno; ma c’erano sempre gregari a sufficienza per sbarrargli qualsiasi visione di ciò che lo circondava.

Dopo un periodo considerevole, udì levarsi una serie di belati ancor più eccitati dalle frange del branco che lo circondava. Per un momento, pensò che la sua guardia personale sarebbe stata distolta da lui, sedotta dalla nuova causa di eccitazione; ma gli occupanti del circolo interno preferirono conservare i loro posti privilegiati; la parete tenne.

Don udì di nuovo delle voci umane.

«Per l’amor del cielo… è un branco al completo di quelle stupide bestie!» E poi: «Ehi! Vai giù! Piantala di leccarmi la faccia!»

La voce di Curly replicò:

«Credo che si sia innamorato di te, Joe. Amore a prima vista. Senti… Rompi ha detto di arrestare tutto quello che cammina; che ne diresti di portargli questo?»

«Piantala!» Si udirono dei rumori accentuati, poi più acuti, e infine il belato di un vieni-sopra, sorpreso e ferito nei suoi migliori sentimenti.

«Forse faremmo meglio ad arrostirlo, e a portarlo via comunque, ma non a Rompi. Chissà,» era la voce di Curly. «Ho sentito dire che la carne di questi stupidi è squisita.»

«Prova a trasformare questa ricerca in una partita di caccia, e Rompi ti farà finire davanti al Vecchio. Andiamo… abbiamo da lavorare.»

Don poté seguire l’avanzata dei due uomini ai margini del branco. Riuscì perfino a capire, dai suoni, il momento in cui i due soldati riuscirono a respingere a calci i più persistenti dei gregari che li seguivano. Continuò a restare seduto al centro della radura per molto tempo, dopo che gli ultimi suoni prodotti dai due soldati furono scomparsi in lontananza. Rimase seduto a terra, accarezzando il mento di un cucciolo che gli si era addormentato sulle ginocchia, e riposandosi.

Passarono i minuti, e forse le ore, e finalmente cominciò a farsi buio. Il branco cominciò i preparativi per passare la notte. Quando fu completamente buio, tutti i gregari erano sdraiati a terra, a eccezione delle sentinelle lasciate intorno al bordo della radura. Essendo stanco morto, e mancando completamente di qualsiasi piano d’azione, Don si dispose a passare la notte con le affettuose creature, con la testa appoggiata a una soffice, vellutata schiena, e fungendo a sua volta da cuscino a una coppia di cuccioli.

Per qualche tempo rimase con gli occhi aperti, guardando in alto. Il cielo scuro di Venere era sopra di lui; non c’erano stelle, in quel cielo, non c’era luna. Solo oscurità densa. Guardando quella coltre che copriva eternamente il cielo, Don meditò sulla propria situazione, poi cominciò a preoccuparsi del cibo e, ancor più urgentemente, dell’acqua. Passò qualche minuto; e poi Don non pensò più a nulla.

Il branco si agitò, come pervaso da un fremito, e si svegliò. Ci furono belati e grugniti, mescolati ai pigolii lamentosi dei più piccoli, che non erano ancora del tutto svegli. Don aprì gli occhi, cercò di orientarsi, riconobbe l’ambiente nel quale si trovava, e sì alzò in piedi a sua volta; sapeva vagamente cosa doveva attendersi… il branco stava per migrare. Raramente i gregari occupavano la stessa isola per due giorni di fila. Essi dormivano per la prima parte della notte, poi partivano prima dell’alba, nel momento in cui i loro nemici naturali erano meno attivi. Vagabondavano da un’isola all’altra, servendosi di strade, attraverso la laguna, dove l’acqua era meno profonda, percorsi noti… probabilmente per istinto… ai capi del branco. Certamente, i gregari erano capaci di nuotare; ma raramente ricorrevano a questa arte, preferendo i più comodi guadi delle stagnanti, immobili acque del mondo degli acquitrini.

Don pensò: Bene, così mi libererò presto di loro. Erano molto affettuosi e gentili; ma quel che è troppo, è troppo. Poi rifletté sulla situazione… se i vieni-sopra si trasferivano in un’altra isola, certamente non si sarebbe trattato di Isola Centrale, e certamente si sarebbe trattato di un’isola ancor più lontana da Isola Centrale di quella sulla quale ora si trovavano. Che cosa aveva lui da perdere?

Si sentì un po’ imprudente, e la decisione era certamente avventata, ma la logica sulla quale la decisione si reggeva non pareva offrire delle falle notevoli; quando il branco cominciò a muoversi, si accodò. Il capo li guidò attraverso l’isola, per circa un quarto di miglio, e poi entrò sicuramente nell’acqua. Il buio era ancora così profondo, che Don non si accorse di quello che stava accadendo, fino a quando non si ritrovò a sua volta con i piedi nella liquida tenebra che circondava l’isola. L’acqua gli arrivava alle caviglie, e non salì più di molto. Don affrettò il passo, cercando di restare bene al centro del branco, per non correre il rischio di finire in acque più profonde, nelle tenebre fittissime. Sperò che quella non fosse una delle migrazioni nelle quali i gregari ricorrevano all’arte poco usata di nuotare.

Cominciò a farsi giorno; la luce si diffuse tra le nubi eterne del cielo, e l’aria si fece più chiara, dapprima un vago, soffuso barlume, poi qualcosa di più. Il branco accelerò l’andatura; Don faticò a non perdere il contatto. A un certo punto, il vecchio maschio che guidava la bizzarra carovana si fermò, grugnì, e fece una brusca svolta; Don non riuscì a immaginare il motivo per cui il capo avesse cambiato strada, perché la nebbia del mattino era fittissima, e un punto dell’acqua nera pareva esattamente uguale a quello vicino. Eppure, la strada scelta si rivelò in acque poco profonde. La seguirono per un altro chilometro almeno, girando e cambiando lievemente direzione, a volte, e poi, finalmente, il capo salì sulla terraferma di una nuova isola, seguito da vicino da Don.

Don si lasciò cadere al suolo, esausto. Il vecchio maschio si fermò, evidentemente sconcertato, mentre il branco saliva a riva e si radunava intorno a loro. Il capo grugnì, e parve disgustato, poi si voltò e proseguì nel suo dovere di condurre il suo popolo verso i buoni pascoli. Don respirò più forte, cercò di chiamare a raccolta le forze, e seguì gli altri.

Nel momento in cui stavano uscendo dagli alberi che fiancheggiavano la riva, Don vide una staccionata alla sua destra, più lontano. Si sentì così felice, da avere quasi voglia di cantare.

«Arrivederci, amici!» disse ai gregari. «Io scendo qui.»

Si diresse verso la staccionata, pali di legno che reggevano un reticolato di metallo, mentre il grosso del branco proseguiva nella sua migrazione, per la strada opposta. Quando raggiunse la barriera, con riluttanza spinse e urtò i suoi attendenti, fino a quando non riuscì a liberarsene, poi cominciò a camminare lungo il reticolato. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato un’apertura, e quell’apertura lo avrebbe ricondotto in mezzo alla gente. Non importava sapere di quale gente si trattasse; lo avrebbero sfamato, e gli avrebbero permesso di riposare, e lo avrebbero nascosto dagli invasori.

La nebbia era fittissima; una coltre biancastra che avvolgeva ogni cosa, come ovatta. Era una fortuna che ci fosse il reticolato a guidarlo. Avanzò a tentoni, tenendosi accanto alla barriera, sentendosi febbricitante — per la stanchezza e l’emozione — e un poco stordito, ma ugualmente di umore allegro, per i molti scampati pericoli, e per il buon esito della sua fuga apparentemente disperata.

«Alt.»

Don si sentì gelare. S’immobilizzò, automaticamente, scosse il capo, e cercò di ricordare dove si trovava.

«Ti ho individuato,» continuò la voce. «Vieni avanti lentamente, con le mani in alto.»

Don cercò disperatamente di vedere attraverso la nebbia, sforzando al massimo le sue pupille stanche, che dolevano e bruciavano un poco, e si chiese se avrebbe dovuto tentare di fuggire. Mettersi a correre, disperatamente, tuffarsi nella nebbia, cercare di nascondersi…

Ma, con una sensazione di completa e definitiva sconfitta, si rese conto che aveva già corso quanto gli era stato possibile, era fuggito fino a consumare, ormai, tutte le sue forze.

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